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COMMENTO ALLA PRIMA LETTURA TRATTO DA UNA ESEGESI

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COMMENTO ALLA PRIMA LETTURA TRATTO DA UNA ESEGESI

di Paolo Farinella, prete

La 1a lettura è un brano del profeta Ezechiele, un sacerdote di Gerusalemme, deportato in esilio a Babilonia insieme al re Ioachin dopo la disfatta del regno di Giuda ad opera di Nabucodònosor nel sec. VI a.C. Il profeta, uomo dalla fervente ed esuberante fantasia, si dedica a consolare il suo popolo oppresso e depresso, attento a quanto sta accadendo sullo scacchiere delle grandi potenze. Si profila all’orizzonte un nuovo impero, la Persia di Ciro (555-530 a.C.) che minaccia la stabilità di Babilonia che sconfiggerà una quarantina d’anni dopo, aprendo così uno spiraglio di speranza per i popoli esiliati. Il profeta s’inserisce in queste coordinate storiche per preannunciare un possibile ritorno e per mantenere alto il morale del popolo ebreo, parla per immagini, non fidandosi dell’ambiente che lo circonda.
Babilonia è equiparata ad un aquila che «venne sul Libano e strappò la cima del cedro» (Ez 17,3), cioè la tribù di Giuda1. Ora nella nuova condizione storica, un’altra aquila si profila all’orizzonte e Israele può ben sperare di mettere fine al suo esilio in terra straniera. Il nuovo re, Ciro, che il profeta Isaia non esita per lo stesso motivo a definire «il Cristo» del Signore (cf Is 45,1) nel 538 con un editto concederà la libertà ai popoli sottomessi da Babilonia, compreso Israele che viene autorizzato a ricostruire Gerusalemme e il suo tempio. Il popolo oppresso nell’oracolo del profeta diventa un «ramoscello» che il Signore prenderà «cima del cedro» (Ez 17,22) per piantarlo nuovamente nella terra promessa, rinnovando così una immagine antica che richiama il primo esodo: «una vite dall’Egitto, hai scacciato le genti e l’hai trapiantata (Sal 80/79,9) e ripreso dal profeta Isaia come garanzia per il casato di Davide: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici» (Is 11,1).
Il tema dell’albero è ricorrente nella Bibbia, da quello della vita nel giardino di Eden (cf Gen 2,9) che non è più un albero mitico, ma il «segno» dell’obbedienza alla parola del Signore (cf Gen 3,22) a quello dell’Apocalisse che porta frutto di eternità (cf Ap 2,7; 22,1-2.14.19). Sullo sfondo di questo sviluppo si svilupperà la riflessione del sapiente che privilegia la prospettiva morale come appello alla coscienza e quindi usando l’immagine dell’albero in chiave desacralizzata (cf Pr 3,18; 11,30; 13,12; 15,4). Il tema dell’albero cambia prospettiva con i profeti che la usano in chiave storica: l’albero è Israele che porta i frutti dell’alleanza (Is 5,1-7; Ger 2,21; Ez 15; 17,22; 19,10-14; Sal 80/79,9-20). L’esilio in Assiria o in Babilonia è espresso con l’immagine della recisione dell’albero che non porta frutto e viene gettato via (cf Gv 15,2.4.6), ma Dio non può venire meno alla sua fedeltà e allora interviene ancora e ripianta Israele nuovamente nella terra dei Padri (cf Ez 17,20-24).
Accanto a questa corrente profetica si sviluppa anche un secondo pensiero profetico che paragona il Re e di conseguenza anche il Messia ad un albero (cf Gdc 9,7-21; Dn 4,7-9; Ez 31,8-9); questo pensiero è comune in oriente perché espone l’idea della salvezza dei molti che trae origine dalla vita di uno solo: è la sostituzione vicaria per cui il re è la personificazione di tutto il suo popolo e ciò che vive lui, appartiene anche al popolo di diritto. I due destini sono connessi vitalmente. La riflessione d’Israele però non si ferma per cui anche il giusto, cioè colui che vive di e in Dio, è equiparato ad un albero rigoglioso e fruttifero: «È come albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo» (Sal 1,3; 92/93,13-14; Ct 2,1-3; Sir 24,12-22) perché è un albero che nell’econmia escatologica, Dio stesso irrigherà e renderà fecondo come mai (cf Ez 47,1-12).

OMELIA XI DOMENICA DEL T.O. : IL REGNO DI DIO È COME IL SEME CHE CRESCE E SI ESPANDE

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14 GIUGNO 2015 | 11A DOMENICA – T. ORDINARIO B | OMELIA

IL REGNO DI DIO È COME IL SEME CHE CRESCE E SI ESPANDE

Il brano del profeta Ezechiele e quello del Vangelo di Marco, che abbiamo ascoltato, sono tra loro strettamente collegati, per le immagini che usano (l’albero che cresce ed il seme, insignificante in sé, che diventa pianta), e per il messaggio che trasmettono (il Regno di Dio cresce e si espande in modo miracoloso).
Con la caduta del regno di Giuda nel 587 a. C. e la fine della dinastia di Davide, le speranze del popolo di Israele nella promessa del Messia, sembravano tramontate. Ma il profeta Ezechiele assicura che ciò che sembra umanamente impossibile, Dio lo farà: dalla cima del cedro abbattuto (che simboleggia la fine della dinastia di Davide) Dio prenderà un ramoscello (il Messia) e lo pianterà sul monte Sion, e « metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico ». Cioè: il regno del Messia sarà grande e aperto a tutti i popoli. Tutto questo è possibile solo grazie alla potenza di Dio; « Io, il Signore, ho parlato e lo farò » dice il Signore.
Con queste parole il profeta Ezechiele intende trasmettere al popolo di Israele, esiliato in Babilonia, un messaggio di fiducia e di speranza.
Analogo è il messaggio che ci viene dal brano del Vangelo di Marco, attraverso le parabole del seme che germoglia, indipendentemente dall’attività del contadino, e del granello di senapa che si sviluppa e diventa albero, nonostante sia il più piccolo tra i semi.
Le due parabole ci spiegano alcuni aspetti del Regno di Dio, un po’ paradossali e molto lontani dal nostro modo abituale di giudicare le cose.
L’espressione « Regno di Dio » era molto familiare presso gli Ebrei del tempo di Gesù, ed indicava la sovranità regale di Dio sul popolo di Israele che aveva coscienza di essere « proprietà di Dio »; che aveva stretto un patto di alleanza con Dio del quale aveva più volte, nel corso della storia, sperimentato l’intervento di salvezza contro i propri nemici.
L’espressione « Regno di Dio » aveva quindi un significato politico, tanto che i re stessi ricevevano l’autorità dall’alto e governava in nome di Dio. Dio era il re di Israele!
Sulle labbra di Gesù invece « Regno di Dio » non ha un significato politico, ma indica una realtà del tutto spirituale, anzi soprannaturale; significa la sovranità che Dio instaura sulle anime, mediante la liberazione dal peccato e dal dominio di Satana, con il dono della partecipazione alla stessa vita divina, per opera di Gesù.
Già dall’inizio della sua predicazione Gesù annuncia che il « Regno di Dio », così inteso, è lo scopo della sua missione, e che esso cresce silenziosamente fino alla sua piena maturazione, come il ramoscello di cedro di cui parla Ezechiele.
Con la parabola del granello di senapa Gesù insegna che il « Regno di Dio », cioè l’opera della salvezza dell’umanità, (il bene) inizia in maniera modesta, poco appariscente, ma diventa una realtà grandiosa, imponente, mondiale. E questo non per la capacità e l’organizzazione degli uomini, ma per la potenza intrinseca che il seme ha in se stesso.
Le parabole di Gesù sono quindi un invito alla fiducia, perché il Regno, la grazia di Dio, il bene, come il seme gettato nel terreno ed il granello di senapa, hanno una enorme potenzialità intrinseca.
Anche San Paolo, nel brano della sua seconda lettera ai Corinzi, invita alla fiducia, nonostante le tante difficoltà che lui stesso incontra nel suo apostolato.
Così è per noi. La grazia del Battesimo ci ha introdotti nel « Regno di Dio »; siamo rinati dall’acqua e dallo Spirito Santo; Dio ha cominciato a regnare in noi; siamo sua proprietà. Agli occhi umani il « Regno di Dio », la vita divina in noi, è per nulla appariscente, ma è una realtà grandiosa: la ss. Trinità abita in noi!
San Paolo ci ricorda anche che dobbiamo essere riconoscenti del dono ricevuto, del quale un giorno dovremo rendere conto: « Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute, sia in bene che in male ».
Il pensiero del giudizio di Dio, del dover rendere conto del dono ricevuto, è salutare, ma il motivo che ci deve spingere ad agire sempre « come piace al Signore », e per « essere a Lui graditi », è l’amore.
Poiché sappiamo di essere amati da Dio, vogliamo ricambiarlo con il nostro amore.
Maria, la prima collaboratrice del « Regno di Dio », che in settimana onoreremo come Consolatrice nostra, ci aiuti ad essere operatori di bene, fiduciosi che il Signore dà sempre incremento a quanto seminiamo, con amore, nel suo nome.

D. Mario MORRA SDB

David and Jonathan

David and Jonathan dans immagini sacre davejona

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Publié dans:immagini sacre |on 11 juin, 2015 |Pas de commentaires »

ERNST SCHLEIERMACHER – STORIA DELLA RESURREZIONE DI CRISTO FINO ALL’ASCENSIONE

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FRIEDRICH DANIEL ERNST SCHLEIERMACHER,

STORIA DELLA RESURREZIONE DI CRISTO FINO ALL’ASCENSIONE

Cristo appare alle donne e dice loro che devono invitare i discepoli in Galilea, dove essi avrebbero potuto vederlo; poi viene inserito il racconto delle guardie e il tutto si conclude con un: se ne andarono tutti in Galilea. Che gli apostoli abbiano visto molte volte Cristo in Gerusalemme.

Cominciamo questa seconda parte del terzo periodo della vita di Gesù con una osservazione generale. È noto che contro questi racconti della resurrezione e dell’ascensione di Cristo sono state fatte grandi critiche e che gli oppositori del cristianesimo si sono dati da fare molto in questo ambito, soprattutto per indicare le incoerenze nei racconti della sua resurrezione.
Queste incoerenze non sono certamente da negare, ma esse sono una realtà che compare ampiamente anche nelle prime parti della vita di Cristo, tanto che è soltanto una unilateralità e una premeditazione del tutto inconseguente il fatto che gli avversari pongano la storia evangelica in modo che il passato avrebbe la sua coerenza, ma poi sarebbe incominciata la falsità.
Quelle incoerenze si trovano pure nelle restanti parti della vita di Cristo, ad esempio nel racconto della singolare permanenza di Cristo in Gerusalemme secondo i tre Evangeli, e anche in altri racconti più lunghi. Queste contraddizioni derivano tutte da un unico elemento. Indubbiamente l’interpretazione è poggiata su un fondamento: si potrebbe addirittura pensare e spiegare anche per altri racconti che ciò può pure avvenire, perché se il racconto viene fatto da uno, costui non racconta tutto in maniera così completa da non dover poi ampliare qualcosa; se sono due a raccontare, questo ampliamento potrebbe moltiplicarsi, anche se qui non si sarebbe dovuti arrivare a questo, perché questi racconti sarebbero, ad ogni buon conto, racconti ispirati.
Già a partire da questo presupposto si potrebbe dire: per quel che riguarda i racconti evangelici non si può urgere al massimo ciò che si può addurre per altri. Ma se si dovesse attuare ciò in modo globale, allora si arriverebbe di conseguenza ad affermare che non ci sono racconti ispirati, ma racconti per i quali, così come sempre essi vengono enunciati, non può essere fatto un qualche uso letterale dell’ispirazione, perché sarebbe un controsenso. .
Perciò abbiamo qui da fare la stessa osservazione nei confronti del racconto della resurrezione e dobbiamo affrontare il problema nella medesima maniera. Va poi tenuta presente anche la solita differenza tra il Vangelo di Giovanni e gli altri tre Evangeli e qui non posso fare altra osservazione che questa: che il Vangelo di Giovanni è la relazione di un testimone oculare, scritta di getto. I primi tre Evangeli sono una raccolta di parecchi racconti sorti singolarmente. Se si confrontano i singoli momenti, nei diversi Vangeli, si trovano chiaramente differenze che sono vere enantiofonie e quindi vere contraddizioni, che non si possono risolvere in modo reale, ma solo in modo ipotetico.
Ma queste emergono soprattutto lì dove si raccontano da parte di testimoni oculari particolarità che vengono riprese poi da altri, lì dove uno riempie la penuria del racconto con congetture proprie o di altri, così che si può certo estrapolare il fatto dal racconto, ma insieme si possono trovare le loro incongruenze a partire dalle loro fonti, attraverso congetture e ricerche critiche. Ciò si ripete in tutti i casi simili. E ciò non avviene in alcun modo soltanto per qualche singola data, ma anche per le idee generali che stanno sullo sfondo, per cui appare giusto che ce le poniamo davanti e che si chiarifichino. .
Matteo inserisce questa parte in un unico capitolo, di cui di nuovo il racconto dell’inizio comprende la metà dell’intero. Il filo conduttore sta in questo: Cristo appare alle donne e dice loro che devono invitare i discepoli in Galilea, dove essi avrebbero potuto vederlo; poi viene inserito il racconto delle guardie e il tutto si conclude con un: se ne andarono tutti in Galilea. Che gli apostoli abbiano visto molte volte Cristo in Gerusalemme, l’evangelista non lo riferisce, così come viene trascurato anche ciò che ci raccontano Luca e Giovanni, cosicché dobbiamo dire di nuovo: non è possibile che questa redazione provenga da uno dei dodici apostoli, se non c’è in essa la volontà di sconfessare apertamente le altre falsità; allora vuol dire che necessariamente dobbiamo ricondurre questo racconto ad un’altra fonte diversa da quella apostolica. Se si vuoi capire, fin dal primo momento, come è annunciata la resurrezione, come Cristo compare alle donne, la tendenza del racconto è unilaterale e mira, da una parte, a far capire l’incredulità dei giudei e il fatto di trattare tutto come una favola da parte dei sommi sacerdoti e, dall’altra, a far capire il fatto dell’annuncio degli apostoli secondo il comando che Cristo aveva loro dato.
Storicamente la cosa non si può affrontare, poiché non si racconta affatto dove il Cristo sia andato.

(L’autore) I filosofi e Cristo – autore: Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher

L’AMICIZIA

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L’AMICIZIA

(dal sito Don Bosco, Torino)

L’amicizia è spesso considerata una forma limitata di amore, un sentimento molto più debole, meno impegnativo. È certamente meno celebrata e cantata rispetto all’amore, ma nella vita di ogni persona si rivela come una dimensione indispensabile. Forse proprio nei momenti di crisi si riflette sul suo valore, quando ci si chiede: quale senso avrebbe la mia vita senza i miei amici?
L’amicizia è spesso considerata una forma limitata di amore, un sentimento molto più debole, meno impegnativo. È certamente meno celebrata e cantata rispetto all’amore, ma nella vita di ogni persona si rivela come una dimensione indispensabile. Forse proprio nei momenti di crisi si riflette sul suo valore, quando ci si chiede: quale senso avrebbe la mia vita senza i miei amici? A partire dal volume L’avventura dell’amicizia (1), ci soffermeremo a riflettere sull’amicizia intesa come «avventura esistenziale», per considerare le molte dimensioni «di luce e di sapore» che questa virtù occupa nella vita di ogni persona.

L’amicizia come virtù
Alcuni filosofi contemporanei si sono chiesti se l’ideale di amicizia descritto dai classici come splendido, carico di affetto e di altruismo, sia ancora valido oggi come nel passato. Sappiamo che il mondo greco riteneva la philia l’elemento che consentiva qualsiasi relazione sociale, chiamata da Aristotele koinonia, intesa come comunione e condivisione. Ma quando questo «mettere in comune» si fonda su un calcolo utilitario, possiamo parlare di amicizia? Aristotele, Cicerone e altri scrittori dell’antichità sostengono che il vero amico non desidera mai fare qualche cosa che non sia in sé morale, nobile e virtuosa. L’antica idea aristotelica dell’amicizia è che gli amici facciano emergere l’uno il meglio dell’altro.
In tale prospettiva l’amicizia non può essere questione di calcolo né si limita ad essere solamente una forma di affetto o di passione, «ma è una virtù, cioè una disposizione stabile, dunque legata alla durata e alla fedeltà» (p. 7). Per questo, con ragione, l’amicizia va intesa come un’avventura; si tratta di un cammino, di una storia di incontri, in cui l’esperienza sempre nuova ci fa scoprire la gioia di ritrovarsi, il piacere di stare insieme gratuitamente, la facilità di comunicare reciprocamente in piena libertà, in un’atmosfera di essenzialità che alla presenza dell’altro ci fa dire «stiamo bene insieme».
Gli amici possono avere la stessa formazione o gli stessi interessi, ma, al più alto livello, l’amicizia riguarda la formazione e l’elevazione di un buon carattere: un’amicizia che porti corruzione o altre intenzioni malvagie non è, ipso facto, vera amicizia (2). I fini non buoni sono un impedimento alla costruzione di una vera amicizia. Gli amici, nel senso aristotelico, si offrono reciproci benefici; per dirlo con le parole di Aristotele: «È proprio dell’amico piuttosto fare il bene che riceverlo, [...] è proprio dell’uomo buono e della virtù il beneficare». Infatti, una delle ragioni per avere amici, secondo Aristotele, era avere persone a cui fare del bene. Per questa ragione persino gli uomini perfettamente felici hanno bisogno di amici, poiché senza di loro sono incompleti. Per questo egli definisce l’amicizia come «cosa necessarissima per la vita. Infatti nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, anche se avesse tutti gli altri beni» (Etica Nicomachea, libro VIII, cap. I).
In una vera amicizia, dunque, la questione di vivere egoisticamente o altruisticamente non entra in gioco, ma si dissolve nel volere il bene dell’altro, nella capacità di realizzare quel «prodigio di camminare ciascuno al proprio passo pur andando allo stesso ritmo». Non ci si schiaccia e non ci si riduce a stare uno davanti all’altro ma, come sottolinea X. Lacroix, «lo sguardo si volge a un orizzonte che è insieme comune e liberamente visitato da ognuno».
Anche la cultura mediorientale ha descritto questa realtà negli stessi termini. Kahlil Gibran descrive l’amico con queste parole: «Il vostro amico è la vostra esigenza soddisfatta […], è lui che ricercate per la vostra pace […]. Quando egli tace, il vostro cuore non smetta di ascoltare il suo cuore. Poiché nell’amicizia, pensieri, desideri, attese, tutto nasce ed è condiviso senza parole, con una gioia priva di plauso. Se vi separate dall’amico non rattristatevi; poiché ciò che maggiormente amate in lui può meglio risplendere nell’assenza […]. E sia per l’amico la parte migliore di voi […]. Poiché nella rugiada delle piccole cose il cuore scopre il suo mattino e ne è ristorato» (3).
È infatti dalle piccole cose che l’amicizia si mostra senza bisogno di dimostrarsi. L’amico, scrive Alberoni, «è colui che ci rende giustizia» (p. 10), senza essere però tribunale e giudice delle nostre azioni. Due amici possono avere cammini molto diversi fino a evolvere in direzioni religiose o politiche diverse, ma la forza sta nell’«accogliere tali cambiamenti come un’occasione […]. L’amico non è soltanto colui che mi arricchisce, può essere anche colui che mi interroga, mi critica, mi rende più povero. Potrà essere che viene a ricordarmi che il mio itinerario non è l’unico possibile e che, proprio a partire da ciò che ci unisce, sono possibili altre scelte spirituali, intellettuali o esistenziali» (p. 17). Ciò che trasforma sono esattamente le caratteristiche intrinseche dell’amicizia: la fedeltà, l’accoglienza, la parità, la benevolenza e la gratuità (4). Ne esiste un’altra: l’amicizia ha bisogno della presenza che va al di là di qualsiasi parola.

La differenza tra amore e amicizia
Una prima differenza tra amore e amicizia risiede nella genesi dell’incontro: «Nell’amore c’è il colpo di fulmine, che nell’amicizia è assente» (p. 20). I gesti dell’amicizia, come un sorriso, una mano sulla spalla, un bacio, da una parte dicono l’incarnazione di una realtà che si vive, dall’altra acquistano significato soltanto se c’è la volontà di non possedere l’altro. Infatti «l’amicizia si accontenta, anzi si rallegra, dell’apparire dell’amico; l’amore invece aspira ad assaporarne la sostanza, il palpito sensibile della sua vita […]. [Se] l’altro è nel contempo altro da me stesso, e mio simile, anche se differente da me, l’amicizia sarà esperienza di similitudine nell’alterità, mentre l’amore sarà avventura della differenza in tensione verso l’unità» (p. 22). Ecco la differenza tra vivere in comunione con l’amico e l’unione con un partner. Nell’amicizia, afferma A. Cugno, «vi è un funzionamento della sessualità del tutto specifico, che si può chiamare molto semplicemente castità» (cfr p. 24). Le amicizie dunque non si possiedono; quando tendono a diventare esclusive potrebbero essere l’anticamera dell’amore, che come caratteristica propria ha quella dell’esclusività. Invece l’amicizia, per quanto profonda, lascia sempre spazio ad altre amicizie, dalle quali può anche trarne arricchimento.
X. Lacroix, distingue tre diverse forme di amicizia: per simpatia, per angoscia e amicizia fraterna. La prima si fonda su un dono autentico dato da una «disposizione spirituale di uno verso l’altro» che fa esclamare: «Perché era lui, perché ero io» (p. 132). L’amicizia per angoscia coinvolge coloro che hanno condiviso una forma di solidarietà forte, come, ad esempio, i compagni di prigionia. L’amicizia fraterna si caratterizza per essere cresciuti insieme all’amico o quando un fratello sia anche un amico.
Anche le dimensioni spazio-temporali sono quasi opposte tra l’amicizia e l’amore. F. Alberoni definisce l’amicizia un «aggregato di frammenti». Quando, ad esempio, si incontra un amico che è stato un compagno di scuola, l’esclamazione «da quanto tempo non ci si vede» assume un significato particolare che vince il tempo: «Tra amici è espressione di gioia, serena e gratificante, mentre tra amanti rappresenta piuttosto una lamentela, l’espressione di una fatica, quando non è un rimprovero» (p. 31); anche per questa sua caratteristica l’amicizia, alla fine, si mostra «più stabile di tanti amori».
L’amicizia fa soffrire meno dell’amore. Nella sua analisi X. Lacroix pone l’accento su un elemento antropologico che può confondere: «A volte si confonde l’amicizia con l’amore (amicizia erotizzata), dall’altro si tende a concepire l’amore sul modello dell’amicizia», e aggiunge: «Il termine “compagno” che attualmente ricorre spesso al posto di sposo o di coniuge non conviene forse all’amico?» (p. 36). Per uscire dall’ambiguità, X. Lacroix ricorda che è proprio degli amori stabili la capacità di permettere di vivere amicizie limpide, come del resto è proprio delle vere e profonde amicizie aiutare le storie d’amore ad aprirsi e a dare respiro. Ma l’amicizia permette anche all’amore di purificarsi: «Quel fuoco oscuro delle passioni viene in un certo senso purificato dall’amicizia, che lo sublima e lo spiritualizza» (p. 117). Le domande che l’amicizia fa sorgere con forza, sono domande ultime, sono domande morali: per chi viviamo? Per chi siamo al mondo: per noi o per gli altri?
Per vivere serenamente l’avventura dell’amicizia bisogna avere fiducia in se stessi; questo non significa amarsi per volere solamente il bene dell’altro, ma, come direbbe Nicolas Malebranche, chiede di «smetterla di amarsi male» (cfr p. 114). Nel suo articolo, Jean Lacroix parla dell’amicizia come «ricerca in comune della verità» (p. 110), che è scoperta dell’altro in quanto altro, e aiuto reciproco a comprendere la propria vocazione nella vita, perché «il tu che l’amicizia scopre non può essere raggiunto che nella sua relazione con il tu assoluto, cioè con Dio» (p. 112). L’amicizia è dunque un appello all’altro, perché diventi nella verità colui che è chiamato ad essere. Nella sua analisi, Péguy ricorda che, malgrado il male, l’odio, le menzogne e le infedeltà, «l’esperienza dell’amicizia non è soltanto ciò che mi permette di evitare la disperazione, ma [ciò] che mi permette di avere una fiducia invincibile nell’uomo» (p. 116).

L’amicizia nella Bibbia e la teologia
Nella Bibbia si raccontano storie di amicizia, come quella tra Gionata e David o tra Rut e Noemi. Quest’ultima ci ha regalato versetti di straordinaria commozione: «Perché dove andrai tu andrò anch’io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò anch’io e vi sarò sepolta. Il Signore mi punisca come vuole, se altra cosa che la morte mi separerà da te» (Rt 1,16-18). Grazie a tale insistenza Noemi comprese quale dono fosse Rut per la sua vita, così partirono insieme per il loro viaggio. Più in generale, queste parole pronunciate da un’amica per un’amica sono oggi una provocazione per quanti vogliono misurare il loro grado di fedeltà verso i propri amici.
Ma l’Antico Testamento invita anche a stare in guardia per discernere se davvero il vero amico è colui che «ama in ogni circostanza; [ed] è un fratello nell’avversità» (Prv 17,17). Il libro del Siracide dedica all’amicizia una sua parte, il cap. 6, e afferma: «Prima di farti un amico, mettilo alla prova, non confidarti subito con lui. C’è chi è amico quando gli è comodo, ma non resiste nel giorno della tua sventura. C’è anche l’amico che si cambia in nemico e scoprirà a tuo disonore i vostri litigi. C’è l’amico compagno a tavola, ma non resiste nel giorno della tua sventura. Nella tua fortuna sarà come un altro te stesso […] ma se sarai umiliato, si ergerà contro di te e dalla tua presenza si nasconderà» (Sir 6, 7-12). La parte sull’amicizia si conclude con parole di alto valore sapienziale: «Un amico fedele è una protezione potente, chi lo trova, trova un tesoro. Per un amico fedele non c’è prezzo, non c’è peso per il suo valore» (Sir 6,14-15).
C’è chi sostiene che il Nuovo Testamento non dia spazio a storie di amicizie. Invece nel Vangelo di Giovanni troviamo le parole con cui Gesù definisce, in termini di amicizia, il suo rapporto con i discepoli: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto quello ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere anche a voi» (Gv 15,15). Dio chiama l’uomo: amico. Secondo il testo, si tratta di un’amicizia offerta come dono al discepolo, che, nella sua libertà, è chiamato ad accettarla e a viverla. L’icona di Giovanni che durante l’Ultima Cena appoggia il volto sul cuore di Gesù è un singolare momento di amicizia rimasto a lungo nella memoria della Chiesa primitiva. In proposito Jean Galot ha affermato che «l’amicizia per Giovanni appare profondamente incarnata. […]. Stringendo un’amicizia con il discepolo, [il Signore] mostra che né per l’uno né per l’altro vi è infrazione al dono totale di sé. Non solo quell’amicizia non può nuocere alla consacrazione, ma è in armonia con essa» (5). Così Cristo è stato amico di Marta e Maria e del loro fratello Lazzaro a tal punto che davanti alla sua morte, dirà sant’Ireneo, Gesù pianse come uomo e amico e lo resuscitò come Dio. Davanti a queste scene evangeliche, «il sacro deve d’ora in poi liberarsi da una corteccia troppo fredda e troppo ieratica per entrare nel calore dell’amicizia, perché la comunicazione con la vita divina ha come sorgente l’Amico» (6). Comprendere la dimensione sacra del rapporto con Dio, che nel volume in esame è spiegata dai domenicani Jean-Marie Gueullette e da Luc Devillers, non può che includere il senso della consacrazione vissuta come un’amicizia che unisce a Cristo e che da lui si irradia agli altri.

L’amicizia spirituale
«L’amicizia con l’altro è un’epifania dell’amicizia con Dio», ha scritto Thomas Merton. A questo riguardo, la parte finale del volume riporta il pensiero di Aelredo di Rievaulx, monaco cistercense del XIII secolo, che nel suo testo L’amicizia spirituale afferma: «Un amico che prega Cristo per conto dell’amico, e desidera essere esaudito da Cristo per amore dell’amico, finisce per dirigere su Cristo il suo amore e il suo desiderio […]. In questo modo da quell’amore santo con cui si abbraccia il proprio amico, si sale a quello con cui si abbraccia Cristo: si afferma così, nella letizia spirituale, nell’attesa di una pienezza che si realizzerà nel tempo a venire» (p. 137). La stessa idea è stata ripresa alcuni secoli più tardi da Francesco di Sales: «Parlo dell’amicizia spirituale per cui due o tre anime si comunicano la loro devozione e i loro affetti spirituali, fino a formare un solo corpo» (p. 159 s). In Cristo i conflitti e le ferite, le contraddizioni e le crisi che nel tempo un’amicizia può subire, non la distruggeranno in forza dell’aver sperimentato il dono che noi chiamiamo perdono.
Il volume si chiude con l’articolo di Roger Schutz, fondatore della comunità di Taizé. Egli ritiene che «bisogna conoscere la solitudine con se stessi per cogliere i valori di certi incontri», che di per sé possono anche essere limitati nel tempo, ma «segnare tutta un’esistenza» (p. 167). Nel suo diario, dichiarava: «Un fratello mi scrive: In questi tempi in cui Dio ci mette alla prova per osservare il nostro grado di amicizia con lui, le amicizie che viviamo con gli uomini e con i nostri fratelli assumono una dimensione di eternità» (p. 168). Perciò una delle grandi sfide è saper guardare le amicizie con gli occhi della fede, che disvelano un senso profondo su di sé e la realtà storica che si vive. In fondo tutto è da ricondurre alla sete di relazioni che gli uomini hanno: R. Schutz si chiede se alla radice di questa intuizione esistenziale non vi sia «una comunione altra, più essenziale, da raggiungere con Cristo» (p. 169).
* * *

Al di là di molte variazioni sul tema che vanno dall’idealizzazione all’elogio enfatico dell’amicizia, abbiamo voluto, attraverso l’analisi di questo volume divulgativo del tema, che si presenta come un utile strumento pastorale, e delle fonti citate in nota, ribadire che l’amicizia, intesa come valore morale, è quel cammino che vuol condurre a dire all’amico: «In me tu non morirai!».
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(1)Cfr R. Comte – J. Lacroix – R. Schutz et Al., L’avventura dell’amicizia, Magnano (Bi), Qiqajon, 2007, 184, € 12,50.
(2) Cfr J. Epstein, Amicizia, Bologna, il Mulino, 2008, 102.
(3) K. Gibran, Il profeta, Roma, Newton, 1993, 78.
(4) Cfr S. De Guidi, «Amicizia», in Nuovo Dizionario di teologia morale, Cinisello Balsamo (Mi), Ed. Paoline, 1990, 17-35.
(5) J. Galot, «L’amicizia, valore evangelico», in Civ. Catt. 1977 III 120 s.
(6) Ivi, 121.

© La Civiltà Cattolica 2009

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DAVID AND MUSICIANS

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Publié dans:immagini sacre |on 10 juin, 2015 |Pas de commentaires »

SALMO 103 (102) – IL MAGNIFICAT DI UN PECCATORE PERDONATO

http://www.padresalvatore.altervista.org/Salmo103.htm

SALMO 103 (102) – IL MAGNIFICAT DI UN PECCATORE PERDONATO

Benedici il Signore, anima mia,
quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tanti suoi benefici.

Egli perdona tutte le tue colpe,
guarisce tutte le tue malattie;
salva dalla fossa la tua vita,
ti corona di grazia e di misericordia;
egli sazia di beni i tuoi giorni
e tu rinnovi come aquila la tua giovinezza.

Il Signore agisce con giustizia
e con diritto verso tutti gli oppressi.
Ha rivelato a Mosè le sue vie,
ai figli d’Israele le sue opere.

Buono e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Egli non continua a contestare
e non conserva per sempre il suo sdegno.
Non ci tratta secondo i nostri peccati,
non ci ripaga secondo le nostre colpe.

Come il cielo è alto sulla terra,
così è grande la sua misericordia su quanti lo temono;
come dista l’oriente dall’occidente,
così allontana da noi le nostre colpe.
Come un padre ha pietà dei suoi figli,
così il Signore ha pietà di quanti lo temono.

Perché egli sa di che siamo plasmati,
ricorda che noi siamo polvere.
Come l’erba sono i giorni dell’uomo,
come il fiore del campo, così egli fiorisce.
Lo investe il vento e più non esiste
e il suo posto non lo riconosce.

Ma la grazia del Signore è da sempre,
dura in eterno per quanti lo temono;
la sua giustizia per i figli dei figli,
per quanti custodiscono la sua alleanza
e ricordano di osservare i suoi precetti.
Il Signore ha stabilito nel cielo il suo trono
e il suo regno abbraccia l’universo.

Benedite il Signore, voi tutti suoi angeli,
potenti esecutori dei suoi comandi,
pronti alla voce della sua parola.
Benedite il Signore, voi tutte, sue schiere,
suoi ministri, che fate il suo volere.
Benedite il Signore, voi tutte opere sue,
in ogni luogo del suo dominio.
Benedici il Signore, anima mia.

Il Sal 103 (102) è un inno di benedizione di un peccatore che ha fatto l’esperienza del perdono.
Nella liturgia ebraica, il Sal 103 è utilizzato per la festa del Kippur, il giorno, appunto dell’espiazione e del perdono.
Nella liturgia monastica lo cantiamo ai vespri del mercoledì, impostati, anch’essi, sulla tematica del perdono.
La benedizione del peccatore che ha fatto esperienza della misericordia di Dio, abbraccia, a mo’ d’inclusione, tutto il Salmo:
parte dall’intimo del singolo fedele, che si sente gratuitamente perdonato (vv. 1-2),
fino a coinvolgere Angeli e creature, in una lode veramente cosmica (vv. 20-22).

Ed ecco la “sintesi dei benefici per i quali Dio va ringraziato:
perdona i nostri peccati per mezzo della propiziazione che è il Cristo (v. 3);
ti libera dalla morte dando per la tua morte il sangue del Figlio suo (v. 4a);
ti corona della grazia d’adozione (v. 4b).
ti dona la speranza della risurrezione col pegno dello Spirito (v. 5b).
Tutto questo sono i doni dello Sposo (Cristo) alla Sposa (Chiesa), e questa non porta che la propria fede” (EUSEBIO).
Dio non si limita a togliere il peccato al suo fedele, ma si fa Go ‘el di colui che ha salvato.
Il Go ‘el, nella Bibbia, è colui che ha il dovere e il diritto di riscatto, verso un Israelita caduto in disgrazia. Questo diritto dovere spetta prioritariamente al parente più prossimo; di conseguenza, Dio, in questo suo intervenire a favore del peccatore, è “come un padre” (v. 13), in tutti i sensi. Perciò non c’è malattia (v. 3), non c’è disfacimento d’età (v. 5b), che non siano sanate da questo Padre pietoso. Tutto ciò non è in contraddizione con la sua giustizia, anzi! “Proprio perché Egli è giusto, è anche compassionevole…conosce, infatti, la nostra debolezza…”, scriveva santa Teresa di Gesù Bambino nella Lettera 226, rifacendosi proprio al versetto 14 di questo salmo.
Dio sa sempre scusarci e perdonarci, come farà Gesù, suo Figlio, dalla Croce nei confronti dei suoi uccisori (Lc 23,34).
L’attualizzazione della misericordia paterna di Dio, di cui parla il Sal 103, la troviamo espressa in modo irraggiungibile nella parabola del Padre misericordioso, conosciuta come del figlio prodigo (Lc 15,11-32).
Nel v. 8, l’espressione: “Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore”, rivela la più alta esperienza di Dio. Il perdonato percepisce il Signore nella identità più intima, quella che Dio stesso rivelò a Mosè, sul Sinai, dopo il peccato del vitello d’oro (Es 34,6). Allora, come adesso, possiamo dire, con il preconio pasquale: “Felice colpa, che ci hai fatto incontrare un tale Redentore!”. Dio perdonando si manifesta quale Egli è: Amore viscerale, fedele, materno.
Così la storia di un individuo che riceve il perdono, si inserisce nella Storia della salvezza, che ha riguardato, Mosè ed Israele (v.7), Cristo e tutte le Nazioni.
Pregando questo Salmo, possiamo percepire tutta la verità delle affermazioni di santa CATERINA da SIENA: “L’affronto più crudele che si possa fare a Dio, è quello di pensare che il delitto della creatura sia più grande della bontà del Creatore”.
È stato questo, in definitiva, il vero peccato di Giuda: credere che il suo tradimento non potesse essere perdonato dal Maestro, che moriva anche per lui.
Mi piace citare un’attualizzazione di EUSEBIO, che prende sul serio l’equiparazione della vita monastica alla vita angelica. Commentando il v. 20a: “Benedite il Signore, voi tutti suoi angeli”, egli scrive:
“All’inizio lo Spirito divino invitava l’anima umana a benedire Dio. Ora, dopo aver parlato delle dimore celesti destinate ai fedeli, passa con molta naturalezza agli spiriti celesti, perché questi fanno festa per ogni peccatore che si pente (Lc 15,7.10). O anima mia, sei ben poca cosa tu per benedire il Signore, mentre questi spiriti potenti… E quelli che conducono sulla terra la vita degli angeli (cioè i monaci) han più possibilità ancora che altri di lodare Dio. Quando ci si pensa, si sarebbe tentati di dire: Lasciamo ai migliori questa cura! Cediamo il posto a persone più degne! No, ciascuno al proprio posto loda Dio nella creazione: quelli che sono fatti a immagine di Dio come te, ed anche gli esseri inanimati lo celebrano con la loro bellezza. Questo concerto incita anche me a celebrare il Creatore”.

PAPA FRANCESCO – LA FAMIGLIA – 18. FAMIGLIA E MALATTIA

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PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 10 giugno 2015

LA FAMIGLIA – 18. FAMIGLIA E MALATTIA

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

continuiamo con le catechesi sulla famiglia, e in questa catechesi vorrei toccare un aspetto molto comune nella vita delle nostre famiglie, quello della malattia. E’ un’esperienza della nostra fragilità, che viviamo per lo più in famiglia, fin da bambini, e poi soprattutto da anziani, quando arrivano gli acciacchi. Nell’ambito dei legami familiari, la malattia delle persone cui vogliamo bene è patita con un “di più” di sofferenza e di angoscia. E’ l’amore che ci fa sentire questo “di più”. Tante volte per un padre e una madre, è più difficile sopportare il male di un figlio, di una figlia, che non il proprio. La famiglia, possiamo dire, è stata da sempre l’“ospedale” più vicino. Ancora oggi, in tante parti del mondo, l’ospedale è un privilegio per pochi, e spesso è lontano. Sono la mamma, il papà, i fratelli, le sorelle, le nonne che garantiscono le cure e aiutano a guarire.
Nei Vangeli, molte pagine raccontano gli incontri di Gesù con i malati e il suo impegno a guarirli. Egli si presenta pubblicamente come uno che lotta contro la malattia e che è venuto per guarire l’uomo da ogni male: il male dello spirito e il male del corpo. E’ davvero commovente la scena evangelica appena accennata dal Vangelo di Marco. Dice cosi: «Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati» (1,29). Se penso alle grandi città contemporanee, mi chiedo dove sono le porte davanti a cui portare i malati sperando che vengano guariti! Gesù non si è mai sottratto alla loro cura. Non è mai passato oltre, non ha mai voltato la faccia da un’altra parte. E quando un padre o una madre, oppure anche semplicemente persone amiche gli portavano davanti un malato perché lo toccasse e lo guarisse, non metteva tempo in mezzo; la guarigione veniva prima della legge, anche di quella così sacra come il riposo del sabato (cfr Mc 3,1-6). I dottori della legge rimproveravano Gesù perché guariva il sabato, faceva il bene il sabato. Ma l’amore di Gesù era dare la salute, fare il bene: e questo va sempre al primo posto!
Gesù manda i discepoli a compiere la sua stessa opera e dona loro il potere di guarire, ossia di avvicinarsi ai malati e di prendersene cura fino in fondo (cfr Mt 10,1). Dobbiamo tener bene a mente quel che disse ai discepoli nell’episodio del cieco nato (Gv 9,1-5). I discepoli – con il cieco lì davanti! – discutevano su chi avesse peccato, perché era nato cieco, lui o i suoi genitori, per provocare la sua cecità. Il Signore disse chiaramente: né lui, né i suoi genitori; è così perché si manifestino in lui le opere di Dio. E lo guarì. Ecco la gloria di Dio! Ecco il compito della Chiesa! Aiutare i malati, non perdersi in chiacchiere, aiutare sempre, consolare, sollevare, essere vicino ai malati; è questo il compito.
La Chiesa invita alla preghiera continua per i propri cari colpiti dal male. La preghiera per i malati non deve mai mancare. Anzi dobbiamo pregare di più, sia personalmente sia in comunità. Pensiamo all’episodio evangelico della donna Cananea (cfr Mt 15,21-28). E’ una donna pagana, non è del popolo di Israele, ma una pagana che supplica Gesù di guarire la figlia. Gesù, per mettere alla prova la sua fede, dapprima risponde duramente: “Non posso, devo pensare prima alle pecore di Israele”. La donna non recede – una mamma, quando chiede aiuto per la sua creatura, non cede mai; tutti sappiamo che le mamme lottano per i figli – e risponde: “Anche ai cagnolini, quando i padroni si sono sfamati, si dà qualcosa!”, come per dire: “Almeno trattami come una cagnolina!”. Allora Gesù le dice: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri» (v. 28).
Di fronte alla malattia, anche in famiglia sorgono difficoltà, a causa della debolezza umana. Ma, in genere, il tempo della malattia fa crescere la forza dei legami familiari. E penso a quanto è importante educare i figli fin da piccoli alla solidarietà nel tempo della malattia. Un’educazione che tiene al riparo dalla sensibilità per la malattia umana, inaridisce il cuore. E fa sì che i ragazzi siano “anestetizzati” verso la sofferenza altrui, incapaci di confrontarsi con la sofferenza e di vivere l’esperienza del limite. Quante volte noi vediamo arrivare a lavoro un uomo, una donna con una faccia stanca, con un atteggiamento stanco e quando gli si chiede “Che cosa succede?”, risponde: “ Ho dormito soltanto due ore perché a casa facciamo il turno per essere vicino al bimbo, alla bimba, al malato, al nonno, alla nonna”. E la giornata continua con il lavoro. Queste cose sono eroiche, sono l’eroicità delle famiglie! Quelle eroicità nascoste che si fanno con tenerezza e con coraggio quando in casa c’è qualcuno ammalato.
La debolezza e la sofferenza dei nostri affetti più cari e più sacri, possono essere, per i nostri figli e i nostri nipoti, una scuola di vita – è importante educare i figli, i nipoti a capire questa vicinanza nella malattia in famiglia – e lo diventano quando i momenti della malattia sono accompagnati dalla preghiera e dalla vicinanza affettuosa e premurosa dei familiari. La comunità cristiana sa bene che la famiglia, nella prova della malattia, non va lasciata sola. E dobbiamo dire grazie al Signore per quelle belle esperienze di fraternità ecclesiale che aiutano le famiglie ad attraversare il difficile momento del dolore e della sofferenza. Questa vicinanza cristiana, da famiglia a famiglia, è un vero tesoro per la parrocchia; un tesoro di sapienza, che aiuta le famiglie nei momenti difficili e fa capire il Regno di Dio meglio di tanti discorsi! Sono carezze di Dio.

Jesus on Cross, Notre Dame, Paris

Jesus on Cross, Notre Dame, Paris dans immagini sacre jesus-on-cross

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Publié dans:immagini sacre |on 9 juin, 2015 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO, MEDITAZIONE MATTUTINA: L’ULTIMA PAROLA

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PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

L’ULTIMA PAROLA

Martedì, 9 giugno 2015

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLV, n.129, 10/06/2015)

L’«identità cristiana» trova la sua forza nella testimonianza e non conosce ambiguità: per questo il cristianesimo non può essere «annacquato», non può nascondere il suo essere «scandaloso» e trasformato in una «bella idea» per chi ha sempre bisogno di «novità». E attenzione anche alla tentazione della mondanità, propria di chi «allarga la coscienza» così tanto da farci entrare dentro tutto. Lo ha affermato il Papa nella messa celebrata martedì mattina, 9 giugno, nella cappella della Casa Santa Marta, ricordando che «l’ultima parola di Dio si chiama “Gesù” e niente di più».
«La liturgia di oggi ci parla dell’identità cristiana» ha fatto notare Francesco, proponendo subito la questione centrale: «Qual è questa identità cristiana?». Riferendosi alla prima lettura odierna (2 Corinzi, 1, 18-22), il Papa ha ricordato che «Paolo comincia raccontando ai Corinzi le cose che hanno vissuto, alcune persecuzioni», e «la testimonianza che hanno dato di Gesù Cristo». E, in pratica, scrive loro: «Io mi vanto di questo — cioè io mi vanto della mia identità cristiana — che è andata così. E Dio è testimone che la nostra parola verso di voi è “sì”, cioè noi vi parliamo dell’identità nostra, quale sia».
«Per arrivare a questa identità cristiana — ha spiegato Francesco — nostro Padre, Dio, ci ha fatto fare un lungo cammino di storia, secoli e secoli, con figure allegoriche, con promesse, alleanze e così fino al momento della pienezza dei tempi, quando inviò suo Figlio nato da una donna». Si tratta, dunque, di «un lungo cammino». E, ha affermato il Papa, «anche noi dobbiamo fare nella nostra vita un lungo cammino, perché questa identità cristiana sia forte e dia testimonianza». Un cammino, ha precisato, «che possiamo definire dalla ambiguità alla vera identità».
Dunque, nella lettera ai Corinzi l’apostolo scrive che «la nostra parola verso di voi non è “sì” e “no”, ambigua». Infatti, aggiunge Paolo, «il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che abbiamo annunciato tra voi, non fu “sì” e “no”: in Lui vi fu il “sì”». Ecco, allora, ha detto il Pontefice che «la nostra identità è proprio nell’imitare, nel seguire questo Cristo Gesù, che è il “sì” di Dio verso di noi». E «questa è la nostra vita: andare tutti i giorni per rinforzare questa identità e darne testimonianza, passo passo, ma sempre verso il “sì”, non con ambiguità».
«È vero», ha poi riconosciuto il Pontefice, «c’è il peccato e il peccato ci fa cadere, ma noi abbiamo la forza del Signore per alzarci e andare avanti con la nostra identità». Ma, ha aggiunto, «io direi anche che il peccato è parte della nostra identità: siamo peccatori, ma peccatori con la fede in Gesù Cristo». Infatti «non è soltanto una fede di conoscenza» ma «è una fede che è un dono di Dio e che è entrata in noi da Dio». Così, ha spiegato il Papa, «è Dio stesso che ci conferma in Cristo. E ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo, ci ha dato la caparra, il pegno dello Spirito nei nostri cuori». Sì, ha ribadito Francesco, «è Dio che ci dà questo dono dell’identità» e «il problema è essere fedele a quest’identità cristiana e lasciare che lo Spirito Santo, che è proprio la garanzia, il pegno nel nostro cuore, ci porti avanti nella vita».
«Siamo persone che non andiamo dietro a una filosofia» ha affermato ancora il Pontefice perché «abbiamo un dono, che è la nostra identità: siamo unti, abbiamo impresso in noi il sigillo e abbiamo dentro di noi la garanzia, la garanzia dello Spirito». E «il Cielo incomincia qui, è un’identità bella che si fa vedere nella testimonianza». Per questo, ha aggiunto, «Gesù ci parla della testimonianza come il linguaggio della nostra identità cristiana» quando dice: «Voi siete il sale della terra, ma se il sale perde il sapore, con che cosa si renderà salato?». Il riferimento è al passo evangelico di Matteo proposto oggi dalla liturgia (5, 13-16).
Certo, ha proseguito il Papa, «l’identità cristiana, perché siamo peccatori, è anche tentata, viene tentata — le tentazioni vengono sempre — e può andare indietro, può indebolirsi e può perdersi». Ma come può avvenire questo? «Io penso — ha suggerito il Pontefice — che si può andare indietro per due strade principalmente».
La prima, ha spiegato, è «quella del passare dalla testimonianza alle idee» e cioè «annacquare la testimonianza». Come a dire: «Eh sì, sono cristiano, il cristianesimo è questo, una bella idea, io prego Dio». Ma «così dal Cristo concreto, perché l’identità cristiana è concreta — lo leggiamo nelle Beatitudini; questa concretezza è anche nel capitolo 25 di Matteo — passiamo a questa religione un po’ soft, sull’aria e sulla strada degli gnostici». Dietro, invece, «c’è lo scandalo: questa identità cristiana è scandalosa». Di conseguenza «la tentazione è dire “no, no”, senza scandalo; la croce è uno scandalo; che Dio si sia fatto uomo» è «un altro scandalo» e si lascia da parte; cerchiamo cioè Dio «con queste spiritualità cristiane un po’ eteree, ariose». Tanto che, ha affermato il Papa, «ci sono degli gnostici moderni e ti propongono questo, questo: no, l’ultima parola di Dio è Gesù Cristo, non ce n’è un’altra!».
«Su questa strada», ha proseguito Francesco, ci sono anche «quelli che sempre hanno bisogno di novità dell’identità cristiana: hanno dimenticato che sono stati scelti, unti, che hanno la garanzia dello Spirito, e cercano: “Ma dove sono i veggenti che ci dicono oggi la lettera che la Madonna ci manderà alle 4 del pomeriggio?”. Per esempio, no? E vivono di questo». Ma «questa non è identità cristiana. l’ultima parola di Dio si chiama “Gesù” e niente di più».
«Un’altra strada per andare indietro dall’identità cristiana è la mondanità», ha proseguito il Papa. E cioè «allargare tanto la coscienza che lì c’entra tutto: “Sì, noi siamo cristiani, ma questo sì…”, non solo moralmente, ma anche umanamente». Perché «la mondanità è umana, e così il sale perde il sapore». Ecco perché, ha spiegato il Papa, «vediamo comunità cristiane, anche cristiani, che si dicono cristiani, ma non possono e non sanno dare testimonianza di Gesù Cristo». E «così l’identità va indietro, indietro e si perde» ed è «questo nominalismo mondano che noi vediamo tutti i giorni».
«Nella storia di salvezza — ha detto il Francesco — Dio, con la sua pazienza di Padre, ci ha portato dall’ambiguità alla certezza, alla concretezza dell’incarnazione e la morte redentrice del suo Figlio: questa è la nostra identità». E «Paolo si vanta di questo: Gesù Cristo, fatto uomo; Dio, il Figlio di Dio, fatto uomo e morto per obbedienza». Sì, ha rimarcato il Pontefice, Paolo «si vanta di questo» e «questa è l’identità ed è lì la testimonianza». È «una grazia che dobbiamo chiedere al Signore: sempre ci dia questo regalo, questo dono di un’identità che non cerca di adattarsi alle cose che le farebbero perdere il sapore del sale».
Prima di continuare la celebrazione eucaristica, Francesco non ha mancato di sottolineare che è anch’essa «uno “scandalo”». Anzi, ha concluso: «Io mi permetto di dire “un doppio scandalo”». Primo, ha spiegato, «perché è lo “scandalo” della croce: Gesù che dà la sua vita per noi, il Figlio di Dio». E poi «lo “scandalo” che noi cristiani celebriamo la memoria della morte del Signore e sappiamo che qui si rinnova questa memoria». Così proprio la celebrazione eucaristica «è una testimonianza della nostra identità cristiana».

 

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