Archive pour juillet, 2015

IL CUORE MATERNO DELL’ORTODOSSIA

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IL CUORE MATERNO DELL’ORTODOSSIA

Una piccola introduzione al culto mariano

di p. Vladimir Zelinskij

I volti di Maria
«Il cuore dell’ortodossia (soprattutto dell’ortodossia russa), forse, non si è mai espresso così pienamente, come nella venerazione della Madre di Dio e dei santi», dice il filosofo del XX secolo Vladimir Iliyn. «Tutta la nostalgia dell’umanità sofferente che non ha l’audacia di aprire il proprio animo davanti a Cristo per il timore di Dio, – fa eco un altro grande pensatore, Georgij Fedotov, – liberamente e con amore si versa sulla Madre di Dio. Assunta nel ramo divino fino alla dissoluzione con l’Altissimo, lei rimane, a differenza di Cristo, legata con il mondo umano, una madre compassionevole e protettrice».
Il volto ortodosso di Maria ha tante immagini che si trovano in una permanente correlazione. La Sua presenza riempie tutta la vita liturgica della Chiesa, ma anche la devozione personale dei fedeli. Sono davvero innumerevoli le espressioni della pietà mariana nell’anima ortodossa che con tante sfaccettature e sfumature portano verso lo stesso mistero: l’Incarnazione del Figlio di Dio. La Madre rivela che il senso del Verbo che si è fatto carne è davvero inesauribile e Lei fa vedere nella Sua persona la santità della carne della Creazione. La radice della venerazione di Maria è centrata nella fede e nell’amore verso il Suo Figlio, «la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9), ma in mezzo agli uomini la luce assume la sostanza «materiale» di questo mondo. E la sua prima «materia» è stata la carne di sua Madre, piena dello Spirito. La luce di Cristo arriva come mistero insondabile, come Buona Notizia, come Volto di Cristo tornato a noi, ma anche come purezza della Vergine, tenerezza e protezione della Madre, Sua intercessione ed amore. Tutte queste sono le «sostanze» della Parola (o «impronte» dello Spirito) che entrano nell’anima e nel senso primordiale si fanno carne nell’anima come nella Chiesa.

«La maternità di Dio»
Maria è sempre presente accanto a Gesù ed illumina ciò che il grande teologo russo Sergej Bulgakov chiamò «la maternità di Dio». La rivelazione della maternità di Dio è un altro volto dell’amore di Dio. Maria è come «il canale» privilegiato dell’amore che sgorga sugli uomini. Perciò il fiume della lode e della gratitudine nei confronti di Maria non si esaurisce, anzi, con il tempo trova espressioni sempre nuove; di volta in volta si fa più ricco, più abbondante. Così i nomi delle icone esprimono a modo loro le varie sfaccettature dell’amore di Dio che parla attraverso la Vergine-Madre. Sembra che questi nomi cerchino di indovinare il Suo segreto : «La gioia inaspettata», «La ricerca dei perduti», «La Sollecitatrice per i peccatori», «Il fiume divino d’acqua viva»; «Odighitria» (Colei che guida), «Orante» (Colei che prega), «La Regina dei cieli»… e cosi via. La «fonte vivificante» delle immagini e delle parole nate in seno della fede ortodossa rivela il rapporto intimo con Dio che prende origine nella parola della Scrittura e ci porta altre immagini, che da secoli sono legate indissolubilmente con profezia a Maria : «il paradiso terrestre» (Gn 2,8-10), «il roveto ardente» (Es 3,1-8), «l’acqua dalla roccia» (Es 17,5-7) e tante altre. La fede ortodossa riconosce la Sua presenza ovunque il mistero del Dio Vivente e Misericordioso ci avvicina veramente.
Nella più profonda vita con Dio c’è un rapporto segreto fra il Figlio e la Madre, fra la Parola ed il silenzio, fra la fede fissata e conservata nelle formule conciliari ed il mistero, nascosto nella fonte stessa della fede. Dalla Parola andiamo al silenzio, da Cristo a Maria, dalla Chiesa all’anima e torniamo indietro perché lo Spirito della verità unisce queste realtà in sé come qualche cosa di inseparabile, ma anche di distinto. Il Padre stesso manda il Suo Spirito «che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori» (Ef 3,17) e Gesù diventa concepito nei nostri cuori per mezzo della maternità di Maria. In Maria ogni cuore che «vive mediante la fede» (Rom 1,17) diventa madre e dimora della Parola.
Come dice San Massimo il Confessore: «Ogni anima che crede, concepisce e partorisce il Verbo di Dio, secondo la fede. Il Cristo è il frutto e noi tutti, siamo madri del Cristo».

La gioia del creato
Tutti i credenti hanno Maria come Madre e Cristo come fratello, ma questa maternità e questa fratellanza si aprono nella rivelazione dello Spirito Santo. È lo Spirito che fa vedere anche il miracolo della creazione nella figura umana di Maria.
«In Te gioisce, Colmata di grazia, tutto il creato, la compagine degli Angeli e la progenie degli uomini, o Tempio santificato e Paradiso razionale…» (Liturgia di San Basilio). Nel pensiero liturgico Maria è vista anche come incarnazione della gioia del creato. Ella porta sempre nella Sua memoria il momento eterno quando la creazione fu proclamata dalle labbra del Signore: «la cosa buona» – e il peccato non ancora l’aveva toccata. In Maria tutto il creato si ricapitola, torna alla sua bontà iniziale, sapienziale, quella dello Spirito. In Lei il mondo appare trasfigurato.
Perciò, oltre la preghiera, una delle espressioni principali della sapienza della fede è quella dell’icona. L’icona è l’autentica voce di Maria, l’immagine di ciò che è stato veramente visto e vissuto dalla Chiesa. L’icona è un ricordo escatologico di quel Regno che Dio ci ha preparato, di quelle cose «che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo…» (1 Cor. 2,9). Queste cose si scoprono con amore e l’icona cerca di vederle. L’icona in sostanza deve divenire il luogo visibile dell’abitazione dello Spirito che entra nel cuore degli uomini. Pregare con le icone vuol dire entrare in dialogo interiore con l’immagine – nel nostro caso quella della Madre di Dio. In altre parole: con il Verbo che parla tramite il Suo silenzio, con lo Spirito che si manifesta nel volto umano. E quel volto lascia il proprio sigillo nell’esistenza di colui che entra in rapporto con Dio.
L’icona è una «teofania» che procede dalla fonte sempre nascosta della fede; essa rende testimonianza di questa fonte con la luce che essa risveglia in noi e con la quale caccia «la tristezza dei peccati». La vera immagine di Maria è quella che fa scoprire il «progetto» di Dio su di noi. Quel «progetto» è di creare un uomo aperto a Dio, trasparente per Lui stesso, un «essere deificato» – e si realizza nella santità.

Il modello della santità
La santità nella visione ortodossa, se cerchiamo di esprimerla con la formula trinitaria, è anzitutto l’adozione nel Padre, la vita in Cristo, l’acquisizione dello Spirito Santo, ma anche la parentela con la Santa Vergine.
Uno che era davvero «carne della propria Madre», fu San Serafino di Sarov, uno dei più grandi mistici e santi russi. La figura di San Serafino porta in sé il suo segreto teologico. Egli conosceva non per sentito dire la presenza e la protezione di Maria: tante volte durante la sua vita, Ella stessa, circondata da molti santi, entrava nella sua cella (fatto attestato da molti testimoni oculari), per parlare con lui o per guarirlo. In ogni momento della sua vita Ella gli era sempre vicino.
In San Serafino dire «vita» equivaleva dire «la preghiera». La sua preghiera fu sempre «triado-centrica» e, secondo la tradizione ortodossa, con moltissime invocazioni mariane. San Serafino pregava il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ma sempre davanti ad un’immagine della Madre, come se Ella dovesse portare la sua preghiera alla Santissima Trinità, come se Lei fosse mediatrice della sua supplica. Egli ha pregato per anni davanti alla sola icona chiamata «tenerezza» («u m i l e n i e» – La Vergine con le mani conserte, con gli occhi abbassati e senza il Bambino divino) e davanti ad essa morì. Un giorno la Madre di Dio apparve a Serafino in compagnia di San Giovanni Teologo e di altri santi. Rivolgendosi all’Evangelista definì il santo monaco come uno «della nostra razza» (o della nostra stirpe). La stirpe dei santi e della Madre di Dio era quella dello Spirito. Perciò tutti i doni dello Spirito – e per primo quello della fede –, sono portati o piuttosto «riempiti» da Maria, soprattutto nella vita dei santi.
Non si può neanche contare tutte le apparizioni di Maria ai santi, tutti i miracoli legati alle sue immagini nella storia della Chiesa ortodossa. A volte queste immagini nascono da un miracolo, come la salvezza inaspettata da un pericolo imminente. Le icone miracolose, quelle di Vladimir, di Kazan, di Pociaev, di Tichvin (solo in Russia si trovano alcune centinaia d’icone miracolose), tutte esprimono – in modo ogni volta diverso – il «messaggio» dell’intercessione, il segno della protezione, il mistero della mediazione.

La protezione
«La protezione», in russo «Pokrov», non è soltanto la memoria di un miracolo accaduto in passato, ma è la protezione materna – la quale fa parte della fede stessa che ci mette davanti l’occhio di Dio. Come tutte le feste, essa si ricollega ad un avvenimento mistico e storico: l’apparizione della Madre di Dio nella chiesa di Blacherne, nella Costantinopoli del X secolo. Accompagnata da una nutrita schiera di santi guidati da Giovanni Battista, Maria sarebbe stata vista da un «folle in Cristo», Andrea, e dal suo compagno Ephraim. Sollevato il suo velo (Pokrov), l’avrebbe poi disteso sui due uomini e sulla città di Costantinopoli in segno della protezione contro un attacco imminente delle nave nemiche.
L’idea della protezione è particolare nell’anima dell’ortodossia russa. Fra tutte le feste mariane (la Natività della Madre di Dio, l’Ingresso nel Tempio, L’Annunciazione, la Dormizione) anche dogmaticamente più importanti, «Pokrov» rimane una delle più amate. Nella maggior parte della Russia del Nord il «Pokrov», festeggiato il 14 ottobre (1 ott. secondo il calendario giuliano) coincide spesso con la prima nevicata. La terra si copre di un lenzuolo bianco. La bianchezza del manto di neve è come icona della purezza, di Colei che è senza macchia. Ma nello stesso tempo l’arrivo dell’inverno cela in sé una vaga angoscia: il freddo, la fame (il contadino russo doveva sempre pensare a come sopravvivere durante l’inverno). E questa angoscia si fonde con l’immagine della purezza e insieme danno origine ad una terza immagine, quella della morte. La neve è come negazione della vita precedente, un’altra vita nella prova. Ma il mistero della protezione è ancora più profondo, e la logica razionale non può esprimerlo che con il paradosso. Una delle preghiere mariane più amate nella Chiesa ortodossa, che il popolo canta spesso spontaneamente dopo il vespro, quando l’ufficio è finito, contiene la confessione: «Non abbiamo un altro aiuto, non abbiamo un’altra speranza oltre Te, la nostra Signora, speriamo in Te, lodiamo Te, siamo i tuoi servitori e non ne abbiamo vergogna.» Unico aiuto, unica speranza? Si può chiedere: ma dov’è il Cristo? Il Cristo è visto in Maria e Maria appare nel Cristo, senza confusione e senza divisione, nello stesso mistero della salvezza.

L’Eucarestia ed il tempo liturgico
Il mistero della protezione non si spiega, ma si chiarisce in un altro, quello dell’Eucaristia. La comunione con il Figlio nello Spirito Santo è rivolta a Dio-Padre e si svolge nella memoria e nel cuore di Maria, in cui l’unione perfetta con Dio, fu e rimane pienamente realizzata. Come dice la preghiera: «Facendo memoria della Tuttasanta, intemerata, più che benedetta, gloriosa Sovrana nostra la Madre di Dio e Semprevergine Maria insieme con tutti i santi, affidiamo noi stessi gli uni gli altri e tutta la nostra vita a Cristo Dio».
Gli ortodossi affidano a Maria anche il tempo della Chiesa con i suoi confini ben delineati. Quel tempo serve (diciamo con le parole di Platone) come «immagine mobile dell’eternità». È Maria che apre la finestra all’eternità condensata nella storia del Dio-uomo. Lei è l’accompagnatrice alla salvezza, perciò ogni preghiera indirizzata a Dio si rivolge anche a Maria, come se fosse Lei a fare sempre la mediazione di questa preghiera – che a volte può dire cose che il fedele non ha il coraggio di confessare al suo Giudice e Salvatore. Per questo motivo le preghiere, che dogmaticamente possono essere rivolte solo al Cristo, vanno spesso a Maria. In generale nell’ortodossia il linguaggio del cuore è più eloquente, più impegnativo di quello della ragione e la preghiera liturgica si azzarda spesso a pronunciare cose su cui la dogmatica tace o si esprime in modo un po’ diverso o più discreto. Questa piccola «divergenza» non è mai proclamata come principio, ma è vissuta proprio nel foro interno dell’esperienza spirituale e dà spazio al mistero mariano.
L’anno liturgico che inizia il primo settembre si apre con la prima festa mariana, quella della nascita della Madre di Dio (celebrata l’8 settembre) e finisce con la festa della Dormizione (il 15 agosto). Fra queste due feste passa tutta la storia della nascita, della vita terrestre, della Passione e della Risurrezione di Gesù Cristo. Liturgicamente tutto il tempo della Chiesa ortodossa ed il dramma della Redenzione si svolgono nell’ambito mariano creato dalle feste, dalle preghiere e dalle immagini. La preghiera e l’immagine sono i due modi umani per creare il mondo dove Dio manifesta la Sua presenza all’uomo, il tempio dell’incontro in cui il mistero dell’Incarnazione continua a vivere nella moltitudine delle sue dimore umane.

«Dimora santa», porta della salvezza
Fra di esse Maria è vista sempre come prima immagine dell’ineffabile presenza di Dio, l’abitazione splendida della divina Trinità:
«Vergine pura, – dice un inno bizantino, – noi ti esaltiamo con cantici, quale castissima dimora del Verbo, ricettacolo dello Spirito Santo e oggetto della compiacenza del Padre: per tuo mezzo, infatti, avvenne il contratto della nostra salvezza».
Questa dimora è anche un luogo dove l’uomo scopre sempre il mistero dell’amore di Dio rivolto a noi uomini. Di più: questo amore ci salva fino al punto che il nome di Maria diventa il nome della salvezza:
«Maria venerabile dimora del Signore, risolleva noi caduti nell’abisso di paurosa disperazione, di colpe e di afflizioni, perché Tu sei la salvezza dei peccatori, loro aiuto e sicura difesa, e Tu salvi i Tuoi servi» (Icona «Gioia inaspettata»).
La parola «dimora» cela in sé un triplice senso: cristocentrico, escatologico e soteriologico. Cristocentrico: perché «in Cristo… abita tutta la pienezza della divinità» (Col.2, 9) e noi adoriamo la Madre di Dio come abitazione, come luogo sacro di questa pienezza. Escatologico: perché «la pienezza della divinità» è il destino del «mondo che verrà» e noi vediamo in Maria il segno e la promessa di questa deificazione della stirpe umana quando Dio sarà «tutto in tutti» (1 Cor. 15,28). Soteriologico: perché «non vi è, infatti, altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati» (Atti, 4,12), ma il tempio dove questo nome è venerato «nello Spirito» è Maria.
Nel mondo liturgico ortodosso Maria ha tantissimi nomi che riflettono non soltanto il miracolo inesauribile della Sua presenza, ma tramite i Suoi nomi tutta la Chiesa di Cristo si fa intravedere. Così Cristo dice nel Vangelo : «Io sono la via» (cf. Gv 14,6), e la Chiesa si riversa in Maria: «Salve, o Priva di macchia, che hai generato la via della vita….» Cristo dice : «Io sono la verità» e la Chiesa in uno dei suoi inni ricorda le parole paoline (cf. Col 1,26): «Il mistero da secoli nascosto ed agli angeli stessi sconosciuto, per Te, o Madre di Dio, è stato manifestato agli uomini…». Cristo dice: «Io sono la vita» e la Chiesa canta : «Sappiamo Vergine, che sei l’albero della vita…». Alla verità aperta, proclamata rispetto al Cristo ed alla Redenzione si aggiunge un’altra verità che riguarda Maria. E spesso si tratta della stessa verità, ma che trova la sua espressione nelle preghiere mariane, poiché solo in questo modo discreto ed intimo si può esprimere la profondissima certezza della fede. Questa fede, a volte, venera Maria come un «alter ego» materno del Suo Figlio. Cristo dice: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv. 10,9), e la Chiesa glorifica continuamente Maria come porta mistica:

«Salve, unica porta per la quale solo il Verbo è passato…»
«O mistica porta della vita, purissima genitrice di Dio…»
«Madre di Dio, porta del cielo, aprici la porta della Tua misericordia…».

La salvezza entra per questa porta che è nello stesso tempo il dono fatto a Dio dagli uomini, come dice un inno del mattutino ortodosso.
«Cosa Ti offriremo, o Cristo, per esserTi mostrato sulla terra? Ognuna delle creature create da Te, Ti offre infatti la Sua riconoscenza: gli Angeli il canto; i cieli la stella; la terra una grotta; il deserto un presepio; ma noi una Vergine Madre!»

Publié dans:Maria Vergine, Ortodossia |on 28 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

TU SEI PREZIOSO AI MIEI OCCHI (Is 43,4)

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TU SEI PREZIOSO AI MIEI OCCHI (Is 43,4)

da Giovani per i Giovani
Le parole del profeta Isaia ci interrogano: preziosi agli occhi di chi? vogliamo scoprire la preziosità del seme della nostra vita e osare l’avventura di portare frutto.
«Non temere perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome, tu mi appartieni.
Io sono il Signore tuo Dio, il Santo di Israele, il tuo salvatore.
Sei degno di stima e io ti amo.
Non temere perché io sono con te.» (Is 43, 1.3-5).

GRAZIE: meraviglia e gratitudine
Il nome nella cultura ebraica indica l’identità, la persona… dire che Dio ci chiama per nome è dire la forza con cui gli apparteniamo, e la profondità della sua conoscenza di noi.
Come recita il salmo 139 il Signore ci scruta e ci conosce, alle spalle e di fronte ci circonda e pone su di noi la sua mano. Nemmeno le tenebre per lui sono oscure.
E’ Lui che ha creato le nostre viscere e ci ha intessuto nel seno di nostra madre. Ci ha fatto come un prodigio, sono stupende le sue opere, Lui ci conosce fino in fondo.
Quando ancora eravamo informi ci hanno visto i suoi occhi, quanto profondi per ciascuno di noi i suoi pensieri, quanto grande il loro numero… se li contiamo sono più della sabbia…
Tutto questo ci meraviglia, ci colma di stupore… a volte ci chiede perfino di cambiare lo sguardo su noi stessi… io un prodigio? Io amato e custodito? Con tutti i miei difetti, le mie fatiche, le mie ‘paranoie’? Noi a volte non ci amiamo… ma lui è più grande del nostro cuore.
Ma c’è qualcosa di ancora più sorprendente…
Sì, agli occhi del Signore siamo preziosi, siamo custoditi, vegliati, siamo stimati, siamo amati.
Siamo stati creati con cura, siamo conosciuti fino in fondo. E Dio ci considera così preziosi addirittura da dare tutto se stesso… “Cristo Gesù non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso […] apparso in forma umana umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte di croce” (Fil 2,7-8). Sì in seno alla Trinità siamo così preziosi che la nostra salvezza è costata il sacrificio del Figlio, per la sua vita noi riceviamo la vita! Come non possiamo accogliere con stupore e gratitudine il Suo sguardo e le Sue cure?

SGUARDO: di Dio e degli altri
Le nostre relazioni sono porte aperte al mistero… o porte che lo pre-cludono. I nostri gesti, i nostri sguardi, le nostre mani collaborano e intessono con il Signore la preziosità della nostra vita che davvero si percepisce negli intrecci con tanti altri sguardi, nel lasciarsi amare e toccare da tanti altri volti.
“Pochi giorni fa una persona a me cara, nel sentirmi raccontare un sogno che si stava realizzando e che avrebbe portato ad un forte distacco da lei, improvvisamente ha lasciato scendere delle lacrime dai suoi occhi, ha iniziato a piangere. Imbarazzata mi ha chiesto scusa di questa sua debolezza, ma alla fine sono stato io a ringraziarla per quelle lacrime.
Quando qualcuno piange per te, per quello che sei, per il possibile distacco che potrà avvenire, si spalanca la verità di quella frase: Tu sei prezioso ai miei occhi… essa diviene realtà in un momento e intravedi in quegli occhi un’amore più grande, quello di Dio, che mischiandosi con quello umano vuole gridare a tutti: Tu sei prezioso ai miei occhi.”
Lo stupore di ciò che siamo per un altro, l’amore che viene accolto, o la gratitudine che vediamo nascere in un cuore amico, ci fanno percepire quanto in noi c’è qualcosa di grande, che ci supera, che non ci appartiene interamente… noi siamo più di quello che ‘ci siamo dati’, siamo di più di quello che da calcoli umani appare… siamo di più…
“Se provo a fare associazione di idee, penso ad episodi, situazione per capire in che momento e in che modo mi sento preziosa ecco che il centro dell’attenzione si sposta da me. La cosa può sembrare strana e devo dire che un mi sono stupita anch’io…mi sento preziosa quando faccio qualcosa che è prezioso per gli altri.”
“Mi sento preziosa quando i miei sforzi, il mio impegno, la mia dedizione hanno fatto qualcosa di grande. Potendo gioire della gioia di questa persona.”

BELLO!
Nel momento in cui diventiamo dono si spalanca il cuore alla gratitudine per ciò che di più grande si realizza a partire dal nostro piccolo gesto. La disponibilità spalanca la possibilità al Signore della vita di operare in noi e attorno a noi. In un certo senso diventiamo simili a Lui che è amore donato senza limiti! E noi siamo fatti per assomigliarGli! E’ qui che partecipiamo al mistero della bellezza … che si impone a tutti per la sua realtà, e allo stesso tempo parla a noi personalmente toccandoci il cuore.
“C’è la Festa da preparare, ti piacerebbe aiutarci per fare qualcosa di Bello?”. Già a questo punto il cuore si allarga perché qualcuno ha pensato proprio a te! L’idea di pensare e preparare qualcosa di grande e di bello, e soprattutto per tanti ragazzi, mi affascina e mi prende! E allora penso, lavoro, condivido, e pian piano salta fuori cosa fare, chi contattare, sorprese, momenti belli, i giochi, chi si occupa di cosa. […]
Finisce anche la Festa, anche se in realtà mi sembra di non averne preso parte: le battute, i momenti, le scene, i giochi, li sapevo a memoria, ma non ho visto niente!
E invece… uscendo i ragazzi mi passano vicino urlando, saltando e travolgendo ciò che capita a tiro, ma abbracciati, felici, pieni di gioia per la bella esperienza. Ho pensato: “E’ stata veramente una Bella Festa!”…
Il dono e la bellezza legati come le radici e il frutto: uno nascosto e silenzioso, l’altra splendente ed eloquente!
“Mi sono sentita preziosa… nel sacrificio per gli altri innanzitutto, ma secondo me conta come lo fai, non quanto grande sia o quanto importante… come l’ essere piccola e nascosta, senza vantarsi di essere al centro dell’ attenzione, perchè è proprio quando siamo piccoli che riusciamo ad essere grandi, e bastano gli occhi di un bambino che ti guarda mentre sei in coda alla cassa di un supermercato, o il sentirti serena perchè sai che hai fatto tutto quello che avevi in tuo potere per cambiare le cose, a farti capire che sei preziosa…
e anche mentre si prega, mi è capitato… non accontentarsi di una vita legata all’ abitudine e alla mediocrità, perchè oltre c’ è qualcosa, e per arrivare a costruire un grattacielo occorre avere la forza e la pazienza di cominciare dal mattone…”

IL SEME
Il seme è una bella metafora! Nel seme è presente tutta la futura pianta, ma non ne è la ‘brutta copia’, è pienamente promessa, desiderio e realtà… ad un tempo. Il seme è ‘un tutto’ e allo stesso tempo è chiamato a crescere. Importanti saranno il sole, l’acqua, le cure di un buon agricoltore perché possa fiorire il germoglio che poi crescerà ancora per divenire una pianta matura.
Così è per la nostra vita, siamo un po’ un seme che contiene i tratti, i desideri, le possibilità per la realizzazione piena… a patto però che si lasci innaffiare, che si lasci riscaldare, che si lasci raddrizzare da mani attente. Non c’è un tempo ‘incompiuto’, ogni tempo è pienezza e chiede di essere vissuto in una costante apertura, nella disponibilità ad essere coltivato, a portare frutto…
Nella disponibilità ad essere dono!
Un saggio educatore sa donare quella fiducia indispensabile per fiorire, per osare la scommessa dell’uscire da sé, dona quell’amore forte e liberante che fa sentire preziosi e unici, stimati e “capaci di” . Per questo l’educazione è un arte, come diceva don Bosco, che va a toccare le corde più profonde e collabora alla realizzazione di tutta la persona.
Il Signore per primo però è un sapiente educatore, ai cui occhi nulla rimane nascosto (Sir 17,13) ma che può realizzare in pienezza i suoi progetti per noi solo se gli lasciamo pienamente spazio ‘gli occhi del Signore sono su coloro che lo amano’ (Sir 34,16) e ‘Il Signore veglia su chi lo teme’(Sal 3,18). E non a caso la sventura maggiore è allontanarsi volontariamente ottenendo di essere scacciato dai suoi occhi (cfr Gn 2,5).
Il piccolo seme della nostra vita ha bisogno di uno sguardo amorevole per germogliare e avere fiducia!
Non temiamo i sogni grandi, non lasciamoli spegnere dalle delusioni… non lasciamo seccare i germogli promettenti che osano l’avventura della vita piena, donata, che amano la bellezza e rischiano l’impegno e il sacrificio di parteciparvi.
“Lasciate che questa sera io vi ripeta: ciascuno di voi se resta unito a Cristo, può compiere grandi cose. Ecco perché, cari amici, non dovete aver paura di sognare ad occhi aperti grandi progetti di bene e non dovete lasciarvi scoraggiare dalle difficoltà. Cristo ha fiducia in voi e desidera che possiate realizzare ogni vostro più nobile ed alto sogno di autentica felicità. Niente è impossibile per chi si fida di Dio e si affida a Dio. Guardate alla giovane Maria!” (Benedetto XVI alla veglia di Loreto).
L’augurio allora è di restare nel Suo sguardo per scoprire che siamo veramente preziosi, e di prestare i nostri occhi a Lui perchè questo avvenga in ogni persona che ogni giorno incontriamo.

(GxG Magazine) novembre 2007 – autore: sr Francesca Venturelli

Arcangelo Raffaele

 Arcangelo Raffaele dans immagini sacre A_Raffaele_Tiziano_FI_GalAccademia
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Publié dans:immagini sacre |on 27 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

DIO È VERITÀ – AGOSTINO, LA TRINITÀ, 8,2

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20020924_agostino-trinity_it.html

DIO È VERITÀ – AGOSTINO, LA TRINITÀ, 8,2

« Questo Dio, se ci sforziamo di pensarlo, nella misura in cui ce lo concede e permette, non pensiamolo in contatto con lo spazio, abbracciante lo spazio, come una specie di essere costituito da tre corpi. Non si ha da immaginare in lui nessuna unione di parti congiunte, come in quel Gerione [nella mitologia greca, figlio di Crisaore e Callinoe, dotato di tre corpi uniti per il ventre; Dante ne farà il simbolo della frode (Inferno XVI e XVII)] dai tre corpi, di cui parlano le favole; ogni immagine per cui tre sarebbero più grandi di uno solo, uno più piccolo di due, cacciamola senza esitazione dalla nostra anima: così infatti respingiamo ogni elemento corporeo. Nell’ordine spirituale, nulla di ciò che ci si presenta come sottoposto al mutamento, dobbiamo ritenere che sia Dio.
Non è una piccola conoscenza quando, da questo abisso, elevandoci a quella vetta riprendiamo lena, il poter conoscere che cosa Dio non è, prima di sapere che cosa è. Egli non è certamente né terra né cielo; nulla che assomigli alla terra o al cielo, nulla di uguale a ciò che vediamo in cielo, nulla di uguale a ciò che in cielo non vediamo e forse vi si trova. Tu potrai accrescere con l’immaginazione la luce del sole quanto ti sarà possibile, sia in volume, sia in splendore, mille volte di più o all’infinito, nemmeno questo sarà Dio. E se ci rappresentassimo gli angeli, puri spiriti che animano i corpi celesti, li muovono e li dirigono secondo un volere che è al servizio di Dio; anche se questi angeli, che sono migliaia di migliaia, venissero riuniti tutti per formare un solo essere, Dio non sarebbe nulla di simile. E lo stesso discorso varrebbe anche se si giungesse a rappresentarsi questi spiriti senza corpi, cosa assai difficile per il nostro pensiero carnale.
Comprendi dunque, se lo puoi, o anima tanto appesantita da un corpo soggetto alla corruzione e aggravata da pensieri terrestri molteplici e vari; comprendi, se lo puoi, che Dio è Verità. È scritto infatti che Dio è luce (1Gv 1,5), non la luce che vedono i nostri occhi, ma quella che vede il cuore, quando sente dire: è la Verità. Non cercare di sapere cos’è la verità, perché immediatamente si interporranno la caligine delle immagini corporee e le nubi dei fantasmi e turberanno la limpida chiarezza, che al primo istante ha brillato al tuo sguardo, quando ti ho detto: Verità. Resta, se puoi, nella chiarezza iniziale di questo rapido fulgore che ti abbaglia, quando si dice: Verità. Ma non puoi, tu ricadi in queste cose abituali e terrene. Qual è dunque, ti chiedo, il peso che ti fa ricadere, se non quello delle immondezze che ti hanno fatto contrarre il glutine della passione e gli sviamenti della tua peregrinazione? »

LA FAMIGLIA TRA OPERA DELLA CREAZIONE E FESTA DELLA SALVEZZA – GIANFRANCO RAVASI

http://www.fidae.it/AreaLibera/Comunita%20Educante/genitori/4-6-2012-ravasi-la-famiglia-tra-opera-della-creazione.pdf

LA FAMIGLIA TRA OPERA DELLA CREAZIONE E FESTA DELLA SALVEZZA

GIANFRANCO RAVASI

Non può restare nascosta una casa collocata sul crinale di un monte: parafrasando una celebre immagine del Discorso della Montagna (Mt 5,14), poniamo al centro della nostra riflessione un simbolo radicale nella stessa storia dell’umanità, la casa, un segno che s’affaccia bel 2092 volte col vocabolo ebraico bajit/bêt nell’Antico Testamento e 209 volte nel Nuovo Testamento sotto le parole analoghe oíkos e oikía, accompagnate da uno sciame di circa quaranta termini derivati. Dal crinale, dove svetta la casa simbolica che vogliamo delineare, si diramano due versanti che costituiscono il titolo stesso del nostro tema: da un lato, ecco l’alfa della creazione, che si distende lungo la traiettoria della storia; dall’altro lato, ascende il versante arduo dell’omega, ossia della festa piena della salvezza, l’escatologia, la meta attesa ove il “non ancora” della storia si trasformerà nell’“ora” perfetta della redenzione compiuta e la Gerusalemme terrena si muterà nella nuova Gerusalemme celeste.
Le fondamenta della “casa”- famiglia
Toda casa es un candelabro / donde arden con aislada llama las vidas. Forse questo verso era sbocciato nella mente del giovane Jorge Luis Borges, il famoso scrittore argentino, mentre ventiquattrenne passeggiava per una “strada ignota” della sua città, dato che la raccolta poetica s’intitola appunto Fervore a Buenos Aires (1923). Ed effettivamente le mura dei palazzi celano al loro interno tante fiamme “appartate” (aislada), cioè vite isolate nelle loro solitudini o nei loro drammi, famiglie unite nell’amore o scavate dalle divisioni, benestanti o curve sotto l’incubo della povertà o dell’assenza di lavoro. La “casa”, infatti, in molte lingue non è soltanto l’edificio di mattoni, di pietra e di cemento o la capanna o la tenda in cui si dimora (e la mancanza di una casa è un elemento drammatico di dispersione esistenziale), ma è anche chi vi abita, è il “casato” fatto di persone vive e di generazioni. Anzi, talora la “casa” per eccellenza è persino il tempio, residenza terrestre di Dio.
Suggestivo, al riguardo, è il rimando di allusioni che regge l’oracolo del profeta Natan: al re Davide che vuole erigere una “casa” (bajit) al Signore, ossia un tempio in Gerusalemme, Dio replica affermando che sarà lui stesso a edificare per il re una “casa” (bajit), una discendenza familiare, quindi un “casato” che aprirà una storia destinata ad approdare al Messia (2Sam 7). La “casa” simbolica che stiamo per costruire partecipa di questa visione: è lo spazio che custodisce «l’intima comunione di vita e di amore…, la prima e vitale cellula della società», come il Concilio Vaticano II definisce la famiglia (GS
48; AA 11). È il segno dell’esistenza umana che si compie nella libera relazione interpersonale d’amore, come suggeriva lo scrittore inglese Gilbert K. Chesterton nel suo scritto Fancies versus Fads (1923): «La famiglia è il test della libertà umana perché è l’unica cosa che l’uomo libero fa da sé e per sé».
Già Aristotele, nella sua Politica, considerava la famiglia come la struttura istituita dalla natura stessa per provvedere all’esistenza piena della persona. È spesso ripresa la nota che il famoso antropologo Claude Lévi-Strauss ha posto nel cuore del suo saggio sulla famiglia nella raccolta Razza e storia e altri studi di antropologia (1952): «La famiglia come unione più o meno durevole, socialmente approvata, di un uomo, una donna e i loro figli… è un fenomeno universale, reperibile in ogni e qualunque tipo di società». Questa convinzione è sperimentalmente confermata anche nella società contemporanea, nonostante le apparenze contrarie, come si evince dalla quarta indagine degli “European Values Studies” (2009). Da essa risulta che l’84% dei cittadini europei (e il 91% degli italiani) considera fondamentale la famiglia e inaspettatamente 46 paesi su 47 la collocano al primo posto tra le realtà sociali più importanti, prima ancora del lavoro, delle relazioni amicali, della religione e della politica.
La “casa” è, perciò, un emblema vivo e vivente che attinge all’antropologia autentica, non solo religiosa, la quale vede nella creatura umana non una monade chiusa in sé stessa, ma una cellula in relazione con un corpo più vasto, un orizzonte aperto che accoglie e si espande. In pratica, come vedremo, l’umanità si rivela “duale”, dotata di una necessità strutturale di dialogo con l’altro. Ha, quindi, un suo fondo di verità l’enfatica intemerata che lo scrittore francese André Gide scagliava nella sua opera Nutrimenti terrestri (1897): «Famiglie, vi odio! Focolari chiusi, porte serrate, geloso possesso della felicità!». Purtroppo, venendo meno alla sua vocazione sociale, la famiglia adotta spesso – soprattutto nella vicenda contemporanea – come emblema la porta blindata, così da rinchiudersi in se stessa, perdendo il suo respiro genuino, la sua identità primigenia, ignorando chi sta fuori di quella cortina di ferro protettiva che si tramuta in prigione.
Andando oltre, dobbiamo ricordare che la “casa”-famiglia è anche, come si diceva, l’analogia per definire il tempio ove si raduna la famiglia che ha per padre Dio. È per questo che uno dei vocaboli per indicare il santuario di Sion è appunto bajit e nel Nuovo Testamento entra in scena la kat’oíkon ekklesía, l’ecclesia domestica, ove lo spazio vitale di una famiglia si può trasformare in sede dell’eucaristia, della presenza di Cristo assiso alla stessa mensa (1Cor 16,19; Rm 16,5; Col 4,15; Fm 2; cf. LG 11). Indimenticabile è la scena dipinta dall’Apocalisse: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3,20).
Iniziamo, allora, a far sorgere la “casa” simbolica e vivente che sta su quella vetta dalla quale si dipartono i due versanti della felicità della creazione e della festa della
salvezza. È necessario partire dalle fondamenta solide, gettate sulla roccia del monte (cf.
Mt 7, 24-25). La base è ovviamente costituita dalla coppia che è la radice dalla quale si leva il tronco della famiglia. Non è possibile ora né è necessario definire questo fondamento attraverso una compiuta teologia nuziale. Ci accontenteremo di rimandare a un testo biblico che è l’incipit stesso delle Scritture e, quindi, della creazione. Esso è desunto da quella pagina che contiene il progetto che il Creatore ha accarezzato come suo ideale e che ha proposto alla libertà della creatura umana. Questo disegno primordiale emerge nel capitolo 2 della Genesi e si affida a una sorta di collana di perle lessicali ebraiche, che ora cercheremo di far brillare in modo essenziale davanti ai nostri occhi attraverso un settenario di termini.
La prima parola è ‘ezer, letteralmente un “aiuto” offerto nel momento più critico e, quindi, diventa risolutivo e indispensabile. Nel nostro caso c’è un incubo che sta attanagliando l’uomo appena uscito dalle mani di Dio: è la solitudine-isolamento, che spegne quella vitalità ad extra strutturale per la persona. «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un ‘ezer che gli corrisponda», esclama infatti il Creatore (Gen 2,18). Come è noto, non è sufficiente all’uomo avere accanto gli animali, che sono pure una simpatica presenza nell’orizzonte terrestre: «l’uomo non trovò in essi un aiuto (‘ezer) che gli corrispondesse» (2,20). Come ha cercato di rendere questo termine un esegeta, Jean- Louis Ska, ciò di cui ha bisogno l’uomo è «un allié qui soit son homologue». È, dunque, un aiuto vivo e personale, un alleato nel quale egli possa fissare gli occhi negli occhi, anche in un dialogo silenzioso perché – come suggerisce un testo attribuito al grande Pascal – nella fede come nell’amore i silenzi sono più eloquenti delle parole; nei due innamorati che si guardano negli occhi in silenzio l’inesprimibile si fa esplicito, l’ineffabile si rivela.
Ecco, allora, la seconda formula ke-negdô, tradotta di solito con un “simile” o “corrispondente” aiuto. In realtà, il suo significato di base suona letteralmente così: “come di fronte”. È appunto quella parità di sguardi a cui si accennava. Finora l’uomo ha guardato verso l’alto, cioè verso la trascendenza, verso quel Dio che gli ha infuso il respiro vitale, gli ha donato «la fiaccola» della coscienza che «scruta le profondità dell’intimo» (Pr
20,27), lo ha insignito della libertà, collocandolo all’ombra dell’«albero della conoscenza del bene e del male». L’uomo ha poi guardato in basso, verso quegli animali che rivolgevano a lui il loro muso in attesa di ricevere un nome (Gen 2,19-20). Ora, invece, cerca un volto davanti a sé, un “tu”, «il primo dei beni, un aiuto adatto a lui e una colonna d’appoggio», come dice il Siracide (36,26), ma come meglio esclama la donna del Cantico dei cantici, un essere col quale è possibile comporre una piena reciprocità di donazione: «Il mio amato è mio e io sono sua… Io sono del mio amato e il mio amato è mio» (2,16; 6,3: l’originale ebraico è musicalmente rimato e ritmato sul suono –ô– e –î– che denotano i due pronomi interpersonali, “lui” e “io”, dôdî lî wa’anî lô… ’anî ledodî wedodî lî).
Passiamo, così, al terzo vocabolo che in questo caso è un simbolo: è quella “costola” sulla quale si sono ricamate tante ironie antifemminili. L’intervento creativo divino avviene all’interno di un “sonno”, che nella Bibbia è segno di un’esperienza trascendente, è la sede delle rivelazioni e delle visioni, è l’ambito in cui Dio è protagonista rispetto alla sua creatura. Ebbene, lo svelamento del valore di quell’azione divina ha luogo al risveglio, quando l’uomo intona quel canto d’amore primigenio che verrà declinato nella storia in infinite forme e formule differenti: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia
carne» (2,23). Carne e ossa sono le componenti strutturali del corpo umano che, nell’antropologia biblica, è il segno della persona nella sua pienezza comunicativa (non abbiamo un corpo ma siamo un corpo). Si spiega, così, il simbolo della “costola”: essa indica la piena parità strutturale e costitutiva tra uomo e donna. Non per nulla, in sumerico ti designa sia la “costola” sia la “vita” trasmessa dalla donna. E questo ci conduce spontaneamente al quarto termine che si intreccia intimamente con la quinta locuzione ed entrambi risuonano in Gen 2,24: «L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno un’unica carne».
Èevidente che l’Adamo (in ebraico con l’articolo ha-’adam), protagonista del passo,
èl’Uomo di tutti i tempi e di tutte le regioni del nostro pianeta: egli con la sua donna dà origine a una nuova famiglia, definita appunto attraverso i due vocaboli che ora sottolineiamo. Da un lato, c’è il verbo dabaq, “unirsi”, che letteralmente raffigura una stretta sintonia, un attaccamento fisico e interiore, tant’è vero che lo si adotta persino per descrivere l’unione mistica con Dio: «Il mio essere si tiene stretto (dabaq) a te», canta l’orante del Sal 63,9. Per questo san Paolo afferma che «chi si unisce a una prostituta forma con essa un solo corpo…, ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito» (1Cor 6,16-17). Col verbo dabaq si ha, quindi, l’atto sessuale sia nella sua dimensione corporea sia nella sua celebrazione d’amore, di donazione totale della coppia. D’altro lato, ecco appunto la formula finale “un’unica carne “ (basar ’ehad) che definisce visivamente quel dabaq e che apre il discorso forse alla componente successiva della “casa” che stiamo innalzando: infatti, per l’esegeta tedesco Gerhard von Rad, l’“unica carne” è anche il figlio che nascerà dai due e che porterà in sé, unendole, non solo geneticamente, ma anche spiritualmente le due realtà dei suoi genitori.
Possiamo, allora, concludere il disegno delle fondamenta della “casa”-famiglia con l’ultimo sguardo a questa coppia e al loro nome che ci presenta le ultime due parole: la donna «la si chiamerà ’isshah , perché da ’ish [l’uomo] è stata tratta» (2,23). Non c’è bisogno di spiegare come l’autore sacro abbia voluto ricordarci che queste due persone che costituiscono la coppia sono uguali nella loro dignità radicale, ma differenti nella loro identità individuale: ’ish è l’uomo nella sua realtà specifica e ’isshah è lo stesso termine ma al femminile, svelando così come la donna e l’uomo siano entrambi persone umane, pur nella diversità dei loro generi sessuali. La pienezza dell’umanità è in questa uguaglianza fatta di reciprocità necessaria, dialogica e complementare. La persona umana è, quindi, “duale” ed è così che realizza la sua autentica “identità”.
Abbiamo, dunque, inanellato un settenario di vocaboli che reggono la base da cui sorge la famiglia, ossia la coppia: ‘ezer-aiuto indispensabile, che è ke-negdô, ci sta di fronte alla pari, simbolicamente raffigurato nella “costola”, cioè nella stessa componente strutturale dell’essere umano; l’uno e l’altra si abbracciano (dabaq), divenendo “una carne unica” (basar ’ehad) e recando i nomi uguali ma non identici di ’ish e di ’isshah. A suggello facciamo risuonare un appello intenso del Talmud, la grande raccolta della tradizione religiosa giudaica: «State molto attenti a far piangere una donna perché Dio conta le sue lacrime! La donna è uscita dalla costola dell’uomo, non dai piedi perché dovesse essere pestata, né dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per essere uguale, un po’ più in basso del braccio per essere protetta, e dal lato del cuore per essere amata». Nel cristianesimo, poi, questa unità d’amore riceve un suggello trascendente ulteriore che
l’apostolo Paolo chiama “mistero” (Ef 5,32) e la teologia “sacramento”. In modo illuminante il teologo martire del nazismo Dietrich Bonhoeffer così commenterà questo trapasso: «Il matrimonio è più del vostro amore reciproco… Finché siete voi soli ad amarvi, il vostro sguardo si limita nel riquadro isolato della vostra coppia. Entrando nel matrimonio siete invece un anello della catena di generazioni che Dio chiama al suo regno».
Le pareti di pietre vive
Quando san Pietro tratteggia «l’edificio spirituale» della comunità ecclesiale, descrive le sue ideali pareti come costituite da líthoi zóntes, «pietre vive», che s’aggregano attorno alla «pietra viva» fondamentale che è Cristo (1Pt 2,4-5). Raccogliamo questa simbologia e la applichiamo alla casa che stiamo innalzando, quella della famiglia. Anche nel Cantico dei cantici, che è per eccellenza il poema dell’amore, si leva un “muro” al quale è appoggiato l’amato e questa parete è detta in ebraico kotel (Ct 2,9), che è lo stesso termine con cui oggi si denomina il muro del tempio di Gerusalemme davanti al quale l’Israele prega il Signore. Ebbene, quali sono le “pietre vive” che compongono le pareti della famiglia innalzandola verso l’alto, l’oltre, il futuro? Sono i figli. È curioso notare che, statisticamente parlando, la parola che ricorre più volte nell’Antico Testamento – al di là delle congiunzioni, gli articoli, le preposizioni e gli avverbi, e dopo il nome divino
Jhwh (6828 volte) – è il vocabolo ben, “figlio”, che risuona per 4929 volte!
Il legame di ben con la casa risulta diretto e intimo se si tiene conto che il verbo “costruire, edificare” in ebraico è banah, e la rappresentazione più incisiva di questo vincolo stretto è nella miniatura poetica del Salmo 127: «Se il Signore non costruisce (banah) la casa, invano vi faticano i costruttori… Ecco eredità del Signore sono i figli (ben), è un suo premio il frutto del grembo. Come frecce in mano a un guerriero sono i figli (ben) avuti in giovinezza. Beato l’uomo che ne ha colma la faretra: non sarà umiliato quando verrà alla porta a trattare coi suoi nemici». Certamente il Salmo riflette una società di stampo agrario ove le braccia per il lavoro nei campi e negli scontri tribali erano decisive. La scena finale è tipicamente orientale: il padre, simile a uno sceicco, attorniato dalla sua folta e vigorosa prole, quasi fosse una guardia del corpo, incute timore quando si presenta alla porta davanti ai suoi avversari. Già nella Sapienza di Ani, un testo egizio del XIII secolo a.C., si leggeva: «L’uomo i cui figli sono numerosi è salutato rispettosamente e temuto a causa dei suoi figli». La pienezza della famiglia è tendenzialmente affidata alla discendenza.
Tuttavia, per approfondire questo tema in chiave teologica, raccogliamo l’invito stesso di Cristo che spinge, per parlare della famiglia, a risalire ap’ archés, “in principio”, e ritorniamo alla Genesi, a un passo del primo racconto della creazione posto proprio in apertura alla Bibbia. Là si legge questa frase: «Dio creò l’uomo a sua immagine, / a immagine di Dio lo creò / maschio e femmina li creò» (1,27). Lo schema del parallelismo tipico della letteratura semitica rivela che “immagine di Dio” ha come parallelo esplicativo proprio la coppia “maschio e femmina”. Dio, allora, è sessuato e accanto a lui si asside una compagna divina, come l’Ishtar-Astarte babilonese? Ovviamente no, sapendo con quanta nettezza la Bibbia rifiuti come idolatrica questa concezione diffusa tra gli indigeni Cananei
della Terrasanta. Dio resta trascendente, ma è creatore e la fecondità della coppia umana è “immagine” viva ed efficace dell’atto creativo divino, ne è un segno visibile; la coppia che genera è la vera “statua” (non quella di pietra o d’oro che il Decalogo proibisce) che raffigura il Dio creatore e salvatore.
L’amore fecondo è, perciò, il simbolo della realtà intima di Dio e proprio per questo il racconto della Genesi, secondo la cosiddetta “Tradizione Sacerdotale”, è tutto scandito sulle sequenze genealogiche (1,28; 2,4; 9,1.7; 10; 17,2.16; 25,11; 28,3; 35, 9.11; 47,27; 48,3- 4): la capacità di generare della coppia umana è la via sulla quale si snoda la storia della salvezza. Possiamo, anzi, dire che l’intera Bibbia è per molti versi un’ininterrotta storia di famiglie. È, però, da notare che, accanto all’“immagine” (selem), si parla anche di “somiglianza” (demût), un modo per sottolineare la non-identità totale fra divinità e umanità; esiste una distanza, marcata proprio da questo secondo vocabolo: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza» (1,26). Il mistero di Dio ci trascende, ci precede e ci eccede.
Sta di fatto, però, che la relazione generativa umana diverrà l’analogia illuminante per scoprire il mistero di Dio: fondamentale al riguardo è la visione trinitaria cristiana che introduce in Dio un Padre, un Figlio e lo Spirito d’amore. Dio-Trinità è comunione di amore e la famiglia ne è il riflesso vivente. E come i tre umani, uomo-donna-figlio, sono “una cosa sola”, così Padre-Figlio-Spirito sono un unico Dio. Le parole di Giovanni Paolo II, pronunciate il 28 gennaio 1979, durante il suo viaggio apostolico in Messico, sono illuminanti: «Il nostro Dio nel suo mistero più intimo non è una solitudine, ma una famiglia, dal momento che ci sono in lui la paternità, la filiazione e l’essenza della famiglia che è l’amore. Quest’amore, nella famiglia divina, è lo Spirito Santo. Così, il tema della famiglia non è affatto estraneo all’essenza divina». L’analogia trinitaria, come è noto, ha poi una declinazione cristologico-ecclesiale da parte di san Paolo riguardo al “mistero” dell’unione nuziale (Ef 5,21-33).
Infine, dobbiamo ricordare che sulle pareti di pietre vive della casa familiare sono incise due epigrafi che delineano l’impegno vitale morale dei suoi abitanti. Sono i due comandamenti capitali della famiglia. Da un lato, ecco il precetto nuziale della fedeltà: «Non commetterai adulterio» (Es 20,14), ricondotto da Cristo alla pienezza del progetto divino originario dell’amore totale e indissolubile (Mt 5,27-28; 19,3-9). D’altro lato, ecco il comandamento sociale: «Onora tuo padre e tua madre» (Es 20,12), dove la figura paterno- materna incarna tutta la complessa rete delle relazioni sociali, essendo appunto la famiglia la cellula germinale del tessuto comunitario. E naturalmente queste due ideali epigrafi ricevono il loro commento in tante pagine bibliche e in tanti insegnamenti del magistero ecclesiale sulla famiglia, a partire dalle celebri “tavole domestiche” paoline (Ef
5,21-6,9; Col 3,18-4,1).
Le tre stanze della “casa”-famiglia
Una casa è costituita da spazi diversi in cui si consuma l’esistenza dei suoi abitanti. Noi ora evochiamo tre locali simbolici e lo facciamo in modo molto essenziale,
consapevoli in realtà che in essi si nascondono opere e giorni ora monotoni ora esaltanti. La prima è la stanza del dolore. Aveva ragione Tolstoj quando, nel suo celebre romanzo
Anna Karenina, affermava che «le famiglie felici si somigliano tutte; le famiglie infelici sono infelici ciascuna a modo suo». La Bibbia stessa ne è testimone costante, a partire dalla brutale violenza fratricida di Caino su Abele e dalle liti tra i figli e le spose degli stessi patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe, per passare poi alla tragedia che insanguina la famiglia di Davide col figlio Assalonne aspirante parricida, fino a giungere alle molteplici difficoltà che costellano quel mirabile racconto familiare che è il libro di Tobia o a quell’amara confessione di Giobbe abbandonato e isolato: «I miei fratelli si sono allontanati da me, persino i miei familiari mi sono diventati estranei… Il mio alito fa schifo a mia moglie, faccio ribrezzo ai figli del mio grembo» (19, 13.17). Lo stesso Gesù nasce all’interno di una famiglia di profughi, entra nella casa di Pietro ove la suocera è malata, si lascia coinvolgere dal dramma della morte nella casa di Giairo o in quella di Lazzaro, ascolta il grido disperato della vedova di Nain o del padre dell’epilettico di un villaggio ai piedi del monte della Trasfigurazione.
Nelle loro case incontra pubblicani come Matteo-Levi e Zaccheo, o peccatrici come la donna che s’introduce nella casa di Simone il lebbroso; conosce le ansie e le tensioni delle famiglie travasandole nelle sue parabole: dai figli che lasciano le case per tentare l’avventura (Lc 15,11-32) fino ai figli difficili dai comportamenti inspiegabili (Mt 21,28-31) o a quelli vittima di violenza (Mc 12,1-9). E si interessa anche di nozze che corrono il rischio di diventare imbarazzanti per assenza di vino o di ospiti (Gv 2,1-10; Mt 22,1-10), così come conosce l’incubo per lo smarrimento di una moneta in una famiglia povera (Lc 15,8-10). Si potrebbe continuare a lungo nel descrivere la vastità della stanza del dolore, naturalmente giungendo fino ai nostri giorni quando le pareti domestiche registrano spesso la decostruzione dell’intero edificio familiare in una sorta di terremoto. La lista delle antiche lacerazioni dei divorzi, ribellioni, infedeltà, aborti e così via si allarga a nuovi fenomeni socio-culturali come l’individualismo, la privatizzazione, i sorprendenti e non di rado sconcertanti percorsi bioetici della fecondazione in vitro, dell’utero in affitto, della coppia omosessuale e delle relative adozioni, delle teorie sul “gender”, della clonazione, della monogenitorialità, della pornografia e via dicendo.
Una lista di realtà che scuote l’impianto tradizionale della famiglia e che rende la casa un qualcosa di “liquido”, plasmabile in forme molli e mutevoli che impongono continue riflessioni di natura culturale, sociale ed etica. Noi ci fermiamo qui, affidando ad altri questa visita ardua allo spazio delle difficoltà e degli interrogativi, uno spazio dai confini incerti che lo rendono contenitore di “mondovisioni” diverse, di veri e propri “multiversi” incontenibili. Accanto, però, troviamo subito un altro locale ove ferve l’opera umana, ma che, purtroppo, non di rado ai nostri giorni si fa deserto e sembra aprire le sue porte quasi automaticamente alla camera della sofferenza appena descritta. Parliamo, infatti, della stanza del lavoro. Nel progetto divino della creazione da cui siamo partiti l’uomo era invitato a “prendere possesso” (kabash) e a “governare” (radah) il creato, simbolicamente rappresentato come un giardino ricco, fertile e popoloso: «Riempite la terra, prendetene possesso e governate i pesci del mare, gli uccelli del cielo e ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gen 1,28).
Anzi, si ribadiva – usando in ebraico i verbi stessi del culto e dell’alleanza con Dio,
‘abad e shamar, “servire” e “osservare” – che «il Signore Dio prese l’uomo e lo collocò nel giardino di Eden, perché lo coltivasse (‘abad) e lo custodisse (shamar)» (2,15). Dopo tutto, la stessa rappresentazione del Creatore è quella di un lavoratore che opera (bara’, “creare”, è il verbo dell’artigiano) per una settimana lavorativa di sei giorni (1,1), o anche di un pastore (Sal 23) o di un contadino (Sal 65,10-14), o di un tessitore o di un vasaio che modella il suo capolavoro tessile o fittile (Gen 2,7; Ger 18,6; Sal 139, 13-16; Gb 10,8-11). Egli nella sua opera di creazione non è certo simile a un guerriero distruttore come si aveva, invece, nelle antiche cosmologie del Vicino Oriente. È in questa luce che il Salmista dipinge un delizioso interno familiare che ha al centro una festosa tavolata ove è assiso il padre che può nutrire se stesso, la sua sposa, comparata a una vite feconda, e i figli, vigorosi virgulti d’olivo, attraverso «la fatica delle sue mani» (Sal 128, 2-3). È una felicità che nasce dall’impegno pesante del lavoro (labor in latino è anche “travaglio”, come nel francese travail, e deriva dalla radice indoeuropea labh- che designa un “afferrare” per trasformare).
È una serenità che dilaga anche nella società e nelle generazioni future: «Possa tu vedere il bene di Gerusalemme… Possa tu vedere i figli dei tuoi figli!» (128, 5-6). Il lavoro, infatti, è un dono divino, come suggerisce il Salmo precedente, il 127, quello del padre e dei figli a cui abbiamo già accennato: «Se il Signore non vigila sulla città…, invano vi alzate di buon mattino e tardi andate a riposare, voi che mangiate un pane di fatica» (127,2). Ne è consapevole anche la materfamilias il cui ritratto suggella il libro dei Proverbi, donna sapiente e fedele a Dio il cui lavoro è celebrato in tutti i particolari quotidiani, così da attirarsi la lode del marito e dei figli (31,10-31). Lo stesso apostolo Paolo sarà orgoglioso dell’aver vissuto senza esser di peso a nessuno con l’opera delle sue mani, tanto da imporre la regola ferrea: «Chi non lavora neppure mangi» (2Ts 3,7-12: cf. At
18,3).
Detto questo, si comprende che la disoccupazione e la precarietà si trasformano in sofferenza, come si registra nel delicato ed emozionante libretto di Rut e come ricorda Gesù nella parabola dei lavoratori a giornata, seduti in ozio forzato nella piazza del villaggio (Mt 20,1-16), o come egli sperimenta nel fatto stesso di essere circondato spesso da miserabili e da affamati, così come era accaduto al profeta Elia che si era trovato davanti una vedova col figlio sfiniti dalla fame (1Re 17,7-18). È ciò che la società contemporanea sta vivendo in modo talora tragico e questa assenza di lavoro si trasforma in un vero e proprio attentato alla solidità della “casa”-famiglia. Non bisogna neppure dimenticare la degenerazione che il peccato introduce nella società, quando l’uomo si comporta da tiranno nei confronti della natura, devastandola, sfruttandola egoisticamente e brutalmente, secondo norme dispotiche, così da rendere il lavoro una cupa alienazione, segnata dal sudore personale, dalla desertificazione del suolo (Gen 3,17- 19) e dagli squilibri economico-sociali contro i quali si leverà forte e chiara la denuncia costante dei profeti, a cominciare da Elia (1Re 21) e Amos per giungere fino allo stesso Gesù (ad es. Lc 12,13-21; 16,1-31). L’arricchimento sfrenato, fonte di ingiustizie, è alla fine un’idolatria, come scriveva il teologo Paul Beauchamp, nella sua opera La legge di Dio: «O l’uomo adora Dio perché è Dio che lo ha fatto, o l’uomo adora l’idolo perché è lui stesso
ad averlo fatto. Io adoro colui che mi ha fatto o adoro colui che ho fatto… L’idolatria colpisce il lavoro, come certe malattie colpiscono più alcuni organi che altri».
La stanza della festa
C’è, però, una terza e ultima camera della nostra “casa” simbolica: è la stanza della festa e della gioia familiare. Essa, come suggeriva il filosofo Soeren Kierkegaard, deve avere la porta che «si apre verso l’esterno così che può essere richiusa solo andando fuori da se stessi». E comunicare con l’esterno può essere complesso e faticoso perché si presentano fenomeni inediti come la globalizzazione, la civiltà digitale con la sua rete che avvolge il globo, il fermento della scienza che non teme di inoltrarsi lungo sentieri d’altura come nel caso delle neuroscienze e delle biotecnologie, l’incontro con volti diversi e il cosiddetto “meticciato” delle culture e via elencando. Questa molteplicità d’esperienze è, però, feconda e può arricchire la festa della famiglia, qualora essa sappia custodire nel dialogo la sua identità cristiana in forma non aggressiva e integralistica, ma sappia anche non stingersi e scolorirsi in un generico e vago sincretismo. Bisogna, quindi, ricordare che l’ingresso in questa stanza solare avviene non di rado dopo una lunga attesa e un’intensa preparazione, come affermava in modo suggestivo nel suo Diario lo scrittore francese Jules Renard: «Se si vuol costruire la casa della felicità, ci si deve ricordare che la stanza più grande dev’essere la sala d’attesa».
Questo spazio gioioso è collegato e adiacente al locale del lavoro. A questo proposito è significativo ancora una volta il racconto d’apertura della creazione secondo la Genesi. In quella pagina emerge un elemento simbolico dialettico che raccorda appunto lavoro e festa. L’uomo è considerato il vertice della creazione: non è solo una realtà “bella/buona” (tôb) come le altre creature, ma è “molto bella/buona” (Gen 1,31). Eppure egli è creato il sesto giorno e il sei, nella simbologia numerica biblica, è indizio di imperfezione, essendo il sette il segno della pienezza. L’uomo è, quindi, prigioniero del limite temporale, spaziale, fisico e metafisico. Tuttavia, può evadere dal carcere della sua natura creaturale e della stessa ferialità: lo fa quando celebra il sabato, il settimo giorno, la festa, la liturgia, la preghiera. Quel giorno, infatti, è il tempo di Dio, l’orizzonte trascendente in cui egli “riposa” nella pienezza della sua gloria. Per questo, il sabato è tratteggiato dalla Genesi come un tempio che viene “benedetto” e “consacrato”: «Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò» (2,3), rendendolo la sede della vita piena e perfetta, il tempio nel tempo, scandito dall’eternità.
L’uomo e la donna, quando celebrano la liturgia festiva, entrano nel tempio/tempo eterno divino. Come scriveva il pensatore mistico ebreo Abraham J. Heschel nel suo noto testo sul Sabato (1951), «per sei giorni viviamo sotto la tirannia delle cose dello spazio; il sabato ci mette in sintonia con la santità del tempo. In questo giorno siamo chiamati a partecipare a ciò che è eterno nel tempo, a volgerci dai risultati della creazione al mistero della creazione, dal mondo della creazione alla creazione del mondo». In questa linea è significativo registrare nella duplice redazione del Decalogo la diversa motivazione che giustifica la festa sabbatica. Da un lato, in Dt 5,12-15 si sottolinea l’uscita dal regime del lavoro feriale, rievocando la liberazione dall’alienazione dell’oppressiva schiavitù egizia; d’altro lato, in Es 20,8-11 si celebra l’ingresso nel riposo perfetto ed eterno del settimo
giorno “benedetto e consacrato” da Dio dopo i sei giorni della creazione. La festa è, quindi, liberazione dal limite e partecipazione all’eternità, è comunione con Dio che strappa la creatura umana dal sesto giorno e la introduce nella festa del settimo ove essa “riposa” come Dio.
È per questo che la Lettera agli Ebrei dipinge la vita eterna come un sabato senza fine, non più compresso dalla fuga del tempo né occupato dagli idoli terreni o striato dal peccato umano (3,7 – 4,11). È per questo che l’apocrifo giudaico Vita di Adamo ed Eva afferma che «il settimo giorno è il segno della risurrezione e del mondo futuro». È per questo che la festa primaria dell’Israele biblico, la Pasqua, è di sua natura familiare ed è collocata nello spazio della tenda domestica (Es 12): essa è la celebrazione dell’uscita- esodo dal lavoro oppressivo imposto dal faraone ed è l’avvio dell’ingresso nella terra promessa che diventa un simbolo della patria celeste, come appare esplicitamente nella trama sia del Libro della Sapienza sia dell’Apocalisse.
È per questo, come si è già ricordato in apertura, che la celebrazione eucaristica delle origini cristiane aveva come sede proprio la ecclesia domestica e come contorno il convito familiare (1Cor 11,17-33). Era là che i genitori diventavano i primi araldi della fede per i loro figli. Già nell’antico Israele la famiglia era il luogo della catechesi: è ciò che brilla nel racconto della celebrazione pasquale e che sarà esplicitato nella haggadah giudaica, ossia nella “narrazione” dialogica che accompagna il rito pasquale. Anzi, il Salmo 78 esalta l’annuncio familiare della fede: «Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto. Ha stabilito un insegnamento in Giacobbe, ha posto una legge in Israele, che ha comandato ai nostri padri di far conoscere ai loro figli, perché la conosca la generazione futura, i figli che nasceranno. Essi poi si alzeranno a raccontarlo ai loro figli, perché ripongano in Dio la loro fiducia e non dimentichino le opere di Dio, ma custodiscano i suoi comandi» (78, 3-7).
Pertanto, la festa autentica non è né un orizzonte vuoto e inerte, come Tacito bollava il sabato degli Ebrei, né è un mero week-end, ma è un evento positivo, è segno di una trascendenza resa disponibile alla creatura, è dono di una comunione con Dio, è la requies aeterna che i cristiani augurano ai loro defunti e che è già pregustata nella liturgia terrena del “giorno del Signore”, la “domenica” (Ap 1,10). Possiamo, dunque, affermare con Benedetto XVI che «il lavoro e la festa sono intimamente collegati con la vita delle famiglie: ne condizionano le scelte, influenzano le relazioni tra coniugi e tra i genitori e i figli, incidono sul rapporto della famiglia con la società e con la Chiesa. La Sacra Scrittura (cfr. Gen 1-2) ci dice che la famiglia, il lavoro e il giorno festivo sono doni e benedizioni di Dio per aiutarci a vivere un’esistenza pienamente umana».
Queste parole del Papa, desunte dalla Lettera per il VII Incontro Mondiale delle Famiglie, riassumono la nostra visita ideale nella sala della festa che si apre nella casa simbolica che abbiamo descritto. Ricorrendo al celebre motto benedettino, possiamo dire che il labora dell’impegno feriale si deve aprire all’ora della liturgia festiva, conservando comunque l’unità dell’Ora et labora settimanale. La porta della “casa”-famiglia si spalanca, quindi, anche sull’altro versante del monte ove essa è posta, un versante illuminato dal sole dell’eternità e dell’infinito. Detto in altri termini, la stanza della festa ha davanti a sé una terrazza che s’affaccia sul cielo e sul futuro escatologico, quando tutte le tribù di
Israele e «una moltitudine immensa e innumerevole di ogni nazione, famiglia, popolo e lingua staranno tutte in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolte in vesti candide, con rami di palma nelle loro mani» (cf. Ap 7,4-9).
Sarà, quindi, la liturgia perfetta, la festa eterna, il futuro definitivo che era prefigurato proprio dai figli che evocavano nella storia la novità, l’alterità, la continuità temporale, l’attesa, la progettualità. A quella “immortalità” affidata alle generazioni che si distendono nel tempo succede ora la vera e piena immortalità, la pasqua che non ha tramonto: «in quel giorno non vi sarà né luce né freddo né gelo, sarà un unico giorno, solo il Signore lo conosce; non ci sarà né giorno né notte e verso sera risplenderà la luce… La città non avrà bisogno della luce del sole né della luce della luna, la gloria di Dio la illuminerà e la sua lampada sarà l’Agnello» (Zc 14, 6-7; Ap 21,23). Allora si chiuderà per sempre la “stanza del dolore” perché Dio «asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,4).
Mentre contempliamo la “casa”-famiglia che dovremmo erigere nella nostra storia sulla scia del desiderio che Dio ha espresso nelle Scritture, risuona un’ultima parola: è quella della speranza, virtù molto realistica, come affermava il poeta francese Charles Péguy che ad essa ha dedicato un poemetto, Il portico del mistero della seconda virtù
(1911): «È sperare la cosa difficile / a voce bassa e vergognosamente. / E la cosa facile è disperare / ed è la grande tentazione». Certo, è arduo edificare e tener salda questa casa, come ripeteva il grande Montaigne nei suoi Saggi, perché «governare una famiglia è poco meno difficile che governare un regno». Eppure, l’amore fiducioso e generoso può compiere miracoli. Persino un pessimista come il drammaturgo norvegese Henrik Ibsen, nella sua amara Casa di bambola (1879), non esitava a riconoscere – sia pure al negativo – che «la vita di famiglia perde ogni libertà e bellezza quando si fonda solo sul principio dell’io ti do e tu mi dai». Cristo ha introdotto, invece, quest’altro principio: «Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per la persona che ama» (Gv 15,13), varcando così la stessa legge, pur alta, dell’«amare il prossimo come se stessi».
Immaginiamo, allora, di intuire in finale, in una stanza della nostra casa simbolica, quel delizioso quadretto che il Salmista ha abbozzato soltanto con 11 vocaboli in un testo composto di sole 30 parole ebraiche. È il Sal 131 che introduce nella famiglia e nella fede quella virtù che ai nostri giorni è brutalmente ignorata, la tenerezza. Come accade altrove nella Bibbia (ad es. Es 4,22; Is 49,15; Sal 27,10), il legame tra il fedele e il suo Signore è modellato sul rapporto genitoriale. Qui è la dolce e tenera intimità che intercorre tra una madre e il suo bambino. Non si tratta, però, di un neonato che, dopo essere stato allattato, dorme placido tra le braccia della sua mamma, bensì – come esplicita il vocabolo ebraico gamûl – è di scena un bimbo “svezzato” che s’attacca consapevolmente alla madre che lo porta sul dorso, in una relazione di intimità cosciente e non meramente biologica.
Canta, dunque, il Salmista: «Io ho l’anima mia distesa e tranquilla; come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia» (131,2). In dissolvenza potremmo far scorrere un’altra scenetta parallela, quella di un padre profeta, Osea, il quale metteva in bocca a Dio padre questo soliloquio familiare che immaginiamo di intravedere anch’esso da una delle finestre della nostra “casa” simbolica: «Quando
Israele era fanciullo, io l’ho amato… Gli insegnavo a camminare tenendolo per mano… Lo attiravo con legami di tenerezza, con vincoli d’amore. Ero come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (Os 11,1-4). Con quest’ultimo sguardo che intreccia fede e amore, grazia e impegno, famiglia umana e Trinità divina, contempliamo per l’ultima volta la casa che la Parola di Dio affida alle mani dell’uomo, della donna e dei figli perché compongano «una comunione di persone, segno e immagine della comunione del Padre e del Figlio nello Spirito Santo. La sua attività procreatrice ed educativa è il riflesso dell’opera creatrice del Padre. La famiglia è chiamata a condividere la preghiera e il sacrificio di Cristo. La preghiera quotidiana e la lettura della Parola di Dio corroborano in essa la carità» (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 2205).

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La moltiplicazione dei pani

La moltiplicazione dei pani dans immagini sacre moltiplicazione-pani-e-pesci

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PAPA FRANCESCO – PAROLE CHIAVE

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PAPA FRANCESCO – PAROLE CHIAVE

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Giovedì, 11 giugno 2015

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLV, n.131, 12/06/2015)

In cammino verso Dio e verso gli altri, nel servizio e nella povertà. Così si potrebbe sintetizzare la meditazione di Papa Francesco nel corso della messa celebrata a Santa Marta giovedì 11 giugno. Nel commentare il brano di Matteo (10, 7-13) nel quale «Gesù invia i suoi discepoli ad annunciare il vangelo, la nuova notizia, il vangelo di salvezza», il Pontefice ha infatti sottolineato come si possano estrapolare «tre parole chiave per capire bene quello che Gesù vuole dai suoi discepoli» e «da tutti noi che seguiamo lui». Le tre parole sono: «cammino, servizio e gratuità».
Innanzitutto Gesù invia «a un cammino». Un cammino che, beninteso, non è una semplice «passeggiata». Quello di Gesù, ha spiegato Francesco, «è un invio con un messaggio: annunciare il vangelo, uscire per portare la salvezza, il vangelo della salvezza». E questo è «il compito che Gesù dà ai suoi discepoli». Perciò chi «rimane fermo e non esce, non dà quello che ha ricevuto nel battesimo agli altri, non è un vero discepolo di Gesù». Infatti «gli manca la missionarietà», gli manca «l’uscire da se stesso per portare qualcosa di bene agli altri».
C’è poi, ha approfondito il Papa, anche un altro «percorso del discepolo di Gesù», ovvero «il percorso interiore», quello del «discepolo che cerca il Signore tutti i giorni, nella preghiera, nella meditazione». E non è secondario, ha sottolineato Francesco: «Anche quel percorso il discepolo deve farlo perché se non cerca sempre Dio, il vangelo che porta agli altri sarà un vangelo debole, annacquato, senza forza».
Quindi c’è un «doppio cammino che Gesù vuole dai suoi discepoli». Questo racchiude la «prima parola» messa in evidenza dal Vangelo di oggi: «camminare, cammino».
C’è poi la seconda: «servizio». Ed è strettamente legata alla prima. Occorre infatti, ha detto il Papa, «camminare per servire gli altri». Si legge nel vangelo: «Strada facendo predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni». Qui si ritrova il «dovere del discepolo: servire». A tale riguardo il Pontefice è stato molto chiaro: «Un discepolo che non serve agli altri non è cristiano».
Punto di riferimento di ogni discepolo deve essere ciò che «Gesù ha predicato in quelle due colonne del cristianesimo: le beatitudini e poi il “protocollo” sul quale noi saremo giudicati», cioè quello indicato da Matteo al capitolo 25. Questa deve essere la «cornice» del «servizio evangelico». Non ci sono scappatoie: «Se — ha detto il Papa — un discepolo non cammina per servire, non serve per camminare. Se la sua vita non è per il servizio, non serve per vivere, come cristiano».
Proprio su questo aspetto si trova, in molti, la «tentazione dell’egoismo». C’è infatti chi dice: «Sì, io sono cristiano, per me sono in pace, mi confesso, vado a messa, compio i comandamenti». Ma, ha obiettato il Pontefice, il servizio agli altri dov’è? Dov’è «il servizio a Gesù nell’ammalato, nel carcerato, nell’affamato, nel nudo»? Eppure proprio questo è ciò «che Gesù ci ha detto che dobbiamo fare perché lui è lì». Ecco quindi la seconda parola chiave: il «servizio a Cristo negli altri».
C’è conseguenzialità anche nella «terza parola di questo brano», che è «gratuità». Camminare, nel servizio, nella gratuità. Si legge infatti: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date». Un particolare fondamentale, tanto da spingere il Signore a chiarirlo bene, nel caso «i discepoli non avessero capito». Egli spiega loro: «Non procuratevi oro, né argento, né denaro nelle vostre cinture, né sacca di viaggio, né due tuniche». Vale a dire, ha puntualizzato Francesco, che «il cammino del servizio è gratuito perché noi abbiamo ricevuto la salvezza gratuitamente», Nessuno di noi «ha comprato la salvezza, nessuno di noi l’ha meritata»: l’abbiamo per «pura grazia del Padre in Gesù Cristo, nel sacrificio di Gesù Cristo».
Perciò, ha detto il Papa, «è triste quando si trovano cristiani che dimenticano questa parola di Gesù: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”». Ed è triste quando a dimenticarsi della gratuità sono «comunità cristiane», «parrocchie», «congregazioni religiose» o «diocesi». Quando ciò accade, ha messo in guardia il Pontefice, è perché dietro «c’è l’inganno» di presumere «che la salvezza viene dalle ricchezze, dal potere umano».
Papa Francesco ha quindi riassunto così la sua riflessione: «Tre parole. Cammino, ma cammino come un invio per annunciare. Servizio: la vita del cristiano non è per se stesso, è per gli altri, come è stata la vita di Gesù». E in terzo luogo, «gratuità». Così, ha detto, potremo riporre la nostra speranza in Gesù, il quale «ci invia così una speranza che non delude mai». Invece, «quando la speranza è nella propria comodità nel cammino o la speranza è nell’egoismo di cercare le cose per sé» e non per servire gli altri, oppure «quando la speranza è nelle ricchezze o nelle piccole sicurezze mondane, tutto questo crolla. Il Signore stesso lo fa crollare».
Da qui l’invito finale del Pontefice a proseguire la celebrazione eucaristica: «Facciamo questo cammino verso Dio con Gesù sull’altare, pe poi camminare verso gli altri nel servizio e nella povertà, soltanto con la ricchezza dello Spirito Santo che lo stesso Gesù ci ha dato».

 

19 LUGLIO 2015 | 16A DOMENICA – TEMPO ORDINARIO B | OMELIA

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19 LUGLIO 2015 | 16A DOMENICA – TEMPO ORDINARIO B | OMELIA

17A DOMENICA – TEMPO ORDINARIO 2015

Per cominciare
Oggi viene proposto uno dei miracoli più scenografici di tutto il vangelo. Una inaspettata abbondanza di pane e pesci per migliaia di persone, che è il segno più eloquente del realizzarsi del regno di Dio. La gente capisce che Gesù è il messia atteso, ma lui si ritira in disparte, per non essere proclamato re.

La parola di Dio
2 Re 4,42-44. Un uomo dà ad Eliseo venti pani d’orzo e grano novello, e il profeta a nome di Dio gli dice di distribuirli alla gente. Sono pochi, ma ne mangeranno cento persone e ne avanzeranno.
Efesini 4,1-6. Continua la lettera agli Efesini. Paolo, che si dichiara prigioniero a motivo del Signore, li esorta all’unità, alla carità, a rispondere degnamente alla chiamata vocazionale ricevuta.
Giovanni 6,1-15. Gesù moltiplica pane e pesci per 5.000 persone. È questo uno dei miracoli che più è rimasto impresso negli apostoli. Dopo questo miracolo, Gesù si scopre e si rivela con chiarezza, ma la folla non lo capisce e lo rifiuta.

Riflettere…
o Domenica scorsa abbiamo lasciato la folla entusiasta della parola di Gesù, che lo segue fino a dimenticarsi di mangiare. Gesù non vuole farli partire digiuni e per loro moltiplica il pane.
o Questo miracolo è rimasto profondamente impresso nella memoria della chiesa primitiva. È infatti raccontato in dettaglio da Giovanni, ma anche due volte da Matteo e da Marco e una volta da Luca: in tutto sei volte.
o Il vangelo di Giovanni continua idealmente l’episodio descritto da Marco la settimana scorsa. Ancora una volta Gesù è seguito da una grande folla, per la quale sente compassione. Prima forse era Gesù che cercava la folla, ora è la folla che cerca con avidità lui.
o Non ci sono precise indicazioni di tempo su questa giornata straordinaria, se non che era vicina la Pasqua e questo accenno preannuncia il miracolo che collega Gesù a Mosè, che nel deserto sfamò il popolo con la manna.
o A differenza dei sinottici, in Giovanni è Gesù che prende l’iniziativa e prova « compassione » per questa folla che lo ha seguito a lungo, senza stancarsi e che ora ha sicuramente fame.
o Gesù provoca gli apostoli e li sfida a dar da mangiare a questa enorme massa di persone. Ma 200 denari non sarebbero bastati. 200 denari equivalgono a 200 giornate di lavoro, una cifra che gli apostoli non potevano avere. E poi dove trovare il panettiere per 5000 persone? È lo stesso disorientamento che aveva preso gli sposi a Cana: non c’è più vino!
o Sin dalle prime battute si capisce come andrà a finire. Di fatto Andrea sembra intuire le intenzioni di Gesù e dice che c’è un ragazzo che ha cinque pane d’orzo e due pesci. E sarà proprio la generosità di questo ragazzo che offrirà a Gesù la materia prima per il miracolo.
o Gesù fa sedere sull’erba la gente. Giovanni dice che c’era molta erba in quel luogo, e il fatto lascia trasparire un significato messianico. I sinottici aggiungono che si compongono per la distribuzione gruppi di cinquanta e di cento.
o Gesù appare come il nuovo Mosè. Anche Mosè aveva diviso gli ebrei in gruppo, e aveva dato da mangiare quaglie e manna a volontà. Ora Gesù dona a tutti pane e pesci.
o È Gesù stesso che distribuisce i pani, dopo aver reso grazie con la formula di rito: « Benedetto sii tu, Iahvè nostro Dio, re dell’universo, che fai crescere il pane della terra ».
o L’abbondanza è simile a quella descritta nella prima lettura, dove si dice che grazie al gesto generoso di un anonimo, venti pani d’orzo basteranno per cento persone. Qui per la parola di Gesù, là per quella di Eliseo, la folla ha pane a volontà e vengono raccolti gli avanzi.
o In Giovanni si tratta di 12 canestri. Il numero è simbolico: è il numero delle tribù d’Israele e dei 12 apostoli. Quanto agli avanzi, fanno pensare ad altra gente che ha bisogno di essere sfamata in ogni tempo.
o La gente evidentemente è colpita dal miracolo. Ma non pensa a qualcosa di magico, bensì coglie al volo il significato messianico di quest’abbondanza e afferma che Gesù è il messia e vuole farlo re. Ma Gesù ancora una volta si ritira tutto solo sul monte.
o Il racconto del miracolo, almeno nel passo che ci viene proposto quest’oggi, è ancora lontano dal far pensare direttamente all’eucaristia. Ma ci sono già tutte le premesse. Gesù ha posto un segno che in qualche misura è stato ricevuto. Ma quando si farà più esplicito, ci sarà la rottura tra Gesù e questa folla che pure è stata affascinata da lui e lo ha seguito in quel modo.

Attualizzare
* Il pane: occupa un posto importante nel vangelo. Gesù lo moltiplica e sfama migliaia di persone; tentato dal diavolo, si rifiuta di trasformare le pietre in pane; nelle parabole parla del lievito che fermenta tutta la pasta, dell’uomo che chiede di notte del pane all’amico. Nel Padre nostro ci invita a chiedere « il nostro pane quotidiano ». Gesù significativamente prenderà un pezzo di pane per rimanere per sempre fra noi.
* Il senso del miracolo è chiaramente questo: il tempo messianico è giunto in mezzo a voi. Ecco l’abbondanza che aspettavate, quella che è stata annunciata dai profeti: pane e pesci per tutti, simbolo di un tempo in cui il benessere diventerà quotidiano. Si realizzano le parole del profeta Isaia: « Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati » (25,6).
* Gesù non spinge questa folla abbandonata a se stessa e alla ricerca di un punto di riferimento alla ribellione, né contro il potere politico dei romani, né contro l’oppressione della legge e di chi ne detta le regole. Ma parla loro dell’amore di Dio, della libertà, della solidarietà, premesse per cominciare una società radicalmente nuova. Perché Gesù si propone di costruire dal basso il popolo nuovo, da gente umile come questa.
* L’abbondanza che segue il miracolo indica proprio questo amore traboccante di Dio verso l’uomo, amore che non ha limiti e che non si ferma neanche di fronte allo straordinario pur di manifestarsi.
* Gesù li cono9sce bene, è vissuto fino a ieri nei loro villaggi. Le sue parole giungono al loro cuore e la moltiplicazione del pane e dei pesci dà autorità a ciò che dice, anche se (lo vedremo le prossime domeniche) « lo conoscono troppo bene » per accogliere fino in fondo le sue parole.
* Per l’evangelista Giovanni la moltiplicazione del pane e dei pesci è un « segno » importante, preludio dell’eucaristia e collegato alla Pasqua, sia per il vocabolario usato, ben diverso da quello sbrigativo dei sinottici, sia perché è Gesù stesso che passa a servire personalmente i singoli gruppi.
* Per cinque domeniche, a partire da questa, ci verrà proposto il dialogo che seguirà questo miracolo, percepito dalle folle e dallo stesso Gesù come straordinario. Gesù si meraviglierà della loro incapacità di giungere alla fede e li inviterà a « prendere o lasciare ».
* Come sentirci oggi coinvolti in questo miracolo? Anzitutto questo prodigio, come quello di Eliseo, sono possibili soltanto grazie alla generosità di un uomo e di un ragazzo anonimi. Ognuno di noi è chiamato a mettere a disposizione di Dio quel poco che ha e il Signore interviene moltiplicando a dismisura il nostro dono. Del resto, ogni cristiano sa che i grandi miracoli partono spesso da gesti umili. Anche un bicchiere d’acqua e un pezzo di pane dati con generosità non andranno perduti nella prospettiva del regno.
* Ricordiamo poi, come affermano i grandi spiriti che hanno scelto nella loro vita la solidarietà, che la storia comincerà quando tutti gli uomini avranno un pezzo di pane. Il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci parte da un gesto di compassione di Gesù, ed è un forte richiamo a vivere solidali. Si sa che nel mondo milioni di bambini muoiono ogni anno di fame, eppure « a Milano vengono buttati 400 quintali di pane al mese. E nessuno li vuole » (Corriere della Sera); in Inghilterra un terzo della spesa finisce nella spazzatura. Ciascuno di noi è chiamato a farsi pane, a condividere il pane per i fratelli. « Credo sia più facile moltiplicare il pane, che non distribuirlo. C’è tanto di quel pane sulla terra che a condividerlo basterebbe per tutti » (David Maria Turoldo). Scrive Enzo Bianchi nel suo libro Il pane di ieri: « Pane che basta a tutti solo quando è spezzato e condiviso ».
* La popolazione mondiale in questo momento è di 7 miliardi. Gran parte vive e muore in condizioni di vera e propria fame permanente. Anche noi ci chiediamo come dar da mangiare a una popolazione immensa che cresce continuamente. In realtà ci sono pochi milioni di persone – noi, i paesi occidentali – che consumano complessivamente gran parte delle risorse della terra. Come dice la Gaudium et spes: « Mai il genere umano ebbe a disposizione tante ricchezze, e tuttavia una gran parte degli uomini è ancora tormentata dalla fame e dalla miseria » (4). « Mentre folle immense mancano ancora dello stretto necessario, alcuni – anche nei paesi meno sviluppati – vivono nell’opulenza e dissipano i beni » (63). « Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e popoli, così che i beni creati debbono… essere partecipati a tutti, avendo come guida la giustizia e compagna la carità » (69).
* La nostra chiesa è nata dalla povertà semplice e libera di Gesù e degli apostoli. Nei primi secoli si è diffusa soprattutto tra i ceti popolari e ha manifestato una straordinaria e organizzata solidarietà. Un modo di vivere e di manifestarsi che dovrebbe caratterizzare le nostre comunità cristiane in ogni tempo, nella sostanza e nella visibilità, per essere credibili nel loro annuncio.

Don Bosco moltiplica le pagnotte
Il 22 ottobre 1860 sulla prima porta a sinistra della chiesa di san Francesco di Sales di Torino-Valdocco, avvenne un fatto straordinario. Ne fu testimone Francesco Dalmazzo, arrivato per studiare con Don Bosco a 15 anni. Aveva grande volontà, ma salute debole. Don Bosco non avrebbe voluto accoglierlo tra quei ragazzi poveri. Di fatto dopo qualche giorno disse a Don Bosco: « Io le voglio bene, ma se continuo a stare qui mi ammalerò. Se permette, scrivo a mia mamma di venire a riprendermi ». Così fece. Ma la mattina in cui doveva partire, volle ancora confessarsi da Don Bosco. Mentre attendeva per le confessioni, mentre si confessava e durante il ringraziamento alla confessione, vide tornare tre volte i garzoni del pane che dissero a Don Bosco che pane per la colazione non ce n’era più.
Don Bosco prima li mandò dal panettiere Magra; saputo poi che il panettiere non voleva più dare a credito, disse di raccogliere tutto il pane che c’era all’Oratorio, che sarebbe venuto a distribuirlo lui stesso alla porta. Francesco capì che forse stava per capitare qualcosa di straordinario. Uscendo per primo, fece cenno a sua madre che l’aspettava con la valigia di avere pazienza ancora un po’. « Quando arrivò Don Bosco – è la sua testimonianza giurata al processo per la canonizzazione di Don Bosco – presi una pagnotta per primo, guardai nel cesto e vidi che conteneva da una quindicina a una ventina di pagnottelle. Quindi mi collocai inosservato proprio dietro Don Bosco, sopra il gradino, con tanto di occhi aperti. Don Bosco iniziò la distribuzione. I giovani gli sfilavano davanti, contenti di ricevere il pane da lui, e gli baciavano la mano, mentre egli a ciascuno diceva una parola, dava un sorriso. Tutti gli alunni, circa 400, ricevettero la loro pagnotta. Finita la distribuzione, volli riesaminare la cesta del pane: nel canestro c’era la stessa quantità di pagnotte di prima. Restai sbalordito. Corsi difilato da mia mamma e le dissi: « Non vengo più a casa. Qui si mangia poco, ma Don Bosco è un santo ». « Questa fu la sola causa che mi indusse a restare all’Oratorio e a farmi salesiano ». Francesco Dalmazzo divenne sacerdote, fu per otto anni direttore nell’istituto salesiano di Torino-Valsalice, e fu il primo procuratore generale della congregazione salesiana presso la Santa Sede.

Fonte autorizzata : Umberto DE VANNA

Santa Brigida di Svezia

Santa Brigida di Svezia dans immagini sacre st_bridget

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Publié dans:immagini sacre |on 23 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

EUROPA, RISCOPRI LA VERITÀ E LE RADICI CRISTIANE (1) – Papa Francesco

http://www.culturacattolica.it/?id=235&id_n=36512

EUROPA, RISCOPRI LA VERITÀ E LE RADICI CRISTIANE (1)

Autore: Papa Francesco Curatore: Oliosi, Don Gino
Fonte: CulturaCattolica.it
venerdì 28 novembre 2014

AL PARLAMENTO EUROPEO
Signor Presidente, Signore e Signori Vice Presidenti,
Onorevoli Eurodeputati,
Persone che lavorano a titoli diversi in quest’emiciclo,

Cari amici,
vi ringrazio per l’invito a prendere la parola dinanzi a questa istituzione fondamentale della vita dell’Unione Europea e per l’opportunità che mi offrite di rivolgermi, attraverso di voi, agli oltre cinquecento milioni di cittadini che rappresentate nei 28 Stati membri. Particolare gratitudine, desidero esprimere a Lei, Signor Presidente del Parlamento, per le cordiali parole di benvenuto che mi ha rivolto, a nome di tutti i componenti dell’Assemblea.
La mia visita avviene dopo oltre un quarto di secolo da quella compiuta da Papa Giovanni Paolo II. Molto è cambiato da quei giorni in Europåa e in tutto il mondo. Non esistono più i blocchi contrapposti che allora dividevano il continente in due e si sta lentamente compiendo il desiderio che «l’Europa, dandosi sovranamente libere istituzioni, possa un giorno estendersi alle dimensioni che le sono state date dalla geografia e più ancora dalla storia»[1].
Accanto a un’Unione Europea più ampia, vi è anche un mondo più complesso e fortemente in movimento. Un mondo sempre più interconnesso e globale e perciò sempre meno « eurocentrico ». A un’Unione più estesa, più influente, sembra però affiancarsi l’immagine di un’Europa un po’ invecchiata e compressa, che tende a sentirsi meno protagonista in un contesto che la guarda spesso con distacco, diffidenza e talvolta con sospetto.
Nel rivolgermi a voi quest’oggi, a partire dalla mia vocazione di pastore, desidero indirizzare a tutti i cittadini europei un messaggio di speranza e di incoraggiamento.
Un messaggio di speranza basato sulla fiducia che le difficoltà possano diventare promotrici potenti di unità, per vincere tutte le paure che l’Europa – insieme a tutto il mondo – sta attraversando. Speranza nel Signore che trasforma il male in bene e la morte in vita.
Incoraggiamento di tornare alla ferma convinzione dei Padri fondatori dell’Unione europea, i quali desideravano un futuro basato sulla capacità di lavorare insieme per superare le divisioni e per favorire la pace e la comunione fra tutti i popoli del continente. Al centro di questo ambizioso progetto politico vi era la fiducia nell’uomo, non tanto in quanto cittadino, né in quanto soggetto economico, ma nell’uomo in quanto persona dotata di una dignità trascendente.
Mi preme anzitutto sottolineare lo stretto legame che esiste fra queste due parole: « dignità » e « trascendente ».
La “dignità” è una parola-chiave che ha caratterizzato la ripresa del secondo dopo guerra. La nostra storia recente si contraddistingue per l’indubbia centralità della promozione della dignità umana contro le molteplici violenze e discriminazioni, che neppure in Europa sono mancate nel corso dei secoli. La percezione dell’importanza dei diritti umani nasce proprio come esito di un lungo cammino, fatto anche di molteplici sofferenze e sacrifici, che ha contribuito a formare la coscienza della preziosità, unicità e irripetibilità di ogni singola persona umana. Tale consapevolezza culturale trova fondamento non solo negli avvenimenti della storia, ma soprattutto nel pensiero europeo, contraddistinto da un ricco incontro, le cui numerose fonti lontane provengono «dalla Grecia e da Roma, da substrati celtici, germanici e slavi, e dal cristianesimo che li ha plasmati profondamente»[2], dando luogo proprio al concetto di “persona”.
Oggi, la promozione dei diritti umani occupa un ruolo centrale nell’impegno dell’Unione Europea in ordine a favorire la dignità della persona, sia al suo interno che nei rapporti con gli altri Paesi. Si tratta di un impegno importante e ammirevole, poiché persistono fin troppe situazioni in cui gli esseri umani sono trattati come oggetti, dei quali si può programmare la concezione, la configurazione e l’utilità, e che poi possono essere buttati via quando non servono più, perché diventati deboli, malati o vecchi.
Effettivamente quale dignità esiste quando manca la possibilità di esprimere liberamente il proprio pensiero o di professare senza costrizione la propria fede religiosa? Quale dignità è possibile senza una cornice giuridica chiara, che limiti il dominio della forza e faccia prevalere la legge sulla tirannia del potere? Quale dignità può mai avere un uomo o una donna fatto oggetto di ogni genere di discriminazione? Quale dignità potrà mai trovare una persona che non ha il cibo o il minimo essenziale per vivere e, peggio ancora, che non ha il lavoro che lo unge di dignità?
Promuovere la dignità della persona significa riconoscere che essa possiede diritti inalienabili di cui non può essere privata ad arbitrio di alcuno e tanto meno a beneficio di interessi economici.
Occorre però prestare attenzione per non cadere in alcuni equivoci che possono nascere da un fraintendimento del concetto di diritti umani e da un loro paradossale abuso. Vi è infatti oggi la tendenza verso una rivendicazione sempre più ampia di diritti individuali – sono tentato di dire individualistici -, che cela una concezione di persona umana staccata da ogni contesto sociale e antropologico, quasi come una “monade” (μονάς), sempre più insensibile alle altre “monadi” intorno a sé. Al concetto di diritto non sembra più associato quello altrettanto essenziale e complementare di dovere, così che si finisce per affermare i diritti del singolo senza tenere conto che ogni essere umano è legato a un contesto sociale, in cui i suoi diritti e doveri sono connessi a quelli degli altri e al bene comune della società stessa.
Ritengo perciò che sia quanto mai vitale approfondire oggi una cultura dei diritti umani che possa sapientemente legare la dimensione individuale, o, meglio, personale, a quella del bene comune, a quel “noi-tutti” formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale [3]. Infatti, se il diritto di ciascuno non è armonicamente ordinato al bene più grande, finisce per concepirsi senza limitazioni e dunque per diventare sorgente di conflitti e di violenze.
Parlare della dignità trascendente dell’uomo, significa dunque fare appello alla sua natura, alla sua innata capacità di distinguere il bene dal male, a quella “bussola” inscritta nei nostri cuori e che Dio ha impresso nell’universo creato [4]; soprattutto significa guardare all’uomo non come a un assoluto, ma come a un essere relazionale. Una delle malattie che vedo più diffuse oggi in Europa è la solitudine, propria di chi è privo di legami. La si vede particolarmente negli anziani, spesso abbandonati al loro destino, come pure nei giovani privi di punti di riferimento e di opportunità per il futuro; la si vede nei numerosi poveri che popolano le nostre città; la si vede negli occhi smarriti dei migranti che sono venuti qui in cerca di un futuro migliore.
Tale solitudine è stata poi acuita dalla crisi economica, i cui effetti perdurano ancora con conseguenze drammatiche dal punto di vista sociale. Si può poi constatare che, nel corso degli ultimi anni, accanto al processo di allargamento dell’Unione Europea, è andata crescendo la sfiducia da parte dei cittadini nei confronti di istituzioni ritenute distanti, impegnate a stabilire regole percepite come lontane dalla sensibilità dei singoli popoli, se non addirittura dannose. Da più parti si ricava un’impressione generale di stanchezza, d’invecchiamento, di un’Europa nonna e non più fertile e vivace. Per cui i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva, in favore dei tecnicismi burocratici delle sue istituzioni.
A ciò si associano alcuni stili di vita un po’ egoisti, caratterizzati da un’opulenza ormai insostenibile e spesso indifferente nei confronti del mondo circostante, soprattutto dei più poveri. Si constata con rammarico un prevalere delle questioni tecniche ed economiche al centro del dibattito politico, a scapito di un autentico orientamento antropologico [5]. L’essere umano rischia di essere ridotto a semplice ingranaggio di un meccanismo che lo tratta alla stregua di un bene di consumo da utilizzare, così che – lo notiamo purtroppo spesso – quando la vita non è funzionale a tale meccanismo viene scartata senza troppe remore, come nel caso dei malati, dei malati terminali, degli anziani abbandonati e senza cura, o dei bambini uccisi prima di nascere.
È il grande equivoco che avviene «quando prevale l’assolutizzazione della tecnica»[6], che finisce per realizzare «una confusione fra fini e mezzi»[7]. Risultato inevitabile della “cultura dello scarto” e del “consumismo esasperato”. Al contrario, affermare la dignità della persona significa riconoscere la preziosità della vita umana, che ci è donata gratuitamente e non può perciò essere oggetto di scambio o di smercio. Voi, nella vostra vocazione di parlamentari, siete chiamati anche a una missione grande benché possa sembrare inutile: prendervi cura della fragilità, della fragilità dei popoli e delle persone. Prendersi cura della fragilità dice forza e tenerezza, dice lotta e fecondità in mezzo a un modello funzionalista e privatista che conduce inesorabilmente alla “cultura dello scarto”. Prendersi cura della fragilità delle persone e dei popoli significa custodire la memoria e la speranza; significa farsi carico del presente nella sua situazione più marginale e angosciante ed essere capaci di ungerlo di dignità [8].
Come dunque ridare speranza al futuro, così che, a partire dalle giovani generazioni, si ritrovi la fiducia per perseguire il grande ideale di un’Europa unita e in pace, creativa e intraprendente, rispettosa dei diritti e consapevole dei propri doveri?
Per rispondere a questa domanda, permettetemi di ricorrere a un’immagine. Uno dei più celebri affreschi di Raffaello che si trovano in Vaticano raffigura la cosiddetta Scuola di Atene. Al suo centro vi sono Platone e Aristotele. Il primo con il dito che punta verso l’alto, verso il mondo delle idee, potremmo dire verso il cielo; il secondo tende la mano in avanti, verso chi guarda, verso la terra, la realtà concreta. Mi pare un’immagine che ben descrive l’Europa e la sua storia, fatta del continuo incontro tra cielo e terra, dove il cielo indica l’apertura al trascendente, a Dio, che ha da sempre contraddistinto l’uomo europeo, e la terra rappresenta la sua capacità pratica e concreta di affrontare le situazioni e i problemi.
Il futuro dell’Europa dipende dalla riscoperta del nesso vitale e inseparabile fra questi due elementi. Un’Europa che non è più capace di aprirsi alla dimensione trascendente della vita è un’Europa che lentamente rischia di perdere la propria anima e anche quello « spirito umanistico » che pure ama e difende.
Proprio a partire dalla necessità di un’apertura al trascendente, intendo affermare la centralità della persona umana, altrimenti in balia delle mode e dei poteri del momento. In questo senso ritengo fondamentale non solo il patrimonio che il cristianesimo ha lasciato nel passato alla formazione socioculturale del continente, bensì soprattutto il contributo che intende dare oggi e nel futuro alla sua crescita. Tale contributo non costituisce un pericolo per la laicità degli Stati e per l’indipendenza delle istituzioni dell’Unione, bensì un arricchimento. Ce lo indicano gli ideali che l’hanno formata fin dal principio, quali la pace, la sussidiarietà e la solidarietà reciproca, un umanesimo incentrato sul rispetto della dignità della persona.
Desidero, perciò, rinnovare la disponibilità della Santa Sede e della Chiesa cattolica, attraverso la Commissione delle Conferenze Episcopali Europee (COMECE), a intrattenere un dialogo proficuo, aperto e trasparente con le istituzioni dell’Unione Europea. Parimenti sono convinto che un’Europa che sia in grado di fare tesoro delle proprie radici religiose, sapendone cogliere la ricchezza e lepotenzialità, possa essere anche più facilmente immune dai tanti estremismi che dilagano nel mondo odierno, anche per il grande vuoto ideale a cui assistiamo nel cosiddetto Occidente, perché «è proprio l’oblio di Dio, e non la sua glorificazione, a generare la violenza»[9].
Non possiamo qui non ricordare le numerose ingiustizie e persecuzioni che colpiscono quotidianamente le minoranze religiose, e particolarmente cristiane, in diverse parti del mondo. Comunità e persone che si trovano ad essere oggetto di barbare violenze: cacciate dalle proprie case e patrie; vendute come schiave; uccise, decapitate, crocefisse e bruciate vive, sotto il silenzio vergognoso e complice di tanti.
Il motto dell’Unione Europea è Unità nella diversità, ma l’unità non significa uniformità politica, economica, culturale, o di pensiero. In realtà ogni autentica unità vive della ricchezza delle diversità che la compongono: come una famiglia, che è tanto più unita quanto più ciascuno dei suoi componenti può essere fino in fondo sé stesso senza timore. In tal senso, ritengo che l’Europa sia una famiglia di popoli, i quali potranno sentire vicine le istituzioni dell’Unione se esse sapranno sapientemente coniugare l’ideale dell’unità cui si anela, alla diversità propria di ciascuno, valorizzando le singole tradizioni; prendendo coscienza della sua storia e delle sue radici; liberandosi dalle tante manipolazioni e dalle tante fobie. Mettere al centro la persona umana significa anzitutto lasciare che essa esprima liberamente il proprio volto e la propria creatività, sia a livello di singolo che di popolo.
D’altra parte le peculiarità di ciascuno costituiscono un’autentica ricchezza nella misura in cui sono messe al servizio di tutti. Occorre ricordare sempre l’architettura propria dell’Unione Europea, basata sui principi di solidarietà e sussidiarietà, così che prevalga l’aiuto vicendevole e si possa camminare, animati da reciproca fiducia.
In questa dinamica di unità-particolarità, si pone a voi, Signori e Signore Eurodeputati, anche l’esigenza di farvi carico di mantenere viva la democrazia, la democrazia dei popoli dell’Europa. Non ci è nascosto che una concezione omologante della globalità colpisce la vitalità del sistema democratico depotenziando il ricco contrasto, fecondo e costruttivo, delle organizzazioni e dei partiti politici tra di loro. Così si corre il rischio di vivere nel regno dell’idea, della sola parola, dell’immagine, del sofisma… e di finire per confondere la realtà della democrazia con un nuovo nominalismo politico. Mantenere viva la democrazia in Europa richiede di evitare tante “maniere globalizzanti” di diluire la realtà: i purismi angelici, i totalitarismi del relativo, i fondamentalismi astorici, gli eticismi senza bontà, gli intellettualismi senza sapienza [10].
Mantenere viva la realtà delle democrazie è una sfida di questo momento storico, evitando che la loro forza reale – forza politica espressiva dei popoli – sia rimossa davanti alla pressione di interessi multinazionali non universali, che le indeboliscano e le trasformino in sistemi uniformanti di potere finanziario al servizio di imperi sconosciuti. Questa è una sfida che oggi la storia vi pone.
Dare speranza all’Europa non significa solo riconoscere la centralità della persona umana, ma implica anche favorirne le doti. Si tratta perciò di investire su di essa e sugli ambiti in cui i suoi talenti si formano e portano frutto. Il primo ambito è sicuramente quello dell’educazione, a partire dalla famiglia, cellula fondamentale ed elemento prezioso di ogni società. La famiglia unita, fertile e indissolubile porta con sé gli elementi fondamentali per dare speranza al futuro. Senza tale solidità si finisce per costruire sulla sabbia, con gravi conseguenze sociali. D’altra parte, sottolineare l’importanza della famiglia non solo aiuta a dare prospettive e speranza alle nuove generazioni, ma anche ai numerosi anziani, spesso costretti a vivere in condizioni di solitudine e di abbandono perché non c’è più il calore di un focolare domestico in grado di accompagnarli e di sostenerli.
Accanto alla famiglia vi sono le istituzioni educative: scuole e università. L’educazione non può limitarsi a fornire un insieme di conoscenze tecniche, bensì deve favorire il più complesso processo di crescita della persona umana nella sua totalità. I giovani di oggi chiedono di poter avere una formazione adeguata e completa per guardare al futuro con speranza, piuttosto che con disillusione. Numerose sono, poi, le potenzialità creative dell’Europa in vari campi della ricerca scientifica, alcuni dei quali non ancora del tutto esplorati. Basti pensare ad esempio alle fonti alternative di energia, il cui sviluppo gioverebbe molto alla difesa dell’ambiente.
L’Europa è sempre stata in prima linea in un lodevole impegno a favore dell’ecologia. Questa nostra terra ha infatti bisogno di continue cure e attenzioni e ciascuno ha una personale responsabilità nel custodire il creato, prezioso dono che Dio ha messo nelle mani degli uomini. Ciò significa da un lato che la natura è a nostra disposizione, ne possiamo godere e fare buon uso; dall’altro però significa che non ne siamo i padroni. Custodi, ma non padroni. La dobbiamo perciò amare e rispettare, mentre «invece siamo spesso guidati dalla superbia del dominare, del possedere, del manipolare, dello sfruttare; non la “custodiamo”, non la rispettiamo, non la consideriamo come un dono gratuito di cui avere cura»[11]. Rispettare l’ambiente significa però non solo limitarsi ad evitare di deturparlo, ma anche di utilizzarlo per il bene. Penso soprattutto al settore agricolo, chiamato a dare sostegno e nutrimento all’uomo. Non si può tollerare che milioni di persone nel mondo muoiano di fame, mentre tonnellate di derrate alimentari vengono scartate ogni giorno dalle nostre tavole. Inoltre, rispettare la natura, ci ricorda che l’uomo stesso è parte fondamentale di essa. Accanto ad un’ecologia ambientale, serve perciò quell’ecologia umana, fatta del rispetto della persona, che ho inteso richiamare quest’oggi rivolgendomi a voi.
Il secondo ambito in cui fioriscono i talenti della persona umana è il lavoro. E’ tempo di favorire le politiche di occupazione, ma soprattutto è necessario ridare dignità al lavoro, garantendo anche adeguate condizioni per il suo svolgimento. Ciò implica, da un lato, reperire nuovi modi per coniugare la flessibilità del mercato con le necessità di stabilità e certezza delle prospettive lavorative, indispensabili per lo sviluppo umano dei lavoratori; d’altra parte, significa favorire un adeguato contesto sociale, che non punti allo sfruttamento delle persone, ma a garantire, attraverso il lavoro, la possibilità di costruire una famiglia e di educare i figli.
Parimenti, è necessario affrontare insieme la questione migratoria. Non si può tollerare che il Mar Mediterraneo diventi un grande cimitero! Sui barconi che giungono quotidianamente sulle coste europee ci sono uomini e donne che necessitano di accoglienza e di aiuto. L’assenza di un sostegno reciproco all’interno dell’Unione Europea rischia di incentivare soluzioni particolaristiche al problema, che non tengono conto della dignità umana degli immigrati, favorendo il lavoro schiavo e continue tensioni sociali. L’Europa sarà in grado di far fronte alle problematiche connesse all’immigrazione se saprà proporre con chiarezza la propria identità culturale e mettere in atto legislazioni adeguate che sappiano allo stesso tempo tutelare i diritti dei cittadini europei e garantire l’accoglienza dei migranti; se saprà adottare politiche corrette, coraggiose e concrete che aiutino i loro Paesi di origine nello sviluppo socio-politico e nel superamento dei conflitti interni – causa principale di tale fenomeno – invece delle politiche di interesse che aumentano e alimentano tali conflitti. È necessario agire sulle cause e non solo sugli effetti.
Signor Presidente, Eccellenze, Signore e Signori Deputati,
La coscienza della propria identità è necessaria anche per dialogare in modo propositivo con gli Stati che hanno chiesto di entrare a far parte dell’Unione in futuro. Penso soprattutto a quelli dell’area balcanica per i quali l’ingresso nell’Unione Europea potrà rispondere all’ideale della pace in una regione che ha grandemente sofferto per i conflitti del passato. Infine, la coscienza della propria identità è indispensabile nei rapporti con gli altri Paesi vicini, particolarmente con quelli che si affacciano sul Mediterraneo, molti dei quali soffrono a causa di conflitti interni e per la pressione del fondamentalismo religioso e del terrorismo internazionale.
A voi legislatori spetta il compito di custodire e far crescere l’identità europea, affinché i cittadini ritrovino fiducia nelle istituzioni dell’Unione e nel progetto di pace e amicizia che ne è il fondamento. Sapendo che «quanto più cresce la potenza degli uomini tanto più si estende e si allarga la loro responsabilità personale e collettiva»[12], vi esorto [perciò] a lavorare perché l’Europa riscopra la sua anima buona.
Un anonimo autore del II secolo scrisse che «i cristiani rappresentano nel mondo ciò che l’anima è nel corpo»[13]. Il compito dell’anima è quello di sostenere il corpo, di esserne la coscienza e la memoria storica. E una storia bimillenaria lega l’Europa e il cristianesimo. Una storia non priva di conflitti e di errori, anche di peccati, ma sempre animata dal desiderio di costruire per il bene. Lo vediamo nella bellezza delle nostre città, e più ancora in quella delle molteplici opere di carità e di edificazione umana comune che costellano il continente. Questa storia, in gran parte, è ancora da scrivere. Essa è il nostro presente e anche il nostro futuro. Essa è la nostra identità. E l’Europa ha fortemente bisogno di riscoprire il suo volto per crescere, secondo lo spirito dei suoi Padri fondatori, nella pace e nella concordia, poiché essa stessa non ancora esente dai conflitti.
Cari Eurodeputati, è giunta l’ora di costruire insieme l’Europa che ruota non intorno all’economia, ma intorno alla sacralità della persona umana, dei valori inalienabili; l’Europa che abbraccia con coraggio il suo passato e guarda con fiducia il futuro per vivere pienamente e con speranza il suo presente. È giunto il momento di abbandonare l’idea di un’Europa impaurita e piegata su sé stessa per suscitare e promuovere l’Europa protagonista, portatrice di scienza, di arte, di musica, di valori umani e anche di fede. L’Europa che contempla il cielo e persegue degli ideali; l’Europa che guarda e difende e tutela l’uomo; l’Europa che cammina sulla terra sicura e salda, prezioso punto di riferimento per tutta l’umanità!
Grazie.
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