Archive pour juillet, 2015

BEATA VERGINE MARIA DEL MONTE CARMELO – 16 LUGLIO, MEMORIA FACOLTATIVA

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BEATA VERGINE MARIA DEL MONTE CARMELO

16 LUGLIO – MEMORIA FACOLTATIVA

Il primo profeta d’Israele, Elia (IX sec. a.C.), dimorando sul Monte Carmelo, ebbe la visione della venuta della Vergine, che si alzava come una piccola nube dalla terra verso il monte, portando la pioggia e salvando Israele dalla siccità. In quella immagine tutti i mistici cristiani e gli esegeti hanno sempre visto la Vergine Maria, che portando in sé il Verbo divino, ha dato la vita e la fecondità al mondo. Un gruppo di eremiti, «Fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo», costituitrono una cappella dedicata alla Vergine sul Monte Carmelo. I monaci carmelitani fondarono, inoltre, dei monasteri in Occidente. Il 16 luglio del 1251 la Vergine, circondata da angeli e con il Bambino in braccio, apparve al primo Padre generale dell’Ordine, beato Simone Stock, al quale diede lo «scapolare» col «privilegio sabatino», ossia la promessa della salvezza dall’inferno, per coloro che lo indossano e la liberazione dalle pene del Purgatorio il sabato seguente alla loro morte. (Avvenire)

Etimologia: Maria = amata da Dio, dall’egiziano; signora, dall’ebraico

Martirologio Romano: Beata Maria Vergine del Monte Carmelo, dove un tempo il profeta Elia aveva ricondotto il popolo di Israele al culto del Dio vivente e si ritirarono poi degli eremiti in cerca di solitudine, istituendo un Ordine di vita contemplativa sotto il patrocinio della santa Madre di Dio.
Il 16 luglio ricorre una festa mariana molto importante nella Tradizione della Chiesa: la Madonna del Carmelo, una delle devozioni più antiche e più amate dalla cristianità, legata alla storia e ai valori spirituali dell’Ordine dei frati della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo (Carmelitani). La festa liturgica fu istituita per commemorare l’apparizione del 16 luglio 1251 a san Simone Stock, all’epoca priore generale dell’ordine carmelitano, durante la quale la Madonna gli consegnò uno scapolare (dal latino scapula, spalla) in tessuto, rivelandogli notevoli privilegi connessi al suo culto.
Nel Primo Libro dei Re dell’Antico Testamento si racconta che il profeta Elia, che raccolse una comunità di uomini proprio sul monte Carmelo (in aramaico «giardino»), operò in difesa della purezza della fede in Dio, vincendo una sfida contro i sacerdoti del dio Baal. Qui, in seguito, si stabilirono delle comunità monastiche cristiane. I crociati, nell’XI secolo, trovarono in questo luogo dei religiosi, probabilmente di rito maronita, che si definivano eredi dei discepoli del profeta Elia e seguivano la regola di san Basilio. Nel 1154 circa si ritirò sul monte il nobile francese Bertoldo, giunto in Palestina con il cugino Aimerio di Limoges, patriarca di Antiochia, e venne deciso di riunire gli eremiti a vita cenobitica. I religiosi edificarono una chiesetta in mezzo alle loro celle, dedicandola alla Vergine e presero il nome di Fratelli di Santa Maria del Monte Carmelo. Il Carmelo acquisì, in tal modo, i suoi due elementi caratterizzanti: il riferimento ad Elia ed il legame a Maria Santissima.
Il Monte Carmelo, dove la Tradizione afferma che qui la sacra Famiglia sostò tornando dall’Egitto, è una catena montuosa, che si trova nell’Alta Galilea, una regione dello Stato di Israele e che si sviluppa in direzione nordovest-sudest da Haifa a Jenin. Fra il 1207 e il 1209, il patriarca latino di Gerusalemme (che allora aveva sede a San Giovanni d’Acri), Alberto di Vercelli, redasse per gli eremiti del Monte Carmelo i primi statuti (la cosiddetta regola primitiva o formula vitae). I Carmelitani non hanno mai riconosciuto a nessuno il titolo di fondatore, rimanendo fedeli al modello che vedeva nel profeta Elia uno dei padri della vita monastica.
La regola, che prescriveva veglie notturne, digiuno, astinenza rigorosi, la pratica della povertà e del silenzio, venne approvata il 30 gennaio 1226 da papa Onorio III con la bolla Ut vivendi normam. A causa delle incursioni dei saraceni, intorno al 1235, i frati dovettero abbandonare l’Oriente per stabilirsi in Europa e il loro primo convento trovò dimora a Messina, in località Ritiro. Le notizie sulla vita di san Simone Stock (Aylesford, 1165 circa – Bordeaux, 16 maggio 1265) sono scarse. Dopo un pellegrinaggio in Terra Santa, maturò la decisione di entrare fra i Carmelitani e, completati gli studi a Roma, venne ordinato sacerdote. Intorno al 1247, quando aveva già 82 anni, venne scelto come sesto priore generale dell’Ordine. Si adoperò per riformare la regola dei Carmelitani, facendone un ordine mendicante: papa Innocenzo IV, nel 1251, approvò la nuova regola e garantì all’Ordine anche la particolare protezione da parte della Santa Sede.
Proprio a san Simone Stock, che propagò la devozione della Madonna del Carmelo e compose per Lei un bellissimo inno, il Flos Carmeli, la Madonna assicurò che a quanti si fossero spenti indossando lo scapolare sarebbero stati liberati dalle pene del Purgatorio, affermando: «Questo è il privilegio per te e per i tuoi: chiunque morirà rivestendolo, sarà salvo». La consacrazione alla Madonna, mediante lo scapolare, si traduce anzitutto nello sforzo di imitarla, almeno negli intenti, a fare ogni cosa come Lei l’avrebbe compiuta.

Autore: Cristina Siccardi

La devozione spontanea alla Vergine Maria, sempre diffusa nella cristianità sin dai primi tempi apostolici, è stata man mano nei secoli, diciamo ufficializzata sotto tantissimi titoli, legati alle sue virtù (vedasi le Litanie Lauretane), ai luoghi dove sono sorti Santuari e chiese che ormai sono innumerevoli, alle apparizioni della stessa Vergine in vari luoghi lungo i secoli, al culto instaurato e diffuso da Ordini Religiosi e Confraternite, fino ad arrivare ai dogmi promulgati dalla Chiesa.
Maria racchiude in sé tante di quelle virtù e titoli, nei secoli approfonditi nelle Chiese di Oriente ed Occidente con Concili famosi e studi specifici, tanto da far sorgere una terminologia ed una scienza “Mariologica”, e che oltre i grandi cantori di Maria nell’ambito della Chiesa, ha ispirato elevata poesia anche nei laici, cito per tutti il sommo Dante che nella sua “preghiera di s. Bernardo alla Vergine” nel XXXIII canto del Paradiso della ‘Divina Commedia’, esprime poeticamente i più alti concetti dell’esistenza di Maria, concepita da Dio nel disegno della salvezza dell’umanità, sin dall’inizio del mondo.
“Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura,
termine fisso d’eterno consiglio, tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura……”
Ma il culto mariano affonda le sue radici, unico caso dell’umanità, nei secoli precedenti la sua stessa nascita; perché il primo profeta d’Israele, Elia (IX sec. a.C.) dimorando sul Monte Carmelo, ebbe la visione della venuta della Vergine, che si alzava come una piccola nube dalla terra verso il monte, portando una provvidenziale pioggia, salvando così Israele da una devastante siccità.
In quella nube piccola “come una mano d’uomo” tutti i mistici cristiani e gli esegeti, hanno sempre visto una profetica immagine della Vergine Maria, che portando in sé il Verbo divino, ha dato la vita e la fecondità al mondo.
La Tradizione racconta che già prima del Cristianesimo, sul Monte Carmelo (Karmel = giardino-paradiso di Dio) si ritiravano degli eremiti, vicino alla fontana del profeta Elia, poi gli eremiti proseguirono ad abitarvi anche dopo l’avvento del cristianesimo e verso il 93 un gruppo di essi che si chiamarono poi ”Fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo”, costruirono una cappella dedicata alla Vergine, sempre vicino alla fontana di Elia.
Si iniziò così un culto verso Maria, il più bel fiore di quel giardino di Dio, che divenne la ‘Stella Polare, la Stella Maris’ del popolo cristiano. E sul Carmelo che è una catena montuosa che si estende dal golfo di Haifa sul Mediterraneo, fino alla pianura di Esdrelon, richiamato più volte nella Sacra Scrittura per la sua vegetazione, bellezza e fecondità, continuarono a vivere gli eremiti, finché nella seconda metà del sec. XII, giunsero alcuni pellegrini occidentali, probabilmente al seguito delle ultime crociate del secolo; proseguendo il secolare culto mariano esistente, si unirono in un Ordine religioso fondato in onore della Vergine, alla quale i suddetti religiosi si professavano particolarmente legati.
L’Ordine non ebbe quindi un fondatore vero e proprio, anche se considera il profeta Elia come suo patriarca e modello; il patriarca di Gerusalemme s. Alberto Avogadro (1206-1214), originario dell’Italia, dettò una ‘Regola di vita’, approvata nel 1226 da papa Onorio III.
Costretti a lasciare la Palestina a causa dell’invasione saracena, i monaci Carmelitani, come ormai si chiamavano, fuggirono in Occidente, dove fondarono diversi monasteri: Messina e Marsiglia nel 1238; Kent in Inghilterra nel 1242; Pisa nel 1249; Parigi nel 1254, diffondendo il culto di Colei che: “le è stata data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saron” (Is 35,2).
Il 16 luglio del 1251 la Vergine circondata da angeli e con il Bambino in braccio, apparve al primo Padre Generale dell’Ordine, beato Simone Stock, al quale diede lo ‘scapolare’ col ‘privilegio sabatino’, che consiste nella promessa della salvezza dall’inferno, per coloro che lo indossano e la sollecita liberazione dalle pene del Purgatorio il sabato seguente alla loro morte.
Lo ‘scapolare’ detto anche ‘abitino’ non rappresenta una semplice devozione, ma una forma simbolica di ‘rivestimento’ che richiama la veste dei carmelitani e anche un affidamento alla Vergine, per vivere sotto la sua protezione ed è infine un’alleanza e una comunione tra Maria ed i fedeli.
Papa Pio XII affermò che “chi lo indossa viene associato in modo più o meno stretto, all’Ordine Carmelitano”, aggiungendo “quante anime buone hanno dovuto, anche in circostanze umanamente disperate, la loro suprema conversione e la loro salvezza eterna allo Scapolare che indossavano! Quanti, inoltre, nei pericoli del corpo e dell’anima, hanno sentito, grazie ad esso, la protezione materna di Maria! La devozione allo Scapolare ha fatto riversare su tutto il mondo, fiumi di grazie spirituali e temporali”.
Altri papi ne hanno approvato e raccomandato il culto, lo stesso beato Giovanni XXIII lo indossava, esso consiste di due pezzi di stoffa di saio uniti da una cordicella, che si appoggia sulle scapole e sui due pezzi vi è l’immagine della Madonna.
Nel secolo d’oro delle fondazioni dei principali Ordini religiosi cioè il XIII, il culto per la Vergine Maria ebbe dei validissimi devoti propagatori: i Francescani (1209), i Domenicani (1216), i Carmelitani (1226), gli Agostiniani (1256), i Mercedari (1218) ed i Servi di Maria (1233), a cui nei secoli successivi si aggiunsero altri Ordini e Congregazioni, costituendo una lode perenne alla comune Madre e Regina.
L’Ordine Carmelitano partito dal Monte Carmelo in Palestina, dove è attualmente ubicato il grande monastero carmelitano “Stella Maris”, si propagò in tutta l’Europa, conoscendo nel sec. XVI l’opera riformatrice dei due grandi mistici spagnoli Giovanni della Croce e Teresa d’Avila, per cui oggi i Carmelitani si distinguono in due Famiglie: “scalzi” o “teresiani” (frutto della riforma dei due santi) e quelli senza aggettivi o “dell’antica osservanza”.
Nell’Ordine Carmelitano sono fiorite figure eccezionali di santità, misticismo, spiritualità claustrale e di martirio; ne ricordiamo alcuni: S. Teresa d’Avila (1582) Dottore della Chiesa; S. Giovanni della Croce (1591) Dottore della Chiesa; Santa Maria Maddalena dei Pazzi (1607); S. Teresa del Bambino Gesù (1897), Dottore della Chiesa; beato Simone Stock (1265); S. Angelo martire in Sicilia (1225); Beata Elisabetta della Trinità Catez (1906); S. Raffaele Kalinowski (1907); Beato Tito Brandsma (1942); S. Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein, 1942); suor Lucia, la veggente di Fatima, ecc.
Alla Madonna del Carmine, come è anche chiamata, sono dedicate chiese e santuari un po’ dappertutto, essa per la promessa fatta con lo scapolare, è onorata anche come “Madonna del Suffragio” e a volte è raffigurata che trae, dalle fiamme dell’espiazione del Purgatorio le anime purificate.
Particolarmente a Napoli è venerata come S. Maria La Bruna, perché la sua icona, veneratissima specie dagli uomini nel Santuario del Carmine Maggiore, tanto legato alle vicende seicentesche di Masaniello, cresciuto alla sua ombra, è di colore scuro e forse è la più antica immagine conosciuta come ‘Madonna del Carmine’.
Durante tutti i secoli trascorsi nella sua devozione, Ella è stata sempre rappresentata con Gesù Bambino in braccio o in grembo che porge lo ‘scapolare’ (tutto porta a Gesù), e con la stella sul manto (consueta nelle icone orientali per affermare la sua verginità).
La sua ricorrenza liturgica è il 16 luglio, giorno in cui nel 1251, apparve al beato Simone Stock, porgendogli l’ “abitino”.

Autore: Antonio Borrelli

Publié dans:feste di Maria |on 16 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

ACCIDIA E FEDELTA’ / 1

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ACCIDIA E FEDELTA’ / 1

Il vizio capitale dell’accidia
L’accidia è il vizio capitale che attacca in modo subdolo la vita del cristiano. Il credente, infatti, poco alla volta, incomincia ad infastidirsi della sua fede, lascia la preghiera, va raramente a Messa, non legge mai la Bibbia, non s’interessa del suo prossimo, pensa solo a se stesso e così Dio rischia di essere messo da parte.

La pigrizia spirituale, l’indolenza, la svogliatezza si sono alleate insieme sì da impadronirsi sia dell’intelligenza che della volontà.
Costoro si comportano come quelle persone che per mantenere la linea e apparire quali manichini perfetti, alla moda, non vogliono più mangiare. Il cibo dà loro fastidio. E così, come esiste l’inappetenza fisica esiste anche quella spirituale che è appunto l’accidia.
Purtroppo ci sono tanti cristiani all’acqua di rosae. Non sono né carne né pesce, eppure si proclamano cristiani. Per costoro la Bibbia riserva una frase che ci deve far riflettere: “Conosco le tue opere, tu non sei né freddo né caldo. Ma poiché tu sei tiepido sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap 3,15-16). È proprio il mitissimo nostro Salvatore Gesù che ci apostrofa con queste parole. Tutti, purtroppo, chi più chi meno, veniamo attirati dalla pigrizia, ci adagiamo comodamente, con mille scuse, sull’inerzia spirituale e così trascuriamo gli insegnamenti di Gesù, accontentandoci del dolce far niente spirituale.
L’accidia è una parola che viene dal greco e vuol dire negligenza, indifferenza. Nella Chiesa cattolica il vizio capitale dell’accidia consiste nella negligenza dell’esercizio delle virtù cristiane e in generale, nelle attività dello spirito che dovrebbero tendere alla santificazione dell’anima. Altre sfaccettature dell’accidia sono: indolenza, pigrizia, svogliatezza, inerzia, ignavia. San Tommaso ci dice che si tratta di tedio e persino di tristezza di un bene spirituale. Purtroppo a motivo di tristezza, tedio, avvilimento, alcuni fanno tante cose sbagliate, che poi ci fanno piangere per tutta la vita, come capitò all’apostolo Pietro quando, in quella notte, tutto scoraggiato, vide il suo Maestro catturato, condannato, sconfitto, si comportò da vigliacco e lo rinnegò.
Davvero l’accidia è capace di addormentarci, di spingerci a non renderci conto di ciò che sta succedendo nella nostra vita spirituale. Non si tratta di una semplice trascuratezza di qualche cosa di veniale, ma può portare, se uno non è vigilante, a diventare incapaci di volere e di operare per la deplorevole mancanza di forza morale. Quando uno si getta in balia di dubbi, di esempi per nulla cristiani, di discorsi che distruggono ogni valore, diventa un pusillanime privo di forza d’animo, un vile incapace di testimoniare la sua fede, un vigliacco senza coraggio pronto a rinnegare la sua fede e cambiare anche religione.

Adamo ed Eva si lasciano tentare dal serpente
Quando uno rifiuta di stare con Dio, di obbedirlo e amarlo, è chiaro che va incontro a qualche cosa di brutto. Un dramma che hanno vissuto i nostri progenitori e che vivono coloro che hanno deciso di rompere i ponti con l’Altissimo. Il serpente antico, geloso, li spinse a dubitare della Parola di Dio, come narra il racconto della Genesi.

Il serpente disse alla donna:
– “È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare il frutto di nessun albero del giardino?”.
– “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”.
– “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”.
Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei (cf Genesi 3).

Preghiamo con il Salmo 9

Rit.: Abbi pietà di me, Signore.

Signore, tu sei mio rifugio e mio riparo,
nel tempo dell’angoscia e dell’oppressione.
Confidino in te quanti conoscono il tuo nome,
perché tu non abbandoni chi ti cerca. Rit.

Cantate inni al Signore, che abita in Sion,
Tu vedi la mia miseria, Signore,
strappami dalle soglie della morte,
perché possa annunziare le tue lodi,
esultare per la tua salvezza. Rit.

I popoli sprofondano nella fossa
che si sono scavata,
e nella rete che hanno teso
s’impiglia il loro piede. Rit.

Come possiamo definire l’accidia

La definizione del vizio capitale dell’accidia è: la negligenza nell’esercizio delle virtù cristiane e nell’attività spirituale tendente alla santificazione dell’anima. Si tratta quindi di pigrizia, di inerzia circa le cose che riguardano Dio e precisamente i suoi comandamenti, la sua volontà santissima per la salvezza degli uomini. Se non stiamo attenti, se non ci sforziamo di camminare per il retto sentiero tracciato dalla Parola di Dio, se non seguiamo con coraggio il nostro unico salvatore Gesù Cristo, rischiamo tutti di cadere nell’indifferenza, nella pigrizia spirituale, fino al punto di negare Dio e di far prevalere nella nostra vita il nostro “io”.
Anche i cedri del Libano, così maestosi e forti, possono cadere al suolo, come avvenne al re Salomone.

L’esempio del Re Salomone

Dio diede a Salomone “sapienza e intelligenza come nessuno ha mai avuto e mai potrà avere” (1 Re 3,12).
Ebbene, mentre il Signore aveva proibito agli Israeliti matrimoni con gente pagana perché li avrebbero spinti ad adorare altri dèi. Il re Salomone trasgredì questo comando unendosi a donne pagane e accettò di prostrarsi davanti alle molte divinità che ogni donna adorava (1 Re 11,1-13). Egli stesso fece costruire santuari in onore di dèi abominevoli. Salomone si era stancato del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, forse era arrivato al punto di credersi veramente sapiente, il più sapiente di tutti, tanto da stabilire per se stesso ciò che era bene o male.

Preghiamo con il Salmo 93

Rit.: Tu sei giusto, Signore, e vedi ogni cuore.

Dio che fai giustizia, o Signore,
Dio che fai giustizia: mostrati!
Alzati, giudice della terra,
rendi la ricompensa ai superbi. Rit.

Fino a quando gli empi, Signore,
fino a quando gli empi trionferanno?
Sparleranno, diranno insolenze,
si vanteranno tutti i malfattori? Rit.

Dicono: “Il Signore non vede,
il Dio di Giacobbe non se ne cura”.
Comprendete, insensati tra il popolo,
stolti, quando diventerete saggi? Rit.

Don Timoteo Munari SDB

 

Publié dans:PECCATI (I) |on 16 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

Rubens, San Bonaventura

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Publié dans:immagini sacre |on 15 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – SAN BONAVENTURA (2)

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100317.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 10 marzo 2010

Aula Paolo VI

SAN BONAVENTURA (2)

San Bonaventura 1 e 3
http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100303.html
http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100317.html

Cari fratelli e sorelle,

la scorsa settimana ho parlato della vita e della personalità di san Bonaventura da Bagnoregio. Questa mattina vorrei proseguirne la presentazione, soffermandomi su una parte della sua opera letteraria e della sua dottrina.
Come già dicevo, san Bonaventura, tra i vari meriti, ha avuto quello di interpretare autenticamente e fedelmente la figura di san Francesco d’Assisi, da lui venerato e studiato con grande amore. In particolar modo, ai tempi di san Bonaventura una corrente di Frati minori, detti “spirituali”, sosteneva che con san Francesco era stata inaugurata una fase totalmente nuova della storia, sarebbe apparso il “Vangelo eterno”, del quale parla l’Apocalisse, che sostituiva il Nuovo Testamento. Questo gruppo affermava che la Chiesa aveva ormai esaurito il proprio ruolo storico, e al suo posto subentrava una comunità carismatica di uomini liberi guidati interiormente dallo Spirito, cioè i “Francescani spirituali”. Alla base delle idee di tale gruppo vi erano gli scritti di un abate cistercense, Gioacchino da Fiore, morto nel 1202. Nelle sue opere, egli affermava un ritmo trinitario della storia. Considerava l’Antico Testamento come età del Padre, seguita dal tempo del Figlio, il tempo della Chiesa. Vi sarebbe stata ancora da aspettare la terza età, quella dello Spirito Santo. Tutta la storia andava così interpretata come una storia di progresso: dalla severità dell’Antico Testamento alla relativa libertà del tempo del Figlio, nella Chiesa, fino alla piena libertà dei Figli di Dio, nel periodo dello Spirito Santo, che sarebbe stato anche, finalmente, il periodo della pace tra gli uomini, della riconciliazione dei popoli e delle religioni. Gioacchino da Fiore aveva suscitato la speranza che l’inizio del nuovo tempo sarebbe venuto da un nuovo monachesimo. Così è comprensibile che un gruppo di Francescani pensasse di riconoscere in san Francesco d’Assisi l’iniziatore del tempo nuovo e nel suo Ordine la comunità del periodo nuovo – la comunità del tempo dello Spirito Santo, che lasciava dietro di sé la Chiesa gerarchica, per iniziare la nuova Chiesa dello Spirito, non più legata alle vecchie strutture.
Vi era dunque il rischio di un gravissimo fraintendimento del messaggio di san Francesco, della sua umile fedeltà al Vangelo e alla Chiesa, e tale equivoco comportava una visione erronea del Cristianesimo nel suo insieme.
San Bonaventura, che nel 1257 divenne Ministro Generale dell’Ordine Francescano, si trovò di fronte ad una grave tensione all’interno del suo stesso Ordine a causa appunto di chi sosteneva la menzionata corrente dei “Francescani spirituali”, che si rifaceva a Gioacchino da Fiore. Proprio per rispondere a questo gruppo e ridare unità all’Ordine, san Bonaventura studiò con cura gli scritti autentici di Gioacchino da Fiore e quelli a lui attribuiti e, tenendo conto della necessità di presentare correttamente la figura e il messaggio del suo amato san Francesco, volle esporre una giusta visione della teologia della storia. San Bonaventura affrontò il problema proprio nell’ultima sua opera, una raccolta di conferenze ai monaci dello studio parigino, rimasta incompiuta e giuntaci attraverso le trascrizioni degli uditori, intitolata Hexaëmeron, cioè una spiegazione allegorica dei sei giorni della creazione. I Padri della Chiesa consideravano i sei o sette giorni del racconto sulla creazione come profezia della storia del mondo, dell’umanità. I setti giorni rappresentavano per loro sette periodi della storia, più tardi interpretati anche come sette millenni. Con Cristo saremmo entrati nell’ultimo, cioè il sesto periodo della storia, al quale seguirebbe poi il grande sabato di Dio. San Bonaventura suppone questa interpretazione storica del rapporto dei giorni della creazione, ma in un modo molto libero ed innovativo. Per lui due fenomeni del suo tempo rendono necessaria una nuova interpretazione del corso della storia:
Il primo: la figura di san Francesco, l’uomo totalmente unito a Cristo fino alla comunione delle stimmate, quasi un alter Christus, e con san Francesco la nuova comunità da lui creata, diversa dal monachesimo finora conosciuto. Questo fenomeno esigeva una nuova interpretazione, come novità di Dio apparsa in quel momento.
Il secondo: la posizione di Gioacchino da Fiore, che annunziava un nuovo monachesimo ed un periodo totalmente nuovo della storia, andando oltre la rivelazione del Nuovo Testamento, esigeva una risposta.
Da Ministro Generale dell’Ordine dei Francescani, san Bonaventura aveva visto subito che con la concezione spiritualistica, ispirata da Gioacchino da Fiore, l’Ordine non era governabile, ma andava logicamente verso l’anarchia. Due erano per lui le conseguenze:
La prima: la necessità pratica di strutture e di inserimento nella realtà della Chiesa gerarchica, della Chiesa reale, aveva bisogno di un fondamento teologico, anche perché gli altri, quelli che seguivano la concezione spiritualista, mostravano un apparente fondamento teologico.
La seconda: pur tenendo conto del realismo necessario, non bisognava perdere la novità della figura di san Francesco.
Come ha risposto san Bonaventura all’esigenza pratica e teorica? Della sua risposta posso dare qui solo un riassunto molto schematico ed incompleto in alcuni punti:
San Bonaventura respinge l’idea del ritmo trinitario della storia. Dio è uno per tutta la storia e non si divide in tre divinità. Di conseguenza, la storia è una, anche se è un cammino e – secondo san Bonaventura – un cammino di progresso.
Gesù Cristo è l’ultima parola di Dio – in Lui Dio ha detto tutto, donando e dicendo se stesso. Più che se stesso, Dio non può dire, né dare. Lo Spirito Santo è Spirito del Padre e del Figlio. Cristo stesso dice dello Spirito Santo: “…vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14, 26), “prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà” (Gv 16, 15). Quindi non c’è un altro Vangelo più alto, non c’è un’altra Chiesa da aspettare. Perciò anche l’Ordine di san Francesco deve inserirsi in questa Chiesa, nella sua fede, nel suo ordinamento gerarchico.
Questo non significa che la Chiesa sia immobile, fissa nel passato e non possa esserci novità in essa. “Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt”, le opere di Cristo non vanno indietro, non vengono meno, ma progrediscono, dice il Santo nella lettera De tribus quaestionibus. Così san Bonaventura formula esplicitamente l’idea del progresso, e questa è una novità in confronto ai Padri della Chiesa e a gran parte dei suoi contemporanei. Per san Bonaventura Cristo non è più, come era per i Padri della Chiesa, la fine, ma il centro della storia; con Cristo la storia non finisce, ma comincia un nuovo periodo. Un’altra conseguenza è la seguente: fino a quel momento dominava l’idea che i Padri della Chiesa fossero stati il vertice assoluto della teologia, tutte le generazioni seguenti potevano solo essere loro discepole. Anche san Bonaventura riconosce i Padri come maestri per sempre, ma il fenomeno di san Francesco gli dà la certezza che la ricchezza della parola di Cristo è inesauribile e che anche nelle nuove generazioni possono apparire nuove luci. L’unicità di Cristo garantisce anche novità e rinnovamento in tutti i periodi della storia.
Certo, l’Ordine Francescano – così sottolinea – appartiene alla Chiesa di Gesù Cristo, alla Chiesa apostolica e non può costruirsi in uno spiritualismo utopico. Ma, allo stesso tempo, è valida la novità di tale Ordine nei confronti del monachesimo classico, e san Bonaventura – come ho detto nella Catechesi precedente – ha difeso questa novità contro gli attacchi del Clero secolare di Parigi: i Francescani non hanno un monastero fisso, possono essere presenti dappertutto per annunziare il Vangelo. Proprio la rottura con la stabilità, caratteristica del monachesimo, a favore di una nuova flessibilità, restituì alla Chiesa il dinamismo missionario.
A questo punto forse è utile dire che anche oggi esistono visioni secondo le quali tutta la storia della Chiesa nel secondo millennio sarebbe stata un declino permanente; alcuni vedono il declino già subito dopo il Nuovo Testamento. In realtà, “Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt”, le opere di Cristo non vanno indietro, ma progrediscono. Che cosa sarebbe la Chiesa senza la nuova spiritualità dei Cistercensi, dei Francescani e Domenicani, della spiritualità di santa Teresa d’Avila e di san Giovanni della Croce, e così via? Anche oggi vale questa affermazione: “Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt”, vanno avanti. San Bonaventura ci insegna l’insieme del necessario discernimento, anche severo, del realismo sobrio e dell’apertura a nuovi carismi donati da Cristo, nello Spirito Santo, alla sua Chiesa. E mentre si ripete questa idea del declino, c’è anche l’altra idea, questo “utopismo spiritualistico”, che si ripete. Sappiamo, infatti, come dopo il Concilio Vaticano II alcuni erano convinti che tutto fosse nuovo, che ci fosse un’altra Chiesa, che la Chiesa pre-conciliare fosse finita e ne avremmo avuta un’altra, totalmente “altra”. Un utopismo anarchico! E grazie a Dio i timonieri saggi della barca di Pietro, Papa Paolo VI e Papa Giovanni Paolo II, da una parte hanno difeso la novità del Concilio e dall’altra, nello stesso tempo, hanno difeso l’unicità e la continuità della Chiesa, che è sempre Chiesa di peccatori e sempre luogo di Grazia.
In questo senso, san Bonaventura, come Ministro Generale dei Francescani, prese una linea di governo nella quale era ben chiaro che il nuovo Ordine non poteva, come comunità, vivere alla stessa “altezza escatologica” di san Francesco, nel quale egli vede anticipato il mondo futuro, ma – guidato, allo stesso tempo, da sano realismo e dal coraggio spirituale – doveva avvicinarsi il più possibile alla realizzazione massima del Sermone della montagna, che per san Francesco fu la regola, pur tenendo conto dei limiti dell’uomo, segnato dal peccato originale.
Vediamo così che per san Bonaventura governare non era semplicemente un fare, ma era soprattutto pensare e pregare. Alla base del suo governo troviamo sempre la preghiera e il pensiero; tutte le sue decisioni risultano dalla riflessione, dal pensiero illuminato dalla preghiera. Il suo contatto intimo con Cristo ha accompagnato sempre il suo lavoro di Ministro Generale e perciò ha composto una serie di scritti teologico-mistici, che esprimono l’animo del suo governo e manifestano l’intenzione di guidare interiormente l’Ordine, di governare, cioè, non solo mediante comandi e strutture, ma guidando e illuminando le anime, orientando a Cristo.
Di questi suoi scritti, che sono l’anima del suo governo e che mostrano la strada da percorrere sia al singolo che alla comunità, vorrei menzionarne solo uno, il suo capolavoro, l’Itinerarium mentis in Deum, che è un “manuale” di contemplazione mistica. Questo libro fu concepito in un luogo di profonda spiritualità: il monte della Verna, dove san Francesco aveva ricevuto le stigmate. Nell’introduzione l’autore illustra le circostanze che diedero origine a questo suo scritto: “Mentre meditavo sulle possibilità dell’anima di ascendere a Dio, mi si presentò, tra l’altro, quell’evento mirabile occorso in quel luogo al beato Francesco, cioè la visione del Serafino alato in forma di Crocifisso. E su ciò meditando, subito mi avvidi che tale visione mi offriva l’estasi contemplativa del medesimo padre Francesco e insieme la via che ad esso conduce” (Itinerario della mente in Dio, Prologo, 2, in Opere di San Bonaventura. Opuscoli Teologici /1, Roma 1993, p. 499).
Le sei ali del Serafino diventano così il simbolo di sei tappe che conducono progressivamente l’uomo dalla conoscenza di Dio attraverso l’osservazione del mondo e delle creature e attraverso l’esplorazione dell’anima stessa con le sue facoltà, fino all’unione appagante con la Trinità per mezzo di Cristo, a imitazione di san Francesco d’Assisi. Le ultime parole dell’Itinerarium di san Bonaventura, che rispondono alla domanda su come si possa raggiungere questa comunione mistica con Dio, andrebbero fatte scendere nel profondo del cuore: “Se ora brami sapere come ciò avvenga, (la comunione mistica con Dio) interroga la grazia, non la dottrina; il desiderio, non l’intelletto; il gemito della preghiera, non lo studio della lettera; lo sposo, non il maestro; Dio, non l’uomo; la caligine, non la chiarezza; non la luce, ma il fuoco che tutto infiamma e trasporta in Dio con le forti unzioni e gli ardentissimi affetti … Entriamo dunque nella caligine, tacitiamo gli affanni, le passioni e i fantasmi; passiamo con Cristo Crocifisso da questo mondo al Padre, affinché, dopo averlo visto, diciamo con Filippo: ciò mi basta” (ibid., VII, 6).

Cari amici, accogliamo l’invito rivoltoci da san Bonaventura, il Dottore Serafico, e mettiamoci alla scuola del Maestro divino: ascoltiamo la sua Parola di vita e di verità, che risuona nell’intimo della nostra anima. Purifichiamo i nostri pensieri e le nostre azioni, affinché Egli possa abitare in noi, e noi possiamo intendere la sua Voce divina, che ci attrae verso la vera felicità.

Shabbat : Il significato del riposo dal lavoro come liberazione dalle catene del tempo.

http://www.shalom.it/J/index.php?option=com_content&task=view&id=1463&Itemid=163&ed=79

C’È UN TEMPO PER IL SACRO E UNO PER IL PROFANO

WRITTEN BY JONATAN DELLA ROCCA

Friday, 21 November 2014

Il significato del riposo dal lavoro come liberazione dalle catene del tempo.

di Jonatan Della Rocca

Shabbat rappresenta il paradigma del tempo sacro. È il giorno destinato alla famiglia, al riposo e alla spiritualità, lontano dalla quotidianità professionale dei restanti sei giorni. Una delle parole più eminenti « Kadosh » – scrive Abraham Joshua Heschel, viene usata per la prima volta nella Genesi, alla fine della storia della Creazione: « D-o benedisse il settimo giorno e lo santificò ». Nel racconto della creazione a nessun oggetto dello spazio viene attribuito il concetto di santità, solo al concetto di tempo sabbatico. Tanto inchiostro è stato dedicato dalla tradizione rabbinica a ciò. Mentre gli studi scientifici, a cominciare dalla sociologia applicata al concetto di tempo, hanno approfondito le teorie scientifiche sulla distinzione tra tempo sacro e tempo profano: da Emile Durkheim, uno dei padri della sociologia, passando per Norbert Elias, fino ad arrivare, tanto per citarne alcuni tra i più importanti, agli studi di Mircea Eliade, Erich Fromm ed Eviatar Zerubavel. Nei loro studi hanno messo in rilievo il concetto di tempo non visto solo come una entità omogenea quantitativa, ma come abilità socioculturale di distinzione tra diverse qualità di periodi di tempo.
Lo stesso Durkheim, nella sua analisi dell’organizzazione sociale della vita religiosa, ha sottolineato la fondamentale divisione bipartita del tempo in due parti distinte, reciprocamente esclusive, essendo l’una dedicata all’attività profana di ogni giorno, e l’altra consacrata al culto. Così scrive Durkheim nella sua opera fondamentale « Le forme elementari della vita religiosa »: « …l’aspetto caratteristico del fenomeno religioso è il fatto che esso presuppone sempre una divisione dell’universo conosciuto e conoscibile in due generi che comprendono tutto ciò che esiste, ma che si escludono radicalmente. Le cose sacre sono quelle protette e isolate dalle interdizioni; le cose profane sono invece quelle a cui si riferiscono queste interdizioni, e che debbono restare a distanza dalle prime. Non esiste nella storia del pensiero umano un altro esempio di due categorie di cose tanto profondamente diverse, tanto radicalmente opposte l’una all’altra.
L’opposizione tradizionale tra il bene e il male non è nulla al confronto… Il sacro e il profano sono stati sempre e ovunque concepiti dallo spirito umano come generi separati, cioè come due mondi tra cui non c’è nulla in comune… ». Il calendario ebraico è denso di questa contrapposizione tra tempo sacro e profano: i sei giorni della settimana in rapporto al settimo giorno, il tempo specifico per l’esercizio del sacerdozio e lo stesso tempo consacrato al lavoro distinto dal tempo vano, profanazione del dono vitale divino. Lo Shabbat è il collegamento con la creazione del mondo, dove D-o dopo i sei giorni della Genesi, si è astenuto nel giorno successivo dal compiere qualsiasi opera.
Scrive Erich Fromm: « La Bibbia nella sua concezione del Sabato fa un tentativo completamente nuovo di risolvere il problema: arrestando ogni intervento nella natura per un giorno il tempo è eliminato; dove non c’è mutamento, né lavoro, né intromissione umana, non esiste tempo. Invece di un Sabato in cui l’uomo si inginocchia davanti al Signore del tempo. Il Sabato biblico è il simbolo della vittoria umana sul tempo… Il Sabato è il simbolo di uno stato d’unità fra l’uomo e la natura e fra uomo e uomo. Non lavorando – cioè non partecipando al processo del cambiamento naturale e sociale – l’uomo è libero dalle catene del tempo, anche per un solo giorno alla settimana ». In questa osservanza dettata nella Torah, gli ebrei hanno mantenuto ininterrottamente nel corso della storia questo filo che parte dalla Creazione per legarsi al tempo messianico, di cui, come afferma il Talmud, il settimo giorno è il suo anticipatore spirituale. Come nota il sociologo Zerubavel, nello Shabbat non vi è mai interruzione del tempo della Creazione, infatti la tradizione rabbinica definisce il settimo giorno nel suo arrivo « Moavé Sciabbat » – l’arrivo del Sabato e la partenza con « Mozzé Shabbat » – l’uscita del Sabato, non usando erroneamente i termini inizio e fine. Perché il vero inizio per l’ebraismo è stato il primo Shabbat della Creazione del mondo. 

Publié dans:Ebraismo Shabbat, EBRAISMO: STUDI |on 15 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

Jour 2 Les eaux sont divisées

Jour 2 Les eaux sont divisées  dans immagini sacre 14%20MICHIEL%20DIVISION%20OF%20THE%20WATERS

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Publié dans:immagini sacre |on 14 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

CHIAMATI AD ESSERE FIGLI DELLA LUCE – di padre Frédéric Manns

http://www.terrasanta.net/tsx/articolo-rivista.jsp?wi_number=3180&wi_codseq=TS1104

ALLE PORTE DI SION

CHIAMATI AD ESSERE FIGLI DELLA LUCE

di padre Frédéric Manns ofm | luglio-agosto 2011

Senza l’Antico Testamento non si capisce il Nuovo. Questo vale anche per la trasfigurazione di Gesù sulla montagna. Mosè fu il primo a fare l’esperienza della trasfigurazione. Rimase quaranta giorni e quaranta notti sul monte Sinai a parlare con Dio. Questo contatto con Dio gli valse un’esperienza unica: «Il suo volto era raggiante», dice la Scrittura. La salita alla montagna prepara alla trasfigurazione. Non si tratta soltanto di una salita fisica, ma di una salita spirituale.
Ma serve qualche elemento in più per capire questa pagina evangelica. Adamo ed Eva, secondo la tradizione rabbinica, non erano stati creati nudi, ma con un vestito di luce (’or). Dovevano essere trasparenti l’uno all’altro. Questa trasparenza doveva essere fonte di gioia e di luce. Dopo il peccato, persero questo vestito di luce che si trasformò in pelle. Adamo ed Eva conobbero la sensualità, la volontà di dominarsi l’un l’altro e di trarre gioia l’uno dell’altro. Il loro itinerario spirituale consisterà così nel ritrovare la luce nonostante la sensualità. L’uomo si troverà a combattere una tensione interiore. Dovrà partire dall’eros per raggiungere l’agapê: questa è la difficile vocazione dell’uomo.
Questa lotta è però illuminata dalla speranza messianica. Il Messia, quando verrà – affermano le fonti rabbiniche – riporterà il vestito di luce di Adamo. I cristiani che accettano Gesù come Messia ricevono un vestito bianco nel battesimo. Sono chiamati ad essere figli della luce.
L’episodio della trasfigurazione indica che anche l’uomo è chiamato a ritrovare la trasparenza primitiva. Mosè ci indica la strada che porta alla trasfigurazione: l’uomo è chiamato ad entrare nel deserto, a spogliarsi di tutto quello che non serve. Deve poi salire sulla montagna, parlare con Dio. La preghiera rende possibile la trasfigurazione. Il volto dell’orante diventa raggiante. Non ha più paura del volto dell’altro, perché non si sente giudicato, ma amato da Dio.
Il realismo cristiano sa che dopo l’uscita dall’Egitto e il dono della Torah comincia la traversata del deserto. E la vita è la traversata del deserto con l’esperienza della sete. La scoperta del pozzo d’acqua nel deserto significa la scoperta dell’acqua viva della Parola di Dio che permette di traversare questa distesa ostile.
Accanto a Mosè appare Elia, il profeta. Elia era fuggito all’Horeb dopo aver ucciso i falsi profeti di Baal. La traversata del deserto fu difficile. Dio gli mandò un angelo che gli portò pane ed acqua per continuare la strada. Arrivato all’Horeb, entrò in una grotta. Dio non si manifestò nell’uragano, né nel terremoto, ma nel silenzio della voce (Qol demamah). Entrare in sé, ascoltare la voce del silenzio, è un altro modo di prepararsi alla trasfigurazione. La vocazione di Abramo è identica: Lek leka («Rientra in te. Va verso di te»).
La trasparenza di Adamo e di Eva ha una dimensione personale, ma anche sociale e, addirittura, politica. Paolo di Tarso ricordava ai cristiani che mangiavano il pane azzimo una responsabilità in più: dovevano mangiare a maggior ragione gli azzimi di sincerità e di verità.
Il fermento che fa gonfiare la pasta è simbolo dell’orgoglio umano: l’uomo si gonfia, vuol essere più importante di quello che è in realtà. Gli azzimi e il mistero pasquale ci introducono alla trasfigurazione. Sono la strada che permette all’uomo di ritrovare la sua vocazione iniziale: quella di essere figlio della luce.

Publié dans:Padre Fréderic Manns, STUDI |on 14 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

LA CATEGORIA BIBLICA DELL’ACQUA E IL SUO SIMBOLISMO

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LA CATEGORIA BIBLICA DELL’ACQUA E IL SUO SIMBOLISMO

Per una rilettura nel contesto della pastorale giovanile

Giuseppe De Virgilio

(NPG 2003-07-64)

Il tema dell’acqua è ampio in quanto abbraccia l’esistenza umana ed è presente lungo la storia biblica. Esso appare ai primordi dell’umanità (Gen 1,1), dove viene presentato il Creatore che agisce attraverso il suo “Spirito” (ruah) sulle acque cosmiche; ma si ritrova anche ampiamente attestato nell’Apocalisse e nella visione finale in riferimento alla “nuova creazione” (Ap 21,1: il mare; 22,2: il fiume e la fecondità). Ad uno sguardo complessivo si può affermare che una considerevole parte della tradizione extrabiblica e biblica fa riferimento all’acqua come elemento fondamentale e presupposto costitutivo della struttura del mondo (Gen 1,6: “divise poi in acque superiori ed inferiori”). Essa è principio di vita e di morte a seconda della situazione in cui si trova e in cui si usa, è semplice e chiara nella sua costituzione fluida, ma può costituire nella sua grande massa un senso di mistero, di penetrabilità di luce solo parziale e di forza incontrollabile. Unitamente alla sua notevole attestazione quantitativa (oltre 1500 riferimenti biblici), la categoria dell’acqua porta in sé una consistente valenza simbolica legata alle origini della creazione, alla vita degli uomini e alla loro esperienza di fede, con un’ampia gamma di significati. Dopo un accenno all’impiego biblico del termine “acqua” e ai suoi derivati, articoliamo il nostro percorso in due parti:
– l’acqua come categoria espressiva della vita e della storia del popolo ebraico;
– l’acqua come simbolo dell’esperienza cristiana.
L’elaborazione dei principali messaggi legati al nostro tema ci consente di rileggere la categoria in una prospettiva esistenziale e segnatamente rivolta al mondo giovanile e al suo contesto.

L’impiego biblico del termine “acqua” e i suoi derivati
Il termine ebraico majîm (“le acque” attestato circa 580 nell’AT) e quello greco hydōr (LXX traduce quasi sempre con questo termine l’ebraico majîm) designano la categoria dell’acqua e i suoi derivati. In Es 15,8 e Sal 77,16 hydōr allude ai “torrenti” (dall’ebraico nāzal); con il termine greco pēghē (impiegato oltre 50 volte) si indica l’erompere dell’acqua sorgiva (Gn 2,6) e, al plurale, le sorgenti che provengono dall’abisso (Gn 7,11; 8,2). Molto di frequente la parola viene usata come complemento di termini idrografici (Sal 1,3: ruscelli d’acqua; Gn 24,13: fonte d’acqua) o unita ad una località (Gs 11,5.7: acqua di Merom; Gs 16,1: acqua di Gerico; Gdc 5,19: acque di Meghiddo). Inoltre con il termine majîm rabbîm nella Bibbia si indica anche la massa marina delle acque (Is 23,3; Ez 27,26; Sal 29,3; 77,20; 107,23). Il suo uso linguistico allude ad una materia che si manifesta in varie forme: con l’acqua si indicano fenomeni meteorologici (nubi, nebbia, foschia, grandine, rugiada, neve, brina), designazioni geografiche (fonti, ruscelli, fiumi, canali, torrenti, mari) e usi domestici (bevanda, economia della casa, lavoro). Conseguentemente le immagini che si collegano all’acqua non sono proprie del concetto stesso, ma vengono espresse in forme diverse e con l’ausilio di specificazioni e di ampliamenti di senso. Rileggendo le narrazioni bibliche è possibile cogliere la ricchezza espressiva e simbolica della categoria dell’acqua nei suoi contesti.

L’acqua come categoria espressiva della vita del popolo ebraico

Le idee e i messaggi connessi all’acqua si fondono nella storia salvifica vissuta dal popolo ebraico e nel contesto concreto della terra di Canaan, della sua situazione idrica e della cultura legata alla vita quotidiana e agli scambi sociali tra i gruppi sociali del tempo. Alla luce delle ricorrenze della categoria dell’acqua, possiamo distinguere con L. Goppelt un uso proprio e uno traslato. Nell’uso proprio del termine si individuano tre aspetti legati all’acqua.

L’acqua come elemento indispensabile di vita per gli uomini e la natura
Molte sono le allusioni al ruolo dell’acqua per la sussistenza umana: essa insieme al pane è una necessità vitale e benedetta da Jahvé (Es 23,25). Così la costante pane-acqua ritorna nelle vicende di importanti personaggi biblici: Davide (1Sam 30,11-12); Elia (1Re 18,4.13; 22,27); Eliseo (2Re 6,21); Ezechiele (Ez 4,11-16s). Il digiuno totale consiste nel rinunciare al pane e all’acqua (Es 34,28, Dt 9,9.18). Troviamo l’impiego dell’acqua nelle frequenti citazioni di pozzi e cisterne (Gn 26,18; 37,20), in riferimento all’irrigazione della terra coltivabile (Dt 11,10; 2Re 18,17), per l’abbeverazione del bestiame (Gn 30,38) e soprattutto l’approvvigionamento idrico durante il cammino attraverso il deserto. Al popolo assetato, che mormora per la scarsa fede (Nm 20,24; 27,14; Sal 81,8; 106,32) Dio risponde con il prodigio della sorgente scaturita dalla roccia (Es 17,2-7; Nm 20,7-11). Questo episodio sarà ripreso come insegnamento per il popolo nella grande profezia del nuovo esodo (Is 48,20-21), quando il Signore farà fiorire il deserto (Is 41,17-18) e la gente di Israele con tutto il suo bestiame sarà dissetata (Is 43,20). L’acqua come elemento di vita è presente nella promessa della terra “fertile”, che si differenzia dalla steppa e dal deserto. È proprio questa terra fertile promessa da Jahvé che sarà la “stabile dimora del popolo” (Nm 24,7; Dt 8,7; 11,11). Essa diventerà successivamente immagine soltanto parziale del “luogo escatologico” che prefigura, per i giusti, una terra paradisiaca nella quale sgorgheranno torrenti di acqua viva (Is 30,23-26): sarà lo stesso Signore a fornire pane e acqua per la vita degli uomini (Is 55,1).

L’acqua come marea fluttuante
Un secondo aspetto è dato dalla presentazione dell’acqua come un oceano o una marea fluttuante, presentata in modo particolare in tre contesti veterotestamentari. Il primo contesto è costituito dal racconto di creazione di matrice sacerdotale (Gn 1,1-2,4a), secondo il quale il creatore “separa” le acque del mare (immagine del caos cosmico) facendo sorgere la volta celeste e collocando le acque superiori al di sopra della volta celeste (oceano celeste, cf Gb 36,27-28; Sal 29,3; 33,7; 148,4) e le acque inferiori al di sotto del firmamento (il mare su cui poggia la calotta terrestre, cf Sal 104, 2-4). La marea fluttuante, per opera di Dio, da caos cosmico si trasforma in parte costitutiva del cosmo ordinato secondo le leggi della creazione. Il secondo contesto, unito al precedente, è dato dal racconto del diluvio universale dove le acque primordiali si riversano per ordine di Dio sulla terra dal di sopra dei cieli e dal di sotto (Gn 7,11), provocando il ritorno del caos e della morte. In questo caso le acque rappresentano la potenza del caos che minaccia la terra e i suoi abitanti. Il terzo contesto è costituito dalla narrazione della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù di Egitto e dal passaggio del Mar Rosso (Es 14-15). La funzione dell’acqua distruttrice è sottolineata soprattutto nella tragica sorte degli inseguitori di Israele che vengono travolti dalla potenza delle onde, mentre il popolo è libero e salvo sulla terra ferma (Es 14,27-30; 15,19-21). Questo evento salvifico del “passaggio attraverso le acque” diventerà una costante simbolica nell’esperienza di Israele e nella sua rielaborazione teologica (Sal 77,17.20-21; 78,13; 106,9-11; 136,13-15; Is 51,10; 63,12; Ne 9,11). Una ripresa di questo tema può essere intravista nell’episodio del transito dell’arca attraverso il fiume Giordano nell’ingresso della terra promessa (Gs 3,8; 4,18) e nel gesto simbolico del profeta Elia che divide con il suo mantello le acque dello stesso fiume (2Re 2,8).

L’acqua come mezzo di purificazione
Un terzo aspetto relativo all’impiego della categoria dell’acqua è collegato alla sua valenza rituale e purificativa. Nella pratica dell’ospitalità l’acqua viene offerta ai forestieri per la lavanda dei piedi (Gn 18,4; 19,2; 2Sam 11,8). Insieme all’olio, al sangue e al fuoco, l’acqua diviene per la comunità ebraica un elemento necessario per le purificazioni rituali, prescritte e tramandate nella tradizione levitica (cf Lv 11-15). Secondo le leggi di purificazione, ogni persona che era contaminata doveva lavare il suo corpo con l’acqua corrente (Lv 14,5-6; Nm 19,9-22), così come i riti di purificazione vengono svolti mediante aspersioni su persone e oggetti (Lv 14,7.51; Nm 8,7; 19,18-19). Insieme al bagno del corpo nella legislazione levitica è spesso prescritto per l’uomo il lavaggio dei vestiti (Lv 14,8-9; 15,5-13; Nm 8,7.21) e di tutto ciò che viene a contatto con il mondo pagano ed impuro, in quanto Israele, quale popolo consacrato a Jahvé, è chiamato a tenersi distante da tutto ciò che lo rende profano. Particolare è il caso di un rinvenimento di cadavere contemplato in Dt 21,6, che prescrive agli anziani della comunità la lavanda delle mani “su una giovenca decollata” per affermare la propria innocenza e purificare il luogo mediante il sangue (cf Nm 19,11-13). In questa linea rituale si colloca il simbolismo della purificazione dal peccato mediante il segno dell’acqua (Sal 51,9) e della remissione delle colpe di tutto il popolo mediante un’aspersione escatologica (Ez 36,25), simbolo del perdono finale di Dio (Is 1,16; 4,4; Ger 33,8) e soprattutto la prospettiva battesimale neotestamentaria. Nello sviluppo del giudaismo fino al tempo di Gesù i farisei elaborarono un sistema articolato di prescrizioni rituali per la purificazione (lavanda di mani, stoviglie, vesti, ecc.) menzionato nei vangeli nel contesto della polemica tra Gesù e i farisei (Mc 7,2-5). L’uso dell’acqua per la purificazione è inoltre prescritto presso le comunità esseniche (Qumr¯an) con una forte valenza rituale per la “santificazione totale” degli adepti.

Il percorso simbolico nella storia del popolo di Dio
Oltre al suo uso proprio, la categoria dell’acqua si caratterizza per la sua valenza metaforica e simbolica. Evidenziamo alcuni aspetti che ci aiutano a cogliere la ricchezza della categoria dell’acqua nella tradizione biblica.

L’acqua creatura di Dio
Nei racconti della creazione, che conservano i modelli culturali mesopotamici, si pone in evidenza come l’acqua è inserita nell’ordine istituto da Dio. Infatti secondo l’antica visione cosmogonica dell’universo, la potenza dell’acqua è saggiamente utilizzata da Dio per separare, per inondare la terra di pioggia (Gn 7,11; 8,2), per far scendere la rugiada sull’erba (Gb 29,19). È Dio il “signore del mondo” e quindi anche dell’acqua: da lui proviene la vita, la siccità (Am 7,14; Is 44,27) o l’inondazione (Gb 12,15), “egli spande la pioggia sulla terra” (Gb 5,10) e veglia affinché cada regolarmente “a suo tempo” (Lv 26,4). Nella sua provvidenza Dio accorda agli uomini le piogge di autunno e di primavera (Dt 11,14; Ger 5,24) assicurando la prosperità al paese (Is 30,23-25). Tra tutti i testi biblici il Sal 104 riassume con particolare efficacia il dominio del Creatore sulle acque: egli ha creato le acque superiori come quelle dell’abisso (104,3.6), regola il flusso del loro corso (104,7), le ritiene affinché non sommergano il paese (104,9), fa sgorgare le sorgenti (104,10) e discendere la pioggia (104,13) per portare gioia e prosperità sulla terra (104,11-18). L’associazione dell’acqua con gli estremi, trascendenza dei cieli e profondità degli abissi, fa di questa categoria una delle più efficaci per esprimere la grandezza e l’onnipotenza di Dio sull’uomo e sulla storia.

L’acqua nella storia del popolo di Dio
L’azione di Dio nei riguardi del suo popolo si può rileggere attraverso la valenza simbolica dell’acqua. Infatti è comune sentire di Israele che la fecondità rappresenti una benedizione divina dispensata sul popolo (Lv 26,3-5; Dt 28,1.12), mentre la siccità appare come una punizione per gli empi e i peccatori (Is 5,13; 19,5-7). La chiave di lettura della storia biblica della nostra categoria è segnata dalla fedeltà all’alleanza e dall’obbedienza alla legge, in base alla quale l’Onnipotente accorda o rifiuta l’acqua, e quest’ultima diventa strumento di vita o di morte per la comunità ebraica. La parola di Dio è paragonata alla pioggia che viene a fecondare la terra (Is 55,10-11; Am 8,11-12), e la dottrina che la sapienza di Dio elargisce è considerata come “un’acqua vivificatrice” (Sir 15,3; 24,25-31). Così per coloro che obbediscono alla voce del Signore e lo servono fedelmente l’acqua sarà dono di fecondità e di rinnovamento (Gn 27,28; Sal 133,3; Ez 47), sorgente di vita (Es 17,1-7) e guarigione (il caso di Naaman il siro che si lava nel Giordano: 2Re 5,10.14), mentre per quanti abbandonano Dio per seguire altri idoli ci sarà siccità e desolazione (cf il caso di Acab e la sfida di Elia sul Carmelo, 1Re 18,18). Nella medesima prospettiva simbolica va letta la “grande purificazione” del diluvio, devastatore dell’umanità corrotta (Gn 6-9), la settima piaga contro l’Egitto (una terribile tempesta accompagnata da grandine e piogge torrenziali, Es 9,33-35), l’uragano contro i nemici di Giosuè a Gabaon (Gs 10,11) e la copiosa pioggia sulle truppe nemiche raccolte ai piedi del Tabor, al tempo di Debora (Gdc 5,4). Secondo lo schema interpretativo desunto dalle narrazioni cultuali e parenetiche, la storia dell’alleanza tra Jahvé e il suo popolo è quindi fortemente segnata dal simbolismo dell’acqua che accompagna il progressivo cammino della comunità santa nel compimento delle promesse di Dio.

La valenza escatologica
Un ulteriore rilevante aspetto è associato alla categoria dell’acqua: la sua valenza escatologica, vista nella prospettiva della restaurazione del popolo di Dio, con il ritorno degli esuli dall’esilio di Babilonia. È proprio a partire dall’evento drammatico dell’esilio babilonese (2Re 25), che prende forma una consistente riflessione escatologica nella quale viene rielaborata la teologia del nuovo esodo e ricollocata nella prospettiva della restaurazione finale mediante splendidi prodigi. Come un tempo Jahvé aveva dato acqua dalla roccia per spegnere la sete del suo popolo (Nm 20,1-13; Sal 78,16.20; 114,8; Is 48,21), così il Dio fedele all’alleanza un giorno rinnoverà questo prodigio (Is 43,20) e il deserto si trasformerà in un fertile frutteto (Is 41,17-20), in tutto il paese ci saranno abbondanti sorgenti (Is 35,6-7). È centrale in questa prospettiva l’immagine di Gerusalemme, dal cui tempio ricostruito sgorgherà una fonte perenne (Ez 47,1-12) e lungo il suo corso sarà abbondante e rigogliosa la vegetazione. Questo è il segno della speranza, del ritorno della gioia e della felicità “paradisiaca”. In questo tempo di gioiosa ricomposizione il popolo troverà nelle acque benedette la purezza (Zc 13,1), la vita (Gioe 4,18) e la santità (Sal 46,5). “In breve, Dio è la fonte di vita per l’uomo e gli dà la forza di fiorire nell’amore e nella fedeltà. Lontano da Dio l’uomo non è che una terra arida e senza acqua, votata alla morte; egli quindi sospira verso Dio come la cerva anela all’acqua viva. Me se Dio è con lui, egli diventa come un giardino che possiede in sé la fonte stessa che lo fa vivere” (M.-E. Boismard).

L’acqua come simbolo dell’esperienza cristiana
La maggior parte degli aspetti rilevati riguardo all’acqua nel percorso veterotestamentario sono ripresi nella predicazione di Gesù e della prima comunità cristiana, in modo particolare nella prospettiva battesimale e nella letteratura giovannea. Sia in senso proprio che figurato, la categoria dell’acqua riassume complessivamente le tre dimensioni indicate per l’Antico Testamento: si presenta come dono di Dio per la vita (l’immagine del bicchiere di acqua fresca: Mt 10,42; il ricco epulone, Lc 16,24-26), come marea fluttuante (l’immagine del lago [mare] di Genezaret: Mc 4,35; il fiume di acqua: Ap 12,15) e come elemento rituale di purificazione (in casa di Simone il Fariseo: Lc 7,44; i riti dei giudei: Mc 7,2-5; la lavanda dei piedi: Gv 13,1-11). È essenziale notare che la riflessione neotestamentaria intorno alla categoria dell’acqua è in un rapporto strettissimo con la persona di Gesù, il quale è venuto a portare agli uomini le acque vivificatrici promesse dai profeti. Per ragioni di sintesi preferiamo soffermarci brevemente su quattro momenti salienti della vita di Cristo collegati al simbolismo dell’acqua, dai quali possiamo cogliere la specificità del messaggio cristiano: il battesimo (Mt 3,11-17), il segno di Cana (Gv 2,1-12), il dialogo con la samaritana (Gv 4,1-42) e la rivelazione salvifica a Gerusalemme (Gv 5; 7; 9; 13; 19).

L’acqua nel battesimo al Giordano
Il simbolismo dell’acqua trova il suo pieno significato nel battesimo cristiano (cf Mt 3,13-17), la cui risonanza neotestamentaria viene rielaborata in diversi luoghi neotestamentari (Rm 6; 1Cor 6,11; Ef 5,26; Tt 3,5; Eb 10,22; 1Pt 3,21; 2Pt 2,22). La scena del battesimo è preceduta dall’allusione all’acqua fatta dal Battista: “Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più potente di me e io non son degno neanche di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito santo e fuoco” (Mt 3,11). In questa affermazione si coglie il passaggio dall’antico rito di purificazione in uso nel mondo giudaico-veterotestamentario, alla trasformazione spirituale operata dal Cristo. Per il credente il “battesimo con acqua” costituisce l’incipiente purificazione finale, che procura il perdono dei peccati e il processo della conversione, mentre Gesù compie il rinnovamento del cuore mediante il dono dello Spirito. Giovanni, compiendo il gesto battesimale verso Gesù, si serve dell’acqua del Giordano, che un tempo aveva purificato lo straniero Naaman dalla lebbra (2Re 5,10-14). L’intero racconto di Mt 3,13-17 ruota intorno al binomio acqua-Spirito: la predicazione escatologica di Giovanni, l’incontro con Gesù, l’immersione nelle acque del Giordano, l’attestazione dello Spirito e la conferma della voce divina dal cielo. Nel segno dell’acqua si unisce l’aspetto purificativo e rituale della tradizione ebraica con il rinnovamento del credente che si converte e aderisce a vangelo (Eb 9,13). L’affermazione del Battista viene ripresa più volte nel racconto degli Atti degli Apostoli, in una prospettiva spiccatamente ecclesiale e sacramentale. In At 1,5 si allude alla promessa dello Spirito Santo fatta da Gesù durante le apparizioni pasquali, mentre in At 19,1-7 Paolo incontra alcuni discepoli che avevano ricevuto il battesimo di Giovanni e li orienta al battesimo cristiano nello Spirito. Allo stesso modo l’adesione alla fede da parte dei non circoncisi implica il dono del battesimo, come momento culminante dell’esperienza cristiana (At 10,47-48; 11,16-17). Questi passi fanno riferimento all’evento del Giordano e al significato profondo che si attribuisce al battesimo di Gesù. Dio concede lo Spirito Santo non in modo automatico, bensì in funzione della fede e della formazione della chiesa (At 8,16-17). In definitiva l’acqua nel battesimo al Giordano possiede una ricca simbologia che evidenzia il dinamismo dell’esistenza cristiana, dal processo di conversione all’impegno a favore della costruzione della comunità dei credenti.

L’acqua cambiata in vino a Cana
Tra i diversi messaggi contenuti nella nota pagina di Gv 2,1-12, va evidenziato il “passaggio” dell’acqua nel vino necessario alla buona riuscita delle nozze. L’abbondante vino della gioia e della festa è quindi derivato dall’acqua, che era nelle giare di pietra a disposizione per la lavanda delle mani e per la purificazione dei vasi (Gv 2,6). Questa osservazione potrebbe fornire un ulteriore senso teologico al cambiamento degli elementi: il dono della gioia messianica e della salvezza portata da Cristo (vino) subentra ai riti e alla legge (acqua) vigente presso il popolo di Israele (cf Gv 1,17). Infatti facendo riempire di acqua le giare, Gesù indica la volontà di “ristabilire il rapporto con Dio” che la Legge antica (scritta su pietre) non aveva ottenuto. La trasformazione in vino, rilevata dall’assaggio del maestro di tavola, spiega che la purificazione è indipendente dalla Legge dell’antica alleanza: tale purificazione non avverrà al di fuori (acqua che lava), ma nell’intimo dell’uomo (vino che si beve). La narrazione si conclude con l’affermazione: “Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (Gv 2,11). L’inizio dei segni indica l’inizio di un modo nuovo di comprendere l’esperienza della fede cristiana, che implica un salto di qualità nel credere non tanto al miracolo, quanto alla persona di Gesù, “sposo dell’umanità” che trasforma il vecchio in nuovo, l’acqua in vino.

L’acqua nel dialogo con la samaritana
Un prezioso testo cristologico collegato con il simbolismo dell’acqua è l’incontro tra Gesù e la donna samaritana (Gv 4,1-42). L’incontro tra i due personaggi culmina nel messaggio enigmatico di Cristo: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: ‘Dammi da bere!’, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva” (Gv 4,10). Il dialogo tra i due personaggi ruota intorno al concetto di “acqua viva”: la donna viene gradualmente guidata da Cristo all’interno del suo cuore per scoprire il senso nascosto di quelle parole e cogliere la verità della propria vita. L’acqua viva, che in Gv 7,37 allude al dono dello Spirito Santo, viene proposta a partire dall’immagine veterotestamentaria del “pozzo di Giacobbe” (Gv 4,5-6.12). Il Signore trasforma l’acqua delle promesse fatte a Giacobbe (pozzo) in una “sorgente zampillante per la vita eterna” (Gv 4,14), un dono che estingue la sete e che porta l’uomo alla pienezza della sua realizzazione. La profezia diventa compimento in Gesù. “Il suo dono, l’acqua viva, che diventa la sorgente di acqua, è la sua parola (Gv 8,37; 15,7), il suo spirito (Gv 7,39; 14,17) lui stesso (Gv 6,56; 14,20; 15,4-5): in Gv 7,39 è appropriatamente spiegata dall’evangelista” (L. Goppelt). Il senso conferito alla categoria dell’acqua è profondamente cristologico. Gesù diventa la risposta alla domanda del cuore umano: se il pozzo di Giacobbe ha avuto un ruolo vitale ma temporaneo per i personaggi patriarcali, sarà l’incontro nella fede con Cristo-sorgente a compiere quel desiderio di verità e di pace che ci spinge “oggi” a rimetterci in discussione e ad accogliere “il profeta” che disseta la nostra sete.

L’acqua elemento di rivelazione e segno di salvezza
Infine vanno menzionati, nel contesto dei racconti relativi al ministero di Gesù in Gerusalemme, almeno quattro episodi legati all’acqua e al suo simbolismo. I primi due sono racconti di guarigione: il malato da trentotto anni presso la piscina di Betzaetà (Gv 5, 1-9) e il cieco nato che va a lavarsi nella piscina di Siloe (Gv 9,7). Entrambi ottengono la salute nel giorno di sabato: il primo viene guarito senza entrare nell’acqua della piscina, a dimostrazione che l’adesione a Cristo ottiene una grazia escatologica che abolisce le regole naturali e supera la stessa norma del sabato (Gv 5,7-9.17.20-21). Il secondo riceve il fango sugli occhi e ritrova prima la vista fisica (Gv 9,7) e, dopo un lungo percorso di discernimento (Gv 9,8-35), fa l’incontro con Cristo ed entra nell’esperienza della fede (Gv 9,36-43). In quest’ultimo racconto di guarigione il cieco guarito ci aiuta a comprendere come il percorso di “riconoscimento” di Cristo comincia dall’atto purificatore dell’acqua di Siloe e dalla sua immersione. L’evangelista gioca sul senso della parola “Siloe” (che significa Inviato), in riferimento a Cristo e di conseguenza “lavarsi in Siloe” esprime un’allusione al contesto battesimale. Gli ultimi due testi rappresentano il compimento del nostro percorso biblico: l’acqua nel gesto della lavanda dei piedi (Gv 13,1-11) e il costato trafitto di Gesù sulla croce, da cui esce “sangue ed acqua” (Gv 19,34). Con il gesto della lavanda viene rappresentato in figura ciò che Gesù compirà nella passione a favore dei suoi discepoli: un amore “fino all’ultimo” (eis telos: Gv 13,1.34; 15,13). Questo amore consiste nel “rendere puri i suoi discepoli” di fronte a Dio (Gv 13,6-11) e nel dare l’esempio estremo del servizio reciproco (Gv 13,12-20), di come il Cristo non è venuto per essere servito ma per dare la vita (cf Mc 10,45). La scena descritta in Gv 19,31-34 va colta in tutta la sua ricchezza simbolica: la trafittura del costato da cui fuoriesce “sangue ed acqua” non sottolinea solo il sopravvenire della morte, ma vuole ricordare che i due sacramenti qui simboleggiati, eucaristia e battesimo, derivano dalla morte di Gesù e con ciò sono consegnati alla chiesa. Come in una inclusione, il quarto vangelo apre con l’acqua del battesimo al Giordano e chiude l’esistenza terrena di Gesù con l’acqua del suo costato trafitto. Una chiara allusione a questa elaborazione teologica si trova in 1Gv 5,6-8, dove l’autore collega il significato dell’acqua battesimale con quello della morte pasquale e del dono dello Spirito, così come nel dialogo notturno con Nicodemo la “rinascita da acqua e da Spirito” si riferisce ugualmente al battesimo (Gv 3,5) che è un “venire alla luce” (Gv 3,21). In definitiva la categoria dell’acqua accompagna il graduale manifestarsi di Gesù agli uomini ed evidenzia la fecondità e la vita che Dio, nel suo Spirito, dona a quanti si affidano a Lui.

L’acqua, categoria comunicativa nel contesto giovanile
Il nostro percorso ci ha consentito di evidenziare numerosi e ricchi contenuti biblici, che chiedono di essere tradotti nel contesto esistenziale e pastorale. Ci sembra opportuno segnalare almeno cinque relazioni in grado di coniugare i contenuti della riflessione biblico-teologica con le attese e le aspirazioni del contesto giovanile del nostro tempo:
– acqua / “dono di vita”;
– acqua / “appello alla conversione”;
– acqua / “riscoperta battesimale”;
– acqua / “segno di servizio”;
– acqua / “attesa di speranza”.

Acqua – “dono di vita”
L’analisi proposta ci ha mostrato come la categoria dell’acqua esprima in primo luogo il senso della vita e della fecondità, che è forte nel cuore del mondo giovanile. Il libro del Siracide ricorda all’uomo ciò che gli è essenziale: “Indispensabili alla vita sono l’acqua, il pane, il vestito e una casa che serva da riparo” (Sir 29,21). Il bisogno di vita autentica e di essenzialità sono aspetti centrali della ricerca esistenziale e progettuale dei giovani, troppe volte disattesi o mistificati. L’amore per la vita, la freschezza che nasce dal desiderio di libertà, trovano nell’applicazione della nostra categoria riferimenti efficaci per poter esprimere la bellezza del “dono dell’esistenza”. Come l’acqua è creatura di Dio, elemento costitutivo del mondo, essenziale alla natura e agli uomini, così la vita va letta e proposta come “dono straordinario”, deve caratterizzarsi per la sua “fluidità”, per la sua “purezza” e la sua “fecondità”. Tuttavia l’acqua non può essere feconda se non riceve una “separazione” come nel modello della creazione. Dio, separando le acque, crea e dà ordine al cosmo; così è per la vita e la sua progettualità. Come l’acqua governata da Dio scende dal cielo, segue un percorso, viene convogliata dagli uomini per l’irrigazione e feconda la terra, così la vita chiede di essere spesa secondo un progetto di totale donazione agli altri.

Acqua – “appello alla conversione”
Un secondo aspetto è legato al bisogno di cambiamento e di conversione: entra qui in gioco la capacità di “saper guardare” dentro la vita e di lasciarsi guidare nel discernimento. Non c’è decisione di conversione senza prima l’incontro con il proprio cuore ferito e deluso. Abbiamo considerato come l’impiego dell’acqua nella Bibbia designi in vari modi la purificazione dal peccato da parte del singolo e della comunità. L’acqua, dono di Dio per la vita, è il segno di una purificazione non solo esteriore, ma interna, profonda. La dinamica della conversione implica un “rinascere”, una capacità di accogliere la forza spirituale per intraprendere il cammino di verità di fronte a se stessi, agli altri e a Dio. All’anziano Nicodemo, Gesù annuncia la necessità di “rinascere dall’acqua e dallo Spirito” (Gv 3,5), in una duplice prospettiva: purificare i peccati della vita passata e rinnovarsi nel nuovo modo di “vedere-credere” in Dio attraverso il dono dello Spirito (che viene “dall’alto”). Così nei vari simboli biblici della purificazione/conversione rappresentati dallo “scendere-immergersi” nell’acqua, dall’aspersione con l’acqua, dal “passaggio attraverso l’acqua”, dal superamento delle prove rappresentate dalla violenza delle acque fiumane, dal “camminare sopra le acque”, diventano un invito concreto a “risalire dalle acque”, ad accettare la verità della propria esistenza e a saper superare con realismo gli errori, i conflitti e gli ostacoli che ci oppongono al progetto di Dio.

Acqua – “cammino battesimale”
In continuità con la precedente relazione, la categoria dell’acqua nella sua rilettura neotestamentaria, implica la riscoperta e il recupero della centralità del proprio cammino catecumenale e battesimale e con esso la dimensione comunitaria. Il battesimo è per se stesso il “sacramento giovane” che viene posto come condizione iniziale del cammino verso la vita. Esso non è solo il bagno che lava i nostri peccati (1Cor 6,11; Ef 5,26), ma attraverso il ricco simbolismo dell’immersione-emersione del neofita esso configura il credente alla morte e risurrezione di Cristo, principio pasquale di vita nuova. Di fronte alla difficoltà di proporre il senso dell’esperienza battesimale al mondo giovanile, la rilettura della categoria dell’acqua nelle sue narrazioni e simbologie, aiuta a rileggere in profondità l’itinerario dell’incontro personale e comunitario con Dio (il diluvio, il passaggio del mar Rosso, la guarigione di Naaman il siro, ecc.). Occorre notare come l’intero percorso battesimale implichi l’ingresso nell’esperienza comunitaria: il neofita viene accolto dalla chiesa e scopre il suo posto “dentro” la comunità dei credenti. Questa realtà costituisce senza dubbio la frontiera più delicata dell’esperienza pastorale con il mondo giovanile: la dimensione comunitaria rappresenta la condizione vitale per vivere il proprio battesimo e portare a compimento il progetto di Dio.

Acqua – “segno di servizio”
Un ulteriore messaggio che emerge dalla nostra analisi è la connessione tra la categoria dell’acqua e il gesto del servizio, particolarmente significato dalla scena della lavanda dei piedi (Gv 13,1-11). Riprendendo l’antica tradizione dell’ospitalità, secondo la quale si offriva al forestiero acqua per lavarsi i piedi, Gesù compie il segno dell’amore estremo che anticipa il dono totale di sé. Il linguaggio del servizio parla al mondo giovanile senza rischi di retorica: servire per amore significa “chinarsi” davanti agli altri e scegliere di “lavare i piedi”, gesto che lo schiavo eseguiva verso il suo padrone. Il messaggio evangelico propone il radicale rovesciamento delle relazioni interpersonali: è il maestro che lava i piedi ai suoi discepoli e dà l’esempio a tutti. Pietro interpreta il gesto come una purificazione rituale (Gv 13,9), ma Gesù corregge l’idea aprendo la prospettiva nuova dell’amore fraterno e della totale offerta di sé agli altri: “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri” (Gv 13,14). Nel segno della lavanda dei piedi è racchiuso tutto il mistero del servizio cristiano, la sua dignità, la sua sconvolgente profezia, che già in diversi modi tantissimi giovani interpretano e vivono.

Acqua – “attesa di speranza”
Un ultimo aspetto è dato dalla dimensione dell’attesa e della speranza, che si coglie in particolar modo in due testi giovannei: la rivelazione nell’ultimo giorno della festa delle capanne (Gv 7,39) e la scena del costato trafitto del crocifisso (Gv 19,34). In entrambi i testi emerge in modo suggestivo la “promessa” dello Spirito Santo che il Risorto avrebbe effuso sui credenti e la pienezza dell’amore rivelata nel mistero pasquale. La fede in Gesù, generata dall’incontro personale con il Risorto, fa abbeverare a Cristo e dalla sua acqua fa nascere la “forza della speranza”, come uno sgorgare di “fiumi di acqua viva”. Lo stesso simbolo è ripreso in Ap 7,17, dove si afferma che Cristo condurrà gli eletti alle sorgenti delle acque della vita e, a chi ha sete, il Signore darà da bere alla sorgente della vita (Ap 21,6). L’acqua diventa così una immagine per esprimere la forza della speranza cristiana, che vede il mondo giovanile protagonista di questo tempo, non sottomesso alla logica della massificazione e del calcolo umano, ma profeticamente libero di guardare al tempo che passa come un incessante scorrere di un acqua viva in attesa di quel “fiume di acqua di vita che scaturisce dal trono dell’agnello” (Ap 22,1).

Conclusione
Le considerazioni svolte intorno alla categoria dell’acqua ci hanno fatto cogliere non solo la consistenza simbolica e l’ampiezza del tema, ma soprattutto la natura del cambiamento avvenuto nel passaggio dall’Antico Testamento alla persona di Gesù Cristo, “sorgente di acqua viva”. In effetti questa importante categoria diventa una significativa chiave di lettura per rileggere l’incontro con la persona di Gesù e “rimanere in Lui”. Ripercorrendo il vangelo giovanneo non è difficile constatare come la categoria dell’acqua possa costituire un’efficace chiave di lettura dell’incontro con Cristo. Gesù si immerge nell’acqua del Giordano (Gv 1) e trasforma l’acqua della purificazione in vino nuovo (Gv 2). A Nicodemo, visitatore notturno, annuncia che si può “rinascere” solo “dall’acqua e dallo Spirito” (Gv 3) e alla samaritana rivela di essere Lui stesso “la sorgente di acqua zampillante” (Gv 4). Il Signore guarisce il malato alla piscina di Betzaetà annullando la lunga attesa per la sua risposta di fede (Gv 5) e dopo il segno della moltiplicazione dei pani dimostra la sua signoria, “camminando sulle acque” (Gv 6). Al culmine della festa delle Capanne Gesù rivela la promessa dell’acqua viva per i credenti (Gv 7), tra i quali sarà anche il cieco nato, guarito dopo essersi lavato alla piscina di Siloe (Gv 9). Così l’acqua della lavanda dei piedi anticipa, come segno dell’amore estremo (Gv 13), l’evento della glorificazione del Figlio crocifisso, dal cui costato, come dalla roccia del deserto esce “sangue ed acqua” (Gv 19) per la salvezza del mondo.

Publié dans:biblica, BIBLICA - TEMI |on 14 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

Christ blessing the children

Christ blessing the children dans immagini sacre ChristBlessingChildren

http://orthodoxsanantonio.org/parishministries.html

Publié dans:immagini sacre |on 13 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

LA SANTA UMILTÀ

http://ilfattorec.altervista.org/fccapitolo43.html

LA SANTA UMILTÀ

La santa umiltà confonde la superbia e tutti gli esseri umani di questo mondo e tutte le cose di questo mondo. San Francesco

E’ umiltà nelle parole, nelle frasi, nei discorsi. E’ umiltà negli atteggiamenti, nelle espressioni, nei pensieri, nei gesti, nelle azioni. E cosa vuol dire essere umili? Innanzi tutto significa non pensare di avere già la risposta pronta a questa domanda. Mi ricordo che sto comunicando con te. Questo è il primo atto di umiltà. Non c’è divisione, non c’è separazione, non c’è chi sta sopra e chi sta sotto, chi ha di più e chi ha di meno, chi sa già tutto e chi non sa niente. Riconosco che ho sbagliato, m’inchino a te per questo. Umiltà è un atto di riconoscimento: riconoscere i propri errori, i propri sbagli, i propri limiti, chiedere scusa, riparare un danno, dare la precedenza, chiedere consiglio, chiedere aiuto, inginocchiarsi, mettersi all’ultimo posto in una fila per prendere da mangiare, lasciare subito spazio e lasciar passare in un sentiero stretto. Umiltà è servire con gioia e senza remore, senza esitazioni, sempre. Perché esistono i lavori umili? Cos’hanno di speciale? Lavare i vetri a un semaforo, lavorare la terra, fare le pulizie o il cameriere, lo spazzino o il muratore sono azioni e lavori che molti non farebbero: perché? C’è umiltà in chi sostiene sempre di avere ragione, di sapere o di conoscere tutto? C’è umiltà in chi vuole vincere o prevalere a tutti i costi su chiunque altro in un discorso, in una conversazione, in un affare, in una decisione?Se non c’è umiltà non c’è amore. Se un ladro entrasse in casa tua, non fare resistenza, quello che cerca e chiede daglielo, e anche di più. Lui si interessa solo di cose materiali, che si possono ricomprare o riguadagnare: di certo non può portarsi via qualsiasi altra cosa intangibile. Se riesci, accoglilo da amico, stringigli la mano, auguragli ogni bene. Dietro di lui c’è comunque un cuore, un’anima, una sensibilità e così facendo probabilmente in qualche modo l’avrai aiutato molto di più che con le cose che si è preso. E’ un gesto d’amore difficile, lo so, è un gesto di umiltà che appare contro natura, perché non ci siamo abituati, perché spesso si reagisce con resistenza, rabbia, violenza, imitando comportamenti altrui in casi simili. Se siamo capaci di amore lo vediamo nei momenti di difficoltà, ed è lì che veniamo messi alla prova. Le imprecazioni, l’augurare il male, qualsiasi pensiero, parola o atto violento vanno nella direzione opposta e contraria a ciò che potremmo chiamare amore il quale non dovrebbe esserci soltanto quando è comodo, conveniente, direttamente e prontamente vantaggioso, facile da essere od attivare. E’ nelle situazioni più difficili e delicate che abbiamo la possibilità di alimentare le trasformazioni, o contribuire a diminuire le divisioni, i muri, le barriere, gli attriti, ogni forma di violenza gli uni con gli altri. E tutto questo nasce da un semplice quanto inizialmente difficile atto di umiltà: inchinarsi all’altro e tendergli la mano. Nella nostra vita ci sono varie occasioni per poter far questo: ad esempio quando si vorrebbe recuperare un’amicizia o un rapporto deteriorato e trasformatosi in gelido silenzio, rancore od indifferenza. Non ci sono muri di cemento armato, non c’è un muro di Berlino in mezzo: basta un semplice gesto di umiltà, una telefonata, una parola, un chiarimento, chiedere scusa, fare autocritica. E’ tanto difficile? Esigere di essere chiamato ingegnere, avvocato, giudice, onorevole, ha a che vedere con l’umiltà? Chi è umile si pone all’ultimo posto, chiede quasi di passare inosservato, di essere trasparente, invisibile, cammina per il mondo in punta di piedi, e teme persino di calpestare una formica. Spesso è pure silenzioso, non ha opinioni, non esprime giudizi, non si schiera, tende all’equilibrio. Non spreca energie, non chiede mai nulla, interagisce col mondo per il piacere di farlo, senza mai pensare ad alcun tornaconto. Come fa una persona a crescere senza voler cambiare? Non può perché la crescita implica un cambiamento. E’ impossibile. E’ come immaginarsi che un bambino, con la crescita rimanga identico sia nel corpo che nella mente. Non è per niente cresciuto. Allora come si fa a cambiare? Per cambiare serve l’umiltà. Umiltà è pure la disposizione verso il proprio cambiamento, è un abbandono della presunzione di non dover cambiare. Collegandoci con la teoria del caos, e con l’insegnamento di Eraclito, nel processo del divenire cambiamo continuamente, ci modifichiamo continuamente, in accordo con le leggi della natura. Se c’è rigidità, se ci sono orgoglio e presunzione, se c’è durezza nel cuore ed in tutti i sensi, se c’è resistenza, se c’è superbia, se c’è immobilità e fermezza estrema nelle proprie posizioni, il movimento, il cambiamento, la crescita, l’evoluzione non vengono agevolati. Il miglioramento nasce grazie alla nostra flessibilità, adattabilità, ricettività, sensibilità, elasticità, malleabilità, versatilità; in una parola la nostra crescita ed evoluzione è collegata alla nostra umiltà, e nell’umiltà siamo nell’amore. Quando c’è umiltà forgiamo continuamente il nostro meraviglioso attrattore strano, mentre nella rigidità e nella superbia tendiamo al ciclo limite e al punto fisso. L’umiltà è quel segno di forza che ci permette di danzare nel mondo senza mai competere con nessuno, e per mezzo del quale diventiamo noi stessi altamente riconosciuti. Si chiude il circolo: da umiltà come atto di riconoscimento, ad ottenere un riconoscimento inaspettato ed eccelso per questa nostra qualità, se siamo in grado di farla nostra. Chiaramente non è mirata al riconoscimento, ma esso giunge naturale, perché tutto alla fine, ritorna. E nell’umiltà non ci vergogniamo di mostrarci come siamo, con tutta la nostra fragilità e debolezza. Andiamo per il mondo in punta di piedi, e senza vergogna. E nell’umiltà siamo sempre nuovi, nasciamo nuovi ogni giorno, ad ogni istante, dimentichi delle nostre opere e delle nostre azioni e delle nostre conquiste. Nell’umiltà torniamo quindi continuamente bambini, non sappiamo nulla, e ci accostiamo prudentemente al mondo, con gli occhi pieni di stupore, curiosità e meraviglia. Ecco perché i bambini sono disarmanti: perché nella loro sincerità, nella loro freschezza, nella loro genuinità, nella loro spontaneità, nella loro immediatezza, nella loro semplicità, nella loro innocenza, sono estremamente umili (magari senza saperlo, perché tutto sorge naturale). Nell’umiltà c’è la predisposizione ad imparare sempre, nella scuola della vita, anche se avessimo cent’anni o un bagaglio enorme di esperienza alle spalle. Nell’umiltà quindi non c’è l’esercizio di alcun potere (anche se fosse disponibile), non c’è alcun abuso o atto di superiorità: semplicemente si danza per il mondo in puro spirito di servizio ed amore, con un senso di gratitudine immenso, silenzioso o manifesto, per tutto ciò che ci circonda. L’umiltà non può nascere che dal cuore, e se dovessimo disegnarla a pennello non può essere altro, come un cuore sano, che uno splendido meraviglioso attrattore « strano », estremamente malleabile, flessibile, adattativo, mutevole ad ogni perturbazione o modificazione, ma conservativo, senza mai perdere la sua caoticità e complessità, in caso la perseveranza e la costanza di atteggiamento e comportamento vi si accompagnino. Perché Francesco dice che la semplicità e l’umiltà confondono? Forse intuiva già la ri-scoperta della teoria dei quanti e della teoria del caos, perché esattamente così è la nostra prima impressione quando ci troviamo davanti ai fenomeni sub-atomici, o ad un attrattore caotico: essi confondono. Confondono tutte le nostre false certezze, tutte le presunte verità acquisite, confonde tutta la sapienza dell’uomo, che non è per nulla sapienza divina, è ben lontana dall’esserlo. La teoria del caos è intrisa di umiltà, perché giunge in punta di piedi a darci qualche frammento od intuizione di verità con la v minuscola, verità locali, che possano soddisfare la nostra limitata mente umana e umana comprensione, ben conscia che non si può andare oltre. Essa fa un bagno di umiltà a se stessa e a tutti coloro che volessero abbracciarla. E allo stesso tempo confonde i superbi ed i sapienti. La semplicità e la complessità sono così strettamente legate, sono due facce della stessa medaglia, e l’umiltà, volendo personificarla, neppure se ne cura. La sapienza è dell’umile, che neppure sa di averla. Non è sua, non se ne appropria. Nel caso se ne appropriasse, perderebbe l’umiltà. E’ paradossale, ma è così. Inoltrandoci e comprendendo profondamente teoria dei quanti e teoria del caos arriviamo ad imbatterci in una moltitudine di paradossi, in una moltitudine di koan, e a quel punto che facciamo? Lasciamo perdere la mente, i ragionamenti, la logica, la scienza, Euclide, i pensieri e le parole. E’ meglio farci prendere per mano, e farci guidare. Da chi? Da che cosa? Ognuno trovi da sé la sua risposta e il suo cammino.
S: Non trovo nulla da aggiungere od obiettare; per quanta riguarda la Semeiotica Biofisica Quantistica e l’Amore, vorrei dire che essa spiega come nella realtà non-locale tutti siamo una realtà unica, ed il tutto contiene le singole parti e viceversa: certo, ognuno è « Individuata Substantia Rationabilis Natura » (Anicio Manlio Severino Boezio), ma immerso in una EI che ci tiene uniti in una sola realtà, mediante la componente onda fluttuante nell’Universo.

Publié dans:UMILTÀ (UNA VIRTÙ |on 13 juillet, 2015 |Pas de commentaires »
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