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MEDITAZIONE DI CHIARA LUBICH PER IL VENERDÌ SANTO

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MEDITAZIONE DI CHIARA LUBICH PER IL VENERDÌ SANTO

Un dono della fondatrice dei Focolarini per i lettori di ZENIT

18 Marzo 2008

ROMA, martedì, 18 marzo 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la meditazione scritta da Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, per i lettori di ZENIT in occasione del Venerdì Santo del Grande Giubileo del 2000.

* * *
Venerdì santo: la morte di Gesù in croce è l’altissima, divina, eroica lezione di Gesù su cosa sia l’amore. Aveva dato tutto: una vita accanto a Maria nei disagi e nell’obbedienza.

Tre anni di predicazione rivelando la Verità, testimoniando il Padre, promettendo lo Spirito Santo e facendo ogni sorte di miracoli d’amore. Tre ore di croce, dalla quale dà il perdono ai carnefici, apre il Paradiso al ladrone, dona a noi la Madre e, finalmente, il suo Corpo e il suo Sangue, dopo averceli dati misticamente nell’Eucaristia.
Gli rimaneva la divinità.La sua unione col Padre, la dolcissima e ineffabile unione con Lui che l’aveva fatto tanto potente in terra, quale figlio di Dio, e tanto regale in croce, questo sentimento della presenza di Dio doveva scendere nel fondo della sua anima, non farsi più sentire, disunirlo in qualche modo da Colui che Egli aveva detto di essere uno con Lui: «Io e il Padre siamo uno» (Gv. 10,30). In Lui l’amore era annientato; la luce, spenta la sapienza, taceva. Si faceva dunque nulla per far noi partecipi al Tutto; verme (Salmo, 22,7) della terra, per far noi figli di Dio.Eravamo staccati dal Padre. Era necessario che il Figlio, nel quale noi tutti ci ritrovavamo, provasse il distacco dal Padre. Doveva sperimentare l’abbandono di Dio, perché noi non fossimo mai più abbandonati.
Egli aveva insegnato che nessuno ha maggior carità di colui che pone la vita per gli amici suoi. Egli, la Vita, poneva tutto di sé. Era il punto culmine, la più bella espressione dell’amore.Il suo volto è nascosto in tutti gli aspetti dolorosi della vita: non sono che Lui. Sì, perché Gesù che grida l’abbandono è la figura del muto: non sa più parlare. È la figura del cieco: non vede, del sordo: non sente.
È lo stanco che si lamenta. Rasenta la disperazione. È l’affamato… d’unione con Dio. È figura dell’illuso, del tradito, appare fallito. È pauroso, timido, disorientato. Gesù abbandonato è la tenebra, la malinconia, il contrasto, la figura di tutto ciò che è strano, indefinibile, che sa di mostruoso, perché un Dio che chiede aiuto!… È il solo, il derelitto… Appare inutile, scartato, scioccato… Lo si può scorgere perciò in ogni fratello sofferente.Avvicinando coloro che a Lui somigliano, possiamo parlare di Gesù abbandonato. A quanti si vedono simili a lui e accettano di condividere con Lui la sorte, ecco che egli risulta: per il muto la parola, a chi non sa, la risposta, al cieco la luce, al sordo la voce, allo stanco il riposo, al disperato la speranza, al separato l’unità, per l’inquieto, la pace. Con Lui l’uomo si trasforma e il non senso del dolore acquista senso.
Egli aveva gridato il perché al quale nessuno aveva risposto, perché noi avessimo la risposta ad ogni perché.Il problema della vita umana è il dolore. Qualsiasi forma abbia, per terribile che sia, sappiamo che Gesù l’ha preso su di sé e muta, per un’alchimia divina, il dolore in amore. Per esperienza posso dire che appena si gode di un qualsiasi dolore, per essere come Lui e poi si continua ad amare facendo la volontà di Dio, il dolore, se spirituale, sparisce; se fisico, diviene giogo leggero. Il nostro amore puro al contatto col dolore, lo tramuta in amore; in certo modo lo divinizza, quasi prosegue in noi – se lo possiamo dire – la divinizzazione che Gesù fece del dolore.
E, dopo ogni incontro con Gesù abbandonato, amato, trovo Dio in modo nuovo, più faccia a faccia, più aperto, in un’unità più piena. Tornano la luce e la gioia e, con la gioia, la pace che è frutto dello spirito.Quella luce, quella gioia, quella pace fiorite dal dolore amato colpiscono e sciolgono anche le persone più difficili. Inchiodati in croce si è madri e padri di anime. Effetto è la massima fecondità. Come scrive Olivier Clément: «L’abisso, aperto per un istante da quel grido, si riempie del grande soffio della resurrezione». Si annulla ogni disunità, traumi e spacchi sono colmati, risplende la fraternità universale, fioriscono miracoli di risurrezione, nasce una nuova primavera nella Chiesa e nell’umanità.

(18 Marzo 2008)

Publié dans:CHIARA LUBICH, liturgia, meditazioni |on 13 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

CORRERE NELLA VIA DELLA SALVEZZA – San Simeone il Nuovo Teologo

http://oodegr.co/italiano/tradizione_index/insegnamenti/correresalvezzasimeone.htm

CORRERE NELLA VIA DELLA SALVEZZA

San Simeone il Nuovo Teologo – Catechesi XXVIII

Fratelli e padri, fate attenzione come ascoltate. Il Cristo Dio dice infatti: “Scrutate le Scritture” (Giovanni 5, 39). E perché dice questo? Per prima cosa perché noi siamo istruiti sulla via che conduce alla salvezza; poi, perché camminando senza distrarci, con la pratica dei comandamenti, arriviamo fino alla salvezza delle nostre anime. E che cos’è dunque la nostra salvezza? Gesù, il Cristo, come l’Angelo, drizzandosi davanti ai pastori, disse loro: “Ecco che vi annuncio una Buona Notizia, una grande gioia: vi è nato oggi un Salvatore, che è il Cristo Signore, nella città di David” (Luca 2, 10-11). Affrettiamoci, dunque, tutti e ciascuno, miei cari, corriamo con forza, senza caricarci di nulla di pesante, di mondano, di ingombrante, che rischierebbe di farci rallentare il passo e di impedirci di arrivare e di entrare nella città di David. Vi prego, per la grazia che opera in voi, non trascurate la vostra salvezza, ma presto! Ponendo fine a questa specie di sonno della cattiva presunzione e della negligenza, non arrestiamoci, non sediamoci: fino a che, usciti dal mondo, troviamo e vediamo là in alto il nostro Salvatore e Dio, per prostrarci e cadere ai suoi piedi. Ed allora, non fermiamoci fino a quando anche lui ci dica: “Voi, voi non siete del mondo, ma sono io che vi ho scelto dal mondo” (Giovanni 15, 19).
Come dunque si arriva a non essere del mondo? Crocifiggendoti per il mondo, ed il mondo per te, come ha già detto Paolo: “Per me il mondo è stato crocifisso ed io per il mondo” (Galati 6, 14). “E qual è il rapporto, tu chiedi, di queste parole con le precedenti?”. Risposta: “Altre sono le parole, ma unico e identico è il senso delle une e delle altre”. Come infatti colui che è al di fuori della casa non vede quelli che sono chiusi all’interno, così chi è crocifisso per il mondo e mortificato non ha davanti alle cose del mondo alcuna sensazione. Ed ancora come il corpo morto né davanti ai corpi viventi né davanti ai corpi che giacciono con lui, non prova la minima sensazione, così chi nello Spirito divino è uscito dal mondo, essendo in compagnia di Dio, non può provare alcuna sensazione davanti al mondo ed alle cose del mondo.
È così, di conseguenza, fratelli, che si produce, prima della morte e prima della resurrezione dei corpi, la resurrezione delle anime, in opera, in potenza, in esperienza ed in verità. Infatti, essendo eliminati i sentimenti mortali dall’intelligenza immortale e la mortalità cacciata dalla vita, l’anima allora, come resuscitata dai morti, vede se stessa, senza dubbio possibile, come si vedono quelli che si svegliano dal sonno, e riconosce colui che l’ha resuscitata, Dio, e, comprendendo e rendendogli grazie, adora e glorifica la sua infinita bontà. Il corpo, al contrario, in rapporto ai suoi propri desideri, non ha il minimo soffio, movimento o ricordo, ma si trova in simile caso del tutto morto ed inanimato. Capiterà frequentemente in queste condizioni che l’uomo dimentichi per così dire persino le sue facoltà naturali, poiché la sua anima ha un’esistenza tutta intellettuale è al di sopra della natura. Ed è normale: “Camminate con lo Spirito, dice infatti la Scrittura, e non realizzate il desiderio della carne” (Galati 5, 16). Infatti morta, come ho detto, per la venuta dello Spirito, la carne ci lascerà ormai senza noie e vivrete senza inciampi, poiché “la legge non è fatta per il giusto” (1 Timoteo 1, 9), secondo il divino apostolo, cioè per colui che ha una condotta al di sopra della legge. “Là infatti – dice – dove è lo Spirito del Signore, là anche è la libertà” (2 Corinti 3, 17), libertà sicuramente dalla schiavitù della legge. Giacché la legge è una guida, un pedagogo, un conduttore ed un maestro di giustizia, poiché dice: “Tu farai questo e quello” ed al contrario: “Questo e quello tu non lo farai”. Ma per la grazia e per la verità, non è così. Ma come, allora? “Farai e dirai tutto secondo la grazia che ti è stata donata e che parla in te, come è scritto: ‘E saranno tutti istruiti da Dio’, poiché non apprenderanno il bene dalle lettere e dai caratteri, ma si istruiranno nel Santo Spirito, e non nella parola solamente, ma nella luce della parola e nella parola della luce, misticamente iniziati alle cose divine. Ed allora infatti che per voi stessi come per il prossimo, è detto, voi sarete maestri”, e più ancora: la luce del mondo, il sale della terra (Matteo 5, 14; 13).
Quelli dunque che vivevano prima della grazia, poiché erano sotto la legge, si trovano ugualmente sotto la sua ombra; ma quelli che sono arrivati dopo la grazia e la luce, sono stati liberati dall’ombra o schiavitù della legge, cioè sono innalzati al di sopra di essa, come per una scala – la vita evangelica – trasportati nelle altezze e partecipando alla vita del legislatore, sono legislatori essi stessi piuttosto che osservanti della legge.

Trad. di C. R. L.

Gesù con i dodici apostoli

 Gesù con i dodici apostoli dans STUDI

https://en.wikipedia.org/wiki/Coming_Persecutions

 

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QUALE PROFEZIA OGGI

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=30

QUALE PROFEZIA OGGI

sintesi della relazione di Armido Rizzi

Verbania Pallanza, 14-15 dicembre 1985

una profezia problematica

È necessario sottolineare il carattere problematico della profezia, l’impossibilità, sia di principio sia legata alla situazione attuale, di trovare parole perentorie dentro ogni situazione. Dobbiamo guardarci da profezie che non portino dentro di sé la problematicità.
Nella profezia dell’Antico Testamento sono presenti questi elementi: 1) il profeta è colui che ha una esperienza particolarmente intensa di Dio; 2) è spinto a parlare in nome di Dio da questa esperienza (profeta=parlare in nome di); 3) non per comunicare dottrine o nozioni su Dio o sull’uomo, ma ciò che l’uomo deve fare nel presente, come deve comportarsi in una certa situazione. Profeta è colui che è investito della capacità di leggere i segni dei tempi; 4) il profeta infine è anche colui che prevede e predice, annuncia un futuro che è minaccia (quando il presente è illusoria sicurezza) o promessa (quando la tentazione è la disperazione).
Nel Nuovo Testamento vi è la democratizzazione della profezia.
Il profeta è normalmente inteso come colui che annuncia parole perentorie, categoriche, incontrovertibili. Invece abbiamo bisogno di profeti alla cui profezia sia essenziale il carattere della problematicità. La parola di Dio pronunciata da labbra umane è sempre stata problematica, sia quando lo sapeva, sia quando non se ne accorgeva.
Bonhoeffer ha introdotto un tema molto fecondo, quello della debolezza, della impotenza di Dio nel mondo. La tradizione teologica ha sviluppato quasi esclusivamente il tema della potenza di Dio nel mondo, per cui tutto ciò che avviene è voluto da Dio e determinato da lui (catastrofi come castigo di Dio…). Dio è pensato in termini di potenza oltre i limiti dell’uomo: dove l’uomo non arriva con le proprie forze a dominare il mondo (sconfitta, malattia, morte), lì arriva Dio (è il Dio dei preti che accorrono al capezzale del morente). È un Dio che si manifesta come al di là della potenza dell’uomo. Ma questo, dice Bonhoeffer non è il Dio della bibbia. Dio in Gesù non si è manifestato come il Dio della potenza, ma come il Dio che si rivela proprio nell’impotenza della croce, nella sconfitta. Quello che noi contempliamo di Dio in Gesù è lo stile di Dio nel mondo. Dio agisce nel mondo ma occultandosi, è presente nella storia dell’uomo in quanto rende capace l’uomo di fare storia. Che Dio si nasconda, che confonda la sua voce dentro le voci della città umana è la condizione di possibilità perché la storia sia davvero storia di un uomo adulto, maggiorenne. Concepire Dio in termini di supplemento di potenza (opera lì dove non arriva la potenza umana) vuol dire concepirlo in termini di competizione con l’uomo, e concepirlo sulla stessa lunghezza d’onda con differenza solo quantitativa. Il Dio della bibbia invece muore per lasciar spazio alla potenza dell’uomo. Muore come Dio potente per rinascere dentro la potenza dell’uomo al fine di renderla potenza giusta, responsabile.
C’è un altro modo di concepire la debolezza di Dio, quando Dio non interviene lì dove la necessità del suo intervento non sarebbe più postulata dal nostro bisogno di un supplemento di potenza, ma da un minimo di esigenza di giustizia, cioè quando Dio non interviene lì dove l’uomo agendo irresponsabilmente determina la morte dell’uomo. L’impotenza di Dio è qui scandalosa. Il richiamo è d’obbligo al genocidio perpetrato contro il popolo ebraico, quel popolo che ha sempre avuto consapevolezza di essere accompagnato e sorretto dalla presenza di Dio. Come è possibile dire che Dio è presente nella storia e nella storia del popolo eletto se è rimasto silente quando per metà è stato distrutto? Qui Dio scompare non perché l’uomo viva e cresca, ma scompare nella sconfitta dell’uomo.
Secondo alcuni teologi cattolici l’unica risposta convincente ad Auschwitz sono gli ebrei che hanno continuato a credere. Se loro hanno continuato a credere possiamo credere anche noi. Che cosa vuol dire annunciare l’amore e la bontà di Dio dopo Auschwitz, in un mondo dove miliardi di uomini non hanno a sufficienza per sopravvivere? La profezia può ancora parlare soltanto se prima ha saputo tacere, se prima ha saputo ascoltare e gridare dentro di sé le voci dell’umanità straziata. Occorre avere il coraggio di dire che qui la profezia non può che essere disarmata, anzi problematica, o addirittura messa in discussione: come parlare in nome di Dio che o non ha la potenza di intervenire o non avverte il bisogno di intervenire?
la profezia fatta libro
Noi oggi abbiamo un modo in cui la parola di Dio è presente abitualmente nella nostra storia: la profezia consolidata, sedimentata, fatta libro. Le parole dei profeti, dei narratori, dei sapienti, degli scrittori di lettere noi le accogliamo come parola di Dio che annuncia e interpella. Ma questa parola di Dio non si dà allo stato puro, immediatamente, ma è presente in un insieme di parole umane che vanno pertanto interpretate.
La Bibbia non è un insieme di parole che sarebbero umane solo nella loro esteriorità, ma che in realtà avrebbero come significato solo la Parola di Dio (quasi che Dio detta e l’uomo scrive). Dire che la Bibbia è parola divina mediata da parole umane, vuol dire che la bibbia è un insieme di libri che sono esattamente come tutti gli altri libri, a cui non manca nulla di tutto ciò che è proprio delle parole umane. Le parole cioè comunicano prospettive, mentalità, cultura, modo di organizzare e percepire i valori propri dell’epoca in cui sono state scritte. Paolo ad es. non ha colto la contraddizione tra la novità dell’uomo battezzato in Cristo e le strutture schiaviste e ha ritenuto conciliabili rapporti sociali padrone-schiavo nella società e nella chiesa, cosa che noi oggi avvertiamo come lesivi della dignità dell’uomo. La forza dirompente della parola di Dio è stata compressa dai limiti di Paolo, che pur affermando che in Gesù ognuno è servo dell’altro (eliminando alla radice la volontà di dominio) non riesce a coglierne le conseguenze sul piano sociale. Questo vale anche per il rapporto uomo-donna. Proprio perché la parola di Dio ci è consegnata in questi vasi fragili è necessario un lavoro di scavo, di purificazione e di continua problematizzazione.
Tutto questo vale anche per la parola della chiesa, per la parola magisteriale: nessun carattere perentorio, se non dentro ad un orizzonte problematico.
Quanti errori e quante vittime nell’appellarsi in modo disinvolto e perentorio alla parola di Dio.
Non esistono formule capaci di portare in piena trasparenza la parola di Dio. L’ascolto della profezia richiede lo sforzo a volte faticoso dell’interpretazione, non per edulcorarla ma per non travisarla.
Il bisogno di parole perentorie (spesso nascosto dall’aggettivo profetiche) non è un bisogno di verità, ma di sicurezza, di pacificazione psicologica. Occorre invece attrezzarsi per l’ascolto inquieto, per l’incessante ricerca di quel filo di luce che è la parola di Dio dentro l’involucro delle nostre parole umane.
Oltre alla problematicità interna alla stessa parola di Dio in quanto vive in parole umane, c’è anche una problematicità legata al nostro oggi, una problematicità dell’interlocutore. Nella società di oggi c’è fluidità di ruoli… Anche chi nella Chiesa crede di avere parole perentorie poi di fatto non le trova.
la profezia cristiana ha il suo logo nella pratica

La profezia più specificamente cristiana non ha il suo luogo nel linguaggio, ma nella pratica, nell’amore.
l’asse portante di tutta la rivelazione cristiana
Al centro di tutta la rivelazione biblica, la profezia biblica, sta l’affermazione che « Dio è amore » (1Giovanni). È la chiave interpretativa di tutta la storia della salvezza.
« Dio è amore » non vuol dire però, come affermato a lungo dalla tradizione, che Dio si dona all’uomo come sua beatitudine, perché l’uomo, così attratto, raggiunga il fine ultimo della contemplazione divina.
Secondo la bibbia « Dio è amore » vuol dire che Dio vuole il bene dell’uomo. Il destinatario di questo amore è l’uomo in quanto povero e in quanto peccatore.
Dio ama l’uomo nella sua povertà e dona all’uomo ciò di cui di volta in volta ha bisogno. Dio ama l’uomo in quanto peccatore, perduto, per restituirgli nel proprio spirito la capacità di compiere il bene.
Nella bibbia è importante tutto ciò che può far vivere l’uomo.
Dio non cerca la propria gloria, o meglio la propria gloria è che il povero viva (Mons. Romero). Il Dio della bibbia cerca l’altro da sé, l’uomo, non in quanto ha qualcosa da poter dare a Dio. Dio è diverso da noi, è infinito proprio perché esce da sé senza più bisogno di tornare in sé. È un amore totalmente gratuito.
la vita delle prime comunità cristiane
1. Gesù raccoglie attorno a sé una cerchia di discepoli per creare un segno vivo di ciò che sta annunciando: l’avvento della regalità di Dio. Avranno il centuplo per aver lasciato tutto, la famiglia… (Marco 10,29). Nel regno di Dio, in cui si instaura la sua signoria, si costituisce una umanità dove l’unico legame è la reciprocità, la fraternità.
2. Nelle comunità fondate dagli apostoli c’è un’esplosione di esperienze carismatiche straordinarie. Paolo (1Cor,13) mette in guardia, sostenendo che l’unico carisma che concentra in sé la sostanza della presenza dello Spirito è l’agape, che non ha nulla di straordinario: è l’amore come positività dei rapporti più semplici nella vita quotidiana, è la capacità di ascoltare, di dimenticare il male ricevuto, e di essere grati del bene. È il carisma che non tramonta, che permane oltre la morte. Paolo trasferisce la creatività dello Spirito sul piano della eticità non eroica.
3. I Padri vedono realizzata la profezia di Isaia 2 sull’affluire di tutti i popoli a Gerusalemme per ascoltare la parola di Dio e vivere in pace e armonia non alla fine dei tempi, ma nella comunità cristiana. La comunità cristiana è una comunità di non violenza totale, di pace sia come rinuncia alla violenza, che, in positivo, come prassi di fraternità, di scambio, di condivisione, di aiuto reciproco. Addirittura diventa la dimostrazione della messianicità di Gesù.
evangelizzare è promuovere

Compito specifico della chiesa è evangelizzare o anche promuovere? è il dibattito ecclesiologico di oggi. Sostengo la non esistenza del problema in quanto il vero annuncio, l’annunciare chi è Dio, è vivere l’agape. La vera evangelizzazione è la promozione dell’uomo, non solo casuale a livello di effetti, ma voluta a livello di intenzioni. Data la problematicità della profezia verbale, la vera profezia incontrovertibile è nel vivere e testimoniare l’agape, il prendersi cura dell’altro, in cui la fonte del dare il pane è l’amore per l’affamato, la fonte del dare amicizia, perdono è l’amore… Quando mi faccio braccio, mano, corpo dell’amore di Dio divento la sua prima parola attraverso cui lui si rivela. La profezia fondamentale, poiché l’amore parla di Dio, è amarsi a vicenda. È una profezia incontrovertibile, chiara, ma non irrecusabile: è possibile rifiutarla. Dio resta colui che si propone, colui che non decide al posto mio. Davanti all’amore posso accettare o fuggire. La prassi evangelica è la prassi in cui la chiesa è segno davanti al mondo dell’amore di Dio e quindi mette il mondo davanti alla scelta.
Ci sono tre aree in cui testimoniare il primato dell’amore come profezia della realtà di Dio nel mondo, sono tre culture che dovrebbero diventare il programma di una comunità cristiana:
cultura della solidarietà
Occorre anzitutto premettere il carattere dialogico della profezia. Non è che uno sia solo portatore della parola e un altro solo uditore, ma c’è reciprocità e circolazione: tutti sono ad un tempo uditori e portatori. Lo spirito della profezia è dato ad ogni uomo: ognuno ha la radicale capacità di cogliere il bene e di produrre l’operosità dell’amore.
Una cultura della solidarietà è anzitutto uno spezzare la visione che ha percorso la storia dell’occidente, contaminando anche il cristianesimo, che fa perno sull’individuo (l’individuo alla ricerca della felicità, alla ricerca della propria salvezza). Deve riproporre il centro del messaggio cristiano, che Dio è agape, che ha cercato e si è preso cura dell’uomo come altro, in modo assolutamente gratuito e disinteressato, la cui gloria è che l’uomo viva e che questa possibilità di amare, di volere il bene dell’altro senza seconde intenzioni, in Gesù e nel suo Spirito, è diventata un possibilità anche per noi. Amare l’altro con nessun altra ragione se non che lui viva è il divino nella storia. Una cultura della solidarietà nasce da questo cambiamento di mentalità che può avvenire a vari livelli. Non l’essere, ma l’altro è il grande rimosso dell’occidente.
cultura della pace
La cultura della pace è storicamente il presupposto della cultura della solidarietà. L’altro può essere avvertito anche come un pericolo per me, o perché mette a repentaglio un mio interesse o perché ritengo che metta a repentaglio l’equilibrio generale. Combatterlo non è più solo difendere i miei interessi, ma assumere una grande missione, farsi incarnazione della lotta del bene contro il male. Noi abbiamo questa capacità diabolica di rivestire di valori ideali l’inimicizia funzionale (difesa di interessi). È la favola del lupo e dell’agnello. È la violenza specificamente umana quella di razionalizzare le proprie cariche aggressive, dando ad esse un ordine di valori.
Una cultura della pace fa piazza pulita di queste giustificazioni. In una cultura della pace l’uomo non ha bisogno di ideali per trovare un’identità perché trova la sua identificazione nel rapporto con l’altro. Non cerca l’assoluto in ideali, neanche religiosi, ma solo nell’altro e nel suo bisogno. Una cultura della pace fa cadere tutte le maiuscole.
Esemplare la parabola del buon samaritano: prossimo è colui al quale tu ti fai prossimo, ti fai vicino all’altro (cultura della solidarietà), ed è il samaritano, il nemico, il non correligionario (cultura della pace) a farsi prossimo.
cultura della qualità
La storia ha obbligato le collettività umane a sviluppare una cultura della quantità. Nella dura lotta per la sopravvivenza la quantità era l’imperativo primario. Per la prima volta della storia in occidente una maggioranza ha superato la soglia della sopravvivenza e si apre al problema della qualità, dei beni gratuiti in rapporto con la natura, con la cultura, con gli altri (il bene dello stare con gli altri, il godere della convivialità).
Come mettere in comunicazione cultura della solidarietà, della pace, della qualità? Come democratizzare i beni di qualità? Come renderli elementi di incontro? È un impegno per tutti.

Publié dans:PROFETI E PROFEZIA, STUDI |on 10 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

OMELIA XV DOMENICA DEL T.O. : L’INIZIATIVA È DI DIO

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L’INIZIATIVA È DI DIO

DON ALBERTO BRIGNOLI

XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) (15/07/2012)

Credo che nessun credente, a qualunque religione appartenga, nel momento in cui mette a disposizione la propria vita per l’annuncio di un messaggio di testimonianza lo faccia per ambizione, per la ricerca del successo, di gloria o di fama personale. Sono anzi abbastanza certo, anche sulla scorta dell’esperienza personale, che se sapesse in anticipo che cosa lo attende, quando mette a disposizione la propria vita per un annuncio di speranza, di certo ci penserebbe non una volta sola, prima di dire « sì ». Essere testimoni di qualcosa di importante non è facile, occorre innanzitutto esserne convinti.
Ma essere annunciatori del messaggio di speranza che viene dalla Parola di Dio è veramente un compito arduo, perché non comporta onori, benemerenze, reverenze e riconoscimenti come forse si è tentati di pensare. Il più delle volte comporta contrasti, difficoltà, fatiche, forti incomprensioni: soprattutto quando il messaggio che si porta è di denuncia contro atteggiamenti di ingiustizia e di sopruso nei confronti dei più deboli, quando si entra in contrasto con un modo di intendere la vita che non corrisponde ai disegni di Dio.
Un testimone scomodo: questo è stato, nell’Antico Israele, il profeta Amos. Egli, originario del Regno di Giuda, del Sud, viene mandato da Dio a predicare la sua parola e a denunciare gli atteggiamenti di corruzione nel Regno del Nord, il Regno di Israele. Figuriamoci se viene accolto bene: viene insultato dalla classe dirigente, soprattutto dai sacerdoti del santuario di Betel, che lo vedono come un opportunista, uno che va in cerca di fortune, di potenti protettori a cui può dare una mano nella loro lotta politica contro il potere costituito. E non usano mezzi termini, come abbiamo ascoltato nella prima lettura: « Vattene, veggente, nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare ». Qui no: qui non abbiamo bisogno di mercenari della Parola di Dio, abbiamo il nostro santuario, abbiamo il nostro re, il resto ci avanza tutto.
Ma Amos è ben cosciente di non essersi cercato nulla, di non aver creato nulla e soprattutto di non essere andato a mendicare pane da nessuno. Quello che sta facendo non è sua iniziativa. Lui stava bene dov’era: non era assolutamente nato come profeta, non ha avuto una formazione profetica, niente a che vedere nemmeno con le scuole di pensiero dell’epoca. E non può nemmeno vantare una nobile stirpe: era un pastore, un coltivatore di piante del deserto, fondamentalmente un nomade. Ha però risposto ad una chiamata, ha dato retta alla voce di Dio, e ha iniziato a parlare in suo nome. Fosse stato per lui, ne avrebbe fatto volentieri a meno: chi si mette a fare il testimone, il profeta, l’annunciatore di misteri della salvezza e di valori grandi, sapendo bene che tutte queste cose non procurano se non fastidi senza fine?
Eppure, non riesci a dire di no…quando Dio chiama, difficile resistere. E questo vale per tutti: per un pastore di Tekoa come Amos, per un pescatore della Galilea come Pietro, per un esattore delle tasse come Matteo, per un rivoluzionario come Simone lo Zelota, per una donna dai mille amori come Maria Maddalena, per un rabbino integralista come Paolo di Tarso. Tutti quanti chiamati, presi così com’erano, e mandati ad annunciare, ognuno nel proprio ambiente, il messaggio di salvezza. Quale fosse il contenuto di questo messaggio, beh…abbiamo tutta la Bibbia per capirlo e comprenderlo e per cercare di trarne fuori un catechismo, un vademecum, un prontuario all’uso del predicatore.
Rimane, però, un problema, che non dev’essere di scarsa importanza, visto che Gesù vi dedica quasi la metà del discorso riportato dal Vangelo di oggi: ovvero, che questo annuncio non trova grandi adesioni e di solito non riscuote un enorme entusiasmo.
Oggi come allora, al tempo di Gesù come al tempo di Amos o di tutta la storia della salvezza, il messaggio del’uomo di Dio, del testimone della giustizia, del profeta di speranza, non viene accolto con entusiasmo da tutti. Entrare nelle case degli uomini, rimanere a loro fianco, calpestare la polvere delle loro strade, condividere le loro vicende umane è un imperativo categorico, un compito ineludibile di ogni cristiano. Guarire i malati, scacciare i demoni, invitare la gente alla conversione; questo è quello che il Maestro ci chiede di fare, e non ce lo chiede per la nostra bella faccia o per i nostri tanti o pochi meriti. Ce lo chiede perché ce lo chiede, perché è sua volontà. Punto.
Ma ce lo chiede anche con quel sano realismo di chi sa che la Parola di Dio è efficace nella misura in cui incontra un terreno disposto ad accoglierla e a farla crescere. Insistere a voler rimanere in un posto, in una casa, in un villaggio, affinché tutti si convertano e credano al Vangelo non ha senso e non è ciò che il Maestro ci chiede.
Occorre avere un sano distacco dalle cose e dalle situazioni, tale per cui, se la Parola non viene accolta, non ha alcun senso insistere: attaccarsi alle persone per sperare di ottenere un successo personale è come volersi attaccare alla polvere che è sotto i nostri piedi.
La polvere è il nulla, è inconsistente, e da essa ci dobbiamo staccare: preoccupiamoci solo che la gente, un giorno, anche grazie alla nostra testimonianza, attacchi il proprio cuore al cuore di Dio.

El Greco, Saint Benedict of Nursia

El Greco, Saint Benedict of Nursia dans immagini sacre el+greco+st+benedict

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Publié dans:immagini sacre |on 9 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

LE DONNE DI SAN BENEDETTO

http://ora-et-labora.net/donne.html

LE DONNE DI SAN BENEDETTO

Fratel MichaelDavide (Semeraro) O.S.B.

dal « Preludio »:

« …e si guarda con attenzione ci si rende conto che, analogamente agli altri tre libri, anche la vita di Benedetto è accompagnata da varie figure femminili e nella medesima proporzione, una decina in tutto. »

l’autore ne presenta quattro, riporto il testo della terza (belli tutti):

TERZA TAPPA:

E L’ACQUA

SORELLA SPOSA: LA FORZA NELLA DEBOLEZZA
TERZA TAPPA: E L’ACQUA

SORELLA SPOSA: LA FORZA NELLA DEBOLEZZA

Prologo
Dopo la nutrice e la tentatrice ecco dunque la sorella Scolastica, la soror mystica. Dopo una remota preparazione finalmente la figura di questa donna di Dio si staglia davanti a Benedetto in tutta la sua statura. Di lei non ci interessa tanto la realtà storica, in senso biografico, quanto piuttosto il ruolo simbolico nel cammino mistico del suo santo fratello.
Nel corso del presente capitolo si cercherà di approfondire il ruolo di guida e di maestra che la monaca viene ad assumere nei confronti di suo fratello. Ella rappresenta l’occasione di giungere a un più alto grado di perfezione in quanto esige l’accoglienza della debolezza, della carne, della relazione umana come anticipo e preparazione alla vita eterna.
I simboli che già sono apparsi precedentemente raggiungeranno ora la pienezza del loro significato. La paura dell’altro e la paura della morte saranno superate in una sintesi pasquale di coincidentia oppositorum di gioioso passaggio verso la vita. Perché questo avvenga bisogna passare radicalmente alla logica dell’amore la cui potenza è, appunto, onnipotente.
Il desiderio di Dio viene condiviso e la gioia del cielo viene con-desiderata in modo cosi forte da attendere l’uno accanto all’altra il giorno della risurrezione della carne. La preghiera non fa che rendere presente nel tempo del pellegrinaggio ciò che sarà alla fine trasformato in pienezza di luce e in comunione perfetta di un’unità ritrovata.
Di quest’unificazione in divenire sono segno i vari elementi naturali che si incontrano e si intersecano tra loro per offrire una sintesi piena di forza. L’invito e il monito di Scolastica è di sperimentare tutte le forme e le fasi deII’amore fino a quella sponsalità che sarà piena nelle nozze del Regno di Dio. Fatto ciò, questa donna scomparirà con la stessa discrezione con cui è apparsa.

Egli aveva una sorella di nome Scolastica, che fin dall’infanzia si era anche lei consacrata al Signore. Essa aveva l’abitudine di venirgli a fare visita, una volta all’anno, e l’uomo di Dio le scendeva incontro, non molto fuori della porta, in un possedimento del Monastero.
Un giorno, dunque, venne e il suo venerando fratello le scese incontro con alcuni discepoli. Trascorsero la giornata intera nelle lodi di Dio ed in santi colloqui, e quando cominciava a calare la sera, presero insieme un po’ di cibo. Si trattennero ancora a tavola e col prolungarsi dei santi colloqui, l’ora si era protratta più del consueto.
Ad un certo punto la pia sorella gli rivolse questa preghiera: « Ti chiedo proprio per favore: non lasciarmi per questa notte, ma fermiamoci fino al mattino, a pregustare, con le nostre conversazioni, le gioie del cielo… « . Ma egli le rispose: « Ma cosa dici mai, sorella? Non posso assolutamente pernottare fuori del monastero ».
La serenità del cielo era totale: non si vedeva all’orizzonte neanche una nube.
Alla risposta negativa del fratello, la religiosa poggiò sul tavolo le mano a dita conserte, vi poggiò sopra il capo, e si immerse in profonda orazione. Quando sollevò il capo dalla tavola si scatenò una tempesta di lampi e tuoni insieme con un diluvio d’acqua, in tale quantità che né il venerabile Benedetto, né i monaci ch’eran con lui, poterono metter piedi fuori dell’abitazione.
La santa donna, reclinando il capo tra le mani, aveva sparso sul tavolo un fiume di lagrime, per le quali l’azzurro del cielo si era trasformato in pioggia. Neppure ad intervallo di un istante il temporale seguì alla preghiera: ma fu tanta la simultaneità tra la preghiera e la pioggia, che ella sollevò il capo dalla mensa insieme ai primi tuoni: fu un solo e identico momento sollevare il capo e precipitare la pioggia.
L’uomo di Dio capì subito che in mezzo a quei lampi, tuoni, e spaventoso nubifragio era impossibile far ritorno al monastero e allora, un po’ rattristato, cominciò a lamentarsi con la sorella: « Che Dio onnipotente ti perdoni, sorella benedetta; ma che hai fatto? ». Rispose lei: « Vedi, ho pregato te e non mi hai voluto dare retta; ho pregato il mio Signore e lui mi ha ascoltato. Adesso esci pure, se gliela fai: e me lasciami qui e torna al tuo monastero ».
Ormai era impossibile proprio uscire all’aperto e lui che di sua iniziativa non l’avrebbe voluto, fu costretto a rimaner lì contro la sua volontà. E così trascorsero tutti la notte vegliando e si riempirono l’anima di sacri discorsi, scambiandosi a vicenda esperienze di vita spirituale.
Il giorno seguente tutti e due, fratello e sorella, fecero ritorno al proprio monastero.
Tre giorni dopo Benedetto era in camera a pregare. Alzando gli occhi al cielo, vide l’anima di sua sorella che, uscita dal corpo, si dirigeva in figura di colomba, verso le misteriose profondità dei cieli.
Ripieno di gioia, per averla vista così gloriosa, rese grazie a Dio onnipotente con inni e canti di lode, poi andò a partecipare ai fratelli la sua dipartita. Ne mandò poi subito alcuni, perché trasportassero il suo corpo nel monastero e lo seppellissero nel sepolcro che egli aveva già preparato per sé.
Avvenne così che neppure la tomba poté separare quelle due anime, la cui mente era stata un’anima sola in Dio. (D II, 33-34).

 

Publié dans:S Benedetto, STUDI |on 9 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – SAN BENEDETTO DA NORCIA – 11 LUGLIO

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080409.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 9 aprile 2008

SAN BENEDETTO DA NORCIA – 11 LUGLIO

Cari fratelli e sorelle,

vorrei oggi parlare di san Benedetto, Fondatore del monachesimo occidentale, e anche Patrono del mio pontificato. Comincio con una parola di san Gregorio Magno, che scrive di san Benedetto: “L’uomo di Dio che brillò su questa terra con tanti miracoli non rifulse meno per l’eloquenza con cui seppe esporre la sua dottrina” (Dial. II, 36). Queste parole il grande Papa scrisse nell’anno 592; il santo monaco era morto appena 50 anni prima ed era ancora vivo nella memoria della gente e soprattutto nel fiorente Ordine religioso da lui fondato. San Benedetto da Norcia con la sua vita e la sua opera ha esercitato un influsso fondamentale sullo sviluppo della civiltà e della cultura europea. La fonte più importante sulla vita di lui è il secondo libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno. Non è una biografia nel senso classico. Secondo le idee del suo tempo, egli vuole illustrare mediante l’esempio di un uomo concreto – appunto di san Benedetto – l’ascesa alle vette della contemplazione, che può essere realizzata da chi si abbandona a Dio. Quindi ci dà un modello della vita umana come ascesa verso il vertice della perfezione. San Gregorio Magno racconta anche, in questo libro dei Dialoghi, di molti miracoli compiuti dal Santo, ed anche qui non vuole semplicemente raccontare qualche cosa di strano, ma dimostrare come Dio, ammonendo, aiutando e anche punendo, intervenga nelle concrete situazioni della vita dell’uomo. Vuole mostrare che Dio non è un’ipotesi lontana posta all’origine del mondo, ma è presente nella vita dell’uomo, di ogni uomo.
Questa prospettiva del “biografo” si spiega anche alla luce del contesto generale del suo tempo: a cavallo tra il V e il VI secolo il mondo era sconvolto da una tremenda crisi di valori e di istituzioni, causata dal crollo dell’Impero Romano, dall’invasione dei nuovi popoli e dalla decadenza dei costumi. Con la presentazione di san Benedetto come “astro luminoso”, Gregorio voleva indicare in questa situazione tremenda, proprio qui in questa città di Roma, la via d’uscita dalla “notte oscura della storia” (cfr Giovanni Paolo II, Insegnamenti, II/1, 1979, p. 1158). Di fatto, l’opera del Santo e, in modo particolare, la sua Regola si rivelarono apportatrici di un autentico fermento spirituale, che mutò nel corso dei secoli, ben al di là dei confini della sua Patria e del suo tempo, il volto dell’Europa, suscitando dopo la caduta dell’unità politica creata dall’impero romano una nuova unità spirituale e culturale, quella della fede cristiana condivisa dai popoli del continente. E’ nata proprio così la realtà che noi chiamiamo “Europa”.
La nascita di san Benedetto viene datata intorno all’anno 480. Proveniva, così dice san Gregorio, “ex provincia Nursiae” – dalla regione della Nursia. I suoi genitori benestanti lo mandarono per la sua formazione negli studi a Roma. Egli però non si fermò a lungo nella Città eterna. Come spiegazione pienamente credibile, Gregorio accenna al fatto che il giovane Benedetto era disgustato dallo stile di vita di molti suoi compagni di studi, che vivevano in modo dissoluto, e non voleva cadere negli stessi loro sbagli. Voleva piacere a Dio solo; “soli Deo placere desiderans” (II Dial., Prol 1). Così, ancora prima della conclusione dei suoi studi, Benedetto lasciò Roma e si ritirò nella solitudine dei monti ad est di Roma. Dopo un primo soggiorno nel villaggio di Effide (oggi: Affile), dove per un certo periodo si associò ad una “comunità religiosa” di monaci, si fece eremita nella non lontana Subiaco. Lì visse per tre anni completamente solo in una grotta che, a partire dall’Alto Medioevo, costituisce il “cuore” di un monastero benedettino chiamato “Sacro Speco”. Il periodo in Subiaco, un periodo di solitudine con Dio, fu per Benedetto un tempo di maturazione. Qui doveva sopportare e superare le tre tentazioni fondamentali di ogni essere umano: la tentazione dell’autoaffermazione e del desiderio di porre se stesso al centro, la tentazione della sensualità e, infine, la tentazione dell’ira e della vendetta. Era infatti convinzione di Benedetto che, solo dopo aver vinto queste tentazioni, egli avrebbe potuto dire agli altri una parola utile per le loro situazioni di bisogno. E così, riappacificata la sua anima, era in grado di controllare pienamente le pulsioni dell’io, per essere così un creatore di pace intorno a sé. Solo allora decise di fondare i primi suoi monasteri nella valle dell’Anio, vicino a Subiaco.
Nell’anno 529 Benedetto lasciò Subiaco per stabilirsi a Montecassino. Alcuni hanno spiegato questo trasferimento come una fuga davanti agli intrighi di un invidioso ecclesiastico locale. Ma questo tentativo di spiegazione si è rivelato poco convincente, giacché la morte improvvisa di lui non indusse Benedetto a ritornare (II Dial. 8). In realtà, questa decisione gli si impose perché era entrato in una nuova fase della sua maturazione interiore e della sua esperienza monastica. Secondo Gregorio Magno, l’esodo dalla remota valle dell’Anio verso il Monte Cassio – un’altura che, dominando la vasta pianura circostante, è visibile da lontano – riveste un carattere simbolico: la vita monastica nel nascondimento ha una sua ragion d’essere, ma un monastero ha anche una sua finalità pubblica nella vita della Chiesa e della società, deve dare visibilità alla fede come forza di vita. Di fatto, quando, il 21 marzo 547, Benedetto concluse la sua vita terrena, lasciò con la sua Regola e con la famiglia benedettina da lui fondata un patrimonio che ha portato nei secoli trascorsi e porta tuttora frutto in tutto il mondo.
Nell’intero secondo libro dei Dialoghi Gregorio ci illustra come la vita di san Benedetto fosse immersa in un’atmosfera di preghiera, fondamento portante della sua esistenza. Senza preghiera non c’è esperienza di Dio. Ma la spiritualità di Benedetto non era un’interiorità fuori dalla realtà. Nell’inquietudine e nella confusione del suo tempo, egli viveva sotto lo sguardo di Dio e proprio così non perse mai di vista i doveri della vita quotidiana e l’uomo con i suoi bisogni concreti. Vedendo Dio capì la realtà dell’uomo e la sua missione. Nella sua Regola egli qualifica la vita monastica “una scuola del servizio del Signore” (Prol. 45) e chiede ai suoi monaci che “all’Opera di Dio [cioè all’Ufficio Divino o alla Liturgia delle Ore] non si anteponga nulla” (43,3). Sottolinea, però, che la preghiera è in primo luogo un atto di ascolto (Prol. 9-11), che deve poi tradursi nell’azione concreta. “Il Signore attende che noi rispondiamo ogni giorno coi fatti ai suoi santi insegnamenti”, egli afferma (Prol. 35). Così la vita del monaco diventa una simbiosi feconda tra azione e contemplazione “affinché in tutto venga glorificato Dio” (57,9). In contrasto con una autorealizzazione facile ed egocentrica, oggi spesso esaltata, l’impegno primo ed irrinunciabile del discepolo di san Benedetto è la sincera ricerca di Dio (58,7) sulla via tracciata dal Cristo umile ed obbediente (5,13), all’amore del quale egli non deve anteporre alcunché (4,21; 72,11) e proprio così, nel servizio dell’altro, diventa uomo del servizio e della pace. Nell’esercizio dell’obbedienza posta in atto con una fede animata dall’amore (5,2), il monaco conquista l’umiltà (5,1), alla quale la Regola dedica un intero capitolo (7). In questo modo l’uomo diventa sempre più conforme a Cristo e raggiunge la vera autorealizzazione come creatura ad immagine e somiglianza di Dio.
All’obbedienza del discepolo deve corrispondere la saggezza dell’Abate, che nel monastero tiene “le veci di Cristo” (2,2; 63,13). La sua figura, delineata soprattutto nel secondo capitolo della Regola, con un profilo di spirituale bellezza e di esigente impegno, può essere considerata come un autoritratto di Benedetto, poiché – come scrive Gregorio Magno – “il Santo non poté in alcun modo insegnare diversamente da come visse” (Dial. II, 36). L’Abate deve essere insieme un tenero padre e anche un severo maestro (2,24), un vero educatore. Inflessibile contro i vizi, è però chiamato soprattutto ad imitare la tenerezza del Buon Pastore (27,8), ad “aiutare piuttosto che a dominare” (64,8), ad “accentuare più con i fatti che con le parole tutto ciò che è buono e santo” e ad “illustrare i divini comandamenti col suo esempio” (2,12). Per essere in grado di decidere responsabilmente, anche l’Abate deve essere uno che ascolta “il consiglio dei fratelli” (3,2), perché “spesso Dio rivela al più giovane la soluzione migliore” (3,3). Questa disposizione rende sorprendentemente moderna una Regola scritta quasi quindici secoli fa! Un uomo di responsabilità pubblica, e anche in piccoli ambiti, deve sempre essere anche un uomo che sa ascoltare e sa imparare da quanto ascolta.
Benedetto qualifica la Regola come “minima, tracciata solo per l’inizio” (73,8); in realtà però essa offre indicazioni utili non solo ai monaci, ma anche a tutti coloro che cercano una guida nel loro cammino verso Dio. Per la sua misura, la sua umanità e il suo sobrio discernimento tra l’essenziale e il secondario nella vita spirituale, essa ha potuto mantenere la sua forza illuminante fino ad oggi. Paolo VI, proclamando nel 24 ottobre 1964 san Benedetto Patrono d’Europa, intese riconoscere l’opera meravigliosa svolta dal Santo mediante la Regola per la formazione della civiltà e della cultura europea. Oggi l’Europa – uscita appena da un secolo profondamente ferito da due guerre mondiali e dopo il crollo delle grandi ideologie rivelatesi come tragiche utopie – è alla ricerca della propria identità. Per creare un’unità nuova e duratura, sono certo importanti gli strumenti politici, economici e giuridici, ma occorre anche suscitare un rinnovamento etico e spirituale che attinga alle radici cristiane del Continente, altrimenti non si può ricostruire l’Europa. Senza questa linfa vitale, l’uomo resta esposto al pericolo di soccombere all’antica tentazione di volersi redimere da sé – utopia che, in modi diversi, nell’Europa del Novecento ha causato, come ha rilevato il Papa Giovanni Paolo II, “un regresso senza precedenti nella tormentata storia dell’umanità” (Insegnamenti, XIII/1, 1990, p. 58). Cercando il vero progresso, ascoltiamo anche oggi la Regola di san Benedetto come una luce per il nostro cammino. Il grande monaco rimane un vero maestro alla cui scuola possiamo imparare l’arte di vivere l’umanesimo vero.

Publié dans:Papa Benedetto XVI, S Benedetto, Santi |on 9 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

Santi Aquila e Priscilla

Santi Aquila e Priscilla dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 8 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

I SANTI CONIUGI AQUILA E PRISCILLA – TESTIMONI DI TENEREZZA

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I SANTI CONIUGI AQUILA E PRISCILLA – TESTIMONI DI TENEREZZA

Fra i personaggi biblici forse poco conosciuti, troviamo proprio i Santi coniugi Aquila & Priscilla, una coppia giudeo-cristiana ferventi nello zelo per il Vangelo con le parole e con la testimonianza di vita.
Aquila e Priscilla erano due coniugi giudeo-cristiani, molto cari all’apostolo Paolo per la loro fervente e molteplice collaborazione alla causa del Vangelo hanno più volte rischiato la testa (Rm 16,3).
Aquila, giudeo originario del Pònto, trasferitosi in tempo imprecisato a Roma, sposò Priscilla o Prisca, come è spesso chiamata, la loro storia, è una delle più moderne, attuali e stimolanti.
Peccato si sappia così poco di questi coniugi dalla vita così avventurosa, che viaggiò tra Roma, la Grecia e l’Asia minore, che visse persecuzioni, che mise a repentaglio la propria vita per salvare quella dell’Apostolo Paolo, e che svolse a sua volta un intenso apostolato.
Aquila & Priscilla, sono stati una coppia che ha dato tutto al Signore e che si è interamente consacrata alla diffusione del Vangelo, pur mantenendo attive le loro responsabilità coniugali e professionali.
Essi hanno aperto la loro casa a tutte le persone desiderose di conoscere il Signore Gesù.
Furono di esempio pratico per molti fratelli in Cristo e di grande testimonianza a molti non credenti ed attraverso loro il Signore Dio ha permesso che contribuissero (se non alla fondazione) alla crescita di tre comunità : Corinto, Efeso e Roma.
Cosa può fare il Signore con una coppia così unita spiritualmente, completamente consacrata e senza riserve ?
In che modo Aquila e Priscilla ci sono di incoraggiamento ?
E che cosa possiamo fare per seguire il loro esempio ?
Ciò che è importante è l’unione di Priscilla con suo marito Aquila in tutti gli aspetti della vita. Infatti la fede nel Signore Risorto è stato il loro punto di forza, che dopo averli salvati li ha sempre aiutati e protetti in ogni situazione, persecuzione, bisogno e nelle malattie.
Hanno praticato l’ospitalità aprendo la loro casa verso tutti credenti e non, soprattutto a coloro che annunciavano la Parola di Dio; ospitarono Paolo (At 18,3) che era solo, malato e perseguitato, e che era bisognoso di cure particolari.
L’ospitalità è un vero servizio al Vangelo, e il loro non era un semplice sentimento passeggero, ma un vero dono, esternando una vera amicizia frequentando persone moralmente sane e di sani principi, sempre mirate all’annuncio del Vangelo: Paolo, Apollo e i fratelli.
Ad Efeso infatti li vediamo premurosi, dopo la partenza dell’apostolo, nell’istruire « nella via del Signore », cioè nella catechesi cristiana, nientemeno che il celebre Apollo, l’eloquente giudeo-alessandrino, versatissimo nelle Scritture, ma ignaro di qualche punto essenziale della nuova dottrina cristiana, come il battesimo di Gesù. Aquila e Priscilla, mossi dall’amore per Gesù, si presero cura di lui e con tenerezza completarono la sua istruzione e probabilmente lo battezzarono prima che egli partisse per Corinto.
Ma oltre a questi sani principi di cui erano in possesso, corre l’obbligo mettere in luce i tre punti fondamentali di questi coniugi della Chiesa nascente, punti che dovrebbero essere al centro della vita di ogni coppia cristiana, infatti : l’importanza della Parola di Dio, fu il centro di tutta la vita coniugale e familiare, il servizio alla Parola, la sua diffusione, sono stati per loro l’impegno principale.
L’importanza del servizio: Paolo stesso li chiama più volte “collaboratori” nel senso riferita alla prima lettera ai Corinzi (3,9) quindi nel senso profondo del termine, cioè di coloro che collaborano nella stessa opera come “non-lavoratori”, alle dipendenze dello stesso padrone, con ambiti e funzioni differenti, ma pur sempre preziosi, senza mai snaturare la vita coniugale e familiare;
La dedizione alla famiglia: non abbiamo notizie che Priscilla si sia mai lamentata con Aquila: prima di tutto per i continui spostamenti a causa di persecuzioni, poi per il duro lavoro (pulizia della casa, fabbricare tende, occuparsi del marito e di Paolo o dei credenti che frequentavano la loro casa). Il loro cammino di fede rese sempre più saldo il loro matrimonio!
Ancora oggi il Signore Gesù sta chiamando le famiglie, fidanzati e sposi, per iniziare un cammino di conversione permanente, per crescere nella fede e vivere pienamente il Sacramento del matrimonio, per essere annunciatori con la vita dell’Infinita Tenerezza di Dio.
Niente si può asserire con certezza sul tempo, luogo e genere di morte di Aquila e Priscilla, dato che le uniche fonti su di essi sono le poche notizie bibliche citate. Alcuni, volendo identificare Priscilla, moglie di Aquila, con la vergine e martire romana s. Prisca. venerata nella chiesa omonima sull’Aventino, e con Priscilla, la titolare delle Catacombe della Via Salaria li fanno martiri, anzi, determinano il genere di martirio:
la decapitazione.
Un ultima considerazione da non trascurare. Abbiamo sin qui parlato di Aquila e Priscilla mettendo nell’ordine prima il marito Aquila, poi Priscilla la moglie.
Nei testi biblici considerati : (At 18,1-4; 18-20; 24-26; Rm 16,3-5; 1 Cor 16,9; 2 Tm 4,19) spesso è il nome di Priscilla che precede quello del marito, evidenziando forse come le qualità e i doni di Priscilla, fossero equivalenti a quelli di Aquila.
E’ bello pensare che in questo caso che non è vero quello che spesso si dice, cioè che dietro un “grande uomo, c’è sempre una grande donna”! In questo caso la Parola di Dio ce li presenta accanto ! Che meravigliosa benedizione per un uomo credente avere non “dietro” ma accanto una “grande donna”!

Publié dans:Santi, Santi: memorie facoltative |on 8 juillet, 2015 |Pas de commentaires »
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