Archive pour le 17 septembre, 2015

La guarigione del paralitico

La guarigione del paralitico dans immagini sacre 3

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VIVEVANO IN CATAPECCHIE, MA COSTRUIVANO CATTEDRALI – IL DUOMO DI MILANO

http://www.gliscritti.it/approf/2008/papers/guidi240108.htm

VIVEVANO IN CATAPECCHIE, MA COSTRUIVANO CATTEDRALI. IL FINANZIAMENTO DELLA COSTRUZIONE DEL DUOMO DI MILANO IN UNA RECENTE RICERCA DI MARTINA SALTAMACCHIA

di Silvia Guidi

(L’Osservatore Romano – 2-3 gennaio 2008)

Riprendiamo da L’Osservatore Romano (che ne detiene il copyright) del 2-3 gennaio 2008 questa recensione al volume di Martina Saltamacchia sulla costruzione del duomo di Milano. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questo testo sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Dinanzi a questa ricerca tornano in mente le parole che il grande regista Ingmar Bergman pronunciò durante una conferenza: «Secondo un’antica leggenda, la cattedrale di Chartres fu colpita dal fulmine e interamente bruciata. Migliaia di persone giunsero allora da tutte le parti della terra, come una gigantesca processione di formiche; e tutti insieme – architetti, artisti, operai, contadini, nobili, preti, borghesi – si misero a ricostruire la cattedrale dov’era prima, e lavorarono finché la costruzione non fu ultimata. Ma tutti rimasero anonimi, e oggi nessuno sa chi costruì la cattedrale di Chartres.
A parte le mie credenze e i miei dubbi personali, che a questo proposito sono irrilevanti, è mia opinione che l’arte perse il suo impulso creativo fondamentale al momento in cui fu separata dalla fede. Fu il taglio del cordone ombelicale, ed oggi essa vive la sua sterile vita, generandosi e degenerandosi. In altri tempi l’artista rimaneva sconosciuto, e la sua opera era dedicata alla gloria di Dio. Egli viveva e moriva senza essere né più né meno importante di altri artigiani; “valori eterni”, “immortalità”, “capolavoro” erano termini non applicabili al suo caso. La capacità di creare era un dono. In un mondo come quello fioriva una sicurezza invulnerabile e una naturale umiltà.
Oggi l’individuo è divenuto la forma più alta e la più grande rovina della creazione artistica. La più piccola offesa o il più piccolo odore dell’io vengono esaminati al microscopio come se fossero di un’importanza eterna. L’artista considera il suo isolamento, la sua soggettività, il suo individualismo, come cose quasi sacre. E così finiamo per ammassarci in un grande ovile, dove ce ne stiamo a belare sulla nostra solitudine, senza ascoltarci l’un l’altro, e senza renderci conto di soffocarci a vicenda. Gli individualisti si guardano negli occhi tra loro, e intanto negano la loro reciproca esistenza. Ci muoviamo in circolo, limitati a tal punto dalle nostre ansietà che non riusciamo più a distinguere il vero dal falso, il capriccio del gangster dal più puro ideale.
Così, se mi si chiede quale vorrei che fosse il fine generale dei miei film, risponderei che vorrei essere uno degli artisti della cattedrale di Chartres. Voglio trarre dalla pietra la testa di un drago, di un angelo, di un diavolo – o magari di un santo. Non importa che cosa; è il senso di soddisfazione che conta. Indipendentemente dal fatto che io creda o no, che io sia o no un cristiano, farei la mia parte nella costruzione collettiva della cattedrale».
Per una presentazione a bambini e ragazzi del lungo processo di costruzione di una cattedrale gotica, vedi D.Macaulay, La cattedrale, Nuove Edizioni Romane, Roma, 2006.
Furono le piccole offerte, donate dalla popolazione meno abbiente, la parte più cospicua delle entrate per l’edificazione della cattedrale milanese. È questa la rivelazione sorprendente che emerge da una ricerca di Martina Saltamacchia, della Rutgers University (New Jersey, Usa), che ha esaminato con attenzione i Registri delle offerte del Duomo di Milano. Davvero centrato, quindi, il titolo del volume scritto dalla studiosa: Milano, un popolo e il suo Duomo
E davvero la chiesa dedicata a Santa Maria Nascente fu l’opera di un popolo: principi, mercanti, uomini d’arme, ma anche, appunto, la folta schiera degli anonimi, con le loro offerte modeste ma frutto di sacrifici. Di questo popolo facevano parte anche strozzini e briganti e prostitute, che al termine dei loro giri notturni versavano una parte dei loro guadagni offrendoli alla Madonna (sui registri è annotato il loro nome elaloroprofessione).
« Un pomeriggio di due anni fa sento don Stefano Alberto esclamare: « La tua vita è fatta per fare cose grandi, come gli uomini del Medioevo che vivevano nelle catapecchie e costruivano le cattedrali ».
« L’entusiasmo sorto in me per quell’augurio è tale che la mattina successiva mi precipito dal mio professore di Storia economica, chiedendogli di poter fare una tesi a partire da quella frase. Così, inaspettatamente, è cominciato un viaggio di 18 mesi nella storia del Duomo di Milano e della sua Fabbrica nei primi 15 anni dalla sua fondazione (1387) » racconta Martina Saltamacchia sul mensile « Tracce ».
Prima ancora che maestoso esempio di architettura gotica lombarda, agli occhi del visitatore attento il Duomo di Milano appare innanzitutto come testimonianza di una devozione spettacolare, segno tangibile di una mentalità religiosa che nel Medioevo permeava profondamente la vita degli uomini: « Senza differenza di classe, tutti accorrevano – annotano gli Annali della Fabbrica del Duomo – a portare il proprio obolo per la grande impresa, con le materiali offerte di denaro e robe ».
Immediato, per chi si accosta a queste pietre con semplicità e sincera curiosità, porsi molteplici interrogativi: come e chi lo costruì? Chi lo finanziò? Quali motivazioni spinsero povera gente a innalzare un’imponente cattedrale di marmo, la più grande, per lunghezza, del mondo allora conosciuto? La mancanza di uno studio completo a partire dalla trascrizione e analisi della mole di manoscritti, registri e carteggi conservati nell’Archivio della Fabbrica del Duomo di Milano ha aperto la strada a svariate interpretazioni storiche e suscitato numerosi dibattiti: mausoleo dinastico voluto da Gian Galeazzo Visconti per la sua stirpe o cattedrale cristiana voluta dal popolo? Progetto finanziato dai lasciti dei ricchi mercanti per celebrare il loro prestigio sociale o simbolo dell’orgoglio cittadino che ambiva a primeggiare sugli altri comuni italiani edificando una chiesa di proporzioni mai viste?
Dopo la lettura di opere di autorevoli storici che attribuivano arbitrariamente la paternità della costruzione al principe piuttosto che a nobili e ricchi mercanti, senza mai comprovare, però, le loro tesi con un riscontro effettivo numerico sulle fonti, la Saltamacchia ha intrapreso un’analisi quantitativa puntuale, mai effettuata prima, di manoscritti inediti dell’Archivio del Duomo, in modo da presentare un quadro dell’identità dei donatori e dell’entità delle donazioni in denaro e in natura, fonte principale di finanziamento del Duomo, e fornire al dibattito sul finanziamento della cattedrale un contributo originale, strettamente aderente ai contenuti numerici delle fonti. Particolarmente ricchi di notizie e informazioni si sono rivelati, da una parte, i Registri delle Oblazioni, in cui quotidianamente veniva annotata la descrizione di ciascun dono e del suo valore, insieme ad alcune note sintetiche sul suo offerente; dall’altra, è negli Annali che la studiosa ha potuto ritrovare, minuziosamente tratteggiati, i fatti, i personaggi e gli avvenimenti di un’immane costruzione durata ben sei secoli.
Il lavoro non è stato facile, ma « lo scoraggiamento iniziale per l’incomprensibilità delle scritture (in caratteri gotico lombardi) e la lunga e ripetitiva trascrizione di cifre (in lire-soldi-denari, ed espresse in sistemi differenti dal nostro, metrico decimale) si è presto trasformato in commozione man mano che da quegli inchiostri sbiaditi cominciavano a far capolino innumerevoli storie di uomini e donne mossi quotidianamente a piccoli grandi atti di carità ». È una full immersion documentaria in una mentalità molto lontana dalla nostra. « All’uomo medioevale è ben chiaro come tutto concorra alla Costruzione – spiega Saltamacchia – come ogni gesto, per quanto banale o umile, nell’offerta acquista un valore eterno, così ogni bene, anche il più insignificante, serve all’edificazione della cattedrale. Ogni cosa, dentro questa prospettiva, diventava occasione di dono: il fiorino d’oro come la monetina di rame, l’anello di diamanti come il bottone in madreperla, la botte di vino come il sacco di biada, la tovaglia ricamata come il drappo logoro. Ogni dono trovava poi prontamente il suo utilizzo nel cantiere (calce, ferro, utensili), nella chiesa (paramenti sacri, arazzi e cere), tra gli operai (pane e vino) o, ancora, veniva trasformato in denaro tramite vendita all’incanto, una pubblica asta organizzata ogni giorno presso il palazzo comune nella piazza adiacente al cantiere ».
Ogni circostanza partecipava di quest’opera, persino la morte. « Quando le epidemie di peste serpeggiavano per la città – continua la storica – deputati della Fabbrica si recavano presso i lazzaretti per spogliare i defunti delle loro vesti, che venivano rivendute dopo un anno di deposito precauzionale in un apposito magazzino, oppure, se eccessivamente deteriorate, se ne ricavavano bottoni e fili intessuti d’oro e d’argento da porre separatamente in commercio. Ciascuno, col suo tanto o col suo niente, concorreva alle necessità della costruzione. Notai, speziali, pescatori, orefici, fornai, mugnai, macellai prestavano gratuitamente le loro braccia per scavare le fondamenta. Ingegneri ed operai del cantiere devolvevano talvolta in offerta il loro salario, o vi rinunciavano in cambio di un’indulgenza per i loro peccati. Le prostitute, terminato il loro giro notturno, deponevano una parte del ricavato sull’altare. Lì, il vicario dell’Arcivescovo doveva provvedere affinché rimanesse sempre acceso un lume, così che a qualsiasi ora gli offerenti potessero versare il proprio obolo; la fioca luce della lampada permetteva all’incaricato, detto ebdomadale, di ricevere l’offerta mantenendo nella penombra il volto del donatore ».
Quando non era il fedele a recarsi alla Chiesa, era la Chiesa a bussare alla porta del fedele.
« Tutti desideravano partecipare alla costruzione della cattedrale, chi sgrossando un blocco di marmo, chi versando una moneta, chi mettendo da parte un po’ del suo raccolto per gli operai del cantiere, ma non sempre era possibile alla gente giungere nel centro di Milano dalle città e dalle campagne, assentandosi dalla bottega o dal campo per percorrere a piedi strade che il freddo, i briganti o le frequenti guerriglie rendevano spesso impervie. Per questo la Fabbrica, negli anni, aveva perfezionato, con notevole successo, un sistema capillare di raccolta delle offerte che raggiungesse ogni angolo del contado. Cassette e ceppi – tronconi di legno vuoto dove versare l’elemosina – venivano collocati in tutti i punti nevralgici e di maggior passaggio: presso le porte urbane, ai crocicchi delle strade principali, nelle chiese, nei palazzi comunali. Schiere di ragazze vestite di bianco sfilavano danzando e cantando nelle piazze e nei carrobi, chiedendo ai passanti offerte per la cattedrale. Sacerdoti, frati mendicanti e volontari laici venivano inviati, in squadre ordinate, nei villaggi più lontani. Lì celebravano la messa mattutina a cui tutto il popolo accorreva, e dopo una sentita omelia sulla virtù della carità veniva dato annuncio della grande impresa di costruzione. Quindi, il gruppo dei questuanti bussava a ogni porta per chiedere alle famiglie donazioni di qualunque forma ».
Anche il divertimento e il desiderio di far festa insieme erano vissuti per la cattedrale. « Spettacolari processioni, dette « trionfi », venivano organizzate annualmente dalle sei porte di Milano per portare solennemente in Duomo la propria offerta » spiega l’autrice dello studio, « ciascuna porta gareggiava per essere la più sfarzosa, inscenando drammi sacri o mitologici su carri allestiti da tutta la popolazione. All’arrivo sul sagrato, i cortei erano accolti da una folla capeggiata da duchi, cavalieri e dame, e a ciascuno veniva offerto un boccale di vino ».
« L’aspetto più impressionante di questa storia per me – ci tiene a precisare la Saltamacchia – è tuttavia da ricercarsi nei lunghi elenchi di cifre contenuti nei registri di donazioni. Se al nostro sguardo distratto appare uno stuolo di svettanti santi di marmo a ricordarci il Cielo, se l’abbraccio della Madonna ci coglie, alta sopra il caos delle nostre giornate, perché non dimentichiamo mai quanto siamo preferiti e amati, è per lo spettacolo della carità che, in anni segnati da guerre, vessazioni, carestie ed epidemie, si inscenò silenzioso per le strade e i vicoli di questa città. Solo nell’anno 1400 sono circa 8.000 le donazioni raccolte, in denaro o in natura, per un valore totale di oltre 42.000 lire dell’epoca. Cifra assai ragguardevole, se si pensa che, oltre a costituire poco meno di un terzo delle entrate (tra le altre forme di ricavo c’erano, ad esempio, eredità e possessi immobiliari), copre la quasi totalità delle ingenti spese per il gigantesco cantiere (pari a più di 49.000 lire per quell’anno), in cui gli operai ricevevano in media 3 lire al mese. L’entità delle singole donazioni varia, nell’anno 1400, da un minimo di qualche denaro (la 240 parte della lira) a un massimo di 1.500 lire, corrisposte da un anonimo benefattore che chiede di esser annotato sui registri come un devoto della Beatissima Vergine Maria, che dona i suoi cospicui averi perché sotto il suo nome sia riedificata la chiesa della città.
« Tra le offerte spicca il contributo del principe Gian Galeazzo Visconti, che corrisponde mensilmente alla Fabbrica 700-800 lire, somma davvero esorbitante rapportata alle 4-5 lire versate in media dal popolo. E ciononostante, il denaro principesco rappresenta solo il 16% della somma raccolta quell’anno, mentre l’ammontare complessivo di elemosine e doni del popolo corrisponde all’84%; in particolare, le donazioni più povere, di valore compreso tra 1 denaro e 10 lire, ne costituiscono ben il 28% ».
È dunque a una folla di gente comune che si deve l’edificazione del Duomo di Milano, uomini e donne ben lieti di dare tutto ciò che avevano per un’opera che, ben sapevano, mai i loro occhi avrebbero potuto contemplare ultimata. Uomini e donne ricchi soltanto di un’incrollabile fede, certi soltanto di dove fissare il proprio cuore. Come Caterina di Abbiateguazzone, una pauperrima, poverissima vecchietta che da tempo si adoperava per aiutare gli operai del cantiere, trasportando i materiali da costruzione nella gerla che portava sulle spalle. In una fredda mattina del novembre 1387 va a deporre come offerta, sull’altare, la sua unica, logora pelliccetta con cui si riparava dal gelo. Sopraggiunge di lì a poco un uomo, Manuele, che riconoscendo la pelliccia subito l’acquista, per poi deporgliela nuovamente sulle spalle. E l’amministrazione della Fabbrica, venuta a conoscenza del gesto di quella povera donna, la premia, dopo qualche mese, pagandolel’affittodellacasupolaincuiviveva.

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LA PROFETESSA ANNA – LE DONNE NELLA BIBBIA

http://www.fmboschetto.it/religione/Pellegrini/frame.htm

LA PROFETESSA ANNA – LE DONNE NELLA BIBBIA

La sua scelta fondamentale è quella di vivere la
relazione, l’incontro, la presenza del suo Signore

L’evangelista Luca, in appena tre versetti del suo Vangelo, ci propone la figura di una donna profetessa, vedova, orante, penitente, missionaria. Siamo nel contesto dell’infanzia di Gesù, proprio ai suoi primi giorni di vita, ma già la forza del vangelo ci pone davanti la luce sfolgorante del mistero di salvezza che è Cristo Signore: conforto, salvezza, gloria e redenzione di tutti gli uomini. Maria, Giuseppe e Gesù si trovano al Tempio di Gerusalemme per il rito che, dopo la circoncisione, serve ad offrire il primogenito della famiglia al Signore e a « purificare » la madre che ha partorito, come prescrive la legge di Mosè. Oltre a Simeone « c’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuele, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ore aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme » (Lc 2, 36-38). Questa donna, descritta dall’evangelista Luca con alcuni tocchi essenziali, appare subito una persona speciale anche se vecchia e vedova e, come tale, costituente l’anello debole di una società come l’ebrea di quel tempo. È discendente della tribù di Aser, la tribù di Israele, alla quale, all’ingresso nella terra promessa, fu destinata la porzione di territorio che va dal monte Carmelo fino alle città di Tiro e Sidone, lungo la fascia costiera della Galilea. Aser abita dunque una terra pagana, ed è proprio qui che nasce Anna, figlia di Fanuele, cioè di colui che ha visto Dio faccia a faccia, secondo il significato del suo nome. E lei non si allontana da Dio, anzi vive una esperienza cosi viva di fede e di amore al Dio di Israele da lasciare, alla morte del marito, ogni cosa per raggiungere la terra benedetta e sacra, la città della Presenza, il luogo mirabile della discesa di Dio, Gerusalemme. La vita passata servendo Dio, giorno e notte, per tanti anni, è una continua assidua preghiera che la colloca tra gli « anawim », i poveri del Signore, coloro che sanno di aver ricevuto tutto dalle mani del loro Dio. Ha la tenacia di chi sa attendere e sperare. Anna serve il suo Signore giorno e notte, da lunghissimo tempo, perché ha fatto di questa missione la sua vita: non si è rifugiata nel Tempio perché non aveva altra alternativa, è li da quando le sue forze le avrebbero permesso ben altre scelte. Ella ha scelto di consacrare la sua esistenza attraverso una preghiera ininterrotta che valorizza il tempo, il quale non le sfugge come sabbia tra le mani o come foglie secche di ricordi senza consistenza. Nemmeno si perde in rimpianti per una giovinezza remota. In questo senso, Anna incarna la verità delle parole del Salmo 92: « Il giusto fiorirà come palma, crescerà come cedro del Libano; piantati nella casa del Signore, fioriranno negli atri del nostro Dio. Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno verdi e rigogliosi, per annunciare quanto è retto il Signore, mia roccia: in lui non c’è malvagità. »

Quella di Anna è certamente una scelta estrema, particolarissima: vive, infatti, in continua preghiera, tra digiuni e penitenze, sempre chiusa nel Tempio. Ma tutto questo non è altro che l’immagine, il segno evidente della sua scelta fondamentale, quella di vivere la relazione, l’incontro, la presenza del suo Signore. Non è una visitatrice occasionale del Tempio, ella non abbandona mai questo luogo, giorno e notte lo abita, lo vive facendone la sua casa di preghiera nell’offerta continua ed incessante di tutto il suo essere al Signore e servendolo con cuore indiviso. Nello svuotamento di se stessa, è così libera interiormente da acquisire un nuovo volto, capace di conoscere e riconoscere Dio nel figlio di Maria e Giuseppe, quel Bambino che, agli occhi di tutti gli altri, invece, è un comune neonato. Anna è chiamata dall’evangelista « profetessa » proprio per il suo particolare intuito, quello di riconoscere l’arrivo del Salvatore, di un Dio che è venuto a portare al mondo la salvezza. L’attesa è finita: è questo l’annuncio carico di lode che la donna, profetessa e testimone, rivolge « finalmente » a tutti coloro che incontra e la incontrano lì, nel tempio di Gerusalemme. La sua lode diventa quindi accettazione, accoglienza, sintonia piena con il pensiero e la proposta di Dio, e tutto quello che ha ricevuto, vissuto, sperimentato nella vita, ora vuole trasmetterlo anche agli altri: è una donna che non si chiude, non si nasconde ma si apre al Dono e nel dono. Anna non parla di sé, non offre semplicemente se stessa, con la sua esperienza e la sua saggezza; lei dona ciò che ha di più caro e prezioso, proprio ciò che l’ha fatta rinascere, che ha ridato speranza alla sua vita. Loda Dio e parla di Lui, di quel Bambino lì presente, che è la redenzione, la liberazione, la rinascita di chiunque voglia accoglierlo, riceverlo, attenderlo, ieri come oggi.

 

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