La Città di Davide ai tempi del Tempio di Erode, Modello di Terrasanta (Gerusalemme)

http://www.artcurel.it/ARTCUREL/TERRASANTA/gerusalemmesimboloerealta.htm
CARD. CARLO MARIA MARTINI
GERUSALEMME : SIMBOLO E REALTA’
La Gerusalemme celeste e la Gerusalemme storica
La Gerusalemme celeste (Ap 21, 1-22, 5)
Siamo nella parte finale dell’Apocalisse, dedicata alla descrizione della Gerusalemme celeste, a cui seguirà la conclusione. Il nuovo ordine di cose, instaurato dalla morte e risurrezione di Cristo, è disegnato attraverso due grandi fasce di simboli.
Quelli della creazione e del paradiso di Genesi 1-2, dove si parla di « nuovo cielo », « nuova terra », « ogni cosa nuova ». Il profeta Isaia annunciava « una cosa nuova » (43,19), qui viene fatta « ogni cosa nuova », la nuova creazione. Al tema sono connessi i simboli del fiume nel paradiso, dell’acqua che sgorga, dell’albero che dà vita (cfr. Gen 2) e anche quelli della nuova città, descritta da Ezechiele dal capitolo 40 al 48 (risuonano pure passi del Deuteroisaia e di Zaccaria), che è senza tempio, meglio è tutta tempio, tutta dimora di Dio. Dunque, due fasce di simboli: della creazione e della restaurazione di Israele come nuova città.
Vorrei sottolineare tre momenti di questa presentazione: il momento di contrasto, il nuovo ordine di cose e i simboli più specifici della nuova città.
Il momento di contrasto
Il contrasto è evocato fin dall’inizio con le parole: » Allora io vidi » e, in seguito, con le parole: « E vidi poi venire dal cielo ». I Non si tratta però di una prima visione, perché fa parte di visioni descritte nei versetti precedenti (« vidi poi venire », « vidi ») e che annunciano la scomparsa di tutti gli elementi negativi della storia (cfr. Ap 20), riassunti nella morte e negli inferi. Tale scomparsa, annunciata poco prima, è ripresa nel nostro brano: scompariranno le lacrime, non ci sarà più morte né lutto né lamento ne affanno perché le cose di prima sono passate (21, 4 ); i vili, gli increduli, gli abietti, gli omicidi, gli immorali non entreranno nel nuovo ordine di cose (v. 8).
Viene quindi proclamato quel giudizio di Dio che è l’inizio del nuovo ordine di cose, giudizio formulato in base a due criteri: le opere compiute, registrate nel libro, e l’iniziativa salvifica divina espressa con l’immagine dell’iscrizione nel libro della vita.
Perciò i versetti immediatamente precedenti, richiamati in 21, 4.8 e anche in altri capitoli, presentano quale premessa della visione di Gerusalemme, della nuova città, lo sfondo della distruzione del male operata dalla croce di Cristo, distruzione del male che è frutto positivo della croce. La croce ha messo fuori gioco l’universo spirituale costituito dalla ribellione a Dio, per- mettendo la nascita di un ordine nuovo e di un nuovo universo di valori delineati a partire dall’inizio del capitolo 21.
Il nuovo ordine di cose
Il nuovo ordine di cose lo leggiamo in 21, 1-5, ed è presentato con le parole: « nuovo cielo e nuova terra » (« In principio Dio creò il cielo e la terra », Gen 1, 1). Un nuovo ordine spirituale e morale, nel quale siamo collocati. E la cosa nuova è anche la città santa, la nuova Gerusalemme, simbolo del nuovo ordine di grazia e di misericordia instaurato da Dio. La città discende dal cielo perché il nuovo ordine è puramente gratuito, non è opera di uomini, bensì di Dio che lo fa e lo dona.
È una città ed è pure una sposa adorna per il suo sposo, pronta per le nozze, bellissima, così come la sposa di cui parlava Ezechiele al capitolo 16, 8ss: vestita di ricami, calzata con pelli di tasso, cinto il capo di bisso, ricoperta di seta, adorna di gioielli. Così va immaginata questa sposa che nell’ Apocalisse è veramente e pienamente fedele.
E lo sposalizio, che fa parte dell’ordine nuovo, è l’alleanza richiamata al v. 3, dove è evocato Lv 26, 11 (« stabilirò la mia dimora in mezzo a voi »), insieme ad altri brani dell’Antico Testamento sull’alleanza, per dare questa visione complessiva: Dio dimorerà tra di loro, essi saranno il suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro.
Di fronte a tale visione, noi ci domandiamo: riguarda il presente o il futuro? Queste parole sono compiute?
Al v. 6 è scritto: « Ecco, sono compiute! ». Tuttavia si potrebbe pensare a un’anticipazione profetica, a un passato che riguarda il futuro.
In realtà, per il principio ermeneutico, io leggo qui molto più volentieri la descrizione di ciò che è compiuto nella morte e risurrezione di Gesù. Non quindi un ordine nuovo di cose che verrà, ma un ordine che è e che viene e nel quale tutti siamo già dentro.
Siamo già nell’alleanza, siamo già la nuova città che scende dal cielo, siamo già la sposa pronta per lo sposo, pur se non ancora in pienezza; fin da ora, nella passione e risurrezione di Cristo, tutto è compiuto e si compie in coloro che sono in lui.
Alcuni simboli della città celeste
I simboli di questo nuovo ordine di cose sono espressi soprattutto nella cosiddetta seconda descrizione della Gerusalemme celeste, che inizia al v. 9.
Sembra quasi di essere di fronte a un doppione, perché viene ripresentata la città che scende dal cielo; l’autore finale non se ne preoccupa, anzi, ritiene di dover ripetere le stesse cose proprio per farci penetrare nella coscienza che siamo in una realtà nuova instaurata dal mistero pasquale di Cristo.
Al v. 10 la santa città « che scende dal cielo, da Dio » è contemplata dal veggente mentre si trova su un monte grande e alto. Nei versetti successivi, sul simbolo base della città si sviluppano almeno cinque linee simboliche, continuamente riprese.
La prima è quella della luce, della gloria di Dio che irradia sulla città e la rende totalmente trasparente, colma della sua presenza, così da non aver più bisogno di un centro luminoso come il tempio: l’intera città è luce.
Il secondo elemento simbolico è il grande, alto muro, con le sue fondamenta, che dà le dimensioni della città.
Il terzo è quello delle dodici porte, con le loro scritte e i loro ornamenti.
Poi l’elemento del fiume, che attinge al racconto della Genesi.
Infine, gli alberi con i frutti e le foglie: l’albero della vita.
Mi limito a ripercorrere le prime due linee simboliche, nel desiderio di mostrare l’unità dell’insieme, l’unico messaggio che viene ripetutamente presentato.
La città, al v. 10, è dunque risplendente della gloria di Dio e il v. 11 commenta tale splendore, simile a quello di gemma preziosissima, quale pietra di diaspro cristallino.
Il tema della luce è ripreso al v. 18: la città è di oro puro, simile a terso cristallo; per questo (v. 23) non ha bisogno della luce del sole ne della luce della luna, dal momento che la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’agnello.
Al v. 24 la luce diviene il riferimento per tutta l’umanità: « Le nazioni cammineranno alla sua luce ».
Il nuovo ordine di cose nel quale siamo, il regno di Cristo che già si instaura, è splendore attraente della gloria del Padre e dell’agnello. È una realtà luminosa in cui vivere è bello perché dà sicurezza, respiro, chiarezza, gioia, e « non vidi alcun tempio in essa » (v. 22), perché il Signore Dio onnipotente e l’agnello so- no il suo tempio. La trasparenza di Dio è tale che Dio è percepibile in ogni luogo, lo si incontra ovunque. La conversione cristiana è propria di chi entra in questo nuovo modo di vedere le cose, di chi accoglie la rivelazione della gloria di Dio e si lascia illuminare dalla sua luce.
Il muro è descritto, al v. 12, come grande e alto. Al v. 14 si dice che « le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello ». Mura assai singolari, che danno alla città un’impensabile altezza, misurata con una canna d’oro; la città ha una forma strana, tutta simbolica, la forma di un quadrato dove la lunghezza è uguale all’altezza e alla larghezza. Si tratta di un cubo di oltre cinquecento chilometri di lato, e le mura hanno uno spessore di oltre sei chilometri. Dunque, un’ampiezza smisurata, un’estensione e un’altezza inimmaginabili per una città. E se ne dice poi la ricchezza incalcolabile: le mura sono costruite con diaspro, le fondamenta delle mura adornate di pietre preziose.
Contempliamo così una città capace di accoglienza senza limiti, una città che dà un agio e una sicurezza che non hanno paragone. In essa si è pienamente sicuri e ci si sente molto ricchi nella sfera divina, nell’essere in Cristo, in questa luce di Dio.
Se continuassimo la riflessione sugli altri simboli, ci accorgeremmo che ciascuno aggiunge qualcosa al significato della conversione cristiana e, mentre prelude alla piena manifestazione di Dio nel suo Regno – che è indescrivibile a parole -, ci invita già a chiederci se veramente abbiamo la coscienza di vivere in questa nuova realtà, se abbiamo la coscienza della bellezza, della ricchezza, della sicurezza, della luminosità, dell’apertura, della disponibilità della realtà nella quale siamo essendo in Cristo, essendo con lui nel Padre, nel mistero trinitario.
È interessante rileggere i versetti conclusivi della descrizione dei simboli, dove viene sottolineato l’effetto del nuovo ordine di cose instaurato dalla morte e risurrezione di Gesù: « Le nazioni cammineranno alla sua luce e ire della terra a lei porteranno la loro magnificenza. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, poiché non vi sarà più notte. Non entrerà in essa nulla di impuro, ne chi commette abominio e falsità; ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello » (vv. 24-27).
La nuova Gerusalemme è il punto di riferimento che dà senso a tutta la storia umana, è il punto di arrivo di tutte le nazioni e di tutti i popoli, è la città ideale aperta e pronta a ricevere tutti, è la città che esclude ogni impurità e ogni falsità, che affratella nazioni e popoli amano amano che vengono immersi in questa pienezza luminosa che è la manifestazione di Dio, del suo amore senza limiti. Le misure della città sono alla dismisura dell’altezza, lunghezza, larghezza della carità di Cristo e superano ogni comprensione.
Il cristiano che legge l’Apocalisse
Per il cristiano che legge l’Apocalisse, ogni pagina dei capitoli 21 e 22 è un modo di dire il suo essere in Cristo, le ricchezze che fin da ora gli sono date quale primizia, anticipo, pregustazione di ciò che sarà definitivo e in parte già lo è. Possiamo chiederci come tale ricchezza tocca l’attuale Gerusalemme storica.
Chi ama questa Gerusalemme e tutte le città storiche che partecipano alle sue sofferenze, comprende la risposta alla domanda, anche se non è facile esprimerla in maniera razionale e logica. Provo comunque a farlo: la Gerusalemme attuale è attratta dalla forza dei simboli al di là di se stessa e quindi ha un suo destino; destino di cui è simbolo, destino da cui è attirata verso la pienezza alla quale richiama continuamente con il suo nome e con la sua storia. In altre parole, c’è una permanente tensione dialettica tra la Gerusalemme storica e la Gerusalemme celeste; l’una richiama l’altra e quella celeste attrae quella della storia e, con essa, attrae tutta la storia umana.
Conclusione
Domandiamoci a che cosa ci stimola la visione che abbiamo cercato di contemplare.
A me pare che stimoli anzitutto a scoprire la pienezza in cui siamo e a esserne grati a Dio: pienezza che è il cammino storico dell’umanità, che si rivela a noi quale cammino positivo, di senso, e non soltanto di pura attesa, ma cammino già di partecipazione alle ricchezze inestimabili, inesauribili di Cristo, come singoli, come gruppo, come città, come società e come umanità.
Se, con la grazia del Signore, con gli occhi della fede, ci sforziamo di scoprire la pienezza in cui siamo, dobbiamo lasciarci trascinare da questa dinamica storica. Dinamica che ci indica dove la storia va e ci aiuta a capire come anticiparla nel- la fraternità e nella giustizia, sperando e operando affinché, attraverso la vittoria del bene sul male, anzi traendo il bene dal male, la luce della Gerusalemme celeste irradi e dia gioia e sicurezza fin da ora a tante persone che camminano con noi.
Ancora, la visione che abbiamo cercato di contemplare ci stimola a coinvolgere la Gerusalemme storica, e tutte le città che soffrono delle sue sofferenze, in questo cammino che trascina il mondo verso la definitiva pienezza.
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[Tratto da: Lettura ecumenica della Parola, 9-10 settembre 1994, in AA.VV. Gerusalemme patria di tutti, EDB, Bologna 1995]
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/88063
CANTO GREGORIANO: I PENSIERI SEGRETI DI JOSEPH RATZINGER
Sono ben spiegati da un grande esperto di musica liturgica: Giacomo Baroffio. Col gioco di un immaginario discorso scritto dall’attuale papa e di una richiesta di perdono rimasta nel cassetto del predecessore
di Sandro Magister
ROMA, 9 ottobre 2006 – Poniamo che il documento che segue sia il discorso che Benedetto XVI ha preparato in vista della prossima festa di santa Cecilia, patrona della musica, che cade ogni anno il 22 novembre.
A scovarlo e a trasmetterlo come tale a www.chiesa è stato il professor Giacomo Baroffio, uno dei maggiori specialisti al mondo di canto gregoriano e di musica liturgica.
Assieme a questo testo, Baroffio ci ha trasmesso anche un altro inedito: la richiesta di perdono che Giovanni Paolo II avrebbe scritto per la festa di santa Cecilia del 2003, ma che poi avrebbe rinunciato a pronunciare.
Al posto di quel discorso penitenziale, il 22 novembre di quell’anno papa Karol Wojtyla firmò invece – per davvero – un chirografo sulla musica sacra che Baroffio giudica molto deludente: “una commemorazione accademica che si trascina stanca da una citazione all’altra di documenti magisteriali”.
Più sotto, in questa pagina, sono riprodotti alcuni passaggi di quella richiesta di perdono di Giovanni Paolo II che non ha mai visto la luce.
Ma anche il discorso di Benedetto XVI qui dato in anteprima non sarà mai pronunciato.
Perchè quello escogitato dal professor Baroffio è un gioco.
Un gioco però molto serio.
Il pensiero di papa Joseph Ratzinger sulla musica liturgica è noto: l’ha spiegato negli anni in articoli, libri e discorsi.
Sono noti anche i bisogni, le attese e le difficoltà della Chiesa in questo campo.
L’immaginario nuovo discorso attribuito a Benedetto XVI è la logica somma di questi due dati.
Discorso non vero, dunque, ma verosimile. Ideato come gioco, ma espressivo di un sogno che con questo papa può divenire realtà.
Eccolo:
”Non lascerò deluse le vostre aspettative…”
di “Benedetto XVI, 22 novembre 2006”
Diletti fratelli nell’episcopato! Cari musicisti di Chiesa! Ho l’immensa gioia di accogliere da ogni parte d’Europa una folta rappresentanza dei musicisti impegnati nel servizio liturgico. Saluto tutti voi che siete venuti qui a nome personale o quali testimoni qualificati di numerose associazioni e gruppi. Per tutti permettetemi di porgere un cordialissimo benvenuto ai giovanissimi artisti bavaresi, i “Domspatzen” che hanno arricchito di decoro le celebrazioni che ho presieduto nel duomo di Ratisbona, e alla presidenza della “Consociatio Internationalis Musicæ Sacræ” con cui ho collaborato più volte.
Conoscete tutti la mia passione per la musica e molti di voi conoscono forse le pagine dove ho fissato le riflessioni sulla liturgia e sulla musica durante la mia missione di docente universitario e il mio ministero di pastore a Monaco e a Roma. Da parte mia ho letto con interesse, talora con non celato stupore e fremito, alcune pagine che esprimevano vari giudizi, desideri e timori quando sono stato chiamato a succedere al beneamato pontefice e mio predecessore Giovanni Paolo II. Vescovo oggi di Roma, proprio perché sento una particolare propensione per la musica, permettetemi di rivolgermi a voi con familiarità e semplicità, direi quasi con la confidenza che abbatte diffidenze e timori tra amici.
È mio fermo convincimento che nella Chiesa cattolica l’impegno musicale sia scarso. Ciò dipende certamente da aspetti musicali quale, ad esempio, può essere qui in Italia, l’analfabetismo diffuso al quale sono condannati i giovani che non trovano nell’istituzione scolastica un adeguato aiuto formativo. Il problema, a mio modesto avviso, è tuttavia ben più grave e trascende il campo della musica; riguarda tutto il nostro continente e il mondo intero.
Dove non c’è profondo interesse per la musica sacra è perché prima ancora non c’è attenzione alla liturgia. Una perversa infiltrazione mondana ha stravolto l’ordine delle cose e ha favorito il sorgere e il diffondersi di un nefasto convincimento: la liturgia sarebbe una serie di operazioni culturali fatte dall’uomo secondo i propri gusti individuali, come piace, quando piace, se piace. Si è perso il senso mistico di ciò che nella Chiesa e per la vita della Chiesa è stato – ed è ancora – l’”Opus Dei”: l’opera che noi realizziamo nei confronti di Dio elevando a Lui la nostra preghiera, ma prima ancora – ed è la cosa più importante, l’essenziale – è quanto lo Spirito di Dio realizza nel nostro cuore e porta a compimento quando nella sua totalità della nostra persona siamo trasfigurati e resi capaci di rivolgerci a Dio con il dolce appellativo di “abbà”, babbo.
La liturgia non è un momento che si possa relativizzare nel cammino di fede, che si possa fare od omettere a piacimento, e neppure può essere manipolata e stravolta nell’affannosa ricerca di trovare adesione e plauso. La liturgia è un momento privilegiato e unico nella storia della salvezza: vede come protagonista Cristo Signore che ci chiama alla sua sequela attraverso il nascondimento di Nazareth e la vita pubblica negli impegni sociali, nel diffondere la buona novella delle Beatitudini e nello stupore silenzioso dell’adorazione. La liturgia è prima di tutto fare memoria della passione morte risurrezione del Signore che ha aperto il suo cuore confidando i segreti più intimi attraverso le parole del Vangelo.
Per questi motivi, cari amici, la vostra formazione di musicisti di Chiesa non può limitarsi alle esercitazioni corali, allo studio dello strumento e all’approfondimento delle tecniche compositive. Anche nel vostro itinerario formativo c’è una priorità: una rigorosa e insieme appassionata presa di contatto con la Parola di Dio. Questo impegno trova un suo sostegno nello studio della vita della Chiesa e del divenire storico dei riti liturgici, del loro significato teologico e spirituale. Queste conoscenze non devono certo limitarsi alla sfera di uno sterile nozionismo, ma sono l’inizio di un cammino verso la maturazione interiore che introduce alla sapienza spirituale, al gusto delle cose di Dio, a percepire la realtà e il valore della liturgia nella vita quotidiana.
Penserete allora: tra poco il papa ci dirà che dobbiamo cantare solo il canto gregoriano. D’istinto lo direi, e con grande commozione. Ma mi trattengono due considerazioni: la prima, tragica – conosco il peso di questa parola! – è che pochissime comunità sarebbero oggi in grado di svolgere un programma musicale impegnativo in modo dignitoso. Non lasciatevi ingannare dalle apparenze: il canto gregoriano, quello che noi oggi cantiamo a una sola voce, è quanto di più difficile ci sia da interpretare in modo creativo. Penso, tra l’altro, alla linea semplice della salmodia: la sua esecuzione limpida richiede una tensione spirituale e una correttezza verbale che si acquisiscono solo in un diuturno impegno sul fronte della preghiera personale e del canto comunitario.
La seconda considerazione: il canto gregoriano costituisce un’esperienza fondamentale e ancora attuale nella vita della Chiesa come, in misura diversa, può dirsi anche della polifonia sacra. Ma la vitalità della Chiesa, che pure si manifesta nell’attualizzare oggi l’esperienza orante del passato (non perché è del passato, ma perché i nostri padri hanno raggiunto un valore di perenne attualità), esige una sapiente composizione sinfonica tra “nova et vetera”, tra conservare et innovare.
Alcuni di voi resteranno delusi, ma occorre fare delle scelte oculate e prudenti in questo momento particolarmente critico nella vita della comunità cristiana. Essa è smarrita, confusa, ha perso o non trova precisi punti di riferimento. Non ritengo opportuno dire che questo o quello è vietato. Penso che le catechesi del magistero ecclesiale e le norme del diritto canonico siano già sufficientemente esplicite e chiare. Sono convinto che la cosa più urgente da fare sia il ricupero dell’identità cristiana attraverso un rinnovato impegno spirituale.
Musicisti di Chiesa, prima di cantare, suonare e comporre qualche brano che serva alla glorificazione di Dio e alla santificazione della vostre assemblee, pregate, meditate sulla Parola e sui testi della sacra liturgia. Pregate. Ritagliatevi spazi di silenzio per l’adorazione, inginocchiatevi davanti all’Eucaristia, regalatevi ore di adorazione attonita. Il rinnovamento della musica sacra esige una profonda pietà che sboccia dall’ascolto della Parola e dalla preghiera che da essa deriva. Gettiamo le fondamenta per un rinnovato edificio ecclesiale che si distingua per bellezza e armonia, luminosità e trasparenza.
Affinché questo cammino trovi un impulso concreto e fattivo, vorrei rivolgere un pressante invito a voi, miei diletti fratelli nell’episcopato. Curate la formazione del clero! Aiutate i seminaristi a divenire ministri della Parola e non freddi burocrati e meri organizzatori. Sia incoraggiato ciascuno a trovare il tempo dell’”otium” necessario a coltivare le letture che non servono direttamente a passare gli esami scolastici, ma che sono necessarie alla formazione integrale della persona: letture di testi poetici, letture e ascolto della musica, letture delle opere delle arti pittoriche e scultoree, letture delle architetture che danno il senso degli spazi interiori protesi non verso l’alto, bensì verso l’Altissimo.
Nei seminari sia coltivata la musica quale scoperta ed esperienza vissuta di inedite e sconfinate vibrazioni interiori. Sia cantato ogni giorno in modo dignitoso qualche brano del patrimonio gregoriano anche nell’intento di fornire ai nuovi pastori d’anime il senso del canto liturgico. Essi acquisteranno così un solido criterio di valutazione per accogliere in futuro nuove composizioni, differenti sì nel linguaggio, ma simili nel significato spirituale.
Non vi trattengo oltre, cari amici, ma vi assicuro che siete presenti al mio cuore. Non lascerò deluse le vostre aspettative per un rinnovamento della musica sacra. Spero di potervi donare tra non molti mesi un documento ufficiale, forse un’enciclica o forse un “motu proprio”. Penso a un testo che affronti in modo positivo e sistematico le questioni della musica sacra, una “magna charta” che delinei l’universo liturgico e la sua musica, fornisca spunti di riflessione teologico-spirituali e chiare linee operative.
Cari musicisti di Chiesa! Spero di ritrovarvi presto pervasi di quella sensibilità che rende tutti voi attivi collaboratori nel campo del Signore. Bandite concordi la zizzania effimera della banalità e dello squallore, coltivate i fiori della bellezza rigogliosa che espande il profumo dello Spirito. Le vostre voci siano profezia della Parola che annuncia un’alba radiosa di speranza nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=125086
LAVORO E FESTA
TRATTO DA « LETTERA AI CERCATORI DI DIO »
Il lavoro è un diritto e una responsabilità. Nel lavoro entrano in gioco la nostra dignità di persone, il senso e la qualità della nostra vita, l’esercizio quotidiano della nostra relazione con gli altri. Ne siamo convinti e non abbiamo bisogno che qualcuno ce lo ricordi. Guardiamo con senso di preoccupazione e di rimprovero le persone che hanno poca voglia di lavorare.
3. LAVORO E FESTA
Il lavoro è un diritto e una responsabilità. Nel lavoro entrano in gioco la nostra dignità di persone, il senso e la qualità della nostra vita, l’esercizio quotidiano della nostra relazione con gli altri. Ne siamo convinti e non abbiamo bisogno che qualcuno ce lo ricordi. Guardiamo con senso di preoccupazione e di rimprovero le persone che hanno poca voglia di lavorare.
Percepiamo la difficoltà e perfino il dramma di chi non riesce a trovare lavoro. La negazione del diritto al lavoro, di cui soffrono ancora tante donne e uomini di questo tempo, specialmente fra i giovani, non può lasciarci indifferenti.
Come discepoli di Gesù, il Figlio di Dio che “ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo” (Concilio Vaticano II, Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 22), riconosciamo al lavoro una grande dignità, un significato profondo. Vogliamo perciò interrogarci insieme sul suo significato, per comprendere meglio questa dimensione importante della nostra esistenza e le attese che essa porta con sé.
Perché il lavoro?
Per il lavoro impegniamo la maggior parte della nostra esistenza. Se perdiamo il senso del lavoro, perdiamo il senso stesso della nostra vita. Veniamo da esperienze e da modelli di tessuto sociale in cui il lavoro era gravato da condizioni disumane: dannoso alla salute, carico di pericoli, segnato da orari insopportabili, pagato in nero. Oggi, certamente, molte cose sono cambiate, anche se non sempre e non per tutti.
Affiorano però problemi nuovi, connessi alla globalizzazione, alla delocalizzazione, alla concorrenza, alle difficoltà delle imprese, alle ricorrenti crisi economiche. È cresciuto il livello medio della ricchezza, ma nel contempo si sono allargate le aree della povertà e dell’emarginazione. La forte innovazione tecnologica ha spesso determinato nel lavoratore insicurezza sul suo posto di lavoro e incertezza sul destino della sua professionalità. Ne deriva una sete di giustizia e di dignità, sempre più diffusa ed esigente.
In quali condizioni lavorare, per non diventare schiavi del lavoro e perché in esso si esprima la nostra dignità di persone? Ce lo chiediamo con l’ansia di chi non si accontenta di parole e riconosce di affrontare questioni vitali, personali e sociali. Non viviamo per lavorare, ma lavoriamo per vivere. Non lavoriamo per fare soldi – o almeno non dovremmo farlo solo per questo -, lavoriamo per vivere dignitosamente. Non lavoriamo solo per noi, ma per far vivere coloro che non sono ancora in grado di lavorare, i bambini, e coloro che non possono più lavorare, gli anziani. Il lavoro deve servire a realizzare la nostra dignità di persone. Non è una merce che si compra e si vende, ma un’attività umana libera e responsabile.
La crescita in consapevolezza e in responsabilità ci ha aiutato a scoprire un’altra ragione del nostro lavoro: lavoriamo per il benessere della collettività e dell’umanità in generale. In tal senso, il lavoro è un obbligo morale verso il prossimo: in primo luogo verso la famiglia, poi verso la società a cui si appartiene, la nazione di cui si è cittadini, l’intera famiglia umana. Noi siamo eredi del lavoro delle generazioni che ci hanno preceduto e insieme costruttori del futuro di coloro che vivranno dopo di noi.
Quanti riconoscono orizzonti più alti di quelli che costruiamo con le nostre mani e collocano, in qualche modo, il riferimento a Dio creatore nella loro esperienza quotidiana, individuano un’ulteriore ragione del lavoro umano. A noi pare importante e offre un respiro di speranza alla nostra fatica, anche se ci rendiamo conto di quanto questa visione possa essere esigente: mediante il lavoro l’uomo collabora con Dio nel portare a termine la creazione.
Lo riferisce una delle prime pagine della Bibbia. Dopo aver creato il mondo, Dio comanda all’uomo e alla donna: “Riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo…” (Genesi 1,28). Soggiogare la terra vuol dire prendere possesso dell’ambiente e governarlo, rispettando l’ordine posto in esso dal Creatore e sviluppandolo a proprio vantaggio, per soddisfare i bisogni propri, della famiglia e della società. In questo consiste l’impresa della scienza e del lavoro per umanizzare il mondo, al fine di farne la dimora dell’uomo, una casa di giustizia, di libertà e di pace per tutti.
Quando Dio ha creato il mondo, non lo ha creato compiuto: la creazione non è finita.
L’uomo ha preso possesso lentamente della terra, forgiandola, adattandola alle sue esigenze, sviluppando le potenzialità del creato per il suo bene e per la gloria di Dio. In modo particolare oggi stiamo assistendo a trasformazioni impensabili fino a pochi decenni fa. Esse ci fanno vedere come l’uomo abbia capacità sconfinate, di cui sono strumento le nuove tecnologie.
Non siamo però padroni del creato. Dobbiamo collaborare con Dio nel portarlo a compimento, rispettando la natura e le leggi insite in essa. Dio ci ha affidato il creato, perché potessimo custodirlo e perfezionarlo, non per sfruttarlo e manipolarlo a nostro piacimento. Ce lo ricorda ancora il libro della Genesi: “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (2,15). Il lavoro – vissuto in condizioni rispettose della giustizia e della dignità umana, oltre che dell’ambiente affidatoci dal Creatore – è la via in cui l’uomo realizza questo compito.
Problemi e sfide
Nel mondo del lavoro, però, non mancano le contraddizioni e i problemi: “Va bene lavorare – osserva qualcuno – ma con questi ritmi e con questa tensione non c’è più tempo né per me, né per la mia famiglia”. Molti giovani sono costretti a constatare: “Dicono che ogni uomo ha diritto a un lavoro, ma da tempo non riesco a trovare un’occupazione che mi dia garanzie”. Non è facile trovare le parole adeguate per confrontarsi con queste sfide. Del resto, le parole da sole non bastano. Ci vogliono fatti. Quali? Come possiamo produrre fatti nuovi in un contesto sociale quale è quello che spesso sperimentiamo, dove valgono regole e dominano logiche, che tante volte calpestano la dignità della persona umana e il suo diritto al lavoro?
Non è difficile constatare come, purtroppo, la cultura occidentale abbia messo alla base dell’idea del lavoro una prospettiva economicistica e materialistica, che finisce con il riservare il primato al denaro. Questo è uno dei più gravi errori del nostro tempo, da cui deriva un principio perverso nella vita sociale: avere sempre di più, secondo la logica per cui la ricchezza deve produrre nuova ricchezza e bisogna perciò tendere sempre al massimo profitto.
Una delle conseguenze più tragiche è sotto gli occhi di tutti: uno sviluppo squilibrato, che crea diverse velocità di crescita, per cui i popoli ricchi diventano sempre più ricchi e i popoli poveri sempre più poveri. Questa disparità va accentuandosi anche tra le componenti di una stessa comunità.
Non tutto, però, è così. A uno sguardo attento si offrono certamente non poche realizzazioni positive, che rassicurano il nostro impegno e alimentano la nostra speranza.
Possiamo dirlo con consapevolezza proprio guardando al nostro popolo, ricco di tante persone impegnate e coraggiose, che hanno saputo trasformare le terre più aride e rendere i contesti di produzione più difficili luoghi di umanità benestante, promuovendo la qualità della vita di tutti.
Tanto però resta ancora da realizzare. Siamo consapevoli che molto di quello che c’è da fare riguarda la direzione e il senso del nostro impegno, la qualità del nostro lavoro e dell’ambiente in cui esso si svolge, la sicurezza che prevenga ogni possibile danno ai lavoratori. Abbiamo tutti domande inquietanti e possediamo frammenti di risposte concrete.
Condividendo le une e le altre, possiamo progettare un futuro forse più felice del presente, da condividere come protagonisti.
La dignità di chi lavora e la festa
Tra domande e risposte che toccano il lavoro e la nostra responsabilità verso gli altri e
verso il creato, trova collocazione un’esigenza che è ormai patrimonio di quasi tutta l’umanità, almeno sul piano teorico. La tradizione cristiana la sottolinea con forza: è l’esigenza del riposo e della festa.
Sì, c’è un modo concreto per esprimere la dignità di chi lavora: sospendere l’attività lavorativa con il riposo settimanale, a somiglianza di Dio che, dopo avere creato il mondo, si riposò. L’uomo partecipa al lavoro e al riposo di Dio: entrambi sono per lui una benedizione e un dono, fecondi di vita e necessari per affermare la dignità della persona umana.
Il riposo settimanale non ha solo lo scopo di far recuperare le forze fisiche, al fine di lavorare di più e meglio nei giorni seguenti: questo sarebbe il riposo dello schiavo. Riposare e celebrare la festa sono espressione della “libertà” dell’essere umano, esperienza di comunione in famiglia e di incontro fraterno nella comunità, possibilità di ravvivare la relazione con la natura. Per i cristiani il riposo e la festa domenicali sono in modo particolare partecipazione alla vita del Signore Risorto, anticipazione e pregustazione della vita futura nella comunità radunata nel suo nome. Partecipando all’Eucaristia domenicale i cristiani sono chiamati a liberarsi dall’idolatria del denaro, del possesso, del lavoro ossessivo e a crescere nella sobrietà e nella solidarietà con i più deboli.
Certo, è più facile dirlo che farlo. La realtà sociale e la trama intricata in cui essa si svolge, esige da tanti uomini e donne una disponibilità che non consente giorni vuoti o tempi rigidi. La festa e il riposo restano per molti un’aspirazione, troppo lontana per essere sperimentata. Ma non è giusto rassegnarsi e non ci aiuta a crescere in umanità constatare le esigenze, senza venirvi incontro e immaginare alternative. Dobbiamo cercarle insieme, mettendo a frutto fantasia, amore, competenza e responsabilità. In questa ricerca tutti siamo chiamati a collaborare, perché la posta in gioco riguarda tutti. E lo sguardo della fede ci è di grande aiuto.
(Teologo Borèl) Giugno 2009 – autore: Conferenza Episcopale Italiana
AMARE DIO
(Biblioteca Pastorale Vocazionale)
(da Clerus.org)
Chi non sente il desiderio di attuare la propria vocazione, qualunque essa sia, e vivere la vita in pienezza? Chi non ha mai sognato di giungere alla piena identità con se stesso, con il proprio essere? Acquistare la piena maturità in Cristo è l’anelito segreto di ogni cristiano. E proprio questo desiderio di pienezza di vita che spinge l’uomo a porsi in cammino e a intraprendere il « santo viaggio » verso la completa attuazione di ciò a cui è chiamato.
Come riamare Dio da cui ci scopriamo immensamente amati? Ci sarà un modo semplice e attuale per compiere l’itinerario di crescita spirituale a cui il Vangelo ci chiama, e così giungere a rispondere all’Amore con quella pienezza di amore a Dio che è la santità e l’integrale maturità umana di tutta la persona.
Sì, il modo c’è! Ed e semplice e sicuro e attuale oggi più che mai. È racchiuso in una parola del Vangelo: “Non chiunque mi dice, Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli,, (Mc 13, 31). In questo conformarsi al volere del Padre si attua la risposta d’amore. “Chi osserva la sua parola – scrive Giovanni riferendosi alla rivelazione di Gesù -, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto” ( 1 Gv 2, 5). Non conta tanto dire di sì a parole. Importano i fatti, come ci insegna Gesù nella parabola dei due figli (cf. Mc 21, 28-31). Si mostra l’amore facendo la volontà di Dio nel presente, vivendo con interezza il quotidiano, compiendo per amore e con sincerità, per Iddio, quanto attimo per attimo ci è suggerito dallo Spirito attraverso la Parola di Dio, le circostanze di ogni giorno, i doveri e le condizioni della nostra vita, i piccoli gesti abituali… Scegliere Dio è scegliere ciò che lui vuole.
È qui che forse possiamo ritrovare finalmente la semplicità del vivere evangelico. È questo anche l’insegnamento dei più grandi mistici che, pur sperimentando fenomeni spirituali straordinari, sapevano bene che la perfezione non consiste nel far miracoli o nell’operare in modo straordinario, ma – come scrive ad esempio san Paolo della Croce – “in essere perfettissimamente unito alla santissima volontà di Dio, e chi è più unito e trasformato in questo divinissimo beneplacito, quello è il più umile, il più povero di spirito, il più perfetto, il più santo”.
Con la semplicità e la profondità che gli sono proprie, anche il Curato d’Ars non esitava ad affermare che “la santità non consiste nel fare grandi cose, ma nel compiere fedelmente i comandi di Dio e nell’adempiere i doveri dello stato in cui il buon Dio ci ha messi”. Ed ancora recentemente, Paolo Vl confermava la validità di questa strada per l’uomo di oggi, quando diceva: “La santità a noi richiesta non è quella dei miracoli, cioè dei fenomeni straordinari, ma quella della volontà buona e ferma che, in ogni vicenda ordinaria del vivere comune, cerca la dirittura logica della ricerca della volontà di Dio”.
Come riamare l’Amore? Facendo cio che a lui piace! Santità e volontà di Dio sono quindi sinonimi, anche se il termine volontà di Dio va compreso in tutta la sua profondità. Come tante altre parole del vocabolario cristiano, anche questa espressione ha perduto il suo smalto, divenendo spesso scialba, antiquata, fino ad assumere una patina opaca. Spesso è purtroppo sinonimo di rassegnazione o ha fatto da copertura all’ingiunzione autoritaria della volontà di un uomo su altri uomini. Occorre riscoprirla per quello che veramente è: l’incontro tra Dio e l’uomo, la manifestazione che Dio fa di se stesso, e la piena conformazione dell’uomo, in tutto il suo essere, al Dio che rivelandosi si comunica.
Dio ha su ciascuno un disegno d’amore: da sempre l’ha pensato, voluto, amato. Un disegno che si svela progressivamente nel tempo attraverso un rapporto dialogico nel quale, a mano a mano che si aderisce al suo progetto d’amore, si prende coscienza di come Dio ci ha pensati. Creati nel Figlio, ognuno di noi è, nel profondo della sua persona, verbo nel Verbo, parola nella Parola. Per conoscersi occorre quindi rispecchiarsi nella Parola, che si è dispiegata nelle parole del Vangelo. Vivendo il Vangelo, rievangelizzandoci, entriamo in comunione con la Parola originaria e archetipa, e anche la nostra parola prende consistenza. La volontà di Dio non è allora un’imposizione esteriore, arbitraria. È piuttosto il fiorire della nostra più autentica personalità fino a diventare quel verbo d’amore che il Padre da sempre ha pronunciato nel suo Verbo divino. È un rapporto con Dio, un dialogo. Lui mi parla, si svela e mi svela. Io gli rispondo adeguandomi a lui, divenendo come mi ha pensato nel suo disegno d’amore. Si intesse così tutto un legame, sempre più profondo, attraverso il quale io mi realizzo pienamente in una crescita continua che mi porta a diventare quel capolavoro che Dio da sempre ha visto e custodito in sé. Fare la volontà di Dio è l’opposto dell’alienazione: è il pieno ritrovamento di se stessi.
La parola di Dio che sono io, proprio perché parola nella Parola, non è mai disgiunta dalle altre parole che Dio ha pronunciato nel suo amore fecondo e inesauribile. II mio disegno è parte di un disegno più vasto che mi pone in rapporto con gli altri, con le persone con cui vivo, con l’umanità intera, ma anche con gli angeli e con i santi che già dimorano nel seno del Padre. Quando infatti Dio ci pensa, non ci pensa separati dagli altri: ci vede tutti come membri della sua grande famiglia, legati gli uni agli altri, in dono gli uni verso gli altri. Così la vocazione a riamare l’Amore ci pone in dialogo di comunione con gli altri, cos) come ci pone in dialogo di comunione con Dio. Donandoci e accogliendoci, in una costante reciprocità, « usciamo » fuori da noi e diventiamo ciò che siamo chiamati ad essere: il capolavoro pensato da Dio.
VIVERE LA DIVINA AVVENTURA
L’uomo è il culmine della creazione e tutta la riassume in sé.
Fra tutti gli esseri della terra è il solo fatto a immagine e somiglianza di Dio e ha un rapporto personale con lui: un rapporto di conoscenza, di amore, di amicizia, di comunione. Aderendo a ciò che Dio vuole da lui, l’uomo stesso si realizza come uomo e il suo essere trova felicità e pienezza.
Ma fin dal principio l’uomo rifiuta il rapporto con il Creatore; vuole affermare se stesso e diventare Dio, prescindendo da lui, anzi contro di lui.
Anche di fronte al peccato del primo uomo Dio non lo abbandona, lo punisce, ma lo salva. Egli lo caccia dal giardino, ma gli lascia la vita e la speranza di una redenzione.
Con la chiamata di Abramo, l’umanità dice di nuovo il suo « sì » a Dio, e ha inizio così l’avventura di un nuovo cammino morale, spirituale e sociale.
Dopo avere stretto l’alleanza con Abramo e la sua discendenza, Dio rivela a Mosè sul Monte Sinai la propria volontà nel Decalogo, che aiuta l’uomo ad essere più uomo sia in rapporto con Dio che con i suoi simili.
Per mostrare all’uomo tutto il suo amore Dio manda il Figlio Gesù nel quale tutti possono trovare un modello della piena conformità al volere del Padre.
Gesù mostra agli uomini tutta la volontà di Dio, attraverso la sua vita e i suoi insegnamenti, ma soprattutto con il Comandamento Nuovo: “Come io ho amato voi, così anche voi amatevi gli uni gli altri” (Gv 13, 34).
Per il cristiano, fare la volontà di Dio significa « vivere come Gesù », cioè vivere quel rapporto d’amore di figlio col Padre, che si attua nel fare la sua volontà.
Questo amore totale a Dio e agli uomini che Gesù chiede agli altri, egli lo ha vissuto prima di tutti, fino a dare la sua vita per noi.
La volontà di Dio, come ce la mostra il Nuovo Testamento con la vita, la morte e la risurrezione di Gesù, non è l’osservanza di un codice di precetti, ma è tutta e solo Amore, perché è soltanto sull’amore che saremo giudicati.
Se ci incamminiamo per la strada della volontà di Dio, egli ci guida lungo sentieri pensati attimo per attimo dal suo amore, inventati dalla sua fantasia e suggeriti dalla sua provvidenza.
Vivendo cosi, si acquista una grande elasticità nel comprendere la volontà di Dio e si compone un disegno magnifico di cui forse non si capisce subito il senso, ma di cui si sa di certo che è proposto da un Padre che ci vuole bene.
Scriveva Chiara Lubich nel 1946: “Far da Gesù sulla terra, prestare a Dio la nostra umanità affinché la usi per farvi rivivere il suo Figlio diletto. Per questo far come Gesù: solo la Volontà del Padre.
“E la Volontà del Padre è racchiusa nel Vangelo ed è: essere una sola cosa con Dio Padre per mezzo e con l’esempio di Gesù ed essere una sola cosa con tutti i fratelli: « Ut omnes unum sint »”.
Nel Vangelo vissuto fu trovata dunque la chiave per comprendere la Volontà di Dio. E, per attuare quello che Gesù chiama il suo Comandamento, Chiara e le sue prime compagne fecero un patto di amore scambievole.
La guerra, che faceva da sfondo al Movimento nascente, aiutò a far capire un’altra cosa fondamentale, e cioè che la Volontà di Dio va fatta subito perché un momento dopo sarebbe troppo tardi.
“L’unico tempo che avevamo nelle nostre mani – ricorda Chiara – era il momento presente. Il passato non era più, il futuro non sapevamo se ci sarebbe mai stato: vivendo il presente, si vivrà bene il futuro quando sarà presente.
“Come un viaggiatore non cammina avanti e indietro nel treno, per affrettare la corsa, ma sta seduto al suo posto, così noi dobbiamo star fermi nel presente.
“Il treno del tempo cammina da sé e, presente dopo presente, arriveremo al momento dal quale dipende l’eternità”.
Un altro esempio è quello del sole con i raggi. “Ognuno di noi cammina nella vita su un raggio distinto da quello del fratello ma pur sempre su un raggio di sole e cioè nella Volontà di Dio.
“Cosi ognuno si sente, per l’unica Volontà che ci lega fra noi e al Padre in Gesù, uno col fratello, con Gesù, col Padre”.
Bisogna camminare sempre in quel raggio e rimanere costantemente nella Volontà di Dio dell’attimo presente. E per rimanerci occorre far tacere la nostra Volontà, facendo solo la sua.
Quando ci accorgiamo di aver trascorso qualche attimo nella Volontà nostra, « fuori dal raggio », nelle tenebre, l’unico modo per migliorarci è rimettersi a far subito in quell’attimo la Volontà divina.
E mentre gli attimi in cui si vive fuori del raggio possono sembrare come i tanti nodi di un disegno intricato e senza senso, quando si crede alla misericordia di Dio, e si vedono le cose con gli occhi suoi, tutto appare come una magnifica trama, che è il disegno di Dio su ciascuno di noi.
* * *
Tutti i santi non fanno che esortarci a vivere la Volontà di Dio:
Per san Francesco di Sales: “L’anima che ama Iddio è tanto trasformata nella divina Volontà da meritare di essere chiamata « Volontà stessa di Dio »”.
“L’anima corre come un cavallo sfrenato – dice Caterina da Siena – di grazia in grazia velocemente e di virtù in virtù, ‘ché non ha alcun freno che la trattenga dal correre, perché ha tagliato in se ogni disordinato appetito e desiderio della propria Volontà, i quali sono i freni e i legami che non lasciano correre le anime degli uomini spirituali”.
“Non dimenticatelo mai – dice Teresa d’Avila – perché è importantissimo. L’unica brama di chi vuol darsi all’orazione deve essere di fare il possibile per risolversi a conformare la sua Volontà a quella di Dio”.
“La somma perfezione non sta nelle dolcezze interiori, nei grandi rapimenti, nelle visioni e nello spirito di profezia, bensì nella perfetta conformità del vostro volere a quello di Dio”.
“Mentre pensavo se non avessero ragione di vedermi di malocchio uscir di clausura per fondare monasteri e se non fosse meglio darmi con maggior impegno all’orazione, intesi queste parole: « Finché si è sulla terra, il profitto non consiste nel maggiormente godermi, ma nel fare la mia Volontà »”.
Una regola d’oro che tutti i santi ci confermano è di vivere bene l’oggi, l’affanno di ogni giorno, il momento presente.
Caterina da Siena diceva: “La fatica che è passata, noi non l’abbiamo, però che è fuggito il tempo; quella che è a venire non l’abbiamo però che non siamo sicuri di avere il tempo”.
E Antonio Abate: “Ricominciare oggi di nuovo, nella purezza di cuore e nell’obbedienza alla Volontà di Dio”.
Maestra del vivere il presente è Teresa di Lisieux: “Approfittiamo del nostro unico momento di sofferenza, badiamo solo all’attimo che passa; un attimo è un tesoro”.
“La mia vita è un baleno, un’ora che passa, è un momento che presto mi sfugge e se ne va.
Tu lo sai, mio Dio, che per amarti sulla terra non ho altro che l’oggi”.
I1 completo abbandono alla Volontà di Dio, Teresa d’Avila l’ha espresso con una bellissima poesia:
“Vita o morte, trionfo oppure infamia, infermità o salute, sia in pace che tu mi voglia o in orride pene continue e acute, tutto accetta e gradisce questo cuore: Dimmi che vuoi da me, dimmi, ignore.
“Dammi ricchezza o in povertade astringimi, inferno dammi o cielo, vita sepolta fra più dure tenebre o senza velo: a tutto mi sottometto, o dolce Amore: Dimmi che vuoi da me, dimmi, Signore.
“L’Alma, se vuoi, di gioia inalterabile oppure d’assenzio inonda; divozione, orazione, ratti ed estasi o siccità profonda; nel tuo volere trova pace il cuore: Dimmi che vuoi da me, dimmi, Signore”.
La tensione fra Volontà umana e Volontà divina è vissuta da Gesù stesso nell’Orto degli Ulivi:
“Padre, se è possibile, si allontani da me questo calice… Tuttavia sia fatto non ciò che voglio io, Padre, ma ciò che vuoi tu”.
“Soffri e non vorresti lamentarti – dice José Maria Escrivà – Non importa se ti lamenti. È la reazione naturale della nostra povera carne. Purché la tua Volontà voglia, ora e sempre, quello che vuole Dio”.
Ma poi vengono i frutti: “La piena accettazione della Volontà di Dio porta necessariamente la gioia e la pace: la felicità nella croce”.
La Chiesa ha illuminato sempre con la sua dottrina il cammino dell’uomo verso Dio, chiarendogli i misteri del suo volere.
Il Concilio Vaticano II ci ricorda la consolante affermazione di Paolo: “Dio vuole che tutti gli uomini si salvino e arrivino alla conoscenza della verità”.
Con chiarezza poi il Concilio ci ricorda: “Il Padre vuole che noi riconosciamo ed efficacemente amiamo Cristo in ciascuno dei nostri fratelli. Ma vi è anche la vita di tutti i giorni, con le sue vicende che, se vengono prese con fede dalla mano del Padre celeste, servono a santificarci, perché sono il mezzo per cooperare alla Volontà divina”.
La voce di Dio parla anche attraverso i Vescovi, dice il Concilio: “Essi fanno le parti dello stesso Cristo, Maestro, Pastore e Pontefice”.
C’è poi la voce di Dio che parla nel nostro cuore. Per chi la sa ascoltare essa diventa come il faro che guida sulla rotta dell’esistenza.
Nel Concilio si è parlato spesso anche di segni dei tempi nei quali bisogna imparare a scorgere con la luce della fede il progetto di Dio nel cammino della storia. Fra questi segni dei tempi vi è la ricerca dell’unità fra le Chiese separate.
“La Volontà di Cristo – dice Giovanni Paolo II – ci stimola a lavorare seriamente e costantemente per l’unità con tutti i nostri fratelli cristiani”.
* * *
Ma come va fatta la Volontà di Dio? “Con estrema fiducia e senza riserva”, dice Giovanni Paolo II. “La nostra resa alla Volontà di Dio deve essere totale, il Sì detto una volta per sempre”.
Di fronte alla morte che vede giungere, Paolo VI ci apre il suo animo: “Non più guardare indietro, ma fare volentieri, semplicemente, umilmente, fortemente la Tua Volontà. Fare presto, fare tutto, fare bene. Fare lietamente ciò che ora tu vuoi da me, anche se supera immensamente le mie forze e se mi chiede la vita”.
Papa Giovanni nel suo “Giornale dell’anima” scriveva: “La mia vera grandezza consiste nel fare totalmente e con perfezione la Volontà di Dio.
Tutto il creato compie la Volontà di Dio. I cieli, mossi dalla sua Volontà, gli stanno sottomessi in pace – scrive Papa Clemente Romano -: Il giorno e la notte percorrono il corso da lui prescritto senza ostacolarsi a vicenda. Il sole e la luna e i cori delle stelle girano come egli ha ordinato, in armonia, e senza deviare dall’orbita da lui segnata. L’immenso mare ricurvo, che per l’opera sua creatrice si raccolse nei suoi alvei, non oltrepassa mai i confini che gli pose intorno”.
Nel « Padre Nostro » chiediamo: “Sia fatta la tua Volontà come in cielo così in terra”.
“Quando questo sarà compiuto, allora tutto sarà cielo – esclama Pietro Crisologo -. Allora tutti saranno una cosa sola, anzi uno solo, il Cristo, tutti, quando in tutti vivrà l’unico Spirito di Dio”.
Scriveva Chiara Lubich nel Natale ’46 alle sue prime compagne: “Sì, sì, sì virile, fortissimo, totalitario, attivissimo alla Volontà di Dio… …Se tutte faremo la Volontà di Dio saremo prestissimo quella perfetta unità che Gesù vuole in terra come nel Cielo. E questo non è il nostro sogno? Se poi tutta la nostra vita, nell’attimo presente, sarà questo « sì » ripetuto con uguale intensità, vedremo veramente avverato quello che abbiamo chiesto e tanto desiderato come dono di Natale: essere Gesù. Questo vi invito a fare tutte. Perché su tutte Iddio ha posto una magnifica stella, la sua particolare Volontà su ciascuna di noi, seguendo la quale arriveremo unite al Paradiso e vedremo dietro la nostra luce camminare molte stelle!”.
http://www.paginecattoliche.it/modules.php?name=News&file=article&sid=526
SAN GIUSTINO, FILOSOFO E MARTIRE – 1 GIUGNO
(è molto lungo, salto due parti delle quali troverete i titoli maiuscoli)
Il R. P. Marcelo Gallardo è licenziato in Filosofia nella Pontificia Università San Tommaso d’Aquino di Roma. Dal 1994 è professore di Filosofia nel Seminario del Patriarcato Latino di Gerusalemme e nello « Studium Theologicum Ierosolimitanum ».
Introduzione e accenni biografici
San Giustino, « filosofo e martire ». Così chiama Tertulliano (1) al nostro santo, uno dei primi padri apologisti ed il primo « filosofo cristiano ». In questo lavoro intendiamo presentare certi aspetti rilevanti della vita e delle opere di questo santo riportando specialmente alcuni testi dei suoi scritti. Giustino, nato in Terra Santa e morto martire a Roma (2), è di uno dei più grandi santi della Chiesa dei primi secoli. Convertito al cristianesimo in un’epoca in cui i cristiani erano pochi e crudelmente perseguitati, affrontò con coraggio le grandi sfide della Chiesa del suo tempo: il dialogo con gli ebrei, il ruolo dei pagani e della loro cultura nella storia della salvezza, mantenendo ferma la sua fede fino a testimoniarla con il sangue.
Giustino nacque a Flavia Neapoli, città fondata da Vespasiano nel 72 d.C. poco dopo la conquista di Gerusalemme da parte dei romani. La città esiste ancora nella Samaria, col nome di Nablus e si trova fra due montagne bibliche: l’Ebal e il Garizzim. Molto vicina alla biblica Sichem, dove Dio era apparso ad Abramo, e dove lui Gli dedicò un altare (cfr. Gn 12, 6-7). Giosuè a Sichem convocò le dodici tribù d’Israele per ratificare la Alleanza fra Dio e il suo popolo (cfr. Gs 24). Lì vicino si conserva il pozzo di Giacobbe, dove il nostro Signore annunziò alla Samaritana che era arrivata l’ora in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità (cfr. Jn 4,23).
Per il suo nome e quello di suo padre e del suo nonno si può dedurre l’origine pagana e presumibilmente romana di Giustino i cui genitori sono probabilmente venuti dalla penisola italica per stabilirsi nella nuova colonia romana dopo la sconfitta degli ebrei e la distruzione di Gerusalemme e del Tempio nel 70 d.C. La personalità di Giustino è molto attraente, si tratta di un vero uomo in cui non c’è falsità (cfr. Jn 1,47). Riportiamo le parole di uno dei suoi biografi:
« Quello che ci ispira pronta simpatia in San Giustino, io direi di buon grado che è la trasparenza della sua anima, sincera, leale, ardente come nessuna. Quella anima si mostra a noi dalle prime righe della prima Apologia, nella stessa dedicazione; ci sono poche parole cosi impressionanti in tutta la letteratura cristiana primitiva: io, uno di loro (3).
« Io, Giustino, di Prisco, figlio di Bacheio nativi di Flavia Napoli, città della Siria di Palestina, o composto questo discorso e questa supplica in difesa degli uomini di ogni stirpe ingiustamente odiati e perseguitati, io che sono uno di loro » (4).
Fra le sue opere conserviamo due apologie indirizzate molto probabilmente agli imperatori Antonino Pio e Marco Antonio, ed il Dialogo con Trifone nel quale presenta il cristianesimo in Dialogo con la filosofia e col Giudaismo. Le due apologie ci fanno scoprire l’anima santa e nobile di Giustino; difende coraggiosamente ai cristiani perseguitati e senza rancore cerca la conversione dei carnefici. Secondo il padre Lagrange, tutti i cristiani dovrebbero leggere queste due apologie. Nel Dialogo, dopo aver narrato la propria conversione in tratti immemorabili, Giustino, nella persona di un rabbino evidenzia le obiezioni del giudaismo riguardo il cristianesimo. Trifone è il tipo di rabbino del secondo secolo dopo Cristo. Incantato di poter discutere con un filosofo, viene poi deluso e lo disprezza quando ascolta la sua professione di fede cristiana. Sarebbe stato meglio per Giustino, secondo Trifone, essere rimasto platonico che diventare cristiano; meglio il paganesimo al cristianesimo che adora ad un uomo. Questa era la grande accusa dell’ebraismo e Giustino cerca di dimostrare a Trifone che il Messia preannunciato dai profeti non è altro che Gesù il quale si è manifestato come il Figlio di Dio (5). Con la sua dottrina dei « semina Verbi », San Giustino è stato forse il primo dei padri a fare una teologia della storia. Contro i gnostici afferma la continuità del disegno di salvezza fra l’antico ed il nuovo testamento, ma cerca anche di vedere come i pagani formavano parte di questo disegno.
Sottolinea anche il P. Puech che « quello che attrae e trattiene l’attenzione dello storico è la sua preoccupazione, anche se in maniera confusa, per il grande problema che la scuola di Alessandria esaminerà poi con più ampiezza e metodo e risolverà anche più efficacemente; il problema delle relazioni fra filosofia e fede » (6). Questo rende il pensiero di Giustino molto attuale perché dando uno sguardo alla storia del pensiero negli ultimi secoli constatiamo « una progressiva separazione tra la fede e la regione filosofica…La ragione, privata dell’apporto della Rivelazione, ha percorso sentieri laterali che rischiano di farle perdere di vista la sua meta finale. La fede, privata della ragione, ha sottolineato il sentimento e l’esperienza, correndo il rischio di non essere più una proposta universale… Non sembri fuori luogo, pertanto, il mio richiamo forte e incisivo, perché la fede e la filosofia ricuperino l’unità profonda che le rende capaci di essere coerenti con la loro natura nel rispetto della reciproca autonomia » (7). Seguendo questo richiamo presentiamo la figura di San Giustino, chi era convinto che la verità non può contraddire la verità, e che non è possibile dunque un’opposizione fra ragione e fede. Lui comprese che grazie al mistero del Logos incarnato la filosofia e la fede non possono essere in opposizione, anzi, sono per principio armoniche.
La conversione
San Giustino racconta la sua conversione nel Dialogo con Trifone, nel quale il santo ci manifesta l’itinerario della sua anima verso Dio. Lo stile letterario non diminuisce bensì abbellisce la verità della sua testimonianza. La conversione di Giustino ci aiuta a comprendere quali erano i motivi che potevano spingere ad un pagano, di cultura greca, verso il cristianesimo nel secondo secolo dopo Cristo. In quel’ epoca le speculazioni filosofiche erano piene di preoccupazioni religiose. Come dice Gilson, in quell’epoca « convertirsi al cristianesimo era, spesso, passare da una filosofia animata da uno spirito religioso ad una religione capace di visioni filosofiche ». Anche se geograficamente vicino ai Samaritani, non sembra che siano stati questi ad avvicinarlo al monoteismo né ad ispirargli il desiderio di conoscere la verità. Secondo la testimonianza dello stesso Giustino, la lettura dei profeti e degli amici di Cristo (gli apostoli ed evangelisti) viene, nella sua vita, dopo la lettura dei filosofi. In ogni modo nessuna spiegazione naturale, psicologica o sociologica è sufficiente a spiegare la sua conversione. Come afferma il P Lagrange: « La migliore spiegazione, quella che risolve il problema dalla radice, è che la grazia attirava questa anima privilegiata. Senza dubbio l’uso della ragione l’aveva allontanato dalle pratiche politeistiche »(8).
Vediamo adesso il testo in cui il santo racconta il suo itinerario filosofico prima di arrivare alla conoscenza della vera filosofia. Il testo serve per conoscere lo stato in cui si trovavano le scuole filosofiche del tempo, anche se queste vengono presentate in un modo piuttosto ironico. Giustino racconta all’ebreo Trifone come lui, desideroso di conoscere la verità, era andato alla ricerca dei filosofi:
« Anch’io da principio, desiderando incontrarmi con uno di questi uomini (filosofi), mi recai da uno stoico. Passato con lui un certo tempo senza alcun profitto da parte mia sul problema di Dio (lui non ne sapeva niente, e d’altra parte diceva trattarsi di una cognizione non necessaria), lo lasciai e andai da un altro, chiamato peripatetico. Acuto, o al meno si riteneva tale. Costui per i primi giorni mi sopportò, poi pretendeva che per il seguito stabilissi un compenso, pena l’inutilità della nostra frequentazione. Per questo motivo abbandonai anche lui, ritenendolo proprio per nulla un filosofo.
Il mio animo tuttavia era ancora gonfio del desiderio di ascoltare lo straordinario ammaestramento proprio della filosofia, per cui mi recai da un pitagorico di eccelsa reputazione, uomo di grandi vedute quanto alla sapienza. Come dunque venne a conferire con lui, volendo diventare suo uditore e discepolo, mi fece: ‘Vediamo, hai coltivato la musica, l’astronomia, la geometria? O pensi forse di poter discernere alcunché di quanto concorre alla felicità prima di esserti istruito in queste discipline, che distolgono l’animo dalle cose materiali e lo preparano a trarre frutto da quelle spirituali, sì da giungere a contemplare direttamente il bello e il bene?’
Così, dopo aver tessuto le lodi di queste scienze ed averne affermato la necessità, mi rispedì, avendo io dovuto ammettere che non le conoscevo. Ero afflitto, com’è naturale, avendo mancato le mie aspettative, tanto più che ero convinto che tale avesse una certa competenza. D’alta parte, considerando il tempo che avrei dovuto passare su quelle discipline, non potei tollerare l’idea di accantonare così a lungo le mie aspirazioni » (9).
É da notare che quello che lui cercava non era una qualsiasi verità, ma la verità su Dio. Gli stoici pur avendo una morale in alcuni aspetti elevata, non conoscevano il fondamento ultimo della morale che è Dio e la loro dottrina dei « semina verbi » si diluiva in un panteismo materialista. I peripatetici dell’epoca di Giustino si dedicavano soprattutto all’insegnamento delle opere logiche di Aristotele e quello che toccò in sorte al nostro santo era, per la venalità, più vicino ai sofisti che al discepolo di Platone. Il pitagorico sembra il più serio fra tutti ma Giustino considera la conoscenza di Dio più seria e più necessariamente immediata che tutte le scienze che questi gli chiedeva di imparare. Dio, se esiste, non può essere nascosto, la sua presenza e la sua azione non possono essere così difficili da afferrarsi, essendo questa conoscenza la più importante per l’uomo. Giustino viveva quello che San Paolo aveva ricordato agli ateniesi nell’Areopago riguardo Dio: « In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo… » (cfr. At. 17,28). Il passo seguente saranno i platonici:
« Senza via di uscita, decisi di entrare in contatto anche con i platonici, i quali pure godevano di grande fama. Eccomi dunque a frequentare assiduamente un uomo assennato, giunto da poco nella mia città, che eccelleva tra i platonici, e ogni giorno facevo dei progressi notevolissimi. Mi affascinava la conoscenza delle realtà incorporee e la contemplazione delle Idee eccitava la mia mente. Ben presto dunque ritenni di essere diventato un saggio e coltivavo la mia gioca speranza di giungere alla immediata visione di Dio (10). Perché questo è lo scopo della filosofia di Platone » (11).
Giustino si ritira in un luogo isolato pensando, scioccamente, di poter arrivare da solo alla visione di Dio. Il Mediterraneo, non molto lontano dalla città di Nablus non manca da quelle parti di posti isolati. A questo punto, appare un vecchio venerando che rappresenta in modo paradigmatico il cristianesimo in dialogo con la filosofia:
« Mi trovavo dunque in questa situazione, quando pensai di immergermi nella quiete assoluta e sottrarmi alla calca degli uomini (12), e per questo mi dirigevo verso una località non lontana dal mare. Ero ormai giunto al luogo in cui mi proponevo stare solo con me stesso, quand’ecco un vecchio carico di anni, di bell’aspetto e dall’aria mite e veneranda, poco discosto da me seguiva i miei passi. Mi volsi e lo fronteggiai fissandolo intensamente.
- Mi conosci? – fa lui.
Dissi di no.
- Perché allora, riprese, mi squadri così?
- Mi sorprende che tu sia capitato nel mio stesso posto, perché non mi sarei mai aspettato di trovare qualcuno di questi parti.
- Sono in pensiero per certi miei congiunti, mi dice. Si trovano lontano da me e per questo a mia volta vengo a vedere di loro, caso mai spuntassero da qualche parte. Tu piuttosto, fa lui a me, che cosa fai qui?
- Mi piace occupare il tempo in questo modo, risposi, perché posso liberamente dialogare con me stesso. Posti come questo favoriscono il desiderio di raziocinare.
- Ah!, sei dunque un cultore del raziocinio, e non dell’azione e della verità. E non ti provi ad essere un uomo di azione piuttosto che di sofismi?
Risposi: – Quale azione più grande e migliore si potrebbe compiere che non mostrare che la ragione tutto governa, afferrarla e salirci su per vedere dall’alto gli errori ed il comportamento degli altri, che non fanno nulla di sensato e di gradito a Dio? Senza la filosofia e la retta ragione non ci può essere saggezza. Per questo ogni uomo ha il dovere di darsi alla filosofia e ritenerla l’azione più grande e degna di onore. Tutto il resto viene in secondo o terzo ordine, ed in quanto è connesso con la filosofia è conveniente e degno di essere accettato, in quanto invece ne è disgiunto ed è esercitato di gente cui la filosofia non è compagna, è sconveniente e volgare ».
Dopo questa lode del sapere filosofico, comincia adesso un dialogo sulla natura della filosofia e sulla nozione di Dio:
- « La filosofia dunque procura la felicità? – intervenne quello.
- Certamente – dissi – ed è l’unica in grado di farlo.
Riprese: – ma che cos’è la filosofia, e qual è la felicità che procura? Se non hai degli impedimenti a dirlo dillo!
- La filosofia – risposi – è la scienza dell’essere e la conoscenza del vero, e la felicità che procura è il premio di questa scienza e di questa sapienza.
- Ma tu che cos’è che chiami Dio? Chiese.
- Ciò che è sempre uguale a se stesso e che è causa di esistenza per tutte le altre realtà, questo è Dio.
Così gli risposi e mi parve rallegrato… ».
Notiamo che Giustino è convinto della capacità dell’uomo di afferrare la verità e possiede una giusta, purché imperfetta, nozione di Dio. Il nostro filosofo non è né agnostico, né politeista, né ateo. Possedeva quello che San Tommaso chiamerà i « preambula fidei », quelle verità naturali che sono il fondamento sul quale la fede appoggia, e senza le quali essa non può essere che fideismo. Il vecchio, dunque, vista la buona disposizione di Giustino, cercherà di condurlo pian piano verso la verità cristiana. Secondo il metodo socratico l’anziano prima di tutto fa riconoscere al Nostro che i filosofi non possono elaborare da soli un pensiero corretto su Dio perché non l’hanno visto né udito; dopo che la nostra anima non può vedere Dio se non è aiutata da « uno spirito santo », inoltre l’incoerenza della dottrina dell’eternità e la reincarnazione delle anime, fino a che Giustino si mostra vinto. E’ il momento in cui il vecchio li presenta un’altra saggezza che non viene dai filosofi ma da uomini graditi a Dio e da Lui stesso illuminati:
- « E chi mai si potrà prendere come maestro, feci io, e di dove si potrà trarre giovamento se neppure in uomini come Platone e Pitagora si trova la verità?
- Molto tempo fa, prima di tutti costoro che sono tenuti per filosofi, vissero uomini beati, giusti e graditi a Dio, che parlavano mossi dallo spirito divino e predicevano le cose future che si sono ora avverate. Li chiamano profeti e sono i soli che hanno visto la verità e l’hanno annunciata agli uomini senza remore o riguardo per nessuno e senza farsi dominare dall’ambizione, ma proclamando solo ciò che, ripieni di Spirito santo, avevano visto e udito.
I loro scritti sono giunti fino a noi e chi li legge prestandovi fede ne ricava sommo giovamento, sia riguardo alla dottrina dei principi che a quella del fine e su tutto ciò che il filosofo deve sapere. Essi, infatti, non hanno presentato il loro argomento in forma dimostrativa, in quanto rendono alla verità una testimonianza degna di fede e superiore ad ogni dimostrazione, e gli avvenimenti passati e presenti costringono a convenire su ciò che è stato detto per mezzo di loro.
Essi inoltre si sono mostrati degni di fede in forza dei prodigi che hanno compiuto, e questo perché sia glorificato Dio Padre, creatore di tutte le cose, sia hanno annunciato il Figlio suo, il Cristo da lui inviato…Prega dunque perché innanzitutto ti si aprano le porte della luce: si tratta infatti di cose che non tutti possono vedere e capire ma solo coloro cui lo concedono Dio ed il suo Cristo.
Dopo aver detto queste e altre cose, che non è qui il momento di riferire, quel vecchio se ne andò con l’esortazione a non lasciare cadere, e da allora non l’ho più rivisto. Quanto a me, un fuoco divampò all’istante nel mio animo e mi pervase l’amore per i profeti e per quelli uomini che sono amici di Cristo. Ponderando tra me e le sue parole trovai che questa era l’unica filosofia certa e proficua.
In questo modo e per queste ragioni io sono un filosofo, e vorrei che tutti assumessero la mia stessa risoluzione e più non si allontanassero dalle parole del Salvatore ».
Dal momento in cui Giustino conosce Cristo non abbandona la filosofia ma si converte in un vero filosofo, uno che ha trovato la vera filosofia. Ma non dobbiamo pensare che sia stata soltanto la filosofia a preparare il cammino di Giustino verso Gesù Cristo; ci sono stati anche i martiri. L’esempio della loro vita e soprattutto l’animo con il quale affrontavano il martirio:
« Infatti io stesso, che mi ritenevo soddisfatto delle dottrine di Platone, sentendo che i cristiani erano accusati ma vedendoli impavidi dinanzi alla morte ed a tutti i tormenti ritenuti terribili, mi convincevo che era impossibile che essi vivessero nel vizio e nella concupiscenza.
Infatti quale uomo libidinoso o intemperante o che reputi un bene il cibarsi di carne umana (13) potrebbe abbracciare la morte, per essere privato di questi suoi beni, e cercherebbe invece di vivere sempre la vita di quaggiù e di sfuggire ai magistrati, anziché autodenunciarsi per essere ucciso? » (14).
Accettando il cristianesimo Giustino accetta dunque una nuova vita che include la possibilità del martirio. Da quel momento Giustino non cercherà altro che di essere trovato degno del nome di cristiano.
SAN GIUSTINO E LA FILOSOFIA
GIUSTINO APOLOGISTA
Giustino martire
Giustino, come tanti di quei primi cristiani, possiede un’anima di martire. Per lui non solo i cristiani ma ogni uomo deve essere pronto a dare la propria vita per la verità.
« La ragione suggerisce che quelli che sono davvero pii e filosofi onorino e amino solo il vero, evitando di seguire le opinioni degli antichi qualora siano false. Infatti, la retta ragione suggerisce non solo di non seguire chi agisce o pensa in modo ingiusto, ma bisogna che in ogni modo e al di sopra della propria vita, colui che ama la verità, anche se è minacciato di morte, scelga sia di dire sia di fare il giusto » (33).
Il nostro santo seppe testimoniare col sangue queste sue parole, « confitendo veritatem, moriendo pro veritate », come dice Sant’Agostino dei martiri. Senza paura, parla Giustino all’imperatore e alle autorità romane sapendo che queste potranno ucciderlo ma non nuocerlo:
« Voi dunque godete in ogni luogo la fama di essere pii e filosofi e custodi della giustizia e amanti della sapienza; se poi davvero anche lo siete sarà dimostrato.
Eccoci, infatti, dinanzi a voi non per adularvi attraverso questi scritti né per parlarvi in modo accattivante, ma per chiedervi di pronunciare il giudizio secondo il criterio di un attento e preciso esame, senza attenervi ai pregiudizi né al desiderio di piacere a gente superstiziosa: ritorcereste la condanna contro di voi stessi, con un comportamento irragionevole e seguendo una cattiva fama ormai inveterata.
Noi infatti siamo persuasi che non possiamo subire alcun male da alcuno, a meno che si provi che siamo operatori di malvagità o che si riconosca che siamo malvagi: voi potete sì ucciderci, ma non nuocerci » (34).
Nella seconda apologia Giustino ci fa sapere che lui prevedeva la sua morte ed era preparato:
« Ed anch’io mi aspetto che si ordiscano insidie da parte di qualcuno dei magistrati, e di essere confitto ad un palo, quanto meno da Crescente, che si compiace di strepito e di pompa » (35).
Secondo il P. Lagrange si potrebbe pensare che ci sia stato proprio una congiura degli spiriti colti contro i cristiani, in modo particolare contro Giustino. Filosofi di scuole diverse si unirono contro il nostro santo sotto lo stoico sguardo dell’Imperatore. Si voleva distruggere un maestro e la sua scuola (36).
Concludiamo il nostro lavoro col bellissimo testo del martirio del nostro santo e di suoi compagni. Speriamo che San Giustino, filosofo e martire, sia un esempio per tutti noi cristiani, affinché siamo trovati degni di questo nome che portiamo.
ATTI DEL MARTIRIO DI SAN GIUSTINO E COMPAGNI (37)
I – 1) Al tempo degli uomini iniqui difensori dell’idolatria, furono emanati nella città e nella regione empi editti contro i pii cristiani, con lo scopo di costringerli a sacrificare agli idoli vani.
2) Arrestati dunque, i predetti martiri furono condotti dinanzi a Rustico, prefetto di Roma.
II – 1) Appena furono condotti al tribunale, il prefetto Rustico intimò a Giustino: « Prima di tutto, credi agli dei e obbedisce agli imperatori! ».
2) Rispose Giustino: « Irreprensibile e immune da condanna è per me obbedire ai comandi del nostro salvatore Gesù Cristo ».
3) Chiese Rustico: « quali concezioni filosofiche segui? ». Rispose Giustino: « Mi sono dedicato allo studio di tutti i sistemi filosofici, ma ho aderito con la mia anima soltanto alle veritiere dottrine dei cristiani, anche se non piacciono a coloro che vivono nell’errore ».
4) Chiese ancora Rustico: « A te dunque piacciono quelle dottrine, sciagurato? ». Rispose Giustino: « Sì, poiché le seguo secondo il vero dogma ».
5) « Qual è questo dogma? », domandò Rustico. Giustino rispose: « Quello che ci insegna a credere nel Dio dei cristiani, che consideriamo Dio unico, creatore ed ordinatore di tutto l’universo, visibile e invisibile, e nel Figlio di Dio, nostro Signore Gesù Cristo, del quale anche i profeti avevano predetto che sarebbe venuto ad annunciare la salvezza al genere umano e a insegnare la vera dottrina.
6) « E io, misero mortale, penso di dire ben poco rispetto alla sua divinità infinita, perché riconosco che è necessaria la virtù profetica per parlarne e ripeto che i profeti hanno parlato di Colui che ho chiamato Figlio di Dio. Sappi infatti che i profeti predissero la sua venuta tra gli uomini ».
III – 1) Chiese ancora il prefetto Rustico: « Dove vi riunite? ». Rispose Giustino: « Dove ciascuno può e preferisce; tu credi che tutti noi ci riuniamo in uno stesso luogo, ma non è così, perché il Dio dei cristiani, che è invisibile, non si può circoscrivere in alcun luogo, ma riempi il cielo e la terra ed e venerato e glorificato ovunque dai suoi fedeli ».
2) Riprese Rustico: « Insomma dove vi riunite , ovverosia, dove raduni i tuoi discepoli? ».
3) Giustino disse: « Abito preso un certo Martino, sopra il bagno di Timiotino, dall’inizio di questo secondo periodo della mia permanenza in Roma.
Non conosco altri luoghi di riunioni, al infuori di quello, dove, se qualcuno voleva venire a trovarmi, lo facevo partecipe delle divine parole della verità ».
4) Chiese infine Rustico: « Insomma, sei dunque cristiano? ». Rispose Giustino: « Sì, sono cristiano ».
IV – 1) Il prefetto si volse quindi a Caritone: « E tu, Caritone, sei pure cristiano? ». Rispose Caritone: « Si, per volere di Dio ».
2) Rivolto a Carito il prefetto chiese: « Che dici tu, Carito? ». Carito rispose: « Sono cristiana, per dono di Dio ».
3) Rustico chiese quindi a Evelpisto: « Tu pure sei uno di loro, Evelpisto? ». Evelpisto, schiavo dell’imperatore, rispose: « Anch’io sono cristiano, reso libero da Cristo e, per sua grazia, partecipo alla medesima speranza di questi ».
4) Rivolto a Jerace, il prefetto domandò: « Anche tu sei cristiano? ». Jerace rispose: « Si, sono cristiano poiché venero e adoro lo stesso Dio ».
5) Il prefetto proseguì l’interrogatorio chiedendo: « E stato Giustino a farvi diventare cristiani? ». Jerace rispose: « Sono cristiano da lungo tempo e cristiano rimarrò ».
6) Peone, alzatosi in piedi, dichiarò: « Anch’io sono cristiano ». Rustico gli chiese: « Chi è stato il tuo maestro? ». Peone rispose: « Dai genitori abbiamo ricevuto questa nobile confessione ».
7) Evelpisto aggiunse. « Ascoltavo volentieri i discorsi di Giustino, ma ho appreso anch’io dai miei genitori le parole della verità di Cristo ». Chiese il prefetto: « Dove vivono i tuoi genitori? ». Evelpisto rispose: « In Capadocia ».
8) Rivolto a Jerace, Rustico chiese: « Dove vivono i tuoi genitori? ». Egli rispose: « Il nostro vero padre è Cristo e la madre la fede in lui; quanto a i miei genitori terreni, sono morti e io sono giunto qui, cacciato dalla città di Iconio, nella Frigia ».
9) Il prefetto chiese quindi a Liberiano: « E Tu, che dici? Sei cristiano? Neppure te veneri i nostri dei? ». Liberiano rispose: « Anch’io sono cristiano: adoro e venero infatti l’unico vero Dio ».
V – 1) Rivoltosi nuovamente a Giustino, il prefetto disse: « Ascolta, tu che passi per un uomo saggio e credi di conoscere la verità: se ti farò frustrare e decapitare, sei ancora convinto che salirai al cielo? ».
2) Giustino rispose: « Spero di salire alla casa del Padre, se soffrirò tutti questi patimenti; so pure che la grazia divina attende tutti coloro che vivono rettamente, fino alla conflagrazione di tutto l’universo ».
3) Rispose Rustico: « Questo dunque supponi, che salirai al cielo, destinato a conseguirvi eccellenti premi ». Giustino ribatté: « Non lo suppongo, ma lo so con certezza e ne sono convinto ».
4) Disse il prefetto: « Veniamo infine alla questione importante e urgente da trattare: venite tutti insieme a sacrificare concordemente agli dei ». Giustino rispose: nessuno, che abbia senno e rettitudine, può passare dalla pietà all’empietà ».
5) Rustico intimò: « Se non ubbidite, sarete inesorabilmente puniti ».
6) Rispose ancora Giustino: desideriamo vivamente soffrire per il nostro Signore Gesù Cristo, perché dal martirio scaturirà a noi la speranza di salvezza davanti al tremendo tribunale universale del Nostro Signore e Salvatore ».
7) Similmente dissero gli altri testimoni di Cristo: « Fa’ quel che desideri; noi infatti siamo cristiani e non sacrifichiamo agli idoli ».
8) Il prefetto Rustico pronunciò quindi la sentenza: « Coloro che si sono rifiutati di sacrificare agli dei e di sottomettersi all’editto dell’imperatore, siano flagellati e condotti al supplizio della pena capitale, secondo le vigenti leggi ».
VI – 1) I santi testimoni, glorificando il Signore, salirono al luogo consueto, ove furono decapitati e consumarono così il martirio nella confessione del nostro Salvatore.
2) Alcuni dei fedeli portarono via di nascosto le loro salme e le deposero in un luogo adatto, con l’aiuto del nostro Signore Gesù Cristo, al quale la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
http://camcris.altervista.org/ebrisaia.html
IL DILEMMA DEI RABBI: UNO SGUARDO AD ISAIA 53
DI RACHMIEL FRYDLAND
Questo argomento non è mai stato discusso nella mia scuola ebraica negli anni antecedenti alla guerra, in Polonia. Nell’educazione rabbinica che ho ricevuto, il capitolo 53 di Isaia è stato evitato continuamente in favore di altri argomenti più « importanti » da imparare. Eppure, quando lo lessi, la mia mente si riempì di domande.
Di chi parla questo capitolo? Le parole sono chiare – parla di un Servo del Signore il cui aspetto è sfigurato, ed è afflitto e ferito. Egli non ha meritato dolori o ferite, ma fu ferito per le nostre trasgressioni e colpito per le nostre iniquità, ed attraverso le sue ferite noi siamo stati guariti. Il testo presenta il Servo sofferente del Signore che muore come un korban, una ricompensa per la colpa. Egli è quindi sepolto con il ricco e malvagio, ma risorge gloriosamente alla vita. Dio permette che Egli sia percosso e, alla fine, esalta il Servo che ha patito tale sofferenza per cancellare i peccati di molti.
Ma chi è il Servo? I nostri antichi commentatori d’accordo ritenevano che il testo si riferisse all’Unto del Signore, il Messia. La traduzione Aramaica di questo capitolo, ascritta a Rabbi Jonathan Ben Uzziel, un allievo di Hillel del secondo secolo C.E. riporta questo, e c’è la stessa interpretazione nel Talmud babilonese (Sanhedrin 98b). Allo stesso modo accade nel Midrash Rabbah, in una spiegazione di Ruth 2:14, e nel Midrash Tanhuma, parashà Toldot, fine della sezione. Queste sono solo alcune delle antiche interpretazioni che attribuiscono questo capitolo al Messia.
Rashi (Rabbi Shlomo Itzchaki, 1040-1105) e alcuni dei rabbini seguenti, però, interpretano il capitolo come riferentesi ad Israele. Loro sapevano che le antiche interpretazioni lo riferivano al Messia. Ma Rashi viveva in un tempo in cui era praticata una distorsione medievale del cristianesimo. Egli voleva preservare il popolo ebraico dall’accettare tale fede e, anche se le sue intenzioni erano sincere, altri rabbini e leaders ebrei si resero conto dell’inconsistenza della sua interpretazione. Essi presentano una obiezione basata su tre punti. Primo: le antiche interpretazioni. Secondo: fanno notare che il testo è al singolare. Terzo, notano il versetto 8. Questo versetto presenta una difficoltà insormontabile per quelli che riferiscono Isaia 53 ad Israele (leggere il versetto). E’ forse il popolo ebreo tagliato fuori dalla terra dei viventi? No! In Geremia 31:35-37, Dio promette che noi esisteremo per sempre. Siamo orgogliosi del fatto che Am Yisrael Chai « il popolo di Israele è molto vivo e vitale ». Ed è impossibile dire che Israele soffrì per le trasgressioni del « mio popolo », che chiaramente intende il popolo di Isaia. Il popolo di Isaia non sono i gentili, ma gli ebrei.
Moshe Kohen, un Rabbino spagnolo del 15° sec., spiega questo paragrafo:
« Questo capitolo, spiegano i commentatori, parla della cattività di Israele, nonostante venga usato il singolare. Altri hanno supposto che parli del mondo attuale, in cui siamo tormentati e oppressi…ma altri, alterando il numero dal singolare al plurale, cambiano il senso naturale dei versetti. E ciò che mi sembra, è che abbiano dimenticato la conoscenza dei Savi, e interpretato secondo la durezza dei loro cuori…io sono felice di interpretarlo, in accordo con l’insegnamento dei nostri rabbini, come referentesi al re Messia. »
Per lo stesso motivo il Rabbino Moshe Alsheikh, Rabbino di safed, 16° sec., dice: io sottolineo che i nostri rabbini unanimemente affermano che il profeta stia parlando del Re Messia.
Herz Homberg (1749-1841) dice: secondo l’opinione di Rashi e Ibn Ezra, questo capitolo si riferisce ad Israele alla fine della cattività. Ma se è così, qual’è il significato del versetto « fu ferito per le nostre trasgressioni »? Chi fu ferito? Chi sono i trasgressori? Chi ha portato il dolore e la malattia? Il fatto è che questo capitolo si riferisce al re Messia.
Eliezer HaKalir ha messo in rima il capitolo nel 9° sec., e viene recitato allo Yom Kippur, nella preghiera di Kether.
Le parole del profeta Isaia sono parole di speranza. Abbiamo un glorioso futuro ed un abbondante presente se ci appropriamo della salvezza reas possibile dall’Uno che fu ferito per le nostre trasgressioni e colpito per le nostre iniquità.
In conclusione, io chiedo: ma dove nella Scrittura ebraica è detto che ogni generazione ha il suo Messia? E poi, cos’è un Messia? Un Messia è un Salvatore. Ma da cosa? Dai nemici politici? Davvero un buon governo cambierebbe le cose sulla terra? Le cose cambiano solo se cambia il cuore dell’uomo, e questo solo un Messia spirituale può farlo.
Il punto è se si pensa di dover essere salvati da qualcosa, a livello spirituale. Il discorso è puramente accademico, se si pensa di non avere bisogno di un Salvatore. Se si crede che la propria giustizia sia sufficiente per stare davanti al Santo, non c’è bisogno, ovviamente, di un Salvatore.
Nota aggiunta: Quali rabbini sostengono che Isaia 53 è un capitolo messianico e ha connessioni con Gesù? Daniel Zion, ex rabbino capo della città di Jaffa escluso dal ruolo dopo aver creduto in Yeshua, dà il seguente elenco: Mosheh El Sheikh, Yepheth Ben Ali, Don Ytzchak Abarbanel, lo Zohar, Rabbi Shimon Ben Yohai, Moshe Kohen Ibn Crispin, Rabbi Shlomoh Astric, Sa’adiyah Ibn Donan, Yoseph Albo, Meir Ben Shimon, Rabbi Samuel Lanyado, Midrash Konen, Asereth Memroth, Yakov Yoseph Mordecai Chaim Passami, Ytzchak Troki, Rabbi Naphtali Ben Asher Altshuler, Levi Ben Gershom, Rabbi Liwa di Praga.