Archive pour le 24 septembre, 2015

Les arbres du Jardin d’Éden

Les arbres du Jardin d’Éden dans immagini sacre adam-eve

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I PROFETI MINORI – (RAV L. MEÌR CARO) (letture delle ultime settimane del T.O.)

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I PROFETI MINORI – (RAV LUCIANO MEÌR CARO)

Nella Bibbia ebraica si trovano dodici piccoli libri profetici, collocati nella seconda parte, cioè i Nevihìm, la quale, a sua volta, è divisa in due grandi parti, i profeti anteriori e i profeti posteriori. I profeti anteriori, detti così perché vengono prima, non sono, in realtà, libri profetici, ma libri storici e sono Giosuè, Giudici, Samuele e Re. Sono stati posti fra i profeti, perché, secondo la tradizione, gli autori di questi libri erano ispirati dalla profezia.
I profeti posteriori, invece, sono i profeti veri e propri e sono suddivisi in profeti maggiori e profeti minori; i maggiori sono Isaia, Geremia ed Ezechiele, mentre i minori sono 12.Non sto ad approfondire il discorso su che cosa sia un profeta, perché sarebbe troppo complesso. Nella mentalità popolare ci si immagina un profeta come una specie di indovino, di stregone; niente di più sbagliato. Secondo l’accezione biblica, invece, il profeta è un tale che ha avuto l’ispirazione da parte di Dio di fare o di dire certe cose. Il termine ebraico navì non è nemmeno facilmente traducibile; etimologicamente non si hanno idee molto chiare da dove venga; comunque per navì si intende un qualcosa di anomalo, di anormale – non prendetemi troppo alla lettera. Quindi dire profeta qualche volta potrebbe voler significare un mezzo matto, perché dice delle cose che non stanno in piedi. Se si leggono i libri storici, ne risulta che questi neviìm costituivano una specie di casta, di gruppo, di gente un po’ invasata, di anacoreti, che dicevano o facevano delle cose strane e non facevano parte della società normale.
Il testo della Torà ci pone questa problematica: il profeta va ascoltato e chi non lo ascolta è passibile di pena di morte, perché lui sta parlando in nome di Dio. Nel Deuteronomio però si mette anche in guardia contro i falsi profeti, cioè quelle persone che dicono di aver ricevuto un messaggio da parte di Dio, che devono trasmettere e invece non è vero. I falsi profeti si dividono in due categorie: i falsi profeti in buona fede e quelli in mala fede. Può capitare che una persona, in preda a delle turbe o a qualche cosa di simile, ritenga di aver ricevuto un messaggio divino, che vuole trasmettere e invece questo non è vero, si tratta solo di un parto della sua mente più o meno malata. Basta guardarsi attorno e non è facile trovare di tali persone anche in mezzo a noi. I falsi profeti in mala fede, invece, sono quelli che a scopo di guadagno o per altri motivi propalano dei messaggi, che sanno benissimo che non vengono da Dio. Il testo della Torà dice: « Guai a chi ascolta i falsi profeti, perché attribuiscono a Dio cose che non lo sono ». Ma come si fa a distinguere i falsi dai veri? La Torà dice che quando un profeta dice cose che sono in contrasto con l’insegnamento della Torà oppure dice cose che poi non si avverano, allora è un falso profeta. Ma solo a posteriori possiamo sapere se un tale era vero o falso profeta, in buona fede o in mala fede.Nella Bibbia, poi, il titolo di profeta viene attribuito anche ad Abramo, per esempio. In che senso? Questa attribuzione gli viene fatta, forse da Dio o da qualcuno, in relazione alla storia di Sara, moglie di Abramo e di Avìmelek, re dei Filistei. Essendo Sara molto bella, Abramo, quando andava in mezzo a gente straniera, non diceva mai che lei era sua moglie, ma che era sua sorella; ma Avìmelek la prende e vuole unirsi a lei, ma Dio glielo impedisce. Gli appare in sogno ingiungendogli di restituire la donna al marito, perché è sposato e lui è un navì, un profeta; così facendo il navì pregherà per lui, che potrà guarire. Nella casa di Avìmelek, infatti, tutte le donne erano diventate sterili, con l’arrivo di Sara. Notiamo che per due volte, nella Bibbia, Abramo fa lo stesso errore, per salvare il proprio patrimonio; dove lui va, pensa che tutti siano dei selvaggi, che finiranno per ammazzarlo per conquistarsi sua moglie e così lui dice che lei è sua sorella. Abramo ci viene, così, mostrato nel suo aspetto umano, con le sue punte e i suoi cedimenti.
Nella Bibbia ci sono anche i profeti che non hanno scritto niente, come Elia, del quale ci sono tramandate le gesta.
Ci sono alcuni che sono stati profeti per tutta la vita, come Geremia, designato profeta ancora nell’utero di sua madre; altri diventano profeti solo a un certo punto della vita, come Mosè, che viene chiamato a 80 anni. Altri hanno profetato per un periodo limitato della vita, come Amos, che prima faceva il bovaro e a un certo momento riceve l’incarico da Dio di andare ad annunciare alcune cose al re di Israele e poi ritorna alla sua professione.
Di alcuni profeti non sappiamo nulla, di altri sappiamo che si sono presentati spontaneamente ad essere profeti, come Isaia, che dice, all’interno di una teofania: « Eccomi, manda me! ». Altri, come Mosè, non ne volevano sapere di diventare profeti; Mosè alla fine dice addirittura a Dio: « Trovatene un altro! ». Un qualcosa di simile è capitato anche a Geremia, che durante la sua vita diverse volte si lamenta e vuole mollare tutto. I profeti minori si chiamano così non perché siano meno importanti, ma perché ci è pervenuto meno materiale della loro profezia. E’ avvenuto così perché hanno scritto poco o perché è andata perduta una parte di quello che loro avevano scritto? Ad esempio, se ricordate, anche a Geremia è capitato così, perché il re e le caste sacerdotali hanno bruciato i testi di Geremia, che il suo segretario Barùch aveva scritto.
L’espressione « i dodici » appare già nel Talmud, dove ci si domanda perché abbiano messo tutti insieme questi dodici scritti, visto che sono così diversi. Il Talmud dice che si è fatto così perché i libri piccolini, da soli, sarebbero andati più facilmente perduti. Non sappiamo chi sia stato a fare questa composizione, ma probabilmente sono stati gli uomini della grande assemblea; un organismo nato circa 3, 4 secoli prima dell’era volgare per opera di Esdra, che dopo il ritorno da Babilonia ha cercato di riorganizzare il popolo ebraico anche per cultura e religione. Ha riimposto l’ebraico come lingua di stato, sia nel parlarlo che nello scriverlo; recupera i caratteri antichi, l’alfabeto ebraico. Il paradossale è che ha chiamato questo alfabeto ebraico « assiro »; probabilmente perché i documenti più originali erano conservati da qualche comunità in Assiria. Così pone le basi anche del testo biblico, perché non si sapeva quali fossero i libri validi e quali no. Per tutto questo fonda la « grande assemblea », che, con un lavoro molto lungo, stabilisce il canone della Scrittura.
Sulla successione dei dodici profeti ci sono varie idee; si è seguito, in parte, un ordine cronologico, che vede per primi i più antichi e un ordine di ampiezza. Comunque nella Bibbia ebraica l’ordine è il seguente: Osea, Ioèl, Amos, Ovadià, Ionà, Michà, Nachùm, Habbakùk, Zefanià, Haggài, Zecharià e Malachì. Questi libri sono stati scritti da persone diverse, in tempi diversi e quindi ognuno di loro richiederebbe una disamina particolare.
Alcuni di questi sono quasi contemporanei; il più vecchio dovrebbe essere Amos, ma per una questione di una manciata di anni – siamo attorno al 780 a. E. v. – poi Osea e Isaia dovrebbero essere quasi contemporanei. Da questo periodo si risale fino al periodo del ritorno dall’esilio babilonese e perciò circa nel 400 a. E. v.
Prendiamone uno a caso: Osea. Egli racconta di se stesso che è stato tradito dalla moglie e lo stesso gli è successo con un’altra moglie. A un certo momento Dio gli dice: « Prenditi un’altra moglie che ti darà dei figli di prostituzione »; ma non è chiaro se questa cosa è avvenuta davvero o se è una trasfigurazione di quello che Dio vuole dire per bocca del profeta: come avviene a un uomo, che riceve figli illegittimi da sua moglie, così avviene a Dio nei confronti di Israele, che lo ha tradito. Anche Amos: ce l’ha un po’ con tutti. Dice: « Non sono profeta, né figlio di profeta ». Se la prende coi grandi del suo tempo. Presumibilmente era nato nell’ambiente del regno di Giuda, ma va a profetizzare nel regno di Israele e poi torna a casa sua, al suo mestiere. Molto spesso lo stile del profeta risente della sua professione; così Amos, quando vuol parlare delle donne, che si dedicano con tutte se stesse alla ricerca del lusso, le paragona alle vacche del Bashàn, le migliori. Lo stesso fa Geremia, usando immagini sacerdotali, perché era di famiglia sacerdotale; ad esempio paragona Israele ai sacrifici consacrati a Dio.
Un’altra caratteristica dei profeti è che profetizzavano nei confronti degli ebrei, ma anche nei confronti degli altri popoli dell’Oriente; anche Isaia, Geremia ed Ezechiele fanno così. Amos ce l’ha, ad esempio, con la classe dirigente ebraica, re e sacerdoti, poi con il lusso, ma anche con gli altri popoli.
Un altro leit motiv è l’impostazione: dalle minacce alla consolazione. Dopo che il popolo avrà subito la punizione che si merita, ci sarà la restaurazione, i tempi messianici, felici.
Due parole su Abdia, la cui profezia consta di un solo capitolo, tutto dedicato alla requisitoria contro gli Idumei., una popolazione molto vicina a Israele, cioè Edom, discendenti di Esaù. Erano stanziati a sud-est di Israele ed erano una popolazione molto bellicosa. Abdia si riferisce a un episodio: siamo nel periodo della guerra contro i Babilonesi, nel 580 a. E. v. quando Gerusalemme è stata distrutta e il popolo è stato deportato. Gli Idumei, invece di dare una mano ai loro fratelli ebrei, hanno preso parte attiva contro di loro, ma non per appoggiare i Babilonesi, ma solo per odio verso di loro; sembra si mettessero lungo la strada per attaccare le colonne di profughi, per depredarli e consegnare i fuggiaschi ai nemici. Il profeta dice che saranno puniti molto severamente.
Giona era molto strano e decide di squagliarsela per non fare il profeta. La sua profezia era diretta verso l’Assiria, Ninive, a mille km di distanza e va a buon fine, perché i niniviti si convertono, ma lui si arrabbia con Dio, perché gli sembra di esser stato inutile.
Gioele sembra sia molto antico, ma non c’è alcuna indicazione su di lui. Parla di un’invasione di cavallette che distruggeranno tutto Israele; si tratta di cavallette o di popoli stranieri? Poi parla molto di frequente del « giorno di Dio », che sarà un giorno grande e terribile, quando tutti i poli della terra, per primi gli Ebrei, dovranno rendere conto a Dio del loro operato.
Zaccaria, che opera nel periodo del ritorno dall’esilio babilonese, presenta una profezia divisa in due parti. Da una parte fa riferimento ad avvenimenti contemporanei, dall’altra, invece, ha elementi escatologici di difficilissima interpretazione.
Malachia, che vuol dire « il mio messaggero », agisce in periodo persiano, in un momento favorevole per gli Ebrei, che sono stati fatti tornare in patria da Ciro.
Il vantaggio di questi profeti è che si leggono bene, con facilità e poco tempo.
Daniele non è tra i profeti, nella Bibbia ebraica, perché è considerato un agiografo. Qualcuno dice che è stata fatta questa scelta non perché lui non fosse profeta, ma perché ha vissuto una parte notevole della sua vita in ambiente estraneo ed era molto assimilato alla cultura straniera. Poi è anche un libro molto difficile, soprattutto per la ripetizione di molti numeri; i maestri sono arrivati a dire: Maledetto chi, in relazione al libro di Daniele, conteggia la fine.

IL GIUBILEO E L’ANNO SABATICO

http://www.biblico.it/doc-vari/conferenza_soggin.html

IL GIUBILEO E L’ANNO SABATICO

di J. Alberto Soggin,

Università di Roma «La Sapienza» e Facoltà valdese di Teologia, Roma

(testo della conferenza tenuta dal Prof. J. Alberto Soggin nell’Aula Magna del Pontificio Istituto Biblico il 13 novembre 1999 a conclusione della sua collaborazione accademica con il Pontificio Istituto Biblico àdi professore invitato)

I. Il Giubileo e l’anno sabatico appaiono nella Bibbia ebraica in una stretta relazione l’uno con l’altro: il primo dei due appare come una specie di prolungamento del secondo. La cosa non è nuova: è stata segnalata una quarantina di anni orsono dallo studio pionieristico e sempre fondamentale di Robert North S.J. (1954), confermato poco dopo dal classico di Roland de Vaux O.P. (1958). Nelle due opere troviamo inoltre informazioni bibliografiche dettagliate sul tema, naturalmente limitate agli anni di pubblicazione, cfr. ancora North 1982. 1 due autori segnalati hanno anche messo in evidenza il fatto che non è possibile prescindere dal contesto economico-sociale nella valutazione delle due istituzioni, contesto messo esplicitamente in luce dai passi che esamineremo; ciò potrebbe in via teorica condurci in un’epoca relativamente antica della storia di Giuda, per quel che riguarda l’anno sabatico, perché sembra echeggiare il messaggio sociale dei Profeti; per il Giubileo la situazione appare invece diversa, poiché i testi rilevanti si trovano in quella che viene chiamata nell’ipotesi documentaria la fonte “sacerdotale” (’P’) del Pentateuco.
Il Nuovo Testamento non sembra interessarsi particolarmente delle due istituzioni; abbiamo solo un accenno, probabilmente al Giubileo, in Lc 4,14 sgg., dove nella predicazione nella sinagoga di Nazaret Gesù sembra applicare il concetto di ”anno accettevole” al proprio ministero terreno.
In Es 23,10-11 troviamo il seguente comandamento riferito all’anno sabatico, immediatamente seguito da quello del giorno del riposo: “10) Sei anni seminerai il tuo terreno e ne raccoglierai i prodotti; 11) il settimo invece lo lascerai incolto (ebraico tishmetennah, radice shamat, ”abbandonare, lasciare” ”lasciar cadere” “rimettere”) e l’abbandonerai, perché ne mangino i poveri che sono insieme a te e gli animali selvaggi si nutrano di quello ch’essi lascino. La funzione sociale del comandamento (verso gli esseri umani e gli animali) viene già qui messa chiaramente in luce. Dalla medesima radice viene il sostantivo shemittah, termine tecnico per il terreno lasciato incolto durante un anno secondo questo precetto (Mulder 1995). I LXX traducono la parola nella sua accezione cultico-sociale: aphesin poiêseis ”farai una remissione, un’interruzione”, cogliendo così un elemento fondamentale dell’istituzione, sul quale ritorneremo, mentre la Volgata latina ha l’espressione neutrale “requiescere facis”, “farai riposare”. Un anno ogni sette, dunque, il terreno dev’essere lasciato riposare, secondo questa norma, e non essere coltivato, e perché si tratta sempre del settimo anno, lo si suole chiamare “anno sabatico”, ebraico “shenat shabbaton”, cfr. Lev 25,5.
a) Il concetto mostra una serie di paralleli con la norma sull’emancipazione dello schiavo ebreo per debiti, Es 21,1 sgg., dove abbiamo anche un periodo di lavoro di sei anni e l’affrancamento al settimo, soltanto che nel nostro caso è questione del suolo e non necessariamente delle persone; ciò appare invece in Dtn 15,1 sgg. dove la cosa viene estesa ai debiti.
b) In Lev 25,1-7 appare invece un testo più prolisso, uguale però nei principi fondamentali a quello precedente. E qui che appare, per un’unica volta, l’espressione “anno sabatico”, oggi usata correntemente. Il testo recita: “2b) Il terreno celebrerà il sabato in onore di JHWH: 3) sei anni seminerai…”; qui i LXX hanno: anapausetai hê gê sabbata tôi kyriôi “la terra si riposerà… un sabato per il Signore”; mentre la Volgata latina ha “sabbatizes sabatum Domini”. Poco diversa sembra essere la situazione nel testo autonomo Dtn 31,10, sul quale ritorneremo opportunamente (sotto, §7.c). Segue immediatamente, vv. 8sgg., il precetto sul Giubileo.
c) Infine in Dtn 15,1-11 appare il termine shemittah che viene immediatamente, nel v.2, messo in relazione con un problema di non semplice identificazione, ma quasi certamente la schiavitù per debiti. Nei primi due casi il greco ha nuovamente aphesis e la Volgata “remissio” (anche di questo problema parleremo tra poco al § 4).
d) Altre volte il verbo appare in contesti non chiari: IISam 6,6//I Cron 13,9; II Re 9,33; Sal 141,6 e Ger 17,4; nei primi casi ha probabilmente il significato di “cadere” o qualcosa di simile, nell’ultimo probabilmente di “separarsi”. Ma si tratta di accezioni fuori dall’ambito religioso, per cui c’interessano relativamente poco. La radice può in ogni caso esprimere concetti relazionati col culto, come anche connessi con la vita secolare; nella traduzione greca dei LXX troviamo invece un termine già tecnico, il che avviene solo parzialmente nella Volgata.
2. Data l’attestazione in origine agricola dell’usanza, almeno per quel che riguarda la sua attestazione fuori dal Deuteronomio (ed è questo un elemento assente dal sabato settimanale, dove appare soltanto la cessazione del lavoro e la dedicazione della giornata al Signore), si pone immediatamente la domanda se l’origine dell’istituto non sia da ricercarsi proprio nell’ambito dell’agricoltura, mentre solo successivamente sarebbe stato applicato alla schiavitù, per poi entrare nella liturgia. E ciò sembrerebbe avvenuto per dargli un contenuto ideologicamente e teologicamente sicuro, del quale era probabilmente in origine privo. Ed è questa la linea seguita da parecchi autori, sia pure come ipotesi di lavoro. Accettandola, sorge immediatamente un altro quesito: quale scopo si proponeva l’usanza e a cosa serviva nel suo contesto originario?
a) Una risposta possibile è che in un’epoca nella quale la rotazione e la concimazione sistematica delle colture erano sconosciute, i medesimi risultati potevano essere ottenuti soltanto mediante il riposo periodico dei terreni, evitando così il loro rapido esaurimento per eccessivo sfruttamento. È possibile però anche che in origine tali fini pratici venissero miticamente motivati mediante il desiderio di non offendere la divinità agricola locale, o almeno di placarla ove fosse già offesa per aver visto attaccata la propria sovranità da parte del coltivatore. In altre parole, avrebbe avuto luogo una specie di “restitutio in integrum” del suolo, dopo la turbativa causata dall’intervento umano. Ma se questo appare possibile nell’ambito della storia delle religioni, va però anche notato che nella Bibbia manca ogni attestazione concreta di un’ideologia di questo genere.
b) Ma sorge una seconda domanda: com’era possibile realizzare nella pratica il principio del riposo dei terreni? Alcuni autori, partendo dall’ovvio parallelismo tra l’anno sabatico e la manumissione degli schiavi per debiti, Es 21,1 sgg., hanno supposto che il riposo dei terreni non venisse, in origine, celebrato allo stesso tempo in tutto il paese, ma che i vari campi s’alternassero, avendosi così una specie di rotazione. E ciò potrebbe essere confermato dal fatto che uno degli scopi dell’istituzione era quello di dar da mangiare ai poveri. E si è persino supposto che ogni proprietà fondiaria venisse divisa in sette parcelle, ciascuna delle quali “riposava” a turno. In tal caso Lev c.25 rappresenterebbe un tentativo di unificare quanto prima veniva effettuato solo parzialmente e a turno, dando però luogo ad un principio in pratica di non facile realizzazione: come immaginare infatti che tutto il paese non producesse più nulla attraverso tutto il ciclo agricolo di un anno?
e) Ma di dove veniva in Israele la shemittah? Una volta ammesso il carattere principalmente agricolo della festa, il mondo orientale antico e specialmente Canaan costituiscono il contesto nel quale va effettuata la ricerca, in ciò sostenuti anche dall’affermazione che si trattava di una celebrazione “in onore di JHWH”, Lev 25,2, quasi vi fossero state alternative possibili, naturalmente da escludere.
Orbene, in Assiria alcuni autori riconoscono l’esistenza di un’alternanza tra periodi di coltura e periodi di riposo dei terreni, e qualcosa di simile, sia pure con contorni mitici ed in ogni caso in forma ancora controversa, sembra che esistesse anche in Canaan sulla base di pochi testi di Ugarit: qui alcuni autori ammettono l’esistenza di un ciclo agricolo di sette anni, alla fine del quale ba‘al, il dio della fertilità e della vegetazione, passava attraverso una specie di “eclissi” e scompariva dal mondo; in queste condizioni anche l’agricoltura non poteva più essere praticata (per Ugarit cfr.Gray 1957 e Jacob 1962,115 sgg.).
Ma si tratta, come già detto, di un’interpretazione controversa, anzi, non mancano autori che la negano decisamente. Certo è però che una volta che potessimo ammettere l’origine cananea dell’istituto (dato il carattere intimamente connesso del culto e dell’agricoltura in tutta la regione), avremmo una spiegazione ragionevole del suo passaggio ad Israele e del suo arricchimento, più tardi, di elementi etico- teologici.
d) Nonostante la loro problematicità, queste spiegazioni hanno tutte un vantaggio comune: non solo non sembrano escludersi a vicenda, ma anzi si completano come le tessere di un mosaico. Purtroppo, data l’incompletezza e quindi la problematicità dell’informazione, il tutto rimane allo stadio congetturale.
3. L’istituto dell’anno sabatico sembra dunque essere, allo stato attuale delle ricerche, il prodotto della confluenza di elementi agricoli d’ispirazione cananea con la teologia d’Israele, tutta protesa, dal messaggio dei profeti in avanti, a stabilire una qualche forma di giustizia sociale. Alla base sta il concetto che il possesso della terra viene inteso come qualcosa di precario e quindi di indisponibile, poiché il vero proprietario appare essere JHWH, la cui effettiva sovranità sul suolo nessuno mette in dubbio, e di cui il popolo si sentiva soltanto usufruttuario. Si spiega allora perché nel “Codice sacerdotale” la terra non può essere venduta, Lev 25,23, in quanto non era proprietà del nucleo familiare, cfr. anche I Re c.21, un testo chiaramente tardivo; questo ne godeva soltanto in forma usufruttuaria. Anticamente però non sembra essere stato così in Canaan, se possiamo fidarci della tradizione biblica: in Gen c.23 Abramo acquista un terreno dagli abitanti di Hebrôn, in I Re 16,23 sgg. re ’Omrî d’Israele acquista il colle sul quale intende costruire la propria capitale Samaria. Si direbbe dunque che il concetto del possesso della terra in usufrutto sia uno sviluppo relativamente recente, prodotto della teologia d’Israele in epoca post-esilica. Fino a che punto queste considerazioni abbiano avuto applicazioni concrete non è dato di accertare.
4. Abbiamo visto (sopra, §1.b) che Lev 25,1-7 non differisce sostanzialmente da Es 23,10-11 se non per la sua più approfondita casistica. Diverso appare invece l’elaborato di Dtn 15,1-11. Anzitutto, si tratta di un testo complesso ed i commentatori così come i traduttori non sono concordi sulla sua interpretazione. In ogni caso il testo non disserta più sul riposo dei campi, dato per conosciuto (al v. 1 leggiamo infatti: “Alla fine di sette anni farai una shemittah…”); si parla invece di un’intricata questione di debiti e di pegni. Di cosa si tratta? L’opinione più autorevole sostiene che abbiamo qui a che fare con la servitù per debiti, come risulta chiaramente dal v.2: “Rimetta (ebraico shamot, un infinito assoluto con valore di jussivo) ogni [creditore] depositario d’un pegno (letteralmente: ”Abbandoni, rilasci la sua mano che tiene sopra il suo prossimo“, espressione tecnica per il prestito su pegno, personale o reale) e non opprima il proprio prossimo, suo fratello, qualora abbia proclamato una shemittah in onore di JHWH”. La situazione appare essere dunque quella del creditore, al quale il debitore ha dato in garanzia la propria persona in qualità di forza-lavoro, fino ad aver rimborsato l’ammontare del proprio debito. E la shemittah in questo contesto può avere un solo significato: l’interruzione di fatto del dovere di prestazione personale (mentre la campagna riposava non la si poteva lavorare) o forse anche la totale remissione del debito! Ma sulla base di analogie storico-religiose si è portati a considerare come valida la seconda alternativa, esattamente come accadeva al settimo anno di servizio per lo schiavo per debiti. Sembra dunque che Dtn c.15 abbia avuto la funzione di connettere esplicitamente il riposo della terra con l’emanicipazione dello schiavo per debiti, come appare dall’inizio del v.2: “E tale è la questione della shemittah…” una chiara spiegazione di cosa s’intenda realmente col termine: libertà anche per gli schiavi.
5. Sia quel che sia, nella Bibbia ebraica non si accenna mai ad una qualche attuazione concreta del principio, salvo forse l’isolata e controversa allusione in Neh 10,31b, un testo corrotto che leggiamo secondo la forma emendata più corrente. Ma da passi come Lev 26,35-43 e II Cron 36,21 si può facilmente dedurre che l’anno sabatico, non sia stato praticato in epoca pre-esilica, tanto che, secondo il primo dei due, l’esilio babilonese farà sì che la terra si prenda da sé il riposo dovutole e non concessole; similmente il secondo passo che intende l’esilio come una specie di compensazione per gli anni sabatici non celebrati!
6. È soltanto con l’epoca ellenistica che troviamo riferimenti più o meno espliciti alla pratica dell’anno sabatico, dopo il caso controverso Neh 10,31b.
a) Flavio Giuseppe, Ant XI,343, menziona l’episodio di Alessandro magno il quale, all’atto della conquista della Palestina, avrebbe desistito dal prelevare un tributo da Israele, non appena ebbe saputo che l’anno precedente era stato un anno sabatico per cui non vi era stato alcun raccolto tra i Giudaiti ed i Samaritani. Ma l’episodio è leggendario e la sua storicità viene contestata dagli studiosi.
b) Un altro caso viene da lui (XV,7) segnalato all’inizio del regno di Erode (40 a.e.v.). Giuseppe crede anzi di poter ricostruire con una certa esattezza una cronologia di questi anni sabatici, ma si tratta d’intenzioni che non hanno riscontro nella realtà.
c) La prima notizia che ha una notevole attendibilità sul piano storico è quella riferita da I Mcb 6,49-54, dove i profughi ebrei da Bêt-Sûr, attaccata e poi occupata da Antioco IV verso il 164 a.e.v. (dunque un anno circa prima della sua morte), si videro ridotti alla fame per aver celebrato un anno prima un anno sabatico. Il 165/64 sarebbe dunque una data relativamente certa per almeno un caso. Ed in tutti questi esempi il riposo dei campi dev’essere stato praticato su di un piano nazionale e col massimo rigore, se i risultati potevano essere così disastrosi!
d) Ha dunque ragione A. Penna 1953 quando afferma “che tale legislazione rimase lettera morta nel periodo antiesilico”. O diciamo piuttosto: prima dell’esilio la pratica non è attestata. Anche nel libro dei Giubilei l’anno sabatico viene usato, insieme al Giubileo (di dove il nome; ce ne occuperemo tra poco, oltre § 8) come unità di misura per computi cronologici, una pratica attestata anche presso il gruppo di Qumrân sul Mar Morto; ed anche C.Tacito, Hist IV,3 sg. (Stern 1980,18 sgg.), osserva ironicamente che gli Ebrei, non bastando loro la naturale pigrizia per oziare un giorno alla settimana, la estesero al settimo anno…
7. Nella Misnah all’anno sabatico è dedicato il trattato Shebî’ît. In X,3 viene previsto da R.Hillel (un contemporaneo di Gesù) il caso di un debitore che abbia contratto un debito in mala fede, sicuro di non doverlo poi ripagare al tempo dell’anno sabatico.
a) Per evitare complessi calcoli e tutelare i diritti sia del debitore che del creditore, venne istituito il cosiddetto prosbôl, termine di origine greca (secondo alcuni autori pros boulê bouleutôn, “per volontà degl’interessati”; con esso le due parti dichiaravano solennemente davanti al tribunale ed in presenza di testimoni, prima che il rapporto si concretasse, che il prossimo anno sabatico non avrebbe avuto alcun effetto sul loro rapporto. Nella mente di Hillel la misura tendeva, paradossalmente, a tutelare più il debitore che il creditore: avvicinandosi infatti un anno sabatico, diveniva sempre più difficile ottenere crediti ed il commercio ristagnava. Ma in realtà la clausola del prosbôl finiva non solo per eliminare gli abusi, ma a svuotare l’istituto anche dei suoi elementi positivi e socialmente validi. In ogni caso essa testimonia dell’importanza della shemittah a cavallo dell’era volgare. Ed in un contratto da wadî murabba’at (nei pressi di Qumrân), (Benoit 1961, n.18, lin.7) viene affermato che il documento in questione era sottoposto alla clausola dell’anno sabatico, anche se la parola prosbôl non vi appare; è datato dall’epoca di Nerone, 55-56 e.v.
b) In conclusione si può dunque affermare che le prime menzioni sicure della pratica dell’anno sabatico appaiono solo nel II sec.a.e.v., precedute forse da una menzione in Neh 10,31b; da allora in avanti sembra essere stata costante.
c) Un passo speciale è infine Dtn 31,9-13, in quanto autonomo da tutte le altre menzioni dell’anno sabatico. La festa viene qui collegata con quella delle Capanne e la proclamazione della tôrah. Lo strato del Dtn nel quale il testo appare è uno dei meno antichi, e fa parte del tentativo d’inserire nella storia sacra il maggior numero possibile di feste agricole.
8. In Lev 25,8 sgg. subito dopo il passo dell’anno sabatico appare un altro istituto, che con esso ha ovvie relazioni, anche se non sempre chiare come si vorrebbe: quello dell’“Anno giubilare”. In relazione con la sagra autunnale, ogni cinquantesimo anno (dunque dopo “sette settimane d’anni”, avendosi una specie di anno sabatico al quadrato), risuonerà il corno (lo shôfar) ed ogni gruppo rientrerà nel pieno possesso dei suoi beni, mentre la terra verrà lasciata in riposo, esattamente come nel caso della shemittah.
a) Il primo concetto, quello del rientro nei propri possessi, viene espresso col termine derôr, “manumissione [di schiavi]”, “remissione [di debiti)”. Ma quest’ultimo elemento può anche essere indipendente dal Giubileo: in Ger 34,15-17, un testo dtr che fa riferimento ad un fatto accaduto pochi anni prima dell’esilio babilonese, agli schiavi viene promessa la manumissione indipendentemente da un Giubileo, cfr. ancora Is 61,1 sgg.; è ancora possibile un riferimento al Giubileo in Ezc 46,17.
b) L’anno viene chiamato in ebraico shenat jôbel, perché in esso veniva suonato il qéren jôbél il “corno d’ariete”, o anche, secondo alcuni, perché è “l’anno in cui qualcosa veniva concesso” (radice jabal). L’uso dell’espressione è limitato ai cc. 25 e 27 del Lev ed inoltre a Num 34,6, tutti testi del “Codice sacerdotale”. L’ambientazione della celebrazione è molto simile a quella di Dtn c.15: lo sfondo è costituito dalla società agropecuaria, in seno alla quale vengono dibattuti problemi come quello della proprietà, del possesso e dell’usufrutto dei terreni, della schiavitù per debiti ed altri ancora; la forma della celebrazione, ricorda da vicino quella di Dtn 31,9 sgg. Allusioni all’istituto troviamo ancora nel c. 25ss.
c) Le relazioni con l’anno sabatico sono dunque evidenti, e la cosa non stupisce: nonostante una piccola difficoltà cronologica (l’anno sabatico cadeva il 49° anno, quello giubilare il 50°; è impensabile che i due non abbiano coinciso; altrimenti si sarebbe avuto un assurdo duplicato con riposo del suolo ogni 50 anni ad un anno di distanza)! La difficoltà viene del resto sentita anche da Lev 25,20 sgg., ma il testo la supera con l’annuncio di un miracolo. Ma all’epoca del “Codice sacerdotale”, con ogni probabilità, il Giubileo non veniva celebrato, sicché la situazione presentata è puramente teorica.
9. Se la situazione storico-pratica dell’Anno sabatico è complessa, ancor più lo è quella dell’Anno giubilare.
a) Alcuni autori arrivano a supporre che il Giubileo sia stato proposto, anche se in forma puramente teorica, per sostituire la pratica dell’anno sabatico caduta in disuso e gravosa da ripristinare; ma osta a questa proposta il carattere tardivo (non prima dell’epoca ellenistica) dell’attestazione dell’istituto.
b) La teoria proposta dal Talmûd (b Arakîn, 32b) è che il Giubileo sia stato celebrato prima dell’esilio, per poi cadere in disuso, il che urta per altro nuovamente contro il carattere recente ed in ogni caso puramente teorico della sua attestazione. In linea di massima può essere affermato che, sebbene siano noti alcuni casi di remissione di debiti presso altri popoli, anche se non in forma periodica, una sua applicazione concreta in una società organizzata resta impensabile; non a torto R. de Vaux, 268, dichiara che “ … non vi è alcun indizio che la legge sia mai stata applicata”..
c) Presso gruppi non ortodossi (Qumrân, Giubilei) l’anno giubilare si trasformò in un’unità per misurare il tempo e classificare la storia, in ciò favorito dal fatto che sistemi pentagesimali sono noti nel mondo di lingua semitica fino ad oggi (cfr. la Pentecoste).
10. Concludendo è dunque possibile affermare che, come tante leggi sociali in Israele, ma anche nell’epoca moderna, la legislazione dell’anno sabatico e specialmente quella dell’anno giubilare è rimasta per la massima parte pura teoria, in altre parole, lettera morta sul piano concreto. È un elemento che gli organizzatori del prossimo Giubileo dell’anno 2000 dovrebbero tener presente, quando fanno proposte di applicazioni concrete.

Publié dans:GIUBILEO (IL) |on 24 septembre, 2015 |Pas de commentaires »

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