Archive pour juillet, 2015

BENEDETTO XVI – SANTA BRIGIDA DI SVEZIA – 23 LUGLIO

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20101027.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 27 ottobre 2010

SANTA BRIGIDA DI SVEZIA – 23 LUGLIO

Cari fratelli e sorelle,

nella fervida vigilia del Grande Giubileo dell’Anno Duemila, il Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo II proclamò santa Brigida di Svezia compatrona di tutta l’Europa. Questa mattina vorrei presentarne la figura, il messaggio, e le ragioni per cui questa santa donna ha molto da insegnare – ancor oggi – alla Chiesa e al mondo.
Conosciamo bene gli avvenimenti della vita di santa Brigida, perché i suoi padri spirituali ne redassero la biografia per promuoverne il processo di canonizzazione subito dopo la morte, avvenuta nel 1373. Brigida era nata settant’anni prima, nel 1303, a Finster, in Svezia, una nazione del Nord-Europa che da tre secoli aveva accolto la fede cristiana con il medesimo entusiasmo con cui la Santa l’aveva ricevuta dai suoi genitori, persone molto pie, appartenenti a nobili famiglie vicine alla Casa regnante.
Possiamo distinguere due periodi nella vita di questa Santa.
Il primo è caratterizzato dalla sua condizione di donna felicemente sposata. Il marito si chiamava Ulf ed era governatore di un importante distretto del regno di Svezia. Il matrimonio durò ventott’anni, fino alla morte di Ulf. Nacquero otto figli, di cui la secondogenita, Karin (Caterina), è venerata come santa. Ciò è un segno eloquente dell’impegno educativo di Brigida nei confronti dei propri figli. Del resto, la sua saggezza pedagogica fu apprezzata a tal punto che il re di Svezia, Magnus, la chiamò a corte per un certo periodo, con lo scopo di introdurre la sua giovane sposa, Bianca di Namur, nella cultura svedese.
Brigida, spiritualmente guidata da un dotto religioso che la iniziò allo studio delle Scritture, esercitò un influsso molto positivo sulla propria famiglia che, grazie alla sua presenza, divenne una vera “chiesa domestica”. Insieme con il marito, adottò la Regola dei Terziari francescani. Praticava con generosità opere di carità verso gli indigenti; fondò anche un ospedale. Accanto alla sua sposa, Ulf imparò a migliorare il suo carattere e a progredire nella vita cristiana. Al ritorno da un lungo pellegrinaggio a Santiago di Compostela, effettuato nel 1341 insieme ad altri membri della famiglia, gli sposi maturarono il progetto di vivere in continenza; ma poco tempo dopo, nella pace di un monastero in cui si era ritirato, Ulf concluse la sua vita terrena.
Questo primo periodo della vita di Brigida ci aiuta ad apprezzare quella che oggi potremmo definire un’autentica “spiritualità coniugale”: insieme, gli sposi cristiani possono percorrere un cammino di santità, sostenuti dalla grazia del Sacramento del Matrimonio. Non poche volte, proprio come è avvenuto nella vita di santa Brigida e di Ulf, è la donna che con la sua sensibilità religiosa, con la delicatezza e la dolcezza riesce a far percorrere al marito un cammino di fede. Penso con riconoscenza a tante donne che, giorno dopo giorno, ancor oggi illuminano le proprie famiglie con la loro testimonianza di vita cristiana. Possa lo Spirito del Signore suscitare anche oggi la santità degli sposi cristiani, per mostrare al mondo la bellezza del matrimonio vissuto secondo i valori del Vangelo: l’amore, la tenerezza, l’aiuto reciproco, la fecondità nella generazione e nell’educazione dei figli, l’apertura e la solidarietà verso il mondo, la partecipazione alla vita della Chiesa.
Quando Brigida rimase vedova, iniziò il secondo periodo della sua vita. Rinunciò ad altre nozze per approfondire l’unione con il Signore attraverso la preghiera, la penitenza e le opere di carità. Anche le vedove cristiane, dunque, possono trovare in questa Santa un modello da seguire. In effetti, Brigida, alla morte del marito, dopo aver distribuito i propri beni ai poveri, pur senza mai accedere alla consacrazione religiosa, si stabilì presso il monastero cistercense di Alvastra. Qui ebbero inizio le rivelazioni divine, che l’accompagnarono per tutto il resto della sua vita. Esse furono dettate da Brigida ai suoi segretari-confessori, che le tradussero dallo svedese in latino e le raccolsero in un’edizione di otto libri, intitolati Revelationes (Rivelazioni). A questi libri si aggiunge un supplemento, che ha per titolo appunto Revelationes extravagantes (Rivelazioni supplementari).
Le Rivelazioni di santa Brigida presentano un contenuto e uno stile molto vari. A volte la rivelazione si presenta sotto forma di dialoghi fra le Persone divine, la Vergine, i santi e anche i demoni; dialoghi nei quali anche Brigida interviene. Altre volte, invece, si tratta del racconto di una visione particolare; e in altre ancora viene narrato ciò che la Vergine Maria le rivela circa la vita e i misteri del Figlio. Il valore delle Rivelazioni di santa Brigida, talvolta oggetto di qualche dubbio, venne precisato dal Venerabile Giovanni Paolo II nella Lettera Spes Aedificandi: “Riconoscendo la santità di Brigida la Chiesa, pur senza pronunciarsi sulle singole rivelazioni, ha accolto l’autenticità complessiva della sua esperienza interiore” (n. 5).
Di fatto, leggendo queste Rivelazioni siamo interpellati su molti temi importanti. Ad esempio, ritorna frequentemente la descrizione, con dettagli assai realistici, della Passione di Cristo, verso la quale Brigida ebbe sempre una devozione privilegiata, contemplando in essa l’amore infinito di Dio per gli uomini. Sulla bocca del Signore che le parla, ella pone con audacia queste commoventi parole: “O miei amici, Io amo così teneramente le mie pecore che, se fosse possibile, vorrei morire tante altre volte, per ciascuna di esse, di quella stessa morte che ho sofferto per la redenzione di tutte” (Revelationes, Libro I, c. 59). Anche la dolorosa maternità di Maria, che la rese Mediatrice e Madre di misericordia, è un argomento che ricorre spesso nelle Rivelazioni.
Ricevendo questi carismi, Brigida era consapevole di essere destinataria di un dono di grande predilezione da parte del Signore: “Figlia mia – leggiamo nel primo libro delle Rivelazioni –, Io ho scelto te per me, amami con tutto il tuo cuore … più di tutto ciò che esiste al mondo” (c. 1). Del resto, Brigida sapeva bene, e ne era fermamente convinta, che ogni carisma è destinato ad edificare la Chiesa. Proprio per questo motivo, non poche delle sue rivelazioni erano rivolte, in forma di ammonimenti anche severi, ai credenti del suo tempo, comprese le Autorità religiose e politiche, perché vivessero coerentemente la loro vita cristiana; ma faceva questo sempre con un atteggiamento di rispetto e di fedeltà piena al Magistero della Chiesa, in particolare al Successore dell’Apostolo Pietro.
Nel 1349 Brigida lasciò per sempre la Svezia e si recò in pellegrinaggio a Roma. Non solo intendeva prendere parte al Giubileo del 1350, ma desiderava anche ottenere dal Papa l’approvazione della Regola di un Ordine religioso che intendeva fondare, intitolato al Santo Salvatore, e composto da monaci e monache sotto l’autorità dell’abbadessa. Questo è un elemento che non deve stupirci: nel Medioevo esistevano fondazioni monastiche con un ramo maschile e un ramo femminile, ma con la pratica della stessa regola monastica, che prevedeva la direzione dell’Abbadessa. Di fatto, nella grande tradizione cristiana, alla donna è riconosciuta una dignità propria, e – sempre sull’esempio di Maria, Regina degli Apostoli – un proprio posto nella Chiesa, che, senza coincidere con il sacerdozio ordinato, è altrettanto importante per la crescita spirituale della Comunità. Inoltre, la collaborazione di consacrati e consacrate, sempre nel rispetto della loro specifica vocazione, riveste una grande importanza nel mondo d’oggi.
A Roma, in compagnia della figlia Karin, Brigida si dedicò a una vita di intenso apostolato e di orazione. E da Roma si mosse in pellegrinaggio in vari santuari italiani, in particolare ad Assisi, patria di san Francesco, verso il quale Brigida nutrì sempre grande devozione. Finalmente, nel 1371, coronò il suo più grande desiderio: il viaggio in Terra Santa, dove si recò in compagnia dei suoi figli spirituali, un gruppo che Brigida chiamava “gli amici di Dio”.
Durante quegli anni, i Pontefici si trovavano ad Avignone, lontano da Roma: Brigida si rivolse accoratamente a loro, affinché facessero ritorno alla sede di Pietro, nella Città Eterna.
Morì nel 1373, prima che il Papa Gregorio XI tornasse definitivamente a Roma. Fu sepolta provvisoriamente nella chiesa romana di San Lorenzo in Panisperna, ma nel 1374 i suoi figli Birger e Karin la riportarono in patria, nel monastero di Vadstena, sede dell’Ordine religioso fondato da santa Brigida, che conobbe subito una notevole espansione. Nel 1391 il Papa Bonifacio IX la canonizzò solennemente.
La santità di Brigida, caratterizzata dalla molteplicità dei doni e delle esperienze che ho voluto ricordare in questo breve profilo biografico-spirituale, la rende una figura eminente nella storia dell’Europa. Proveniente dalla Scandinavia, santa Brigida testimonia come il cristianesimo abbia profondamente permeato la vita di tutti i popoli di questo Continente. Dichiarandola compatrona d’Europa, il Papa Giovanni Paolo II ha auspicato che santa Brigida – vissuta nel XIV secolo, quando la cristianità occidentale non era ancora ferita dalla divisione – possa intercedere efficacemente presso Dio, per ottenere la grazia tanto attesa della piena unità di tutti i cristiani. Per questa medesima intenzione, che ci sta tanto a cuore, e perché l’Europa sappia sempre alimentarsi dalle proprie radici cristiane, vogliamo pregare, cari fratelli e sorelle, invocando la potente intercessione di santa Brigida di Svezia, fedele discepola di Dio e compatrona d’Europa. Grazie per l’attenzione.

Publié dans:Papa Benedetto XVI, Santi Patroni |on 23 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

Statue of the Madonna and Child, Abbey of Fontenay, Burgundy.

Statue of the Madonna and Child, Abbey of Fontenay, Burgundy. dans immagini sacre 800px-Abbaye_Fontenay_Vierge

https://simple.wikipedia.org/wiki/Madonna_and_Child

Publié dans:immagini sacre |on 22 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

ICONA DEL SANTO VOLTO – « UNO SGUARDO CHE ASCOLTA »

http://www.piccoloeremodellequerce.it/gliko/Studi/Icona_Santo_Volto.htm

ICONA DEL SANTO VOLTO

ICONA DEL SANTO VOLTO -

« UNO SGUARDO CHE ASCOLTA »

sr Renata Bozzetto

La prima icona si tramanda sia stata il volto umano del Figlio di Dio. Chiamata ‘Santo Volto’ o immagine ‘Acheropita’ (= non fatta da mano d’uomo) riproduce, secondo la tradizione, le sembianze reali del Cristo. Gesù stesso, infatti, avrebbe inviato un suo ritratto al re Abgar di Edessa.
Questa leggenda racconta che il re era lebbroso e, desiderando guarire, inviò una delegazione da Gesù durante la sua predicazione in Palestina, chiedendogli un intervento mira­coloso e un suo ritratto. Cristo, per esaudire il desiderio del re, si sarebbe lavato e poi asciugato il volto in un telo, lasciandovi im­pressi i suoi tratti. Inviò, quindi, tramite l’archivista del regno di Abgar, la sua immagine al re.
Questa l’origine dell’immagine Acheropita che da molti è considerata la prima icona.
Il significato della leggenda consiste anzitutto nell’attestare la storicità di Gesù Cristo e nel ricondurre ogni sua raffigura­zione a un’immagine iniziale ricevuta e non elaborata, divina e non umana.
Lo stesso aggettivo acheiropóietos serve a sottolineare l’alterità sovrana di Dio e della sua potenza e al tempo stesso la pe­netrazione trasformante della dimensione divina nell’umano fragile e caduco, in un dono permanente di questo amore.
Il prezioso telo fu custodito per secoli a Edessa, fino al 944 d.C., anno in cui fu portato a Costantinopoli dando così inizio a una speciale ufficiatura celebrata ancora oggi il 16 agosto.
La solenne liturgia del giorno così canta:

«Un’argilla creata dall’uomo
porta impressa la tua effigie increata,
o mio Cristo, Creatore dell’universo».

Così, quanto più contempliamo Dio nel suo Essere, Egli ci appare misterioso, indicibile, radicalmente trascendente; però, nello stesso tempo, si rivela a noi esistente e presente, avvol­gendoci della sua bruciante vicinanza. E notiamo anche che la profondità e intensità dell’Uomo-Dio nel volto nobile e umanissimo, dolce e severo, sereno e misteriosamente sofferto nel con­tempo, è in grado di sconfiggere col solo contatto di sguardi tut­ti i luoghi comuni delle nostre paure, ansie, sfiducie e ripiega­menti egocentrati.
«E voi, chi dite che io sia?». L’interrogativo posto da Cristo stesso ai suoi discepoli risuona inquietante oggi ancora nella Chiesa come il quesito centrale della storia e della persona uma­na.

Cristo Acheropita, Dio fatto volto d’uomo.
Il volto è sempre una rivelazione, incompleta e passegge­ra, della persona. Nessuno ha mai visto il proprio volto; lo si può conoscere soltanto riflesso nello specchio o per mezzo di una fotografia. Il volto non è dunque fatto per se stessi, ma per l’altro, o per Dio. E’ un silenzioso linguaggio. E’ la parte più viva, più sensibile che, nel bene e nel male, presentiamo agli altri. E’ l’io intimo parzialmente denudato, infinitamente più rivelatore di tutto il resto del corpo. Così dice Max Picard: «Non è senza turbamento che si guarda un volto, poiché esso esiste innanzitutto per essere guardato da Dio. Guardare un volto umano, è come voler controllare Dio… E’ soltanto nel­l’atmosfera dell’amore che un volto umano può conservarsi tale quale Dio lo creò, a sua immagine». Per comprendere un volto ci vogliono attenzione, pazienza, rispetto, insieme all’a­more perché il volto è il simbolo di ciò che vi è di divino nel­l’uomo.
Secondo il teologo ortodosso Olivier Clément «Dio si è ri­velato in un volto la cui luce si moltiplica, di generazione in ge­nerazione, in umili volti trasfigurati».

Lettura dell’Icona
L’icona del Santo volto o Icona Acheropita, della scuola di Novgorod, (secolo XII), è l’icona della festa del « Trionfo dell’ortodossia » celebrata nella la domenica di Quaresima (16 agosto).
Questo modello iconografico com­memora la misteriosa bellezza del volto di Cristo. Solo l’icona di Cristo può sovrasta­re l’altare. Icona delle icone, il Figlio resta la « pietra angolare e preziosa » della « bel­lezza divina » celebrata dal Kontakion della Domenica dell’Ortodossia: «II Verbo indescrivibile del Padre si è fatto descrivibile incarnandosi di te, Madre di Dio. Avendo ristabilito nella sua dignità originale l’immagine insudiciata, l’unisce alla bellez­za divina».
Dio si riconosce nella sua creatura e tramite il Figlio in­carnato si fa volto. Nel volto del Cristo l’uomo è chiamato a riconoscere il proprio volto trasfigurato. L’icona cristallizza questo riconoscimento: immagine del Cristo, riflette l’imma­gine dell’umanità deificata che, contemplandosi in essa, « ri­flette come in uno specchio la gloria del Signore » (2Cor 3, 18).
In questa icona, vediamo rappresentato solo il volto, sen­za collo, di fronte: il Cristo ci invita a rivolgerci a lui dan­dogli del « Tu », ci invita al dialogo, a non avere paura: la « frontalità » è offerta e disponibilità al dialogo. Il « profilo », al contrario, non dialoga, si difende, nasconde parte del volto.
Il colore della carnagione è di una tonalità che si può de­finire colore di terra impastata di luce non identificabile con nessuna razza; è il volto del genere umano, e tutte le cultu­re e le razze in esso si riconoscono.
I capelli, simmetricamente divisi, sembrano un velo che si alza per mostrare il volto di Gesù che illumina « la divina tenebra », cioè il mistero di Dio.
La fronte, ampia, scoperta, è la sede della sapienza.
Gli occhi grandi e dolci, sono pieni di luce e offrono vi­talità con tono maestoso, quasi severo, anche se accogliente.
Lo sguardo del Signore è solenne: egli guarda alla sua destra per rassicurare, accogliere e proteggere con la sua divina maestà i suoi discepoli: «Venite be­nedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo» (Mt 25,34). // suo è uno sguardo che difende dal male e da vittoria in ogni prova.
E’ l’occhio che, per sua natura rivolto perennemente alla luce, può diventare specchio dell’anima e spingerci fino all’inti­mo della conoscenza di Dio. Per la conoscenza e la fede – grida l’apostolo Paolo alla Chiesa di Efeso – siano illuminati « gli occhi della vostra mente » (Ef 1,18).
Le orecchie di Gesù sono piccole, appiattite, quasi flosce, perché egli ascolta tutto con gli occhi; egli guarda e ascolta, guarda e ama, ascolta tutto dal di dentro… anche le nostre pre­ghiere, le nostre invocazioni, vengono accolte dai suoi oc­chi i quali capiscono e conoscono assai più di quanto gli dice il suono della nostra voce.
La bocca, piccola e chiusa, invita al silenzio, ad ascoltare la voce dello Spirito, ed è nell’atteggiamento appena accenna­to di soffiare lo Spirito santo.
Lo sfondo d’oro che avvolge il volto indica l’immersione della persona nella luce divina e come conseguenza è il simbolo della luce divina che inonda di sé tutta la rappresentazio­ne e deifica l’umanità stessa di Cristo.
Le striature giallo-oro sui capelli, il bianco della croce, con l’oro e l’aureola, mettono in evidenza l’atmosfera del­la luce divina e gloriosa che inquadra il volto di Gesù: nel­l’icona contempliamo il volto trasfigurato e trasfigurante del Risorto.
Il cerchio giallo-oro del nimbo è luminoso ma non abba­glia, non violenta lo sguardo, come fa Dio che si fa cono­scere dall’uomo senza violentare.
Questi elementi del volto trovano unità nel TAU, che prende forma dalle arcate sopracciliari e dal naso; il TAU tiene lontana ogni punizione, diventa dono e soffio di vi­ta: «II Signore chiamò l’uomo vestito di lino, che aveva al fianco la borsa da scriba, e gli disse: « Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme, e segna un TAU sul­la fronte degli uomini che sospirano e piangono per tut­ti gli abomini che vi si compiono »» (Ez 9,3-4). Perciò, pro­prio attraverso la croce che Gesù ha sul volto può essere im­presso il TAU sul volto di ogni uomo che ha fame e sete di giu­stizia; ed egli verrà saziato e interamente realizzato.

Contemplare, pregare l’icona : Uno sguardo che ascolta…
Prepariamoci alla meditazione fissando lo sguardo su Gesù.
«Dammi la prova che gli occhi della tua anima possano ve­dere e gli orecchi del tuo cuore possano intendere. Difatti pos­sono vedere Dio solo quelli che hanno gli occhi dell’anima aper­ti» (Teofilo di Antiochia).
Facciamo con fede il segno della croce e invochiamo lo Spirito.
Gli occhi del Signore «sono miriadi di volte più luminosi del sole; essi vedono tutte le azioni degli uomini e penetrano fin nei luoghi più segreti» (Sir 23,19). Così il Signore educò il suo popolo che vagava nella steppa e nel deserto, «lo custodì come pupilla del suo occhio» (Dt 32,10). Colmi di compassione e di amore essi sono ora rivolti a te come un giorno incrociaro­no gli occhi di un giovane israelita:
«Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a Lui, gli domandò: « Maestro buono, che devo fare per avere la vita eterna? ».
Gesù gli disse: « Perché mi chiami buono? Nessuno è buo­no, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimo­nianza, non frodare, onora il padre e la madre ».
Egli allora gli disse: « Maestro, tutte queste cose le ho os­servate fin dalla mia giovinezza ».
Allora Gesù, fissatolo lo amò e gli disse: « Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un te­soro in cielo; poi vieni e seguimi »» (Me 10,17-21).
• Guardo a lungo Gesù. So che lo sguardo di Gesù è un elemen­to importante nei suoi incontri con le persone: è un mezzo straordinariamente efficace per provocare una risposta per­sonale nei suoi ascoltatori: Lc 18,35-43: il cieco di Gerico; Lc 22,61: lo sguardo verso Pietro dopo il rinnegamento; Gv 9,1-41: guarigione di un cieco nato. Visualizzo Gesù che posa lo sguardo traboccante d’amore sul giovane ricco. Lascio infine che gli occhi di Cristo s’incrocino con i miei e registro le riso­nanze che questo suscita dentro di me.
• Contemplo il suo volto maestoso e dolce nel contempo. Lascio che il suo sguardo penetri tutti gli strati del mio esse­re e sciolga ogni resistenza, difesa, pregiudizio, separazio­ne, paura… Ripeto lentamente le parole del salmista: «I miei occhi si consumano nell’attesa di Dio» (SI 69,9). Gesù guarda con amore perché vuole trasformarti, difender­ti dal male e farti uscire vittorioso da ogni prova.
Ti accoglie, ti protegge, ti rassicura, ti guarda con occhi pie­ni di compassione e di comprensione. Gesù ti ascolta.
• Non stancarti di contemplare il suo sguardo: Egli è uno sguardo che ascolta. Non ha bisogno di sentire le tue parole, le tue grida o le tue domande. Gesù ti guarda e ti ama. Ti guarda partendo dal cuore. Legge dentro, sa di che cosa siamo fatti, siamo suoi, gli apparteniamo! E guardandoti ti da fiotti di vita nuova invitandoti, poi, a fare altrettanto con i fratelli.
Chiediti: quante volte questo sguardo è stato per me un monito a cambiare? A convertirmi, a lasciarmi trasformare questo cuore di pietra? So guardare il fratello con lo sguar­do di Cristo che «tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» per noi? (1Cor 13,7).
• Lasciati penetrare dalla luce del suo sguardo. Ora anche i nostri occhi liberi da quanto li offuscava, si posano benevoli sui fratelli, così che nessuno – direbbe S. Francesco – «dopo aver visto i miei occhi, se ne torni via senza il mio perdo­no» (Fonti Francescane, 235)
Se poi ti lasci inondare dal suo amore, anche in te si accre­scerà il desiderio della carità:
«Amatevi come io vi ho amato» più che un comando è un’aspirazione profonda che ognuno di noi porta nel suo intimo; è il desiderio di poter vivere una vita decorosa, in­tima e benefica per tutta l’umanità perché quando uno ha provato l’esperienza d’essere amato, non può fare a meno di comunicarla.
Lo sguardo di Gesù lo insegna: è solo l’amore che ci muo­ve dal profondo ad essere migliori.
Gesù non ascolta tanto parole, pensieri o promesse. Lui leg­ge nel cuore. E’ un Dio che tutto capisce e semplicemente ama.
• Contempla Gesù : il suo volto, il suo sguardo perché vuole tra­sformarti, farti diventare simile a lui.
E’ importante scoprire che siamo davvero chiamati a la­sciarci trasformare dall’amore di Dio, anche e solo attraverso le piccole cose, gli incontri quotidiani, nonostante i nostri sbagli e le nostre debolezze umane. Solo così l’amore di Dio prende carne in te e diventa testimonian­za.
• Non distogliere gli occhi da questo santo volto. Egli ti chiama e sta a te dire di sì con coraggio e senza pau­ra. Dobbiamo spesso ricordarci che chi segue Cristo segue un Dio morto in croce e risorto. Chi segue Cristo deve quin­di abbracciare ogni giorno la croce per risorgere con lui… Unisciti, dopo questo lungo sguardo d’amore, al centurione e dì anche tu: «Tu sei veramente il Figlio di Dio!». Ripetila a lungo questa professione di fede.
• Ed ora ringrazia per il dono che hai ricevuto ed espandi al mondo intero una benedizione.

Publié dans:ICONOGRAFIA, immagini sacre e testo |on 22 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

IL BELLO CHE VIENE DOPO LA « CREAZIONE »

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_sequeri29.htm

IL BELLO CHE VIENE DOPO LA « CREAZIONE »

Pierangelo Sequeri

(« Avvenire », 1/11/’08)

L’inizio del mondo, dopo tutto, è soltanto il mondo dell’inizio. Se ti consumi la mente a pensare l’inizio – per quanto decisivo – ti perdi tutto il bello che viene dopo. « Evolvere », ha spiegato ieri Benedetto XVI, con elegante « effetto-sorpresa » sul basso profilo di troppo strumentali polemiche, deriva letteralmente dal gesto di « svolgere un rotolo ». Nell’antichità, era questa l’espressione equivalente al nostro « aprire un libro ». (E c’è già chi pensa che essa sarà presto sostituita, anche come « metafora », dal gesto informatico di « aprire un file »). L’immagine della natura come « grande libro del mondo », di uso corrente nell’antichità cristiana, è stata considerata anche nella modernità un’immagine straordinariamente eloquente per sintetizzare il gesto di quel sapere che oggi chiamiamo semplicemente « scienza ». Per lungo tempo, anche nella modernità, questa immagine è apparsa come una nobilitazione, e non una mortificazione, del compito assegnato alla ragione umana. L’idea della scienza della natura come ricerca delle condizioni di « leggibilità del mondo » ha introdotto un’audace analogia fra la lettura del mondo e la lettura delle « Scritture Sacre ». Entrambi i « libri », per così dire, fanno « testo », per il credente, dal momento che Dio è, seppure in modo diverso, « autore » di entrambi. Dunque, chi imbocca la strada della « leggibilità del mondo » non prende per ciò stesso una strada alternativa a quella del lettore della « parola di rivelazione ». E viceversa.
C’è sapienza fine nel modo, pur sobrio, con il quale è rimesso in campo questo grande simbolo della tradizione (teologica, ma anche poetica e scientifica). Tra i molti aspetti di questa « metafora », abbozzati nel Discorso di Benedetto XVI alla « Pontificia Accademia delle Scienze », uno mi sembra però particolarmente suggestivo, e meritevole di essere adeguatamente ripreso. Intendo proprio quello legato alla continuità del processo di lettura, all’ »evoluzione del rotolo », che non può fermarsi alle pagine già decifrate. Il rapporto di Dio con la creazione continua. La cura per la destinazione del mondo, iscritta nella « Creazione » di Dio, lo accompagna. La « palla » del mondo non fu gettata una volta, e abbandonata a se stessa. Né si trattò di un tiro di « dadi »: quello che viene, viene, il mondo si arrangi. Se possiamo trovare cose buone per gli esseri umani, e ancora migliori, e più emozionanti, di quelle che abbiamo scoperto sino ad ora, ciò avviene perché il « Logos » di Dio accompagna lo svolgimento del mondo, che attinge alle riserve della « Sapienza Divina »: esse sono approntate per il momento in cui possono essere colte e portate alla luce, in conseguenza del percorso già fatto, del « rotolo già svolto ». Una segreta alleanza sostiene l’incontro fra le latenze del « Logos » di Dio e le avventure dello spirito intelligente dell’uomo. È di qui – e non certo dalla memoria dell’uso che ne abbiamo fatto – che attinge fiducia l’indomita volontà di apprendere sempre nuove « formule » per lottare contro il « caos », e per ricomporre i buoni legami e i molti incanti del « cosmos » (bellezza, giustezza, ordine, ornamento). Il sapere della natura evolve, perché segue il dispiegarsi della « Creazione », « in presa diretta » con la storia del mondo. La nostra « capacità di scienza », della quale andiamo giustamente orgogliosi, illumina la « crescente complicità » di Dio con il mondo che ora abitiamo, in vista della sua destinazione a una vita non più minacciata, e a un’anima non più avvilita. Quale necessità – e quale dignità – nell’irridere all’idea di questa complicità di Dio, nella quale viviamo e siamo, intanto che – con sempre nuova e condivisa sorpresa – « leggiamo le Scritture » della promessa iscritta nella « Creazione », e « svolgiamo il rotolo » della nostra vita in diretta?

 

IL PARADISO, IL PURGATORIO, L’INFERNO E LO SCANDALO DELLA LIBERTÀ – NON SAREMO COME ACCIUGHE IN UN BARILE

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/205q04a1.html

IL PARADISO, IL PURGATORIO, L’INFERNO E LO SCANDALO DELLA LIBERTÀ – NON SAREMO COME ACCIUGHE IN UN BARILE

Il 9 settembre esce il quarto numero del 2009 della rivista del bimestrale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore « Vita e Pensiero ». Anticipiamo la riflessione che l’arcivescovo emerito di Bologna, cardinale del titolo dei Santi Giovanni Evangelista e Petronio ha dedicato al tema del giudizio finale e dell’aldilà.

di Giacomo Biffi

« Verrà a giudicare i vivi e i morti », diciamo nel Credo. Questa formula è tra le più antiche del linguaggio cristiano ed era di uso comune nella prima comunità. È riportata negli Atti (10, 42). La troviamo usata nella prima lettera di Pietro: « Dovranno rendere conto a colui che è pronto a giudicare i vivi e i morti » (1 Pietro, 4, 5), e nella lettera seconda a Timoteo: « Ti scongiuro davanti a Dio e a Gesù Cristo, che giudicherà i vivi e i morti… » (ii Timoteo, 4, 4. Per gli scritti postapostolici, cfr. Barnaba, 7, 2; Policarpo, Epistola, 2, 1; 2 Clemente, 1, 1). Che significa questa espressione?
Il significato vero è quello letterale: si vuol dire che Gesù sottoporrà al suo giudizio non solo quelli che troverà in vita alla sua venuta, ma anche tutti gli uomini del passato, che hanno già incontrato la morte. Più semplicemente si vuol dire – attraverso l’uso semitico del binomio di totalità, che indica l’intero mediante la distinta elencazione delle parti (per esempio « il cielo e la terra », per dire « tutto ») – che sarà giudicata tutta l’umanità, senza alcuna eccezione.
Oltre l’universalità delle persone, la Rivelazione ci parla di una universalità dei fatti umani: niente di ciò che è umano sfuggirà alla valutazione del giudice. Non si dovranno offrire vuote frasi adulatrici (Matteo, 21-23), ma si dovrà presentare la totalità delle opere compiute (Matteo, 16, 27; Romani, 2, 6; II Corinzi, 5, 10); e non appena sulle opere saremo giudicati, ma anche sulle parole (Matteo, 12, 36), sulle omissioni (Matteo, 25, 35-46), sui pensieri segreti (1 Corinzi, 4, 5).
Nelle pagine della Bibbia troviamo ricordati alcuni elementi che entrano a comporre la scenografia del giudizio, in un quadro che ha sempre eccitato la fantasia, ma che chiede piuttosto di essere letto, anche nei particolari pittoreschi, secondo il suo vero significato concettuale. Il profeta Gioele colloca il giudizio in una misteriosa « Valle di Giosafat » (Gioele, 4, 2), solo tardivamente – a partire dal IV secolo dopo Cristo – identificata con la valle del Cedron, a sud-est della spianata del tempio. Ancora oggi arabi ed ebrei ambiscono essere seppelliti sull’uno e sull’altro versante dell’avvallamento, per essere più pronti a rispondere all’ultimo appuntamento.
In realtà il nome ci rivela con molta chiarezza nella sua composizione la sua natura simbolica: Giosafat significa Jahvè giudica. Del resto, poco più avanti lo stesso profeta usa un altro nome, ugualmente significativo: « Valle della Decisione » (Gioele, 4, 14). Daniele delinea davanti a noi una vera e propria azione processuale con un giudice, una corte, i libri degli atti (Deuteronomio, 7, 9-10). L’immagine del processo si conserva fino alla predicazione di Gesù, anche se si sovrappongono altre raffigurazioni, come quella del pastore che alla sera esamina attentamente il suo gregge (Matteo, 25, 31-46). Ma, di là dai particolari fantastici, è possibile appurare come avverrà concretamente il nostro giudizio? Pensiamo di sì.
Il nostro mondo è caratterizzato da una quasi totale discordanza tra i valori reali e la loro esterna apparenza, sicché non è di solito possibile assegnare agli uomini e alle cose il giusto prezzo che hanno in faccia a Dio. Questa discordanza ha raggiunto il grado sommo – e ne è stata condannata – al momento dell’uccisione del Figlio di Dio, quando colui che era la nostra stessa « giustizia, santità, redenzione » (1 Corinzi, 1, 30), « è stato annoverato tra i malfattori » (Isaia, 53, 12). L’esecuzione di Gesù fuori della porta di Gerusalemme, cioè « fuori della vigna » che era la sua eredità (cfr. Marco, 12, 8), raffigura e avvera la sconfitta di Dio, che oggi appare come estromesso dal mondo che è suo. Dio è sconfitto, e non tanto dall’uomo che pecca, quanto dall’uomo che, peccando, appare bello, forte, felice, soddisfatto; mentre colui che, tentando di conformarsi alla volontà del Padre, incontra la derisione, la sofferenza, la morte, è associato al mistero della sconfitta del suo Creatore. Il momento del giudizio è appunto la fine di questo stato irrazionale e blasfemo.
Esso perciò consisterà essenzialmente nella brusca lacerazione del velo della esteriorità, così che tutta la creazione appaia « nuda e aperta » agli occhi di tutti, come è nuda e aperta da sempre agli occhi di Dio (Ebrei, 4, 13). Il suono della tromba finale – particolare del quadro che significativamente ritorna sempre nelle descrizioni bibliche della fine (Matteo, 24, 31; 1 Corinzi, 15, 22; 1 Tessalonicesi, 4, 15; Atti degli apostoli, 11, 15) – farà crollare la scena di questo mondo come le trombe di Giosuè squassarono, lasciandole diroccate, le mura di Gerico (Giosuè, 6, 20), e ciascuno sarà visto con la sua interiore ricchezza o con la sua interiore miseria.
Il primo che sarà « manifestato » sarà il Cristo, capo dell’universo e centro della storia umana, fino allora nascosto e quasi sopraffatto dalla futilità del mondo. E ogni essere, improvvisamente privato della maschera che impediva ogni autentico esame, apparirà nella sua vicinanza a lui o nella sua lontananza: questo sarà il giudizio. Gesù sarà dunque l’unico punto di riferimento dal quale tutto sarà misurato: per questo egli sarà il « giudice ». Allora finalmente sarà rovesciato il ricamo della nostra storia, e si potranno contemplare nella loro piena evidenza la bontà, l’armonia, la saggezza del disegno condotto a compimento da Dio, che senza una fede robusta ci è così difficile ravvisare oggi nei casi della storia mondana.
Che cosa determina nella realtà la vicinanza o la lontananza da Cristo? In altre parole, su quale legge saremo giudicati? Certo, saremo giudicati sulla nostra fedeltà alla legge di Dio, perché Gesù non ha abrogato il decalogo, il quale resta per gli uomini di tutti i tempi il codice di comportamento. Ma, poiché il Signore stesso ha chiarito che la legge di Dio ha come compendio, come anima, come significato sostanziale l’amore di Dio sopra ogni altro amore e l’amore del prossimo, come inveramento concreto dell’amore di Dio, possiamo ben dire che « all’ultimo dei giorni – come si esprime san Giovanni della Croce – saremo giudicati sull’amore » (cfr. Matteo, 25, 31-46).
« Tutti risorgeranno – dice il concilio Lateranense quarto – con i loro propri corpi, gli stessi che possiedono ora ». È un’affermazione categorica, ma in fondo non è che l’insegnamento della Sacra Scrittura: « Da Dio ho ricevuto queste membra; queste per le sue leggi disprezzo; queste da lui spero di avere di nuovo », dice il terzo dei fratelli prima del martirio, nella narrazione del secondo libro dei Maccabei (7, 11). E Paolo: « È necessario che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità » (1 Corinzi, 15, 53).
Cristo stesso – archetipo degli uomini che rinascono dalla morte – riprende dal sepolcro lo stesso corpo che è stato spento sul Calvario. Del resto, l’ipotesi di una risurrezione con un corpo diverso rivela una concezione dell’uomo che neppure sul piano di un’antropologia puramente razionale possiamo accettare. Tale ipotesi suppone infatti che l’anima stia nel corpo come una spada nel fodero; e che, come la spada, possa tranquillamente cambiare di fodero senza per questo mutare essa stessa. Ci sembra di dover ammettere con san Tommaso che l’anima intellettiva è l’unica « forma sostanziale » dell’uomo, sicché l’ipotesi fatta ci appare non solo teologicamente errata, ma anche filosoficamente assurda: non solo risorgeremo con il nostro identico corpo, ma neppure possiamo risorgere con un corpo diverso. Se il fatto della identità è fuori discussione, si discute molto sul modo di concepirla. La soluzione più semplice sta forse nel capire che lo stesso principio spirituale che anima il composto umano è la vera ragione della identità corporea. Poiché è la « forma sostanziale » dell’uomo, l’anima informando qualunque materia dà sempre origine allo stesso corpo, tanto che l’identità del nostro corpo è sempre salvata lungo l’arco della nostra vita, nonostante il continuo fluire degli elementi materiali. Intesa così – e forse non è possibile intenderla diversamente – la dottrina della identità scioglie immediatamente tutte le difficoltà che a prima vista essa stessa sembrerebbe provocare.
Un altro interrogativo, suscitato dall’argomento che stiamo trattando, si riferisce alla condizione dei corpi risorti, che certo non potrà ripetere lo stato di miseria proprio del corpo terrestre. Da parte mia, non credo che saremo tutti come le acciughe nel barile. Io credo che effettivamente i rapporti umani ci saranno. Anche l’amicizia ci sarà.
Non è il caso di anticipare con la fantasia una conoscenza che ci è stata riservata per quel giorno. Né ci sentiamo di seguire con animo tranquillo quei teologi che dal testo di san Paolo prima citato si pensano autorizzati a precisare le prerogative del corpo glorioso nei loro particolari. Tuttavia la Sacra Scrittura ci offre un principio e un modello, come dati sicuri per una riflessione sulla sorte che attende le nostre membra. Il principio è enunciato da san Paolo, quando ci parla di corpo « spiritualizzato » (1 Corinzi, 15, 44). Nel linguaggio dell’apostolo questo significa che la nostra carne, che ci appare così spesso ribelle alla volontà di Dio, sarà docilmente sottoposta all’azione dello Spirito Santo, che tutto trasforma e assimila a sé.
In altre parole, quella trasfigurazione che lo Spirito di Dio opera fin da adesso nel mondo interiore dell’uomo, si estenderà a tutto il nostro essere, così che anche esteriormente riesca visibile la nostra rinnovazione.
Il modello poi è lo stesso Gesù risorto, che dalle testimonianze apostoliche sappiamo sovranamente libero nella sua azione, senza che le cose materiali o le forze della natura gli diano impaccio alcuno, e senza che i dolori o la morte gli possano più recare alcun danno. A lui già ci siamo interiormente conformati, quando siamo passati dalla vita di colpa a quella di grazia. E a lui ci conformeremo totalmente (Filippesi, 3, 21), quando anche il nostro corpo, dopo la purificazione di una morte cristiana, obbedirà alla sua vocazione di gloria.
Come già s’è detto, l’idea di un « giudizio » porta implicita l’idea di una discriminazione, anzi, poiché si tratta del giudizio ultimo e senza appello, l’idea di una discriminazione definitiva. La riflessione sulla glorificazione dell’uomo non può non coinvolgere dunque una riflessione simmetrica sulla dannazione dell’uomo. Difatti la stessa Rivelazione che ci parla di un premio eterno ci parla anche di un castigo eterno: la proposta di Dio non può essere accolta con beneficio d’inventario; o l’accettiamo o la rifiutiamo in blocco. Perciò la terribile e insopportabile prospettiva di un destino di punizione e di sofferenza è necessaria per una visione non snaturata dell’escatologia cristiana.
Gesù per spiegare la condizione del dannato è ricorso soprattutto al concetto di esclusione: « La porta fu chiusa » (parabola delle vergini: Matteo, 25, 10); « gettatelo fuori » (parabola dei talenti: Matteo, 25, 30); « via lontani da me, maledetti » (Matteo, 25, 41) (cfr. anche Apocalisse, 22, 15). Paolo dà una versione sportiva dello stesso concetto, ricorrendo all’immagine della « squalifica » (1 Corinzi, 9, 27). Occorre però capire bene quanto spaventevole sia questo « star fuori » dalla Gerusalemme celeste, che ha Iddio stesso come fonte della sua luce.
Noi riceviamo tutto da Cristo: siamo stati modellati su di lui, siamo stati creati per manifestare le sue perfezioni, riceviamo da lui continuamente l’alimento della nostra vita. Possiamo dire che tutti, anche i peccatori e gli infedeli, hanno, sia pure in diverso grado e natura, qualche legame con il Verbo incarnato: tutti infatti o sono inseriti o sono inseribili nel suo Corpo mistico. Tutti perciò sono in qualche modo raggiunti dalla sua grazia. All’inferno, l’uomo è invece totalmente avulso da questo Corpo, pur conservando una fondamentale ordinazione a esso: il dannato continua a essere creato a immagine del Salvatore e a glorificare con il suo stesso essere colui che rinnega e bestemmia con la sua volontà; continua ad avere un’assoluta necessità di incorporarsi in colui dal quale si mantiene avulso nel suo odio ostinato.
E poiché è il nostro legame con Gesù a consentirci di essere veramente uniti tra noi, colui che è all’inferno è disperatamente solo. Mentre la sua natura resta una natura sociale, anzi resta chiamata a una comunione soprannaturale – perché la vocazione di Dio è senza pentimenti e rimane anche su chi l’ha rifiutata – è tagliato fuori da qualunque convivenza d’amore, da qualunque amicizia. Anche per questo aspetto il dannato è una natura che si contraddice.
Ma questa avulsione da Dio e dal Regno di Dio non è l’unica ragione di sofferenza nell’inferno, anche se è la principale. La Scrittura – in parte già l’abbiamo visto – parla frequentemente di « fuoco ». È possibile intendere questo fuoco solo come una immagine che rappresenta il grande dolore di chi è perduto per sempre? La cosa è sotto il profilo strettamente esegetico del tutto improbabile. In primo luogo non abbiamo notizia dell’uso di una tale metafora per indicare una pena puramente interiore. Inoltre tale interpretazione non sembra dare sufficientemente conto né della frequenza del termine, né del senso preciso di alcuni passi in particolare (cfr. Matteo, 25, 41, dove il fuoco è detto « preparato » per i cattivi; Matteo, 13, 40-42, dove il fuoco è l’unico elemento parabolico conservato anche nella spiegazione).
Ovviamente non è necessario ritenere che il fuoco infernale abbia la stessa natura del nostro. Sarà sufficiente pensare a esso come a un elemento materiale estrinseco che, in qualunque modo, influisca tormentosamente sul dannato. Il destino umano sembra governato dal principio della « trasnaturazione »: come lo spirito del giusto è divinizzato con la grazia e il corpo è spiritualizzato con la risurrezione, così la dannazione proietta l’uomo in opposta direzione, materializzandone per così dire lo spirito e sottomettendo lo spirito così materializzato alla schiavitù della materia.
Non è possibile pensare che tutti si salvino? Non basta ammettere l’esistenza dell’inferno? Bisogna proprio pensare anche che ci stia effettivamente qualcuno? La dottrina rivelata, che ci obbliga a credere nella possibilità di dannarci, evita di darci qualche indicazione numerica circa i dannati. Anzi, rigorosamente parlando, non ci impone neppure di ritenere per fede che qualche uomo di fatto ci vada. Tuttavia affermare che l’inferno sia perfettamente vuoto è asserzione infondata, incauta e superficiale.
In primo luogo non si vede in forza di quali argomentazioni possa essere sostenuta. Non avendo nessun argomento « a posteriori » – per il quale, in mancanza di una Rivelazione, ci vorrebbe una esplorazione diretta – è fatale che un simile atteggiamento si appoggi, più o meno consapevolmente, su argomenti « a priori » (come la misericordia di Dio, l’impossibilità di compiere un vero peccato mortale e così via.). Ora gli argomenti « a priori », se provassero, proverebbero non solo la non esistenza ma anche la impossibilità. Il che sarebbe incompatibile con la dottrina rivelata.
In secondo luogo, la Rivelazione ci parla della effettiva riprovazione eterna dei demoni. Sicché non si eliminerebbe neppure il disagio psicologico di pensare a un essere personale prigioniero di una condizione così crudele. E dal momento che la Rivelazione richiama tanto spesso l’idea del castigo eterno, sarà meglio affidarsi a questa divina pedagogia, senza vanificarla con supposizioni che, per quel che ne sappiamo noi, non hanno fondamento.
Non dobbiamo mai dimenticare che chi ci ha parlato con più chiarezza dell’inferno, della sua pena, della sua eternità, è stato Gesù Cristo, cioè colui che più di ogni altro ha conosciuto e rivelato il cuore misericordioso del Padre e più di ogni altro ha avuto amore e compassione per gli uomini. Certo la dannazione resta una realtà misteriosa e incomprensibile. « Sarà soltanto quando saremo passati dall’altra parte che si risolveranno gli ultimi problemi, che cesserà per noi lo « scandalo », che la bontà divina ci apparirà infinita, non soltanto in tutto ciò che essa crea, ma anche nella pazienza che le fa tollerare la rivolta delle sue creature libere. Finché vivremo, il pensiero dell’inferno ci sconvolgerà: è una spina nel nostro cuore, che ci fa tremare di fronte ai giudizi di Dio, ci fa invocare una fede più pura, ci fa supplicare perché siano forzate le nostre volontà ribelli, perché nessuno tra gli uomini resista alle premure amorose di quella bontà infinita di cui l’apostolo scrive che è follia prenderla alla leggera (Galati, 6, 7) » (Charles Journet, Il male: saggio teologico, Torino, Borla, 1963, pagine 246).
L’inferno insomma è un pensiero insopportabile. Ma l’esistenza umana non ha un lieto fine immancabile, come nei vecchi film americani.
La risurrezione corporea è l’aspetto più appariscente ed esterno di una condizione nuova dell’umanità, che trova la sua radice e insieme la sua dimensione più profonda in un rapporto nuovo con Dio, che eccede l’ambito puramente creaturale. Gesù sembra alludervi, secondo il vangelo di Giovanni, proprio nella sua prima manifestazione, la mattina di Pasqua: « Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro » (Giovanni, 20, 17). L’elemento più importante dello stato di gloria verso cui siamo incamminati sarà appunto una comunione con il Padre così forte e saziante da superare ogni attesa e ogni immaginazione.
Se già la risurrezione è un evento che va oltre ogni capacità di comprensione, il possesso di Dio trascende assolutamente ogni prospettiva e pone in luce ancora più intensa la generosità del piano divino e la grandezza del destino che ci è stato assegnato.
In che cosa consisterà questa intimità con il Padre? Sarà senza dubbio una unione d’amore, e come tale ha già le sue premesse nella vita di grazia. La carità infatti – che ci assimila a Cristo nella sua perfetta adesione al Padre – è la costante che accomuna lo stato del giusto durante il cammino terrestre e la sua condizione finale, ed è ciò che ci consente di essere già adesso nella « vita eterna », secondo l’insegnamento di Giovanni. Perciò san Paolo dice: « La carità non avrà mai fine » (1 Corinzi, 13, 8). La differenza sta nel fatto che l’amore del cristiano sulla terra nasce da una conoscenza che è sì soprannaturale e divinizzante, ma è velata e indiretta; nasce cioè dall’atto di fede, che è la radice e il fondamento di tutta la vita battesimale. Invece l’amore dell’uomo glorificato scaturirà dalla visione immediata di Dio. Dio che, secondo l’insegnamento biblico, è l’Invisibile e l’Inaccessibile, sarà contemplato senza intermediari: « La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che ero da bambino l’ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto » (1 Corinzi, 13, 9-12). La contemplazione diretta di Dio porrà nella massima evidenza il nostro stato di creature divinizzate e di figli che entrano in possesso della loro eredità.
E come il battesimo inizia in noi la presenza di una vita e di una ricchezza « ecclesiali », così la suprema fioritura di questa vita ci troverà partecipi di una « città santa », di un « popolo nuovo », della « Chiesa escatologica », insomma: « Vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii una voce potente che usciva dal trono: Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno il suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi: non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate » (Apocalisse, 21, 2-4). Vedremo dunque Dio « a faccia a faccia » e sarà una conoscenza ben diversa da quella che oggi ci è consentita. Quanto al purgatorio, è una cosa, da un certo punto di vista, molto semplice. Nel disegno di Dio bisogna purificarsi, non basta dire: io ho sbagliato. Sono però da considerarsi errate le tendenze della pietà popolare e di una certa teologia che ha interpretato il purgatorio come un piccolo inferno. Il clima del purgatorio è la serenità. Le anime sono in grazia di Dio. Il cardinale Schuster diceva che il purgatorio è come un corso di esercizi spirituali: uno riflette, pensa, vede le cose sbagliate che ha fatto, gli dispiace, si purifica. Mi piace pensare che il nostro purgatorio, il purgatorio di ciascuno, sia quello di vedere tutte le stupidaggini che abbiamo fatto nella vita. Mi è congeniale in questo senso la descrizione dantesca delle anime « che vanno a farsi belle ».
Le narrazioni del Nuovo Testamento circa l’ultimo giorno parlano tutte di uno sconvolgimento cosmico terrificante. Citiamo per esempio la seconda lettera di Pietro: « Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c’è in essa sarà distrutta » (ii Pietro, 3, 10, cfr. anche Matteo, 24, 29; Apocalisse, 6, 12-14). Ma è difficile assegnare un contenuto preciso a queste descrizioni, che appartengono al genere letterario apocalittico e non devono essere prese alla lettera.
Quanto alla data, è sempre stata oggetto di curiosità viva e morbosa in tutte le epoche della storia cristiana. San Paolo aveva già bisogno di ammonire severamente su questo punto la comunità di Tessalonica, che nella convinzione della imminente fine aveva a buon conto smesso di lavorare. In particolare, l’apostolo raccomanda – e non solo ai Tessalonicesi, visto che anche ai nostri tempi ogni tanto questo stato d’animo rinasce – che non ci si debba attenere a rivelazioni private o ad annunci divini o a lettere apostoliche che dichiarano prossimo il giorno del Signore (II Tessalonicesi, 2, 2).
Se c’è una cosa chiara nella Rivelazione, è la non conoscibilità della data: il Padre se l’è riservata come un segreto geloso e ogni notizia che circola a questo proposito non può certo essere considerata di provenienza divina: « Quanto a quel giorno o a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli del cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre » (Marco, 14, 32).
Resta da vedere se la Rivelazione ci indichi chiaramente dei segni premonitori della fine. Il segno che più ha colpito la fantasia popolare è la venuta di uno speciale nemico di Gesù che l’apostolo Giovanni chiama appunto Anticristo (1 Giovanni, 2, 18) e che san Paolo qualifica come l’Uomo del peccato, il Figlio della perdizione, l’Avversario, l’Iniquo (II Tessalonicesi, 2, 3-10). Egli si manifesterà negli ultimi tempi e sarà distrutto dall’alito della bocca del Signore e dallo splendore della sua venuta (II Tessalonicesi, 2, 8).
Ma se la comparsa di questo misterioso personaggio è certa, la sua natura è discussa, e gli uomini di tutte le epoche non hanno mancato di riconoscerlo in qualche abominato contemporaneo. Già san Giovanni, dicendo che « gli anticristi sono molti » (1 Giovanni, 2, 18), pone le premesse per una interpretazione collettivistica, che riconosca questo avversario di Dio in tutte le forze del male agenti lungo la storia, le quali si scateneranno con particolare violenza prima della loro finale eliminazione. In connessione con l’ »Uomo di iniquità », san Paolo parla anche di « apostasia » che dovrà colpire i cristiani, senza offrirci però nessuna notizia particolare (II Tessalonicesi, 2, 1).
Nel discorso escatologico, poi, Gesù ha preannunciato l’universale predicazione del vangelo in tutto il mondo abitato, e solo dopo, ha detto, « verrà la fine » (Matteo, 24, 14). Ma poiché il contesto sembra riferirsi piuttosto alla distruzione di Gerusalemme, anche questa profezia deve considerarsi compiuta con la missione apostolica in tutto il mondo greco-romano. Infine san Paolo predice in termini abbastanza espliciti la conversione della nazione giudaica, che avrebbe dovuto essere la prima a entrare nel Regno e che invece sarà l’ultima, secondo un oscuro e sapiente piano di provvidenza (Romani, 11, 25-36). Ma non ci dice nulla sulla vera natura e sulle modalità di questo ritorno.
Come si vede, nessuno di questi segni è tale da togliere o sminuire il carattere di « sorpresa », così ripetutamente attribuito dal libro sacro all’ultimo giorno della nostra storia.

(L’Osservatore Romano 6 settembre 2009)

BENEDETTO XVI – SALMO 115 – RENDIMENTO DI GRAZIE NEL TEMPIO

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2005/documents/hf_ben-xvi_aud_20050525.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 25 maggio 2005

SALMO 115 – RENDIMENTO DI GRAZIE NEL TEMPIO

Primi Vespri – Domenica 3a settimana

1. Il Salmo 115 col quale abbiamo ora pregato è stato sempre in uso nella tradizione cristiana, a partire da san Paolo che, citandone l’avvio nella traduzione greca della Settanta, così scrive ai cristiani di Corinto: «Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo» (2Cor 4,13).
L’Apostolo si sente in spirituale accordo col Salmista nella serena fiducia e nella sincera testimonianza, nonostante le sofferenze e debolezze umane. Scrivendo ai Romani, Paolo riprenderà il v. 2 del Salmo e delineerà un contrasto tra il Dio fedele e l’uomo incoerente: «Resti fermo che Dio è verace e ogni uomo mentitore» (Rm 3,4).
La tradizione successiva trasformerà questo canto in una celebrazione del martirio (cfr Origene, Esortazione al martirio, 18: Testi di Spiritualità, Milano 1985, pp. 127-129) a causa dell’affermazione della «morte preziosa dei fedeli» (cfr Sal 115,15). Oppure ne farà un testo eucaristico in considerazione del riferimento al «calice della salvezza» che il Salmista eleva invocando il nome del Signore (cfr v. 13). Questo calice è identificato dalla tradizione cristiana col «calice della benedizione» (cfr 1Cor 10,16), col «calice della nuova alleanza» (cfr 1Cor 11,25; Lc 22,20): sono espressioni che nel Nuovo Testamento rimandano appunto all’Eucaristia.
2. Il Salmo 115 nell’originale ebraico costituisce un’unica composizione col Salmo precedente, il 114. Ambedue costituiscono un ringraziamento unitario, rivolto al Signore che libera dall’incubo della morte.
Nel nostro testo affiora la memoria di un passato angoscioso: l’orante ha tenuta alta la fiaccola della fede, anche quando sulle sue labbra affiorava l’amarezza della disperazione e dell’infelicità (cfr Sal 115,10). Attorno, infatti, si levava come una cortina gelida di odio e di inganno, perché il prossimo si manifestava falso e infedele (cfr v. 11). La supplica, però, ora si trasforma in gratitudine perché il Signore ha sollevato il suo fedele dal gorgo oscuro della menzogna (cfr v. 12).
L’orante si dispone, perciò, ad offrire un sacrificio di ringraziamento, nel quale si berrà al calice rituale, la coppa della libagione sacra che è segno di riconoscenza per la liberazione (cfr v. 13). È quindi la Liturgia la sede privilegiata in cui innalzare la lode grata al Dio salvatore.
3. Infatti si fa cenno esplicito, oltre che al rito sacrificale, anche all’assemblea di «tutto il popolo», davanti al quale l’orante scioglie il voto e testimonia la propria fede (cfr v. 14). Sarà in questa circostanza che egli renderà pubblico il suo ringraziamento, ben sapendo che, anche quando incombe la morte, il Signore è chino su di lui con amore. Dio non è indifferente al dramma della sua creatura, ma spezza le sue catene (cfr v. 16).
L’orante salvato dalla morte si sente «servo» del Signore, «figlio della sua ancella» (ibidem), una bella espressione orientale per indicare chi è nato nella stessa casa del padrone. Il Salmista professa umilmente e con gioia la sua appartenenza alla casa di Dio, alla famiglia delle creature unite a lui nell’amore e nella fedeltà.
4. Il Salmo, sempre attraverso le parole dell’orante, finisce evocando di nuovo il rito di ringraziamento che sarà celebrato nella cornice del tempio (cfr vv. 17-19). La sua preghiera si collocherà così in ambito comunitario. La sua vicenda personale è narrata perché sia per tutti di stimolo a credere e ad amare il Signore. Sullo sfondo, pertanto, possiamo scorgere l’intero popolo di Dio mentre ringrazia il Signore della vita, il quale non abbandona il giusto nel grembo oscuro del dolore e della morte, ma lo guida alla speranza e alla vita.
5. Concludiamo la nostra riflessione affidandoci alle parole di san Basilio Magno che, nell’Omelia sul Salmo 115, così commenta la domanda e la risposta presenti nel Salmo: “Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato? Alzerò il calice della salvezza. Il Salmista ha compreso i moltissimi doni ricevuti da Dio: dal non essere è stato condotto all’essere, è stato plasmato dalla terra e dotato di ragione… ha poi scorto l’economia di salvezza a favore del genere umano, riconoscendo che il Signore ha dato se stesso in redenzione al posto di tutti noi; e rimane incerto, cercando fra tutte le cose che gli appartengono, quale dono possa mai trovare che sia degno del Signore. Che cosa dunque renderò al Signore? Non sacrifici, né olocausti… ma tutta la mia stessa vita. Per questo dice: Alzerò il calice della salvezza, chiamando calice il patire nel combattimento spirituale, il resistere al peccato sino alla morte. Ciò che, del resto, insegnò il nostro Salvatore nel Vangelo: Padre, se è possibile, passi da me questo calice; e di nuovo ai discepoli: potete bere il calice che io berrò?, significando chiaramente la morte che accoglieva per la salvezza del mondo» (PG XXX, 109).

Gesù Buon Pastore

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SINTESI DELLA FEDE DI UN UMILE CRISTIANO – PAPA MONTINI

http://www.30giorni.it/articoli_id_13604_l1.htm

SINTESI DELLA FEDE DI UN UMILE CRISTIANO – PAPA MONTINI

Montini esprime nel suo testamento la fede in quella forma in cui gli era stata insegnata. Lo riproponiamo ai nostri lettori in occasione del ventunesimo anniversario della sua morte

di Paolo Mattei

Paolo VI a Venezia il16 settembre 1972. Durante quella visita il Papa si tolse la stola rossa e la pose sulle spalle di monsignor Luciani che non era neanche cardinale
Paolo VI a Venezia il16 settembre 1972. Durante quella visita il Papa si tolse la stola rossa e la pose sulle spalle di monsignor Luciani che non era neanche cardinale
Il pontificato di Paolo VI può essere riassunto in queste parole: una difesa della Tradizione apostolica. Un esempio, semplice e comprensibile, di questa difesa della Tradizione degli apostoli è il testamento di papa Montini. Può apparire una cosa un po’ insolita prendere spunto, per indicare il cuore di tutto un pontificato, da uno scritto così personale qual è un testamento. Ma in questo testo tutta la fede cristiana di Montini è espressa con una semplicità fedele e con una bellezza uniche.
Il pericolo più grave per la Tradizione della Chiesa in epoca moderna non viene da una negazione di singoli contenuti della fede. Il pericolo più grave per la Tradizione della Chiesa viene da uno snaturamento dei contenuti della fede. Se non si comprende questo, non si capisce la vera grandezza di Paolo VI. Il pericolo non era la negazione diretta dei contenuti della dottrina della fede, quindi non era, per esempio, l’ateismo marxista. Il pericolo era lo svuotamento dall’interno o, più precisamente, lo snaturamento dall’interno dei contenuti della fede. Il termine snaturare, dall’enciclica Humani generis di Pio XII, è la chiave per comprendere l’attacco alla Tradizione degli apostoli in epoca moderna.
L’espressione di Pio XII, «altri snaturano il concetto della gratuità dell’ordine soprannaturale», può individuare quell’apparentemente piccolo mutamento che è alla radice della catastrofe della scristianizzazione moderna. Come aveva intuito Péguy, la scristianizzazione nasce da un errore mistico cioè precisamente dallo snaturare il concetto della gratuità della grazia. La grazia non è più riconosciuta come un avvenimento che si incontra, come un dono gratuito che viene fatto all’uomo, ma viene concepita come una dimensione dell’esistenza umana in quanto tale. Il soprannaturale non è più riconosciuto come un dono che suppone e ricrea la natura secondo il grande principio di san Tommaso d’Aquino («…cum enim gratia non tollat naturam sed perficiat», scrive l’Aquinate nella Summa theologica I-I, q. 8 ad 2). Ma il soprannaturale viene concepito come una dimensione interna alla stessa natura. Quindi non c’è più distinzione tra natura e grazia, ma si dice: tutto è grazia. E se tutto è grazia, si finisce con l’attribuire alla storia umana un significato assoluto. Non l’avvenimento e quindi la storia di questa particolare realtà che è la grazia, ma la storia umana in quanto tale assume un significato assoluto, quasi fosse essa, e non il mistero e l’operazione della grazia, il principio della divinizzazione dell’uomo.
Così chi ha intelligenza e cuore cattolico comprende facilmente che la crisi della Chiesa non ha avuto il suo apice nella contestazione dei dogmi e dell’autorità degli anni Settanta. La crisi della Chiesa ha il suo apice in questi ultimi decenni.
Quando Paolo VI nel maggio 1978 celebrò la messa funebre per Aldo Moro a San Giovanni in Laterano, apparve agli occhi di tutti come uno sconfitto. Uno che osava utilizzare le parole di Giobbe per rimproverare a Dio di non essere intervenuto a difendere un amico. L’immagine di quel Papa sconfitto rappresenta molto più realisticamente la condizione della Chiesa che non tutti quei gesti e momenti teatrali con cui oggi si tenta di occultare la dilagante scristianizzazione. È come se davanti a una casa distrutta si fosse messo un sipario di teatro. O peggio si fossero usati elementi di quella dimora per costruzioni architettoniche altrui.
Così, per usare un’altra espressione di Péguy, si è ridotto il cristianesimo a eccellente materia di insegnamento. Infatti se la grazia diventa una dimensione dell’umano in quanto tale, se la Chiesa non è più gesto dell’operare della grazia, comunicazione della grazia come dono gratuito, che cosa può fare la Chiesa? Insegnare all’uomo come scoprire la grazia immanente, cioè la grazia ridotta a dimensione della vita umana (come dimensione del lavoro, della sofferenza, del genio femminile, della famiglia, ecc.). La missione della Chiesa non è più riconosciuta come il comunicarsi di un dono non dovuto, di un tesoro gratuito, come la possibilità di un incontro imprevisto e imprevedibile. Ma diventa insegnare ad ogni uomo come scoprire questo tesoro, considerato una dimensione della sua stessa natura e, una volta scoperto questo tesoro, essere buono in forza di esso. Certo, nessuno afferma che l’uomo diventa buono da sé, grazie alle sole sue forze. Questa evidentemente sarebbe l’eresia di Pelagio. Anche se, a dire il vero, nemmeno Pelagio diceva questo. Anche lui parlava della grazia. Ma, come i chierici di oggi, della grazia aveva una concezione puramente intellettiva, come un dono di insegnamento e di intelligenza in grado di far riscoprire agli uomini le possibilità naturali che Dio ha donato loro. Si tratta di uno snaturamento del concetto della gratuità della grazia che lascia intatte le parole cristiane. È quindi molto più difficile cogliere il pericolo, cogliere l’alternativa che questo rappresenta rispetto alla Tradizione degli apostoli.
Nel suo testamento papa Montini esprime, quasi senza accorgersene, la fede in quella forma in cui gli era stata insegnata. Il testamento esprime la sua fede cattolica e la esprime in diretto contrasto con lo snaturamento del concetto di grazia. Per Montini non è vero che tutto è di per sé grazia, non è vero cioè che la grazia si possa concepire come una dimensione immanente all’umano in quanto tale. Questo nel testamento è evidente. È evidente non in termini criticamente riflessi ma innanzitutto come testimonianza immediata di un semplice fedele che dalla Tradizione aveva appreso gli elementi fondamentali della fede cattolica. Anche Montini conosceva a memoria il Catechismo di san Pio X.
«Alcune note per il mio testamento. In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen. 1. Fisso lo sguardo verso il mistero della morte, e di ciò che la segue, nel lume di Cristo, che solo lo rischiara; e perciò con umile e serena fiducia. Avverto la verità, che per me si è sempre riflessa sulla vita presente da questo mistero, e benedico il vincitore della morte per averne fugate le tenebre e svelata la luce».
Il mistero della morte, nella luce di Cristo, il vincitore della morte, viene guardato con umile e serena fiducia. Questo è il paradosso cristiano: la grazia non censura né sublima. La grazia dona umiltà, luce, conforto nel vivere i fattori, le circostanze della vita.
«Dinanzi perciò alla morte, al totale e definitivo distacco dalla vita presente, sento il dovere di celebrare il dono, la fortuna, la bellezza, il destino di questa stessa fugace esistenza».
Questo è il cattolicesimo. La vita naturale è fugace. Eppure è bella. Ha ragione Benigni: La vita è bella. Che venga al mondo un figlio è una cosa bella.
«Signore, Ti ringrazio che mi hai chiamato alla vita, ed ancor più che, facendomi cristiano, mi hai rigenerato e destinato alla pienezza della vita».
Così il Ti adoro mio Dio (la preghiera del mattino e della sera del Catechismo di san Pio X), che tutti abbiamo recitato e che probabilmente anche Montini avrà ripetuto tutte le mattine e tutte le sere. «Ti adoro mio Dio… ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano». Ecco la chiara distinzione: «avermi creato, fatto cristiano». L’essere stato creato è una cosa bella, mirabile dice la Tradizione della Chiesa. Più bello e più mirabile è l’essere fatto cristiano. Questa affermazione semplice e chiara di due doni distinti (la natura e la grazia) è l’elemento più decisivo di papa Montini in difesa della Tradizione degli apostoli. Ci sono due doni e il secondo, la grazia, rende più mirabile anche il primo, anche perché vi corrisponde gratuitamente. Ma non c’è omologazione, non c’è confusione; quella confusione per cui si dice che tutto è Cristo, tutto è grazia.

«Parimente sento il dovere di ringraziare e di benedire chi a me fu tramite dei doni della vita, da Te, o Signore, elargitimi: chi nella vita mi ha introdotto (oh! siano benedetti i miei degnissimi Genitori!), chi mi ha educato, benvoluto, beneficiato, aiutato, circondato di buoni esempi, di cure, di affetto, di fiducia, di bontà, di cortesia, di amicizia, di fedeltà, di ossequio. Guardo con riconoscenza ai rapporti naturali e spirituali che hanno dato origine, assistenza, conforto, significato alla mia umile esistenza: quanti doni, quante cose belle ed alte, quanta speranza, ho io ricevuto in questo mondo!».
Ecco innanzitutto la bellezza della vita, dei doni naturali elargiti dal Signore, che fa piovere e fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi.
«Ora che la giornata tramonta, e tutto finisce e si scioglie di questa stupenda e drammatica scena temporale e terrena, come ancora ringraziare Te, o Signore, dopo quello della vita naturale, del dono, anche superiore, della fede e della grazia, in cui alla fine unicamente si rifugia il mio essere superstite?».
Non c’è bisogno di negare la natura per ringraziare della grazia che, alla fine, è l’unica ricchezza vera che rimane. Ma questo non distrugge la bellezza di quei doni naturali, anzi rende più umili e grati nel riconoscere la loro bellezza. Anche qui c’è la distinzione: la natura e la grazia. In una corrispondenza non ideologica, cioè non stabilita da una spiegazione o da una tesi teologica. È una corrispondenza di incontro, una corrispondenza di esperienza, una corrispondenza di grazia. L’avvenimento della grazia corrisponde gratuitamente al cuore, trasfigura, rendendola più mirabile, la stessa vita naturale; e il riposo ultimamente unico della grazia non distrugge la natura, ma la suppone e la compie oltre ogni desiderio.
«Come celebrare degnamente la tua bontà, o Signore, per essere io stato inserito, appena entrato in questo mondo, nel mondo ineffabile della Chiesa cattolica? come per essere stato chiamato ed iniziato al Sacerdozio di Cristo? come per aver avuto il gaudio e la missione di servire le anime, i fratelli, i giovani, i poveri, il popolo di Dio, e d’aver avuto l’immeritato onore d’essere ministro della santa Chiesa, a Roma specialmente, accanto al Papa, poi a Milano, come arcivescovo, sulla cattedra, per me troppo alta, e venerabilissima dei santi Ambrogio e Carlo, e finalmente su questa suprema e formidabile e santissima di San Pietro? In aeternum Domini misericordias cantabo».
Un’ultima osservazione. Ci sono delle note complementari al testamento. Esse furono redatte il 16 settembre 1972 alle ore 7 e 30. Dopo averle scritte, quel medesimo giorno papa Montini andò a Venezia. Fu in quell’occasione che coprì con la sua stola rossa di papa le spalle di monsignor Albino Luciani, che non era neanche cardinale. Si legge in queste note:
«In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum.
Magnificat anima mea Dominum, Maria!
Credo. Spero. Amo. In Gesù Cristo.
Ringrazio quanti mi hanno fatto del bene. Chiedo perdono a quanti io avessi non fatto del bene. A tutti io do nel Signore la pace.
Saluto il carissimo fratello Lodovico e tutti i miei familiari e parenti e amici, e quanti hanno accolto il mio ministero. A tutti i collaboratori, grazie. Alla Segreteria di Stato particolarmente. Benedico con speciale carità Brescia, Milano, Roma, la Chiesa intera. Quam dilecta tabernacula tua, Domine!».
Leggendo il testamento è evidente che Montini ha difeso la Tradizione degli apostoli anche perché come cuore era umile. Cioè ha difeso quello che lui stesso umilmente aveva imparato. Il testamento testimonia che Montini ha difeso le poche cose essenziali che lui stesso aveva imparato dalla tradizione cattolica che l’aveva preceduto. Uno, anche se papa, può fare mille peccati. Anche i papi sono poveri peccatori. Sant’Agostino dice che l’essere cristiano è la dignità di grazia che ci accomuna, mentre l’essere vescovo è, di fatto, un pericolo. Se l’essere vescovo di una piccola diocesi dell’Africa rappresentava un pericolo per Agostino, tanto più l’essere vescovo della Chiesa di Roma, con il carico del ministero verso tutte le Chiese, è un pericolo per la stessa salvezza eterna. L’essere vescovo di Roma non evita di per sé la possibilità di peccati e di errori nelle cose umane. Ma, come dice l’apostolo Paolo, di cui Montini volle assumere il nome, ciò che si richiede all’amministratore è semplicemente di essere fedele, cioè di custodire e di difendere un tesoro che non è suo. 

Publié dans:Papa Paolo VI, VIRTÙ E FEDE |on 17 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

OMELIA XVI SETITMANA DEL t.o.

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/35115.html

OMELIA (19-07-2015)

don Michele Cerutti

Il Signore ci abitua con la sua Parola a non essere fermi, ma a smuoverci e lo fa con le sue provocazioni.
Lo fa oggi, in particolare, con il Profeta Geremia. Questo profeta esprime il suo oracolo contro i pastori di Israele. Essi sono colpevoli di aver mal governato il popolo di essersi disinteressati. Un oracolo che si conclude non con la minaccia, ma con la misericordia. Sì l’ultima parola non è dell’uomo è di Dio. Egli promette il Messia e la promessa viene mantenuta in Cristo Gesù. L’invettiva è rivolta ai governanti. Il rischio diventa allora quella di chi pensa di non essere toccato dall’oracolo. Papa Benedetto XVI, mercoledì delle ceneri 2013, pochi giorni prima del suo congedo dal soglio petrino, affermava la facilità con cui ci stracciamo le vesti per gli altri. La Parola di Dio ha, invece, la forza di scuotere la coscienza di tutti.
Abbiamo il compito di pensare tutte le volte che abbiamo dei ruoli da ricoprire che comportano delle responsabilità. Siamo in grado di portarli fino in fondo i nostri compiti? In ogni contesto dobbiamo portare avanti delle responsabilità e di queste rendiamo conto. Non dimentichiamo la nostra prospettiva cristiana quando ci facciamo prendere dal troppo zelo delle nostre responsabilità abbiamo il compito di ricordarci che Cristo ha vinto. La promessa messianica, a conclusione dell’oracolo, ha proprio questa prospettiva. La storia di ciascuno di noi è condotta da Cristo.
In questo mese di Luglio dovremmo ricordarci che siamo salvati da quel sangue sparso per la nostra salvezza. Paolo ne parla nella seconda lettura. Siamo dei salvati da un Dio che ha vinto il mondo. Siamo invitati a riscoprire il valore sacro di ogni persona umana anche nei momenti in cui assumiamo responsabilità nei confronti dei fratelli. Ricordiamoci che ancora oggi Cristo ha sofferto per l’uomo, ma continua a soffrire nell’uomo. C’è bisogno più che mai oggi di uomini e donne che, nel nome di Cristo, si pongano pienamente al servizio dei fratelli, con l’audacia di un amore che non calcola, pronti a spendersi nel dono della vita.
Gesù ci aiuta a comprendere questo con il suo stile indicato nel Vangelo. Prima di tutto Gesù nel Vangelo di Marco ci dice ancora una volta che per mettersi al servizio in maniera responsabile dei fratelli dobbiamo « stare con lui » (Mc 3,14). Lo fa questo invitando i discepoli a mettersi in disparte. Ogni attività deve avere inizio in Lui e compimento in Lui.
Rileggendo questo brano mi viene in mente un confratello che non conosco personalmente, ma ho potuto verificare con testimonianze. Questo confratello vive l’esperienza del carcere a Napoli come cappellano. Ogni volta che va in carcere tra i carcerati, prima di iniziare la sua missione si mette in contemplazione del Santissimo e così ogni volta che ritorna dalla sua missione si pone davanti all’Eucaristia. Il modello è quello di Don Guanella che compiva il suo ministero in questa dimensione di contemplazione all’inizio e alla fine di una giornata.
Attenzione lo « stare con Lui » o il mettersi in disparte è di tutti non solo di preti e suore. Il cristiano è chiamato a vivere lo stare con Cristo.
Penso al giudice Borsellino, di cui ricordiamo l’anniversario di uccisione, passava momenti di preghiera davanti a Gesù fermando la scorta davanti alle diverse Chiese di Palermo. Perché tutti abbiamo bisogno di Lui.
Attenzione il Signore non ci estrania. Gesù stesso nel momento in cui invita i discepoli a venire in disparte si offre alle folle che lo seguono e comprende che sono come greggi senza pastore. Gesù sa ciò di cui essi necessitano e si offre.
La spiritualità non è mai disincarnata. Oggi si propongono tante forme di spiritualità che sfociano nel New Age e che estraniano i soggetti dal contesto alla ricerca di ciò che è diverso anche dal punto di vista alimentare. La spiritualità si vive nella dimensione del comandamento dell’amore amare Dio e il prossimo.
Concludo con espressioni Bachelet scriveva nel 1973, ma attuale ancor oggi:
« E’ più che mai necessario insistere sulla unità dell’esperienza cristiana nella vita di ciascuno di noi. La pretesa di separare una dimensione « verticale » da una « orizzontale » nella vita e nell’impegno del cristiano è radicalmente contraria all’insegnamento evangelico che da’ il primato all’amore al Padre in Cristo ma ci chiede contemporaneamente, quasi a conferma di quell’amore, di amare Cristo nei fratelli. Tale unità va ancora più riscoperta e vissuta in un mondo secolarizzato, che, mentre potenzia la legittima autonomia dell’uomo nel costruire la sua civiltà, pone sempre in realtà nuovi e drammatici problemi morali e spirituali a chi voglia vivere con coerenza cristiana nella nuova civiltà che si sta costruendo ». E in un altro passo: « Per tutto questo non bastano momenti sentimentali di pietà; è necessario qualcosa di più radicato e profondo, perché il confronto con la vita quotidiana dimostrerà se la meditazione, se la preghiera gli hanno fatto vivere brevi momenti di ebbrezza spirituale (….) o gli hanno radicato così profondamente nel cuore la Parola di Dio, che questa lo sostiene e lo fortifica tutto il giorno e lo spinge ad un amore attivo, verso tutti i fratelli e verso la comunità in cui è chiamato a vivere per trasfigurarla ».

The statues of Our Lady of Mount Carmel

The statues of Our Lady of Mount Carmel dans immagini sacre faversham53

http://www.carmelite.org/index.php?nuc=content&id=115

Publié dans:immagini sacre |on 16 juillet, 2015 |Pas de commentaires »
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