RILETTURA DEI DIECI COMANDAMENTI – «IO SONO IL SIGNORE»
http://www.stpauls.it/vita/1104vp/1104vp04.htm
RILETTURA DEI DIECI COMANDAMENTI
«IO SONO IL SIGNORE»
DI CETTINA MILITELLO
L’idolatria che ci connota, tanto più riprovevole quanto più negata, è quella del denaro, del corpo e del potere. Sono i nuovi idoli, gli idoli di sempre, compagni delle più imperiose rivendicazioni di fede autentica.
«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile: non avrai altri dei di fronte a me».
L’incipit del decalogo lo si ritrova identico in Es 20,1-3 e in Dt 5,6-7. A fare la differenza è piuttosto il contesto nel quale l’asserto è inserito. Leggiamo, infatti, in Es 20: «Dio pronunciò queste parole». E in Dt 5: «Mosè convocò tutto Israele e disse loro: « Ascolta, Israele, le leggi e le norme che io oggi proclamo ai vostri orecchi: imparatele e custoditele per metterle in pratica. Il Signore, nostro Dio, ha stabilito con noi un’alleanza sull’Oreb. Il Signore non ha stabilito questa alleanza con i nostri padri, ma con noi che siamo oggi qui tutti vivi. Il Signore sul monte vi ha parlato dal fuoco faccia a faccia, mentre io stavo tra il Signore e voi, per riferirvi la parola del Signore, perché voi avevate paura di quel fuoco e non eravate saliti sul monte. Egli disse… »».
Idolatria
Al di là di giudizi di merito che non ci spettano, la foto simboleggia solo l’ostentazione dell’odierna idolatria (FOTO: ANSA).
Dunque una presa, per così dire, « diretta » di parola da parte di Dio nel primo testo. Una dizione « mediata » nel secondo. Balza evidente, ma lo abbiamo già più volte richiamato, come il contesto al cui interno si collocano le 10 parole sia quello dell’alleanza. In Esodo i comandamenti seguono immediatamente la narrazione della stipulazione dell’alleanza sinaitica (Es 19), anzi, secondo alcuni, la interrompono. In Dt è il prologo delle dieci parole a ricondurci all’evento.
Nel primo caso, l’alleanza è l’antefatto e potremmo considerare – e lo abbiamo già detto – le dieci parole come l’impegno che la sottoscrive. Nel secondo, l’esperienza dell’Oreb è invece richiamata, ampiamente insistendo sulla sua fenomenologia teofanica. Nell’uno e nell’altro caso, comunque, il cosiddetto « prologo » identifica il soggetto che notifica le dieci parole come «il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile». Dunque, l’affermazione relativa a Dio, la dizione del suo mistero, l’offerta salvifica del suo autorivelarsi sono in strettissima connessione con quanto da lui operato a favore del suo popolo. Nella storia del popolo antico l’incontro con Dio, anzi il manifestarsi di Dio, è legato a una scelta e a un rapporto che egli stesso istituisce, con Abramo prima e poi con la sua discendenza.
La fede è la risposta a una Parola ricevuta che chiede di essere accolta a partire da ciò che ha operato
Una scelta che resta un mistero
Dio non ha un nome proprio. È semplicemente il Dio d’Abramo, di Isacco, di Giacobbe; o genericamente il Dio dei padri. Il termine con cui Egli viene designato, prima della rivelazione sinaitica, è quello in uso presso le comunità semite del tempo. El o al plurale Elohim, dice personalità e relazione. Non è un’astrazione, un concetto; non c’è un’ideologia al cuore della fede d’Israele, ma l’impatto trasformante con un Tu che chiede relazione.
Nel libro dell’Esodo Dio si manifesta a Mosè dicendosi «Io sono colui che sono» (Es 3,14). YHWH, il Nome, con il quale Mosè dovrà presentarsi agli israeliti è però immediatamente legato alla locuzione «il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe…» (Es 3,15). Di nuovo non si tratta di addivenire a una teologizzazione astratta. Colui che ha manifestato il suo Nome, ossia che si è dato a conoscere nella sua interiorità più profonda (nomen omen), resta comunque un mistero. Conta però la sua prossimità, la relazione, il dialogo, il coinvolgimento nella vita e nella vicenda del popolo. Senza voler indulgere ulteriormente, il senso del discorso – e dunque dell’autopresentarsi di Dio – è che la fede richiesta, così come l’adesione alla legge promulgata, sono essenzialmente risposta a una interpellanza. La fede, insomma, non come prodotto di chissà quale astratto filosofare, ma sollecitazione immediata, risposta a una parola ricevuta che chiede di essere accolta a partire da ciò che ha operato. La fede come esperienza vissuta di rapporto, di incontro con una Alterità che mi si dà a conoscere, che mi svela a me stesso e dialoga con me nella concretezza del rapporto che già mi lega ad altri e lo cementa e orienta.
In altre parole, il prologo «io sono il Signore, tuo Dio» fa emergere problemi metafisici solo con acrobazie intellettuali. In gioco non è l’unicità di Dio, il monoteismo dei filosofi, e nemmeno la prova relativa alla sua esistenza. Non che tutte queste cose non meritino attenzione e rispetto. Ma, bisogna capire, se credenti all’interno della tradizione giudeo-cristiana, che tutto ciò è nella migliore delle ipotesi solo un doveroso confronto con le sfide del pensare altrui.
Dio non dice di sé «io sono», ma piuttosto «io sono il Signore, il tuo Dio». E la riprova, credo, stia proprio nel non senso ultimo dell’ »io sono », come si sa tradotto nella duplice modalità dell’ »Io sono colui che sono» o dell’ »Io sono colui che è ». Nel primo caso il mistero resta tale e ciò che conta è la rivelazione del Nome come partecipazione vitale, come affidamento di sé all’altro. Nel secondo si registra piuttosto un tradimento del testo e una ontologizzazione del mistero di Dio, estranea alla Scrittura.
Essa, infatti, non dimostra alcunché né tanto meno avanza ipotesi teoriche. Al contrario mostra Dio in azione. Lo mostra compagno. Lo mostra come Tu ineffabile, potente e forte, debole e misericordioso, geloso e generoso. Le infinite prospettive del suo farsi a noi prossimo altro non sono che risposta, corrispondenza alla qualità del nostro vivere al suo cospetto. Se così non fosse, non troveremmo metafore ma concetti. E, invece, a fare la differenza, a stravincere nella declinazione dell’ineffabilità di Dio sono proprio le prime. È a partire da esse, dalla loro carica esperienziale, che è possibile accoglierlo come un Tu, se si vuole prepotente e invasivo e tuttavia capace d’infinita tenerezza.
I termini che declinano il divino
La Dives in misericordia (cf III, 4, EV 7, 882) esibendosi in un’inusuale elencazione di termini che declinano plasticamente il divino, richiama il termine hesed che vuol dire grazia, benevolenza, amore fedele e il termine ‘emet che indica solidità e sicurezza. Hesed we’ emet insieme significano grazia e fedeltà. Ma anche il termine hânan, magnanimità, benevolenza e clemenza; il termine hâmal, perdonare, manifestare misericordia e compassione; il termine hûs, misericordia e commiserazione.
Tra i diversi termini particolarmente pregnante quello di rahamîm. Esso indica l’amore gratuito proprio della madre. Tant’è che deriva dalla stessa radice del termine rehem, utero. Rahamîm viene a significare – quasi corrispettivo femminile di ciò che al maschile è suggerito da hesed – bontà, tenerezza, pazienza, indulgenza, volontà e capacità di dimenticare. Ecco rahamîm, misericordia, mi riporta a una suggestiva allusione di Giacometta Limentani che nella prima delle lettere ebraiche del tetragramma coglieva l’ideogramma dell’utero. Non diversamente A. Chouraqui, fine lettore delle Scritture ebraiche (ma anche di quelle cristiane), mettendo a confronto l’epiteto « misericordioso » nella prossimità linguistica della lingua ebraica e della lingua araba, lo traduceva sottolineando la femminilità di Dio, la plasticità paziente e attiva, quella grande dell’utero appunto.
Metafore, certo. Ma di quanto più prossime e immediate al vissuto concreto degli esseri umani, uomini e donne. La tentazione idolatrica, la prima e fondamentale tentazione idolatrica, quella di stabilire chi/cosa è Dio, ci ha allontanati dalla misericordia. Ci ha condotti a farci altri e falsi dei. Dunque non è a caso che l’enunciazione: «Io sono il Signore, Dio tuo» precede il primo comandamento, quello relativo al farsi altri dei. E nella situazione nostra di oggi, malgrado il neo-paganesimo e la sua riproposizione colta ed elitaria del politeismo, non si tratta davvero di proiettare il divino in forme molteplici, antropomorfe, bestiali o fitomorfe.
L’idolatria che ci connota, tanto più riprovevole quanto più negata, malgrado l’ostentazione violenta che ne facciamo, è quella del denaro, del corpo, del potere. Sono questi i nuovi idoli. Ovvero sono questi gli idoli di sempre, prepotentemente compagni delle più imperiose rivendicazioni di fede autentica. Ci diciamo credenti, ci professiamo cristiani, ma è il potere il Dio a cui sacrifichiamo tutto, è il denaro l’idolo dinanzi a cui ci prostituiamo, è il nostro corpo che facciamo oggetto della nostra idolatria o della idolatria altrui.
di Cettina Militello
Vita Pastorale n. 4 aprile 2011
Laisser un commentaire
Vous devez être connecté pour rédiger un commentaire.