Archive pour juillet, 2015

OMELIA XIV DOMENICA DEL T.O

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5 LUGLIO – XIV DOMENICA DEL T.O. | OMELIA

14A DOMENICA – TEMPO ORDINARIO 2015

Per cominciare La chiesa oggi chiama tutti a essere profeti coraggiosi e audaci, senza farsi prendere dallo scoraggiamento se si viene rifiutati e senza paura per i propri limiti. Così si sono comportati i grandi profeti dell’antico testamento, così hanno fatto Paolo e lo stesso Gesù, profeta del Padre.

La parola di Dio Ezechiele 2,2-5. il racconto della vocazione del profeta Ezechiele, scelto per una missione difficile tra gli ebrei in esilio. Dice Iahvè: « Ascoltino o non ascoltino, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro ». 2 Corinzi 12,7-10. Nonostante il suo zelo e la sua passione apostolica, l’apostolo Paolo riconosce le proprie debolezze e i propri limiti. Ma il Signore gli dice di non temere, perché la sua forza si manifesta pienamente proprio attraverso la sua debolezza. Marco 6,1-6. Gesù insegna nella sinagoga di Nazaret, tra i suoi compaesani. Essi, pur ammirati da ciò che dice e dai miracoli che fa, non accolgono la sua testimonianza, perché conoscono lui e la sua famiglia e questo è per loro motivo di scandalo. Ma Gesù si meraviglia per la piccolezza della loro fede.

Riflettere…

o Nel primo e secondo capitolo del libro di Ezechiele, il profeta ha una visione straordinaria e fantasiosa della divinità. Dio gli manifesta la sua gloria in un turbine di fuoco. Ezechiele sente la voce di un uomo che lo manda a quelli della sua terra, figli testardi e dal cuore indurito. È la narrazione della vocazione del profeta, che si trova con la sua gente in terra di esilio. o Nel capitolo successivo, il Signore al momento di mandarlo gli fa mangiare il rotolo di un libro, che Ezechiele trova per la sua bocca « dolce come il miele ». Il Signore lo prepara in questo modo ma, quasi per consolarlo delle difficoltà che incontrerà, gli dice di non preoccuparsi, l’importante è che sappiano che in mezzo a loro c’è un profeta. o Ezechiele il profeta viene chiamato per più di 80 volte « figlio dell’uomo », termine che sarà caro a Gesù per definire se stesso, dichiarando nello stesso tempo la sua incarnazione e la sua vocazione di messia-profeta. o Ezechiele può contare sull’assistenza e la forza di chi lo manda. Gli dice Iahvè: « Ecco, io ti do una faccia indurita quanto la loro faccia e una fronte dura quanto la loro fronte. Ho reso la tua fronte come diamante, più dura della selce. Non li temere. Non impressionarti davanti a loro » (Ez 3,8-9). Ed Ezechiele non rifiuta la missione ricevuta, né cerca di evitarla, come fa invece Geremia, che si scusa dicendo di essere troppo giovane per un compito così difficile. o Nella seconda lettura Paolo dichiara con realismo e umiltà i propri limiti e le proprie debolezze. Ma sente di avere con sé la potenza di Cristo, che si manifesta meglio proprio nella sua debolezza. « Quando sono debole », dice Paolo, « è allora che sono più forte ». o Il vangelo presenta lo strano e impressionante episodio del rifiuto della predicazione di Gesù da parte dei suoi compaesani. o Gesù viene rifiutato non tanto perché il suo messaggio non sia convincente e valido. L’evangelista Luca, nel passo parallelo, riferisce che « nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui » (4,20). Essi riconoscono la sua sapienza e l’autorevolezza del messaggio che proclama; ma sono diffidenti e si domandano da dove provengano. o Rifiutano di dargli fede. Sono semplicemente incuriositi, ma incapaci di fare il salto e di riconoscere la vita nuova che ora fa di Gesù un profeta. Mentre loro sono disorientati, perché conoscono bene la sua parentela, le sue umili radici. o A riflettere bene, la loro difficoltà ad accogliere Gesù è più grande della nostra. Noi di Gesù conosciamo molto di più, soprattutto la sua risurrezione e la storia filtrata dalla fede degli apostoli e da duemila anni di storia della chiesa. Essi invece sono colti dalla novità e dalla rottura che rappresenta la nuova vita di Gesù, quella che è iniziata con il battesimo di Giovanni. E tuttavia Gesù « si meraviglia della loro incredulità ». o Sta di fatto che quello di Nazaret è un clamoroso caso di fallimento dell’attività profetica di Gesù. È il messia e lo fa capire. Si stacca apertamente dalla vita vissuta finora. Ciò che dice e i prodigi che compie sono significativi, convincenti, apprezzabili, ma non fino al punto da far scattare la fede tra i suoi compaesani. Gesù lo dice chiaro: « Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua ». o È il mistero dell’incarnazione che si manifesta in tutto il suo realismo. « Venne tra i suoi e i suoi non l’hanno accolto » (Gv 1,11).

Attualizzare

* Come è avvenuto per Ezechiele e agli altri grandi profeti dell’antico testamento, ogni cristiano è un testimone e un profeta in forza del battesimo e la chiamata alla vita cristiana. I cristiani sono inviati dallo Spirito, così come ha fatto con Pietro e gli altri apostoli dopo la Pentecoste. È lo Spirito che li ha riempiti di certezza e ha infuso su di loro l’entusiasmo. * È profeta non solo chi ha una vocazione specifica orientata a un ministero, ma chiunque abbia preso sul serio Cristo e la sua parola. Il Signore chiama tutti, giovani e anziani, persone di alta cultura e gente del popolo: ognuno ha una vocazione specifica nell’ambiente in cui vive, tra coloro che frequenta. * Il Signore ai profeti non chiede risultati: domanda semplicemente di parlare nel suo nome, non altro. I risultati non dipendono più dal profeta. Nessuno può far penetrare a forza la parola di Dio: l’accoglie chi vuole e la responsabilità della risposta positiva o del rifiuto diventa di costui, oppure rimbalza su Dio, che può aprire il cuore di chi ascolta. * Così, quando un cristiano, un testimone, un profeta hanno fatto ciò che possono, hanno fatto tutto. Questa anche la convinzione di Paolo, che sa che la sua predicazione poggia prima di tutto sulla potenza di Cristo, e non sulle sue forze. * Per questo un profeta non può disprezzare nessuno, non può essere arrogante di fronte a chi alcune cose non le capisce o non le accetta. Non solo, perché anche lui si ritrova debole, anche la sua fede non è sempre così ferma. * Ma come insegna Paolo, nessuno dovrebbe spaventarsi dei propri limiti, delle proprie inadeguatezze. Tanto è vero che Paolo è stato di una generosità e di uno zelo senza misura. Mentre oggi la profezia dei cristiani è troppo debole, troppo poco visibile. « Quando suona la campana, suona per te », ha detto Martin Luther King. La campana suona ogni giorno per chi ha ricevuto il dono della fede. * Il Signore nella storia si è servito spesso di persone semplici e umili per fare cose grandi. La testimonianza cristiana non è riservata ai santi da altare, agli eroi, ai superdotati. Anche chi fa fatica a vivere di fede e di amore, chi si sente schiacciato dal proprio temperamento e dai propri difetti, chi è ammalato o bloccato da chissà quali difficoltà è chiamato ad annunciare – così come gli è possibile nella sua condizione – una verità che lo ha affascinato. Perché è proprio del dono di Dio ricevuto, l’esigenza di passarlo ad altri. * Al funerale di Madre Teresa di Calcutta, le sue suore al momento dell’offertorio hanno portato tra le offerte una matita. Madre Teresa si sentiva una matita nelle mani di Dio, un piccolo strumento con il quale Dio poteva scrivere nel cuore degli uomini. Diceva: « Se Dio avesse trovato uno strumento più piccolo di me se ne sarebbe servito ». * La storia della chiesa ci dice che anche i santi hanno avuto limiti e difetti. Abbiamo già ricordato Paolo, ma non mancano molti altri esempi, anche clamorosi. La perfezione non è possibile a nessuno. È noto, per esempio, che san Giovanni Maria Vianney, il santo parroco di Ars, aveva difficoltà nello studio, aveva un temperamento particolare, dovuto anche a certi stati d’animo e a scelte ascetiche che oggi non tutti accetterebbero. Ma ha trasformato il cuore degli abitanti della sua piccola parrocchia, e al suo confessionale giungevano da tutta la Francia. * Il messaggio da trasmettere non è propriamente nostro e ci supera, ma possiamo metterci del nostro, soprattutto la gioia nel trasmetterlo. « Chi non sa sorridere, non apra un negozio », dice un detto popolare. La stessa cosa la devono ricordare i cristiani: il sorriso è contagioso e accompagna con naturalezza il messaggio di gioia del vangelo. * Ma si direbbe che non c’è niente di più difficile che parlare di Gesù agli uomini d’oggi. C’è troppa indifferenza, troppa ignoranza religiosa di base e quindi impreparazione a ricevere un certo tipo di messaggio. Anche se in molte persone il vuoto delle proposte può lasciare nostalgia verso qualcosa che dia respiro alla vita. Gesù può certamente esercitare un fascino senza misura in ogni tempo. « Se un uomo come Gesù è vissuto, allora vale la pena che noi viviamo » (Dietrich Bonhoeffer). La sua parola, solo sua parola, può dare all’uomo di ogni tempo il senso finale della vita. * Dobbiamo essere profeti, ma anche « ascoltare » i profeti. Quelli che ci precedono nella virtù e nell’entusiasmo. Ma anche quelli che si presentano in tutti i loro limiti, sacerdoti, consacrati o laici. Senza scandalizzarci – come hanno fatto quelli di Nazaret – perché li conosciamo bene, troppo bene, magari anche nelle loro inadeguatezze fisiche e morali. * La profezia scuote sempre ed è spesso accompagnata dal sapore del nuovo. La profezia quasi sempre anticipa i tempi e ha il profumo del futuro. Con la sua predicazione Gesù si è presentato profondamente nuovo e questo ha scandalizzato la sua gente. Gesù ha proclamato qualcosa che usciva dagli schemi e rompeva con le tradizioni più consolidate e pietrificate… Così appare spesso il profeta. Che proprio per questo va incontro a non poche opposizioni, spesso anche da persone tremendamente per bene.

La profezia di Gesù « Gesù ha dato la sua vita per la giustizia. Ha cercato il dialogo con i potenti, oppure ha rappresentato per loro un elemento di disturbo. Si è schierato dalla parte dei poveri, dei sofferenti, dei peccatori, dei pagani, degli stranieri, degli oppressi, degli affamati, dei carcerati, degli umiliati, dei bambini e delle donne. Chi si comporta così dà fastidio. Chi interviene al fianco degli uomini, e li riunisce rendendoli consapevoli, diventa pericoloso agli occhi dei potenti. I cristiani che adottano « l’opzione a favore dei poveri » di Gesù devono ancor oggi aspettarsi persecuzioni » (Carlo Maria Martini).

Fonte autorizzata : Umberto DE VANNA:

Filippo Lippi Madonna and Child

Filippo Lippi Madonna and Child  dans immagini sacre Lippi-madonna-716x1024

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Publié dans:immagini sacre |on 2 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

1RE 3,16-28 (CEI) – TESTO

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1RE 3,16-28 (CEI)

16 Un giorno andarono dal re due prostitute e si presentarono innanzi a lui. 17 Una delle due disse: «Ascoltami, signore! Io e questa donna abitiamo nella stessa casa; io ho partorito mentre essa sola era in casa. 18 Tre giorni dopo il mio parto, anche questa donna ha partorito; noi stiamo insieme e non c’è nessun estraneo in casa fuori di noi due. 19 Il figlio di questa donna è morto durante la notte, perché essa gli si era coricata sopra. 20 Essa si è alzata nel cuore della notte, ha preso il mio figlio dal mio fianco – la tua schiava dormiva – e se lo è messo in seno e sul mio seno ha messo il figlio morto. 21 Al mattino mi sono alzata per allattare mio figlio, ma ecco, era morto. L’ho osservato bene; ecco, non era il figlio che avevo partorito io». 22 L’altra donna disse: «Non è vero! Mio figlio è quello vivo, il tuo è quello morto». E quella, al contrario, diceva: «Non è vero! Quello morto è tuo figlio, il mio è quello vivo». Discutevano così alla presenza del re. 23 Egli disse: «Costei dice: Mio figlio è quello vivo, il tuo è quello morto e quella dice: Non è vero! Tuo figlio è quello morto e il mio è quello vivo». 24 Allora il re ordinò: «Prendetemi una spada!». Portarono una spada alla presenza del re. 25 Quindi il re aggiunse: «Tagliate in due il figlio vivo e datene una metà all’una e una metà all’altra». 26 La madre del bimbo vivo si rivolse al re, poiché le sue viscere si erano commosse per il suo figlio, e disse: «Signore, date a lei il bambino vivo; non uccidetelo affatto!». L’altra disse: «Non sia né mio né tuo; dividetelo in due!». 27 Presa la parola, il re disse: «Date alla prima il bambino vivo; non uccidetelo. Quella è sua madre». 28 Tutti gli Israeliti seppero della sentenza pronunziata dal re e concepirono rispetto per il re, perché avevano constatato che la saggezza di Dio era in lui per render giustizia.

IL GIUDIZIO DI SALOMONE (1RE 3,16-28) Scaiola D.

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IL GIUDIZIO DI SALOMONE (1RE 3,16-28)   Scaiola D.

1. Introduzione La storia raccontata in questo testo, normalmente definito «giudizio di Salomone», si collega strettamente alla preghiera che il re eleva al Signore all’inizio del capitolo (3,6-10), e dimostra praticamente che il Signore ha mantenuto la sua promessa, dando a Salomone la capacità di «distinguere il bene dal male» (3,9). Di fatto, Salomone viene presentato come un saggio che permette alla verità di trionfare sulla menzogna, e alla vita di avere la meglio sulla morte. Il racconto delle due prostitute che rivendicano lo stesso bambino, ha i tratti di una narrazione popolare. Il solo fatto che i protagonisti, compreso il re, siano anonimi, ne è un segno.[1] Questo genere di racconto è spesso portatore di una profonda saggezza, per cui non è sorprendente il fatto che questa breve narrazione sia stata inserita qui per illustrare in modo paradigmatico in che cosa consiste la saggezza di Salomone nel contesto programmatico dell’inizio del suo regno.[2]

2. Analisi del racconto 2.1. Due donne e un bambino Il racconto comincia in modo molto essenziale: «Vennero due donne prostitute verso il re e stettero in piedi davanti a lui» (v. 16). I verbi qui utilizzati, però, qualificano il loro gesto come un atto di tipo giuridico.[3] In questo modo, il re è immediatamente considerato come un giudice al quale le donne si appellano affinché regoli il loro litigio. Le due donne sono descritte come due prostitute. Probabilmente non hanno marito, e i figli di cui si parla sono bambini che non hanno un padre, o meglio, hanno un padre che resta anonimo, sconosciuto. Le due donne vivono insieme, nella stessa casa (il termine è ripetuto quattro volte nel testo ebraico, ai vv. 17-18). Non solo esse vivono insieme, ma vengono anche presentate in un rapporto speculare, mimetico: sono due prostitute, senza marito, entrambe generano un figlio a distanza di tre giorni l’una dall’altra. Non c’è nessun testimone di questo fatto: né un vicino, né un domestico, né un parente. Si realizzano così le condizioni di una situazione in cui nessuno può testimoniare né della nascita né della morte del bambino. Ciò che tende all’estremo la forza drammatica del racconto, è il fatto che la posta in gioco è costituita da un bambino. Per le due donne si tratta di conservare il bambino che le costituisce come madri. Questo bambino sembra essere considerato, almeno da una delle due donne, più come l’insegna visibile della maternità che non come un vero soggetto. Queste due donne si possono considerare la metafora della nostra natura umana e del rapporto ambivalente che essa intrattiene con la vita e con la morte, con la menzogna e con la verità.

2.1. Due donne e un bambino Dopo questa introduzione, la prima parte del racconto (vv. 17-22) è costituita interamente da discorsi. Riportando le parole delle due donne, senza interferire con commenti di nessun genere, il narratore pone il lettore in una posizione analoga a quella in cui si trova il re, il quale deve affrontare un problema confuso e apparentemente senza via d’uscita. Il narratore concede ampio spazio alla prima donna, la quale presenta un racconto circostanziato degli avvenimenti di cui ella si dice vittima (vv. 17-21). Dalle sue parole traspare l’immagine di una buona madre che si alza al mattino per allattare il piccolo, mentre l’altra causa la morte del suo, soffocandolo durante la notte. Ella avrebbe a cuore il suo bambino, mentre l’altra, di notte, si sarebbe alzata per sostituire il bambino morto, esponendo anche il secondo all’eventualità della morte (v. 20). Come si vede, si tratta più di un’arringa che della pura esposizione dei fatti. L’argomento che ella invoca per suggerire la colpevolezza dell’altra sembra essere convincente perché non si basa su un’impressione, ma su un «discernimento» dei fatti (v. 21). Il verbo che in italiano viene tradotto «l’ho osservato bene», significa «discernere, distinguere, dare prova di intelligenza». Riferendo il suo gesto, la donna suggerisce al re di mettere in opera la sua propria capacità di discernimento. Infatti appena prima (3,9) Salomone aveva domandato a Dio, usando lo stesso verbo, di poter esercitare la giustizia «discernendo tra bene e male». In altri termini, la semplice evocazione di quello che lei stessa ha fatto indicherebbe al re una strada per fare a sua volta chiarezza.[4] L’altra donna, invece, parla assai brevemente (v. 22) e si limita ad affermare che il bambino vivo è il suo, sollevando il sospetto sulla credibilità delle affermazioni della prima donna. Ella infatti ha fornito una ricostruzione dei fatti che non può che essere ipotetica, dal momento che, per sua stessa ammissione, ella dormiva. Chiamata in causa perché indirettamente accusata di aver mentito, la prima donna risponde. Il suo discorso è un’eco, o uno specchio di quello che l’altra donna ha detto (v. 22). Abbiamo così una parola contro una parola, ed è certo che una delle due mente, ma non sappiamo né di chi si tratta né ci viene rivelato il perché del suo gesto. Interessante il fatto che in questa disputa, che precede il giudizio vero e proprio, il testo non distingue tra le due donne. Le designa solamente come «una delle due donne» e come «l’altra donna». Non importa tanto chi parla, infatti, perché l’una e l’altra dicono la stessa cosa. La seconda donna infatti desidera possedere quello che l’altra possiede. È il desiderio mimetico che la fa parlare e agire. Si illustra qui la dinamica dell’avidità e dell’invidia. Un dettaglio del testo potrebbe confermare questa lettura, perché si dice che la donna «si è coricata sopra» il bambino (v. 19). Sarebbe questa l’immagine di un amore materno possessivo, soffocante. D’altra parte, le due donne si assomigliano, usano gli stessi termini. Anche la prima donna rivendica il bambino vivente come suo, mostrando che anch’essa è animata dall’avidità. In questo senso, il fatto che le due affermazioni del v. 22 si corrispondano esattamente, tende a indicare che le due donne sono il riflesso l’una dell’altra, dal momento che fanno parlare solo l’istinto di possesso. Il compito che si dischiude di fronte al re consiste invece nel tentare di uscire dalla confusione, facendo emergere il desiderio di vita della vera madre.

2.3. Lo stratagemma di Salomone Allo stato attuale delle cose, niente permette di distinguere le due donne l’una dall’altra: né l’evocazione della situazione, né le parole pronunciate da loro, né il loro comportamento, nemmeno, si potrebbe dire, la loro attitudine fondamentale. È quello che constata il re (v. 23). Dopo di che decide di tagliare, cioè di interpretare. Per poter giudicare, Salomone non può basarsi su quello che conosce delle due donne: l’assenza di testimoni rende vana ogni inchiesta. D’altra parte, anche se egli è dotato di saggezza, non può scoprire ciò che è nascosto usando dei mezzi che esulano dalla conoscenza naturale: non può indovinare. Non può nemmeno appellarsi ai buoni sentimenti per far confessare colei che mente. Può ricorrere solo all’interpretazione. Egli cerca, di fatto, di far emergere la logica inconsapevole che si cela dietro il discorso consapevole, cioè di dire quello che una delle due donne non dice, il fatto che ella vuole avere un bambino per essere uguale all’altra. Per raggiungere questo obiettivo, il re domanda una spada. Ordinando di tagliare il bambino in due parti, il re mostra plasticamente che cosa significa concretamente per l’infante l’atteggiamento rivendicatrice delle due donne. La confusione, che deriva dalla menzogna di una, ma anche dall’avidità di entrambe, sottomette il bambino a una lacerazione mortale che la spada simboleggia, visualizzandola. Il re non fa altro che mostrare alle due donne qual è l’esito del loro gioco perverso, vuole chiarire che la posta in gioco del discorso non è altro che la vita del bambino, il quale è lacerato da due donne che se lo contendono, per cui egli è, esattamente come l’altro neonato, vittima di una violenza inaudita e ingiustificata. Questo è ciò che l’ordine del re consente di vedere.

2.4. Le opposte reazioni Quest’ordine del re provoca nelle due donne reazioni diametralmente opposte, perché una si pronuncia per la vita del bambino, l’altra per la sua morte. Ognuna delle due riprende, nella sua risposta, uno dei verbi che il re ha usato in precedenza: «Tagliate [...] e date» (v. 25). La madre dice: «Date», l’altra ripete: «Tagliate» (v. 26). Nell’introdurre la reazione della prima donna, il narratore rivela al lettore l’emozione violenta che ella ha provato («Le sue viscere si erano commosse»). Nel momento in cui la decisione del re mette in evidenza che il suo atteggiamento conduce il bambino alla morte, lo sconvolgimento emotivo che prova nel luogo stesso in cui il figlio ha preso vita,[5] determina la sua trasformazione e la induce a interrompere il conflitto. Per la prima volta una delle due donne abbandona il linguaggio dell’avidità e del possesso esclusivo per parlare il linguaggio del dono. Piuttosto che rivendicare per se stessa il bambino vivo, ella lo dona all’altra. Inoltre non lo chiama più «infante», né «mio figlio», ma «colui che è stato generato» (hayyalûd), cioè colui che è nato, che si è staccato da sua madre, la quale, di conseguenza, non lo possiede più. Si può dire che, nel momento in cui ella dona suo figlio all’altra donna, in realtà, gli sta dando la possibilità di vivere. La sua concorrente, invece si accontenta di ripetere la prima parola del re, mostrando così che la sua posizione non è cambiata. Adesso però si spiega la sua logica: quella di una giustizia fredda e insensibile: «Non sia né mio né tuo» (v. 26). Così dicendo, la donna si tradisce. Adesso è chiaro che ciò che la muove è l’invidia o la gelosia. La sola cosa che conta per lei è di possedere quello che l’altra possiede, accettando di esserne privata a condizione che la stessa cosa accada anche all’altra. Ma come potrebbe essere la madre del bambino, lei che non vuole che il bambino viva? Così l’ordine del re porta paradossalmente ciascuna delle due donne a porre una richiesta contraria a quella che avevano presentato all’inizio. La prima rinuncia al bambino, preferendo darlo all’altra piuttosto che vederlo morire; l’altra reclama la sua morte piuttosto che cederlo alla rivale. Così la verità appare nel momento in cui viene spezzato lo specchio delle apparenze. Mostrandosi visceralmente attaccata alla vita di suo figlio, la madre permette all’ordine del re di rivelare la saggezza in esso contenuta, sotto l’apparenza della crudeltà. «Madre» è l’ultima parola che il re pronuncia (v. 27). Ciò non avviene per caso. Innanzitutto era questa la verità che si trattava di stabilire fin dall’inizio. Inoltre, proclamandola al termine del racconto, il re definisce che cos’è una madre: è una donna che abbandona ogni forma di avidità nei confronti del figlio per non soffocarlo, è colei che rinuncia a trattare il bambino come un oggetto da possedere, e che gli consente di condurre un’esistenza autonoma. Nessuna parola viene rivolta all’altra donna, che non è colpita dalla punizione. Il racconto non ha una finalità moraleggiante. Si tratta piuttosto di un giudizio che libera l’innocente dalla morte e il giusto dal caos, dalla confusione instaurata dalla menzogna.

3. Conclusione La conclusione introduce un nuovo personaggio: «Tutto Israele». Apprendendo il giudizio del re, il popolo riconosce il segno della sua sapienza (v. 28). Il desiderio che Salomone aveva manifestato nella preghiera, di avere un cuore capace di discernere tra il bene e il male per poter governare, questo desiderio si trova qui confermato davanti agli occhi di tutti. Nel racconto, la sapienza, consiste nel saper trasformare un luogo di morte in luogo di vita, realizzando così l’immagine del Dio creatore descritto in Gn 1. Per permettere l’apparire delle vita, infatti, egli comincia a separare gli elementi del caos primordiale, mettendo ogni cosa al suo posto e dando un nome a ciò che viene distinto. Il re non fa una cosa diversa, rivelando che la sapienza è innanzitutto un saper fare, l’arte di mettere un termine al caos che generano l’invidia e la menzogna, andando al di là delle apparenze perché appaia ciò che è vero. Questo discernimento, la capacità di distinguere tra il bene e il male, che Salomone dimostra di saper operare all’inizio della sua storia, non si presenta come un dono che il re ha ricevuto una volta per tutte e che abita stabilmente in lui. Al contrario, questo dono costituisce piuttosto una sfida per il re, il quale deve essere disposto all’ascolto per permettere, come avviene in questo caso, che la sapienza di Dio possa essere effettiva e operare in lui. Il divenire di questo dono della sapienza sarà dunque sospeso a un interrogativo: chi ascolterà il cuore del re? O meglio: a quale donna presterà orecchio? Il seguito della storia di Salomone consentirà di dare una risposta a tale domanda. All’inizio del suo regno Salomone, come abbiamo visto, dà prova di sapienza davanti a queste due donne. Un’altra donna, la regina di Saba, verrà da lontano per ammirare questa sapienza (1Re 10,1-11). Ma saranno le donne straniere che inclineranno il «suo cuore» lontano dalla sorgente della sapienza (1Re 11,1-10), provocando così la rovina di Israele.

[1]J.G. Frazer (Folklore in the Old Testament, Londra 1918) paragona questa pagina a un testo parallelo indiano, e H. Gressman (Die älteste Geschichtsschreibung und Prophetie Israels, Göttingen 1921) recensisce almeno una ventina di versioni del tema presenti nella letteratura folcloristica universale. [2] Degno di nota il fatto che il testo parallelo di 2Cr, dopo aver parlato della preghiera di Salomone e della promessa che Dio gli fa (2Cr 1), riporti come esempio emblematico di saggezza non l’episodio del giudizio, bensì la costruzione del tempio (2Cr 2-8). [3] Si veda l’analisi del vocabolario condotta da P. Bovati in Ristabilire la giustizia. Procedure, vocabolario, orientamenti (= AnBib 110), Roma 20003, pp. 198 e 212-214. [4] Questo atto di discernimento appartiene fondamentalmente alla vocazione del re, come emerge anche da un altro racconto, quello di David e della donna di Tekoa (2Sam 14,17), la quale si rivolge al re quasi negli stessi termini (usando, però, un verbo sinonimo). In quel caso forse le parole della donna assumono un involontario tono ironico, perché dal contesto emerge che David viene meno a questa sua capacità, non rendendosi affatto conto delle macchinazioni che Assalonne sta tramando contro di lui. [5] Le «viscere» richiamano l’utero femminile, dal momento che in ebraico si tratta dello stesso termine.  

Sinagoga di Roma

Sinagoga di Roma dans immagini sacre

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PAPA WOJTYLA E I FRATELLI MAGGIORI

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PAPA WOJTYLA E I FRATELLI MAGGIORI

Oltre a fornire una grande messe di documenti e testimonianze, il volume riesce a comunicare gli aspetti più umani di una stagione di distensione nei rapporti ebraico-cristiani

di Giovanni Ricciardi

«La Chiesa di Cristo scopre il suo “legame” con l’ebraismo, “scrutando il suo proprio mistero”. La religione ebraica non è “estrinseca”, ma in un certo qual modo “intrinseca” alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti». Un applauso scrosciante accoglieva, quasi vent’anni fa, queste parole di Giovanni Paolo II nella sinagoga di Roma. Il Papa stava citando il documento conciliare Nostra aetate, di cui quest’anno ricorre il quarantennale: una pietra miliare nei rapporti tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo. Dopo questa solenne premessa viene la famosa frase in cui il Papa chiamava gli ebrei «fratelli maggiori». Un momento storico, quello della visita di Karol Wojtyla alla sinagoga di Roma il 13 aprile 1986, che il recente libro di Lorenzo Gulli, ex giornalista Rai, testimone privilegiato di quell’evento, pone al centro della sua riflessione. Ma senza dimenticare che esso fu il culmine di un percorso che aveva radici profonde. E il libro di Gulli, presentato nella cornice dell’Institutum Patristicum Augustinianum lo scorso 9 novembre, ha il pregio di raccogliere e offrire nei particolari non solo la cronaca dettagliata di quell’avvenimento, la sua preparazione, il suo solenne svolgimento, le riflessioni e le emozioni a posteriori dei protagonisti, ma anche il lungo cammino che lo rese possibile. Lo stesso Giovanni Paolo II aveva rievocato, nella sua visita alla sinagoga, il cordiale incontro e la benedizione che Giovanni XXIII aveva dato agli ebrei romani, un sabato mattina, mentre uscivano dalla sinagoga. Elio Toaff, in più occasioni, come nell’intervista concessa a Raitre qualche giorno dopo la visita di Wojtyla alla sinagoga – e riportata in appendice al volume –, ha ricordato con commozione la notte in cui era accorso anche lui, fra tanti romani, in piazza San Pietro alla notizia che Angelo Roncalli si stava spegnendo: «Un gesto spontaneo che rispondeva a un’esigenza della mia coscienza. E debbo dire che l’unica cosa che ha stonato in quel momento è che qualcuno mi ha riconosciuto e voleva che mi facessi avanti; naturalmente ho cercato di nascondermi più che potevo, perché proprio non apparisse come una messa in scena». Un fatto anzitutto umano, prima ancora di ogni considerazione teologica o politica, di ogni costruzione di pensiero.  Il libro di Gulli, oltre a fornire una grande messe di documenti e testimonianze, riesce a comunicare proprio gli aspetti più umani di questa stagione di distensione nei rapporti ebraico-cristiani: ripercorre l’esperienza diretta del giovane Karol Wojtyla a contatto con la tragedia della Shoah; il coinvolgimento di tanti religiosi e religiose, specie a Roma, per la salvezza di molti ebrei durante la guerra; i grandi gesti di apertura di Giovanni Paolo II durante tutto il suo pontificato. Inoltre il libro dà voce a testimonianze prese a caldo durante quei momenti, come quella di Jerzy Kluger, compagno di scuola di Karol Wojtyla, sopravvissuto all’Olocausto e presente alla storica giornata romana del 1986 (registrata allora dal microfono di Gulli): «Per me era una cosa grande. Pensavo solo a mio padre, al mio povero padre. Lui sarebbe stato tanto felice di assistere a questo grande giorno». Lo stesso Toaff ha rievocato, alla presentazione del volume, lo scorso 9 novembre, la grande emozione che lo colse quando Giovanni Paolo II scese dalla macchina e gli venne incontro quel pomeriggio, sulla porta della sinagoga.  Il volume pone infine l’accento sulla prosecuzione di questa tradizione di dialogo e di amicizia, dopo Giovanni Paolo II, con Benedetto XVI. Il suo messaggio, del 30 aprile, per il novantesimo compleanno di Toaff, pieno di un caloroso affetto, ma soprattutto la visita alla sinagoga di Colonia dell’uomo che, giovane teologo, aveva contribuito, al seguito del cardinale Frings, alla stesura del documento conciliare Nostra aetate, rappresentano la continuità e l’approfondimento di una strada che la Chiesa percorre sempre «scrutando il suo proprio mistero». 

Publié dans:EBREI, Papa Giovanni Paolo II |on 1 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

A GERUSALEMME SALGONO LE MOLTITUDINI DEL SIGNORE, SALMO 122 LECTIO, C.M. MARTINI

http://www.nostreradici.it/salmo-ascensioni.htm

A GERUSALEMME SALGONO LE MOLTITUDINI DEL SIGNORE  

[Tratto da: Carlo Maria Martini, Lettura ecumenica della Parola, 9-10 settembre 1994, in AA.VV. Gerusalemme patria di tutti, EDB, Bologna 1995]

« Lectio » del Salmo 122    

[Testo del Salmo]

http://www.nostreradici.it/salmo-ascensioni.htm

Nel testo ebraico questo salmo è intitolato Cantico delle ascensioni o delle ascesi, dei gradini, delle salite, un titolo che caratterizza ben quindici salmi (dal 120 al 134), detti pure I canti del pellegrinaggio, raccolti insieme per servire da cantici del pellegrinaggio a Gerusalemme. Nella versione originale, il 122 è anche il primo dei quindici che viene attribuito a Davide, insieme ai due successivi (dei rimanenti uno è ascritto a Salomone mentre per gli altri non ci sono ipotesi). Certamente c’è un motivo per tale attribuzione, pur se non si ritiene che essa sia autentica e storica perché il salmo sarebbe stato composto più tardi, quando il pellegrinaggio a Gerusalemme era diventato un’abitudine. In ogni caso, Davide è il fondatore della città e il Salmo 122 presuppone Davide come un personaggio: « Là ha sede il trono di giustizia, il trono di Davide » (v. 5). Probabilmente, parlando di Gerusalemme come città « costruita, salda e compatta », il salmista intende riferirsi alla città ricostruita dopo l’esilio, che diventa quindi il vanto e la gioia di Israele. L’attribuzione del salmo a Davide è comunque fondata, perché esso testimonia un grande amore alla città costruita da Davide quale capitale del suo popolo. Quali sono gli elementi costitutivi del salmo? Anzitutto notiamo una inclusione, cioè una parola che ricorre all’inizio e alla fine: casa del Signore, dimora del Signore. « Andiamo alla dimora del Signore » (v. 1); « Per la casa del Signore » (v. 9). È interessante osservare come poi non si parli più di questa casa, ma piuttosto della città: ciò significa che dapprima Gerusalemme è vista in particolare come luogo del tempio e poi anche come città nel suo insieme. Un altro elemento fondante è la triplice menzione di Gerusalemme (vv. 2. 3. 6), descritta nelle sue porte, nelle sue mura, nei suoi baluardi. Appellata tre volte, delineata con tre caratteristiche e indicata con il pronome « tu »: « alle tue porte », « sia pace a chi ti ama ». Altro elemento strutturale del salmo è che Gerusalemme è vista quale luogo di pace. Ben quattro le occorrenze di questo termine: « domandate pace per Gerusalemme », « sia pace a coloro che ti amano », « sia pace sulle tue mura », « su di te sia pace ». Il gioco di parole è evidente: « Gerusalemme » veniva interpretata quale « città dello shalom », della pace: sia pace alla città della pace, domandate pace per la città della pace. Infine il salmo è caratterizzato anche da altre ripetizioni che gli imprimono un ritmo poetico, molto bello: le tribù, le tribù del Signore, i seggi di giustizia, i seggi della casa di Davide. Vi cogliamo, pur se non possiamo penetrare a fondo il ritmo dell’originale, quell’affiato che ne fa un poema, un cantico, qualcosa che nasce dal cuore e, attraverso ritmi, ripetizioni, assonanze (sono tante nel testo ebraico) mette in luce un’anima innamorata di Gerusalemme. Tenendo conto di questi elementi formali, cerchiamo di capire la struttura logica del salmo, facilmente suddivisibile secondo le tappe di un pellegrinaggio. Un pellegrinaggio viene anzitutto deciso; immaginiamo che il salmo venga cantato da un gruppo di pellegrini che giungono alle porte della città. Essi devono fermarsi per sbrigare alcune pratiche burocratiche previste prima dell’ingresso; si riposano e contemplano la città. Contemplandola ripensano all’inizio del cammino, al momento in cui hanno deciso di partire; è il v. 1, « Quale gioia quando mi dissero: ‘Andremo alla casa del Signore »‘. Dopo l’inizio, è immediatamente sottolineato l’arrivo: ora ci siamo, « i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme! » (v. 2). Al v. 3 Gerusalemme viene contemplata dall’esterno, ammirata quale costruzione salda e compatta, in cui tutto è unità. È un riferimento alla città sul monte, che dà l’impressione di compattezza (sulla roccia), e insieme alla situazione spirituale della città, salda perché fondata sul Signore, unificata dallo Spirito di Dio. Quindi, Gerusalemme è contemplata nelle sue caratteristiche e nel suo ruolo (w. 4-5). Si tratta di una riflessione a livello morale: meta di pellegrinaggio, luogo di culto, di lode, di testimonianza della gloria di Dio, centro amministrativo e politico: « I seggi del giudizio, i seggi della casa di Davide », casa a cui fu promessa la perpetuità. Dunque un centro religioso e un centro politico-amministrativo a cui si guarda con fiducia per i beni che ci attendono dalla responsabilità politica che ricade su Gerusalemme. A questo punto segue la preghiera che può essere pensata a due cori, partendo dal v. 6: « Domandate pace per Gerusalemme ». Anzi, colui che ha espresso la sua gioia, magari il capo- pellegrinaggio, rivolge un invito ai compagni pellegrini: « Do- mandate… ». E all’invito risponde il coro: « sia pace a coloro che ti amano, sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi » (v. 7). Il capo, allora, riprende da solo: « Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: ‘Su di te sia pace!’. Per la casa del Signore nostro Dio, chiederò per te il bene » (w. 8-9). Qui ritorna l’appellazione a Gerusalemme con il « tu », come a una persona amica che si incontra e cui si augura il bene, la pace. Dunque, due cori, nel senso di un solista e di un gruppo. Sul tempo in cui il salmo è stato scritto ho già accennato un’ipotesi: il tempo dopo l’esilio, quando il tempio è ricostruito e il popolo va in pellegrinaggio alla città santa, l’unico simbolo rimasto dell’unità di Israele.

« Meditatio »del Salmo 122    Per rileggere il messaggio, sono possibili diverse piste, diverse linee. Ne ho scelte tre: una lettura storico-esistenziale (messianica); una lettura più specificamente cristiana; e una terza personale, che riguarda ciascuno di noi. Gli elementi di una lettura storico-esistenziale sono i grandi simboli del cammino umano contenuti nel salmo, che ne fanno una realtà di tutti i tempi, di tutti i luoghi, di tutte le culture. Due sono i principali. n primo è il pellegrinaggio, menzionato non quale tema specifico, bensì nel suo decidersi, nel suo compiersi. È un grande simbolo del cammino umano, della vita dell’uomo e dell’umanità, della vita di tutti gli uomini e di tutte le donne considerati come collettività. n simbolo avverte: se la vita umana è colta come pellegrinaggio, allora essa non è un vagare senza scopo e neppure una fuga dal paradiso, priva di speranza; al contrario, è un camminare verso un termine. Questa è già un’apertura straordinaria per accogliere l’esistenza umana come una realtà che ha un senso preciso. E quando abbiamo riconosciuto che tale cammino ha un senso e una meta, scoppia la gioia: « Quale gioia… ». Gerusalemme è l’altro simbolo, la meta stessa del cammino. Un simbolo universale perché si tratta di una città, di un luogo di incontro, un luogo di relazioni molteplici, dove i diversi si ritrovano. Quindi l’umanità non va verso una dispersione, una Babele confusa, ma verso un luogo nel quale tutti si incontreranno, si capiranno, intesseranno rapporti reciproci. Questa città è salda, non delude. n tema della saldezza è il più ripreso dal Nuovo Testamento, che non cita esplicitamente il Salmo 122 però ne riprende il contenuto: andiamo verso una città salda, solida, ben costruita, compatta, dove tutto è unità. Questo è il termine del cammino umano. Ed è anche il luogo d’incontro armonioso e aperto con Dio, dove Dio è lodato e dove c’è ordine perché la legge è fatta osservare, dove c’è il trono di giustizia e ci sono i seggi del giudizio. L’umanità va verso un luogo dove la giustizia, quella di Dio, non la nostra, trionfa. Dove, soprattutto, l’umanità spera di vivere l’ideale della pace e della sicurezza: « Domandate pace per Gerusalemme, su di te sia pace e tranquillità nelle tue mura, sicurezza nelle tue case ». L’umanità è così definita come colei che anela a una tale città, che va verso di essa e trova speranza nella fiducia di camminare e di essere condotta alla meta. Una visione quindi molto positiva, anzi propositiva perché ne derivano molte conseguenze per il modo di camminare dei popoli. Da questa visione nasce pure una certa pazienza storica: a noi spetta di porre le premesse affinché si vada sempre meglio verso la città armoniosa, unita, capace di lodare l’Eterno, di vivere l’ordine della giustizia. Una lettura cristiana ci fa subito pensare a Gesù che ha vissuto profondamente la gioia del Salmo 122. Già a dodici anni aveva esclamato: quale gioia ho provato ascoltando i miei genitori che mi dicevano: andiamo alla dimora del Signore! E probabilmente l’ha cantato alle porte di Gerusalemme quella prima volta e poi ogni volta, fino all’ultimo pellegrinaggio nel quale si avviava piangendo verso la città santa: « Oh, se tu riconoscessi ciò che giova alla tua pace! ». Anzi, nel testo greco il salmo usa l’espressione erofesafe de fa eis eirenen (v. 6) ripresa dal Nuovo Testamento: se tu riconoscessi le cose che riguardano la pace di Gerusalemme. Dunque Gesù ha cantato questo salmo nella gioia e nella sofferenza sapendo che la sua sofferenza era parte del cammino di Gerusalemme e dell’umanità verso la pace. Partendo dalla lettura che ne ha fatto Gesù, ci domandiamo se il Salmo 122 risuona anche negli scritti apostolici neotestamentari. Non mi sono venute alla mente citazioni specifiche, tuttavia il tema della città salda è molto presente. Ef 2, 19-20, 22: « Voi non siete più stranieri ne ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti [...] In Gesù ogni costruzione cresce bene ordinata per essere tempio santo del signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio ». Questo tema è penetrato fortemente nello spirito di Paolo, che ne fa un simbolo interpretativo della crescita della comunità cristiana, che è la realtà che viene edificata come la città del salmo. L’aspetto di pellegrinaggio verso tale città è però presente in particolare in Eb 11 e in Eb 12: Abramo ha potuto partire e lasciare tutto in quanto « aspettava la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso » (11, 10); « Chi dice così, dimostra di essere alla ricerca di una patria » (11, 14), pellegrino sulla terra; « Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio: ha preparato infatti per loro una città » (11, 15-16). E ancora: « Vi siete accostati alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste » (12, 22), ecco la menzione diretta. Alla città che fa parte delle cose incrollabili: « Rimangono le cose che sono incrollabili. Perciò riceviamo in eredità un regno incrollabile » (12, 27-28). Riassumendo il messaggio del salmo: l’uomo è in cammino, pellegrino verso una città salda, compatta, nella quale Dio è lodato, nella quale è la pienezza della pace, una città che non delude e per cui vale la pena abbandonare le altre città. Nella spiritualità del Nuovo Testamento è penetrato inoltre il pensiero delle moltitudini, di tutte le tribù della terra. Le moltitudini salgono ora verso tale città, e tutte sono chiamate « moltitudini del Signore ». Così, la lettura cristiana diventa lettura ecclesiale; la chiesa non è la meta, la grande città, ma è un popolo in marcia verso quella città. Se Israele testimonia « là » la tua gloria, Signore, se « là » ha sede il trono di giustizia, i nostri interessi sono veramente là? È il « là » di questa città verso cui camminiamo il nostro criterio di giudizio storico? Perché, se è così, allora tutte le altre realtà sono relative, tutti gli eventi (storici, sociali, politici, culturali, ecclesiali) vanno valutati tanto quanto rispondono a un cammino verso la città compatta, pacifica, giusta, oppure rallentano o fanno deviare il cammino. Quindi il cristiano, interrogato sulle sue speranze, dovrebbe rispondere spontaneamente: le mie speranze sono la Gerusalemme celeste, sono là le mie speranze. È il « là » della pienezza dell’azione di Dio nel suo popolo, nell’umanità. La lettura più personale del salmo dà spazio a tante riflessioni. Pensiamo ai pellegrinaggi che ciascuno di noi ha fatto a Gerusalemme e nei quali probabilmente ha cantato, evocato, recitato il Salmo 122 allorché ha visto le mura della città. Nella preghiera potremmo ringraziare il Signore per le esperienze che ci ha donato nei nostri pellegrinaggi, per quanto ci ha fatto capire su Gerusalemme. Ogni volta che ne rivediamo le mura, proviamo una fortissima emozione. E se non siamo mai stati a Gerusalemme, come immaginiamo il pellegrinaggio verso la città santa, come lo viviamo nella preghiera? « Andiamo con gioia! » è parola che esprime la tensione verso il pellegrinaggio, equivale a dire: sapevo che sarebbe venuto questo momento e penso a ciò che da sempre ho desiderato.

Conclusione    In quale modo la Gerusalemme di oggi partecipa, nel suo destino doloroso e tragico, alle benedizioni di Dio, alla promessa di pace?    Partecipa anzitutto attraverso la nostra instancabile preghiera per la sua pace, le nostre preghiere per la città reale e simbolica che conosciamo, di cui tocchiamo le mura: Sia pace sulle tue mura! Ci domandiamo se e come operiamo per la pace di Gerusalemme, la cui pace è simbolo, segno, radice e causa della pace di tante altre città. Il Salmo 122 ci impegna dunque a pregare e a operare per la pace nella giustizia.

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