Archive pour juin, 2015

The Apostles Peter and Paul, detail of cupola fresco by Correggio

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Publié dans:immagini sacre |on 17 juin, 2015 |Pas de commentaires »

SOLITUDINE DA TRADIMENTO. MONS. GIANFRANCO RAVASI (2010)

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SOLITUDINE DA TRADIMENTO. MONS. GIANFRANCO RAVASI (2010)

«Pensi al Getsemani, signor pastore. Tutti i discepoli si erano addormentati. Non avevano capito nulla. Ma non era ancora il peggio. Quando il Cristo fu inchiodato alla croce e vi rimase, tormentato dalle sofferenze, esclamò: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Il Cristo fu preso da un grande dubbio nei momenti che precedettero la sua morte. Dovette essere quella la più crudele delle sue sofferenze. Voglio dire il silenzio di Dio».
A parlare così al protagonista, un pastore luterano di una comunità svedese, è un uomo semplice, il sagrestano. Eppure egli è di fronte all’uomo di Chiesa come un cristiano autentico, mentre il suo interlocutore sta piombando nel baratro dell’incredulità. La moglie amata gli è stata portata via da un male inesorabile e la sua fede si è disciolta come neve al sole. I parrocchiani sentono il tono falso dei suoi sermoni e, uno dopo l’altro, disertano il tempio che, così, si trasforma in un deserto. Quando il pastore avrà raggiunto il nadir infernale del suo ateismo, anche la chiesa sarà totalmente vuota come il suo cuore; eppure egli celebrerà lo stesso il culto in piena solitudine e forse questo atto sarà – più che un gesto estremo di desolazione – l’avvio della risurrezione.
Abbiamo evocato un intenso film che Ingmar Bergman, il regista-teologo agnostico svedese, girò nel 1962 coi suoi attori preferiti, Gunnar Björnstrand, Ingrid Thulin e Max von Sydow. L’abbiamo citato proprio per le parole di quel sagrestano e perché l’intera opera è una parabola della fede come itinerario su cui può addensarsi la cupa ombra della prova, un po’ come era accaduto a quel «padre della fede», che è Abramo, durante i tre giorni tenebrosi della sua ascesa lungo le pendici sassose del monte Moria per immolare il figlio Isacco, dono divino, a quel Dio incomprensibile, amato e crudele (Genesi 22). Ebbene anche Gesù, nell’autenticità della sua umanità, attraversa tutta la galleria oscura della sofferenza, consapevole che «il Figlio dell’uomo deve molto soffrire, essere respinto e poi essere ucciso» (Marco 8,31). È significativo notare come il racconto della sua Passione e Morte – registrato da tutti gli evangelisti – si trasformi in un vero e proprio campionario del dolore umano in tutte le sue tetre iridescenze.
Si parte dalla paura della morte, quando egli è sotto le fronde degli ulivi del Getsemani che stormiscono in quella notte drammatica: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice!», implora per due volte (Matteo 26, 39.42), e il calice nel linguaggio biblico è il simbolo del destino finale di un’esistenza. C’è la solitudine degli amici che sonnecchiano prima e poi fuggono, anzi, sono pronti a tradire (e non il solo Giuda, ma anche il capo dei discepoli, Pietro, che cede subito di fronte all’incalzare delle domande di una domestica o di un cittadino qualsiasi di Gerusalemme). Ma ad attendere Cristo c’è poi la “via dolorosa” vera e propria, “via crucis” del dolore fisico in tutta la sua gamma lacerante: dal sudore di sangue alle torture della guarnigione romana, fino all’insopportabile pena dell’esecuzione capitale per crocifissione, col suo macabro rituale agonico. Tuttavia, come suggeriva quel sagrestano svedese, non era ancora colma la coppa della desolazione. Alla fine, infatti, incombe il silenzio del Padre divino. Egli, come già aveva riconosciuto lo stesso Gesù durante il suo arresto nel Getsemani, non mette a disposizione del Figlio «più di dodici legioni di angeli» per salvarlo (Matteo 26, 53). Se il regno annunziato da Cristo – come egli ribadirà davanti al governatore romano Pilato – «fosse di questo mondo, i suoi servitori avrebbero combattuto per non consegnarlo ai Giudei» (Giovanni 18, 36).
Nessuno muove un dito, neppure il Padre celeste con l’efficacia della sua parola e Gesù s’inoltra lungo la via stretta dell’agonia e della morte. In quell’istante estremo egli è veramente fratello dell’umanità ed è sulla vetta del Golgota che si celebra l’atto supremo di ogni fede e fiducia in Dio, come canta David M. Turoldo: «No, credere a Pasqua non è / giusta fede: / troppo bello sei a Pasqua! / Fede vera / è al venerdì santo / quando Tu non c’eri / lassù /. Quando non una eco / risponde / al suo altro grido / e a stento il Nulla / dà forma / alla tua assenza». Nell’assenza muta di Dio, Cristo incontra quella che si potrebbe definire persino una “brutta morte”: «Gesù gridò a gran voce: Elì, Elì, lemà sabactàni? Che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?… Gridò di nuovo a gran voce ed emise lo spirito» (Matteo 27, 46.50). Commentava Giuseppe Berto nel suo particolare «vangelo secondo Giuda», La Gloria (1978): «Non c’è risposta. Allora con un urlo, rendi lo spirito. O Eterno, io grido a te da luoghi troppo profondi: Signore, non ascoltare la mia voce».
Alla fine ecco Gesù divenuto un cadavere manipolabile, sul quale può persino infierire la pattuglia romana incaricata della verifica dell’avvenuta esecuzione capitale e del relativo decesso: di solito essi applicavano una brutale forma di eutanasia, spezzando gli arti inferiori dei crocifissi così da accelerare il soffocamento per asfissia; su Gesù, palesemente morto, infieriscono trapassandogli con una lancia il cuore. In tutta questa sequenza di sofferenze e di morte la finalità fondamentale del racconto evangelico è quella di marcare il centro stesso della fede cristiana, ossia l’Incarnazione. Per usare la celebre espressione del prologo del Vangelo di Giovanni, il Verbo divino diventa veramente sarx, “carne”, cioè umanità fragile, caduca, limitata. Nel soffrire e morire del Figlio, Dio assume la nostra comune carta d’identità che a lui non appartiene: il dolore e la fine. Anzi, san Paolo andrà oltre ricordando non solo che «Cristo morì per i nostri peccati e fu sepolto» (1 Corinzi 15, 3-4), ma persino che «Dio lo fece peccato in nostro favore» (2 Corinzi 5,21). Se vogliamo ricorrere a un paradosso, Dio si fa non solo il non-Dio (morte), ma anche l’anti-Dio (peccato) per entrare veramente nella nostra realtà creaturale. Come annotava il teologo Dietrich Bonhoeffer il 16 luglio 1944 nel lager di Flossenburg, nelle pagine del suo diario Resistenza e resa: «Dio è impotente e debole nel mondo e così e soltanto così rimane con noi e ci aiuta. Cristo non ci aiuta in virtù della sua onnipotenza, ma in virtù della sua sofferenza».
È questo lo «scandalo della croce» proclamato da Paolo; è questa la kénosis, lo “svuotamento”, una sorta di grado zero a cui si vota Dio per incontrare veramente la sua creatura, come lo stesso Apostolo ribadirà nel famoso inno incastonato nel capitolo 2 della Lettera ai Filippesi. È per questo che una delle prime eresie, quella gnostica, cercherà di edulcorare e stemperare questo scandalo ricorrendo a una morte solo apparente di Cristo in croce, tesi ereditata dal Corano che introdurrà un sosia sul legno della crocifissione per evitare una simile umiliazione del Profeta Gesù. In realtà, è proprio qui l’originalità del cristianesimo che va ben oltre l’idea del Dio compassionevole che si china sulla sua creatura – necessariamente finita e caduca – dall’alto del cielo dorato della sua trascendenza per offrire qualche sollievo miracoloso. No, Dio scende e s’incarna, s’innerva Lui, infinito, nello spazio, Lui, eterno, nel tempo e nella finitudine, Lui, assoluto, nel relativo e nel contingente.
Ma proprio perché Cristo rimane sempre Dio – anche quando soffre, muore ed è sepolto come cadavere – in quella realtà umana e creaturale egli lascia l’impronta della sua divinità, vale a dire la trasforma e la trasfigura, deponendo in essa un seme di eternità, un germe di salvezza e redenzione. È proprio questo il senso della successiva risurrezione che non è una mera rianimazione di un corpo; è, invece, una vita piena e perfetta che si irradia da Cristo all’umanità intera. Il transito autentico di Dio nell’essere umano, il suo divenire uomo tra gli uomini, spalla a spalla con noi, incide una scia di luce nella creaturalità, nello stesso essere fisico e nella storia. Quella di Cristo è stata un’immersione e un’irruzione vera e totale nell’intero arco dell’esistere umano per fecondarlo e trasfigurarlo, redimendolo così dalla schiavitù della corruzione, della morte, del peccato. Di fronte a questa sorprendente concezione teologica si riesce a comprendere la reazione dell’ebreo Kafka che all’amico Gustav Janouch a proposito di Gesù di Nazaret dichiarava: «È un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi».
Abbiamo condotto una riflessione sulla cristologia, còlta nel suo nodo capitale, nel suo apice tematico. L’abbiamo fatto, prescindendo dall’accoglienza o meno che ogni nostro lettore può compiere, ma solo perché ciascuno cerchi di avere almeno un quadro generale della concezione che ha generato una vastissima porzione della nostra stessa civiltà occidentale, senza la quale – come affermava Thomas S. Eliot – è impossibile comprendere lo stesso Voltaire o Nietzsche (che considerava Gesù come l’unico vero cristiano, finito però in croce), ma anche il nostro stesso volto nella sua identità culturale o spirituale. Vorremmo adesso concludere con un breve excursus nella contemporaneità e nell’”attualità” attraverso un poco noto, ma suggestivo poemetto, Pasqua a New York, composto nel 1912 da Blaise Cendrars, poeta, narratore, sceneggiatore di film, reporter internazionale, nato nel 1887 in Svizzera da madre scozzese e da padre svizzero e morto a Parigi nel 1961.
Ecco alcuni versi da lui pronunziati davanti al Cristo crocifisso in una città “laica” come la metropoli americana, una città che non sembra conoscere il riscatto della sofferenza e della morte nella risurrezione: «È oggi, Signore, il giorno del tuo Nome, / ho letto in un vecchio libro le gesta della tua passione / e la tua angoscia e i tuoi travagli e le tue buone parole / Conosco tutti i Cristi appesi nei musei; / ma tu cammini, Signore, stasera accanto a me. / Il tuo costato aperto è come un grande sole, / le tue mani tutt’intorno palpitano di scintille / Fu a quest’ora, verso l’ora nona, / che cadde, Signore, sul petto la tua testa / Forse la fede mi manca, Signore, e la bontà / per vedere l’irradiarsi della tua Beltà…».
Uomo vagabondo, combattente della Prima guerra mondiale ove perse una mano (La mano mozza è il titolo di un suo romanzo), maestro dell’avanguardia, Cendrars si lascia per un momento conquistare da quel crocifisso, contemplato prima solo su vecchi libri o nei musei. E mentre passa per le vie distratte di New York, in mezzo a prostitute e affaristi, egli sente accanto a sé una presenza. È lui, quel Cristo dal costato aperto, che irradia luce dalle ferite dei chiodi delle mani. È lui che all’ora nona, cioè le tre pomeridiane, reclina il capo nel sonno della morte. «Signore» continua il poeta «sono nel quartiere dei ladri, dei vagabondi, dei pezzenti, dei ricettatori. / Penso ai due ladroni ch’erano con te suppliziati, / so che ti degni di sorridere a questi sventurati…». E la poesia prosegue in una miscela di dubbio e di fede, di ordinaria miseria metropolitana e di antica speranza cristiana: «Signore, la Banca illuminata è come una cassaforte / dove si è coagulato il Sangue della tua morte / Signore, rientro stanco, solo e molto triste. / La mia camera nuda è come una tomba. / Signore, sono troppo solo. Ho freddo. Ti invoco».

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PAPA FRANCESCO : LA FAMIGLIA – 19. LUTTO

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2015/documents/papa-francesco_20150617_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 17 giugno 2015

LA FAMIGLIA – 19. LUTTO

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel percorso di catechesi sulla famiglia, oggi prendiamo direttamente ispirazione dall’episodio narrato dall’evangelista Luca, che abbiamo appena ascoltato (cfr Lc 7,11-15). E’ una scena molto commovente, che ci mostra la compassione di Gesù per chi soffre – in questo caso una vedova che ha perso l’unico figlio – e ci mostra anche la potenza di Gesù sulla morte.
La morte è un’esperienza che riguarda tutte le famiglie, senza eccezione alcuna. Fa parte della vita; eppure, quando tocca gli affetti familiari, la morte non riesce mai ad apparirci naturale. Per i genitori, sopravvivere ai propri figli è qualcosa di particolarmente straziante, che contraddice la natura elementare dei rapporti che danno senso alla famiglia stessa. La perdita di un figlio o di una figlia è come se fermasse il tempo: si apre una voragine che inghiotte il passato e anche il futuro. La morte, che porta via il figlio piccolo o giovane, è uno schiaffo alle promesse, ai doni e sacrifici d’amore gioiosamente consegnati alla vita che abbiamo fatto nascere. Tante volte vengono a Messa a Santa Marta genitori con la foto di un figlio, di una figlia, bambino, ragazzo, ragazza, e mi dicono: “Se ne è andato, se ne è andata”. E lo sguardo è tanto addolorato. La morte tocca e quando è un figlio tocca profondamente. Tutta la famiglia rimane come paralizzata, ammutolita. E qualcosa di simile patisce anche il bambino che rimane solo, per la perdita di un genitore, o di entrambi. Quella domanda: “Ma dov’è il papà? Dov’è la mamma?” – Ma è in cielo” – “Ma perché non lo vedo?”. Questa domanda copre un’angoscia nel cuore del bambino che rimane solo. Il vuoto dell’abbandono che si apre dentro di lui è tanto più angosciante per il fatto che non ha neppure l’esperienza sufficiente per “dare un nome” a quello che è accaduto. “Quando torna il papà? Quando torna la mamma?”. Cosa rispondere quando il bambino soffre? Così è la morte in famiglia.
In questi casi la morte è come un buco nero che si apre nella vita delle famiglie e a cui non sappiamo dare alcuna spiegazione. E a volte si giunge persino a dare la colpa a Dio. Ma quanta gente – io li capisco – si arrabbia con Dio, bestemmia: “Perché mi hai tolto il figlio, la figlia? Ma Dio non c’è, Dio non esiste! Perché ha fatto questo?”. Tante volte abbiamo sentito questo. Ma questa rabbia è un po’ quello che viene dal cuore del dolore grande; la perdita di un figlio o di una figlia, del papà o della mamma, è un grande dolore. Questo accade continuamente nelle famiglie. In questi casi, ho detto, la morte è quasi come un buco. Ma la morte fisica ha dei “complici” che sono anche peggiori di lei, e che si chiamano odio, invidia, superbia, avarizia; insomma, il peccato del mondo che lavora per la morte e la rende ancora più dolorosa e ingiusta. Gli affetti familiari appaiono come le vittime predestinate e inermi di queste potenze ausiliarie della morte, che accompagnano la storia dell’uomo. Pensiamo all’assurda “normalità” con la quale, in certi momenti e in certi luoghi, gli eventi che aggiungono orrore alla morte sono provocati dall’odio e dall’indifferenza di altri esseri umani. Il Signore ci liberi dall’abituarci a questo!
Nel popolo di Dio, con la grazia della sua compassione donata in Gesù, tante famiglie dimostrano con i fatti che la morte non ha l’ultima parola: questo è un vero atto di fede. Tutte le volte che la famiglia nel lutto – anche terribile – trova la forza di custodire la fede e l’amore che ci uniscono a coloro che amiamo, essa impedisce già ora, alla morte, di prendersi tutto. Il buio della morte va affrontato con un più intenso lavoro di amore. “Dio mio, rischiara le mie tenebre!”, è l’invocazione della liturgia della sera. Nella luce della Risurrezione del Signore, che non abbandona nessuno di coloro che il Padre gli ha affidato, noi possiamo togliere alla morte il suo “pungiglione”, come diceva l’apostolo Paolo (1 Cor 15,55); possiamo impedirle di avvelenarci la vita, di rendere vani i nostri affetti, di farci cadere nel vuoto più buio.
In questa fede, possiamo consolarci l’un l’altro, sapendo che il Signore ha vinto la morte una volta per tutte. I nostri cari non sono scomparsi nel buio del nulla: la speranza ci assicura che essi sono nelle mani buone e forti di Dio. L’amore è più forte della morte. Per questo la strada è far crescere l’amore, renderlo più solido, e l’amore ci custodirà fino al giorno in cui ogni lacrima sarà asciugata, quando «non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno» (Ap 21,4). Se ci lasciamo sostenere da questa fede, l’esperienza del lutto può generare una più forte solidarietà dei legami famigliari, una nuova apertura al dolore delle altre famiglie, una nuova fraternità con le famiglie che nascono e rinascono nella speranza. Nascere e rinascere nella speranza, questo ci dà la fede. Ma io vorrei sottolineare l’ultima frase del Vangelo che oggi abbiamo sentito (cfr Lc 7,11-15). Dopo che Gesù riporta alla vita questo giovane, figlio della mamma che era vedova, dice il Vangelo: “Gesù lo restituì a sua madre”. E questa è la nostra speranza! Tutti i nostri cari che se ne sono andati, il Signore ce li restituirà e noi ci incontreremo insieme a loro. Questa speranza non delude! Ricordiamo bene questo gesto di Gesù: “E Gesù lo restituì a sua madre”, così farà il Signore con tutti i nostri cari nella famiglia!
Questa fede ci protegge dalla visione nichilista della morte, come pure dalle false consolazioni del mondo, così che la verità cristiana «non rischi di mischiarsi con mitologie di vario genere», cedendo ai riti della superstizione, antica o moderna» (Benedetto XVI, Angelus del 2 novembre 2008). Oggi è necessario che i Pastori e tutti i cristiani esprimano in modo più concreto il senso della fede nei confronti dell’esperienza famigliare del lutto. Non si deve negare il diritto al pianto – dobbiamo piangere nel lutto -, anche Gesù «scoppiò in pianto» e fu «profondamente turbato» per il grave lutto di una famiglia che amava (Gv 11,33-37). Possiamo piuttosto attingere dalla testimonianza semplice e forte di tante famiglie che hanno saputo cogliere, nel durissimo passaggio della morte, anche il sicuro passaggio del Signore, crocifisso e risorto, con la sua irrevocabile promessa di risurrezione dei morti. Il lavoro dell’amore di Dio è più forte del lavoro della morte. E’ di quell’amore, è proprio di quell’amore, che dobbiamo farci “complici” operosi, con la nostra fede! E ricordiamo quel gesto di Gesù: “E Gesù lo restituì a sua madre”, così farà con tutti i nostri cari e con noi quando ci incontreremo, quando la morte sarà definitivamente sconfitta in noi. Essa è sconfitta dalla croce di Gesù. Gesù ci restituirà in famiglia a tutti!

APPELLI

Domani, come sapete, sarà pubblicata l’Enciclica sulla cura della “casa comune” che è il creato. Questa nostra “casa” si sta rovinando e ciò danneggia tutti, specialmente i più poveri. Il mio è dunque un appello alla responsabilità, in base al compito che Dio ha dato all’essere umano nella creazione: “coltivare e custodire” il “giardino” in cui lo ha posto (cfr Gen 2,15). Invito tutti ad accogliere con animo aperto questo Documento, che si pone nella linea della dottrina sociale della Chiesa.

Sabato prossimo ricorre la Giornata Mondiale del Rifugiato, promossa dalle Nazioni Unite. Preghiamo per tanti fratelli e sorelle che cercano rifugio lontano dalla loro terra, che cercano una casa dove poter vivere senza timore, perché siano sempre rispettati nella loro dignità. Incoraggio l’opera di quanti portano loro un aiuto e auspico che la comunità internazionale agisca in maniera concorde ed efficace per prevenire le cause delle migrazioni forzate. E vi invito tutti a chiedere perdono per le persone e le istituzioni che chiudono la porta a questa gente che cerca una famiglia, che cerca di essere custodita.

Creation of the sun

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Publié dans:immagini sacre |on 16 juin, 2015 |Pas de commentaires »

EBRAISMO E CONCEZIONE SPAZIO-TEMPORALE DELL’ARTE

http://www.ucei.it/giornatadellacultura2003/arte/zevi.htm

EBRAISMO E CONCEZIONE SPAZIO-TEMPORALE DELL’ARTE

di BRUNO ZEVI

(Dal discorso inaugurale tenuto inoccasione del IX Congresso delle Comunità Israelitiche Italiane – 9 Giugno 1974)

[...] Si è detto che l’ebraismo è una concezione del tempo; che, mentre la divinità di altri popoli erano associate a luoghi e cose, il Dio d’Israele è il Dio degli eventi; che la vita ebraica, scandita sul Libro, è permeata di storia, cioè di una coscienza temporalizzata dei compiti umani.
[...] In realtà, il pensiero ebraico, dialogando nel corso dei secoli con gli indirizzi filosofici emergenti in molteplici e contraddittori contesti socio-culturali, ha respinto qualsiasi dogma e feticcio, compreso quello del tempo.
[...] Le nostre solennità sono segnate, in larga misura, dalle stagioni e dai ricordi. Nel sabato i religiosi individuano la santificazione del tempo, di Dio, dell’esistenza. « I sabati sono le nostre grandi cattedrali », afferma Heschel, e spiega: « Il rituale ebraico può essere qualificato come l’arte delle forme significate nel tempo, come « architettura del tempo »… L’essenza del sabato è assolutamente fuori dello spazio. Per sei giorni della settimana noi viviamo sotto la tirannia delle cose dello spazio, il sabato ci mette in sintonia con la santità del tempo ». « Dal mondo della creazione » passiamo « alla creazione del mondo ». Traducendo in termini di costume laico, noi privilegiamo la crescita e di divenire sull’essere, la formazione rispetto alla forma come entità conclusa.
[...] E’ logico che questa concezione del tempo, così sperimentata nel tempo contrassegna l’eresia. Gli ebrei sono ebrei in quanto respingono la staticità delle cose e delle idee, e credono nel mutamento e nel riscatto.
In arte, nel mondo antico, l’atteggiamento iconoclasta è un fatto eretico: non dipende soltanto dalla volontà di non immiserire un principio irrappresentabile nel suo contenuto, ma anche dal giudizio sull’inadeguatezza della forma rappresentativa. Le immagini del mondo antico, specie quelle egizie, sono statiche. L’ideale greco raffigura l’essere in senso assoluto, sovrastorico, atemporale, – non l’uomo nella dinamica del quotidiano, ma il tipo, anzi il prototipo umano. Quest’arte non era utilizzabile per comunicare il messaggio ebraico.
La tesi che sottopongo al vostro esame può essere riassunta in poche parole. L’ebraismo, in arte, si oppone a tre concezioni: a) al classicismo, b) all’illuminismo, c) al cubismo analitico.
No al classicismo, perché punta sull’ordine a priori.
No all’illuminismo, perché propugna idee universali, assolute e assolutistiche.
No al cubismo, perché astrae dalla materia, scompone sovrappone ed incastra le forme con un processo solo in apparenza dinamico, poiché non riguarda l’autofarsi della forma, ma il montaggio di forme.
L’ebraismo in arte punta invece sull’anticlassico, sulla destrutturazione espressionista della forma; rigetta i feticci ideologici della proporzione aurea, e celebra la relatività; smentisce le leggi autoritario del bello, ed opta per l’illegalità e la sregolatezza del vero.
[...] Ne consegue che, per l’ebraismo, l’arte non è catartica nel senso mitico ed evasivo. Anzi, come la scienza, avversa i miti di qualsiasi natura, trascendenti o immanenti. A livelli diversi, Einstein e Freud sono dissacratori di miti. Ma Schönberg non è da meno: dissacra l’ottava, formula la dodecafonia e poi relativizza anche questa. Nel campo letterario, Kafka; in quello visuale, Soutine o Mendelsohn – sostanzialmente, uno stesso impegno dissacratore e laico, antimitico, antidolatrico. L’idolo è il vitello d’oro, l’immane, interminabile, continuamente rinnovatesi serie di vitelli d’oro, di dogmi, di assiomi, di verità rivelate, di eroi marmorei e retorici, di fronte alla quale la storia ebraica è un plebiscito di NO reiterati con leggendario rigore, con incredibile tenacia critica e soprattutto autocritica: un sacerdozio del tempo e dello sviluppo, del comportamento, quotidiano, prosaico. « L’insegnamento dell’ebraismo », dice Heschel in un passo veramente memorabile, « consiste nella teologia dell’azione comune. La Bibbia sottolinea che l’interesse di Dio è per il vivere di ogni giorno, per le consuetudini della vita. La sfida non sta nell’organizzare grandi sistemi dimostrativi, ma nel mondo con cui gestiamo il luogo comune ». Per questo, il nostro santuario può essere una tenda sotto la volta celeste, un’arca « mobile » che segue il nostro itinerario: è un tempio che si chiama scuola perché vi si insegna la storia, e può essere la scuola peripatetica del nostro errare, in quanto la storia è nel Libro che è in noi.
Naturalmente, tra religione ed arte si avverte un distacco. Per un rabbi come Alexandre Safran, « il tempo ebraico è un tempo sabbatico » e l’ebreo « non deve contarlo come gli altri uomini. Lo computa in modo diverso, per non cadere, in conseguenza di un facile calcolo o di una mancanza di calcolo, nello sfrenato desiderio di vivere, o nell’angoscia della morte, o nella disinvoltura verso la quale spinge l’apatia dell’esistenza ». Per l’artista è un’altra cosa. La sua eresia è gremita di affanni esistenziali, il tempo è una condizione sfuggente e struggente, talora un appartenere al passato e al futuro senza riuscire ad ancorarsi nel presente. Il tempo, per l’artista, non è il tempo sabbatico, ma quello dell’angoscia, se non della morte, certo della vita. Per rabbi Simeone, « l’eternità era conquistata da coloro che barattano lo spazio con il tempo » e, « anziché riempire lo spazio con costruzioni, ponti e strade », capiscono che « la soluzione del problema più che nella geometria e nell’ingegneria », sta « nello studio e nella preghiera ». Per l’artista, è completamente diverso: non baratta lo spazio con il tempo, ma temporalizza lo spazio. Sotto questo profilo, l’artista è più ebreo del rabbi: somiglia a Dio che, dividendo il tempo della creazione in sette giorni, l’ha posta in « intimo rapporto con lo spazio ». Il vitello d’ora è ovunque: anche nel tempo in astratto. Ma l’artista, incerandolo nella esperienza spaziale, lo rende concreto ed umano.
[...] In Kafka, di cui cade quest’anno il cinquantenario della morte, esplode il contrasto tra il condizionamento spaziale dell’uomo e il tempo della sua anima alienata. La barriera è incolmabile, porta al mostruoso, all’assurdo, ad una negatività tanto più desolata in quanto l’ebreo non ne ha il gusto e il compiacimento romantico, non può rassegnarsi, antropologicamente ed intellettualmente, ad accettarla. Molti racconti di Kafka, come ricorderete, cominciano con un risveglio. Un risveglio da sogni inquieti, che non è presa di contatto con la realtà ma, all’inverso, incontro spaventosamente glaciale con l’irrealtà della condizione umana. Appena si sveglia, l’uomo è già sotto accusa, processato non si sa per quali colpe, in attesa di una condanna emessa non si sa da quali giudici, in un palazzo non si sa quale e di quale giustizia. Un agguato totale, un mondo incomprensibile, folle ma efferatamente organizzato secondo ingranaggi efficienti, di fronte ai quali siamo inermi e disumanati, camminiamo come automi appena redenti da un’ansia indescrivibile, allucinante. Se ci adeguiamo, se quest’ansia ci abbandona, è la metamorfosi, lo spazio vince sul tempo, l’uomo parassita si muta davvero in un insetto repellente ed immondo; il processo si scioglie solo perché l’accusato è annientato.
Risveglio quindi doloroso e infecondo, perché nello spazio e nelle cose non riusciamo a riconoscerci. Kafka visita, ad esempio, il ghetto risanato, lo guarda senza percepirlo, poiché sulla nuova configurazione spaziale sovrappone il tempo della memoria: « Dentro di noi vivono ancora gli angoli bui, i passaggi misteriosi, le finestre cieche, i sudici cortili, le bettole rumorose e le locande chiuse. Oggi passeggiamo per le ampie vie della città ricostruita, ma i nostri passi e gli sguardi sono incerti, dentro tremiamo ancora come nelle vecchie strade della miseria. Il nostro cuore non sa ancora nulla del risanamento effettuato. Il vecchio malsano quartiere ebraico dentro di noi è più reale della nuova città igienica intorno a noi. Svegli, camminiamo in un sogno: fantasmi noi stessi di tempi passati ».
Il mondo di Chagall è solo in apparenza antitetico a quello di Kafka. In effetti, è lo stesso mondo, dove però l’assurdo si tramuta in fiaba. Anche per Chagall l’uomo vive tra due sogni parimenti intollerabili: quello dello spazio, del villaggio ebraico di baracche, dei pogroms, dell’isolamento e dell’odio; e quello del tempo, dei cieli stravolti e disastrati. L’uomo non può vivere né in terra né in cielo, ma con la fantasia degli chassidim può provvisoriamente occupare una zona intermedia, subito sopra le tristi catapecchie, subito sotto il cielo tempestoso. In questa zona immaginaria e neutra, si vince la gravità della terra e il peso del cielo: tutto è armonia perché vis i realizza l’assurdo, gli asini e i violini, gli orologi a pendolo e gli sposi si librano trascinati dal vento, larve estranee ormai alla vita e alla morte. Se questa zona mediatrice in cui s’incastrano gli opposti sogni viene a mancare, se cioè ci si risveglia, allora abbiamo il quadro « Le porte del cimitero » dove lo squasso del cielo fonde con quello della terra. Se manca la trasposizione in fiaba, l’intervallo di Chagall diviene quello kafkiano tra l’imputazione e la sentenza o tra la condanna e la esecuzione.
[...] Heschel riconosceva che « vivere rettamente è come un’opera d’arte, il prodotto di una visione e di una lotta con situazione concrete ». L’arte non è che la vita in estrema tensione, e Max Brod diceva che « vivere si può soltanto in grazia di una tensione quasi sovrumana ». L’ebraismo depura questa tensione da ogni connotato idolatrico e falso-eroico, la piega al quotidiano. Ma il quotidiano esige una vigilanza continua, e un continuo rinnovamento, insomma una coscienza temporalizzata della storia e dei costumi. « La conoscenza della verità da sola non basta… », scrive Einstein, « E’ come una statua di marmo che si erge nel deserto ed è sotto la continua minaccia di venire seppellita dalla sabbia. Gli operai di servizio debbono essere sempre al lavoro perché la statua possa durevolmente risplendere al sole ». E’ strano che uno scienziato ebreo assimili la verità ad una statua, anziché ad un libro. Ma tant’è. Anche il Libro è sotto la continua minaccia di venir seppellito dalla sabbia idolatria. Per questo voi, noi siamo gli operai di servizio.

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COME ENTRARE NEL TEMPO E NELLO SPAZIO DI DIO, PAPA FRANCESCO – di Sandro Magister

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COME ENTRARE NEL TEMPO E NELLO SPAZIO DI DIO

Papa Francesco rompe a sorpresa il suo silenzio sulla liturgia. « È la nube di Dio che ci avvolge tutti », dice. E invoca un ritorno al vero senso del sacro

di Sandro Magister

ROMA, 14 febbraio 2014 – A cinquant’anni dalla promulgazione del documento del concilio Vaticano II sulla liturgia, in Vaticano solennizzano l’avvenimento con un convegno di tre giorni alla pontificia università del Laterano, promosso dalla congregazione per il culto divino, il 18-20 di questo mese.
La liturgia non è apparsa finora in primo piano nella visione di papa Francesco. Nella lunga intervista-confessione a « La Civiltà Cattolica » della scorsa estate, ridusse la riforma liturgica conciliare a questa sbrigativa definizione: « un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta ».
Non una parola di più, se non per il « preoccupante rischio di ideologizzazione del Vetus Ordo, la sua strumentalizzazione ».
Ma lunedì 10 febbraio, all’improvviso, Jorge Mario Bergoglio ha rotto il silenzio e ha dedicato alla liturgia l’intera omelia della messa mattutina nella cappella di Santa Marta. Dicendo cose che non aveva mai detto in precedenza, da quando è papa.
Quella mattina, nella messa si leggeva il primo libro dei Re, quando durante il regno di Salomone la nube, la gloria divina, riempì il tempio e « il Signore decise di abitare nella nube ».
Prendendo spunto da quella « teofania », papa Jorge Mario Bergoglio ha detto che « nella liturgia eucaristica Dio è presente », in modo ancor « più vicino » che nella nube nel tempio, la sua « è una presenza reale ».

E ha proseguito:
« Quando parlo di liturgia mi riferisco principalmente alla santa messa. La messa non è una rappresentazione, è un’altra cosa. È vivere un’altra volta la passione e la morte redentrice del Signore. È una teofania: il Signore si fa presente sull’altare per essere offerto al Padre per la salvezza del mondo ».

Più avanti il papa ha detto:
« La liturgia è tempo di Dio e spazio di Dio, e noi dobbiamo metterci lì nel tempo di Dio, nello spazio di Dio e non guardare l’orologio. La liturgia è proprio entrare nel mistero di Dio, lasciarsi portare al mistero ed essere nel mistero. È la nube di Dio che ci avvolge tutti ».

E tornando a un suo ricordo d’infanzia:
« Io ricordo che da bambino, quando ci preparavano alla prima comunione, ci facevano cantare: “’O santo altare custodito dagli angeli”, e questo ci faceva capire che l’altare era davvero custodito dagli angeli, ci dava il senso della gloria di Dio, dello spazio di Dio, del tempo di Dio ».
Avviandosi alla conclusione, Francesco ha invitato i presenti a « chiedere oggi al Signore che dia a tutti questo senso del sacro, questo senso che ci faccia capire che una cosa è pregare a casa, pregare il rosario, pregare tante belle preghiere, fare la via crucis, leggere la bibbia, e un’altra cosa è la celebrazione eucaristica. Nella celebrazione entriamo nel mistero di Dio, in quella strada che noi non possiamo controllare. Lui soltanto è l’unico, lui è la gloria, lui è il potere. Chiediamo questa grazia: che il Signore ci insegni a entrare nel mistero di Dio ».
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L’omelia di papa Francesco del 10 febbraio nella sintesi che ne ha dato « L’Osservatore Romano »:

> A messa senza orologio

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La costituzione del concilio Vaticano II sulla liturgia, il primo dei documenti approvati da quell’assise: > Sacrosanctum Concilium
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Ed ecco come ne parlò Benedetto XVI nel discorso a braccio al clero di Roma del 14 febbraio 2013, esattamente un anno fa, uno degli ultimissimi atti del suo pontificato:
« Dopo la prima guerra mondiale era cresciuto, nell’Europa centrale e occidentale, il movimento liturgico, una riscoperta della ricchezza e profondità della liturgia, che era finora quasi chiusa nel messale del sacerdote, mentre la gente pregava con propri libri di preghiera, i quali erano fatti secondo il cuore della gente, così che si cercava di tradurre i contenuti alti, il linguaggio alto, della liturgia classica in parole più emozionali, più vicine al cuore del popolo. Ma erano quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava la messa secondo il messale, ed i laici, che pregavano, nella messa, con i loro libri di preghiera, insieme, sapendo sostanzialmente che cosa si realizzava sull’altare.
« Ma ora era stata riscoperta proprio la bellezza, la profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del messale e la necessità che non solo un rappresentante del popolo, un piccolo chierichetto, dicesse ‘Et cum spiritu tuo’ eccetera, ma che fosse realmente un dialogo tra sacerdote e popolo, che realmente la liturgia dell’altare e la liturgia del popolo fosse un’unica liturgia, una partecipazione attiva, che le ricchezze arrivassero al popolo; e così si è riscoperta, rinnovata la liturgia.
« Io trovo adesso, retrospettivamente, che è stato molto buono cominciare con la liturgia, così appare il primato di Dio, il primato dell’adorazione. ‘Operi Dei nihil praeponatur’: questa parola della Regola di san Benedetto (cfr. 43, 3) appare così come la suprema regola del Concilio. Qualcuno aveva criticato che il Concilio ha parlato su tante cose, ma non su Dio. Ha parlato su Dio! Ed è stato il primo atto e quello sostanziale: parlare su Dio e aprire tutta la gente, tutto il popolo santo, all’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del corpo e sangue di Cristo. In questo senso, al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di provvidenza che agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione. Adesso non vorrei entrare nei dettagli della discussione, ma vale sempre la pena tornare, oltre le attuazioni pratiche, al Concilio stesso, alla sua profondità e alle sue idee essenziali.
« Ve n’erano, direi, diverse: soprattutto il mistero pasquale come centro dell’essere cristiano, e quindi della vita cristiana, dell’anno, del tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale e nella domenica che è sempre il giorno della risurrezione. Sempre di nuovo cominciamo il nostro tempo con la risurrezione, con l’incontro con il Risorto, e dall’incontro con il Risorto andiamo al mondo. In questo senso, è un peccato che oggi si sia trasformata la domenica in fine settimana, mentre è la prima giornata, è l’inizio; interiormente dobbiamo tenere presente questo: che è l’inizio, l’inizio della creazione, è l’inizio della ri-creazione nella Chiesa, incontro con il Creatore e con Cristo risorto. Anche questo duplice contenuto della domenica è importante: è il primo giorno, cioè festa della creazione, noi stiamo sul fondamento della creazione, crediamo nel Dio creatore; e incontro con il Risorto, che rinnova la creazione; il suo vero scopo è creare un mondo che è risposta all’amore di Dio.
« Poi c’erano dei principi: l’intelligibilità, invece di essere rinchiusi in una lingua non conosciuta, non parlata, ed anche la partecipazione attiva. Purtroppo, questi principi sono stati anche male intesi. Intelligibilità non vuol dire banalità, perché i grandi testi della liturgia – anche se parlati, grazie a Dio, in lingua materna – non sono facilmente intelligibili, hanno bisogno di una formazione permanente del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità nel mistero e così possa comprendere. Ed anche la Parola di Dio, se penso giorno per giorno alla lettura dell’Antico Testamento, anche alla lettura delle epistole paoline, dei Vangeli: chi potrebbe dire che capisce subito solo perché è nella propria lingua? Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità ed una partecipazione che è più di una attività esteriore, che è un entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa e così nella comunione con Cristo ».

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14.2.2014

PAUL FAIT VOILE VERS ROME

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GIOVANNI PAOLO II, QUARESIMA 2001 – “LA CARITÀ NON TIENE CONTO DEL MALE RICEVUTO”1 COR 13,5)

http://www.collevalenza.it/Riviste/2001/Riv0301/Riv0301_02.htm

“LA CARITÀ NON TIENE CONTO DEL MALE RICEVUTO”1 COR 13,5)

DAL VATICANO, 7 GENNAIO 2001

MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO II PER LA QUARESIMA 2001

La Quaresima, pertanto, rappresenta per i credenti l’occasione propizia di una profonda revisione di vità.

L’unica via della pace è il perdono. Accettare e donare il perdono rende possibile una nuova qualità di rapporti tra gli uomini, interrompe la spirale dell’odio e della vendetta e spezza le catene del male, che avvincono il cuore dei credenti.

Un cuore riconciliato con Dio e con il prossimo è un cuore generoso
1. “Ecco, noi saliamo a Gerusalemme” (Mc 10, 33). Con queste parole il Signore invita i discepoli a percorrere con Lui il cammino che dalla Galilea conduce al luogo dove si consumerà la sua missione redentrice. Questo cammino verso Gerusalemme, che gli Evangelisti presentano come il coronamento dell’itinerario terreno di Gesù, costituisce il modello della vita del cristiano, impegnato a seguire il Maestro sulla via della Croce. Anche agli uomini e alle donne di oggi Cristo rivolge l’invito a “salire a Gerusalemme”. Lo rivolge con forza particolare in Quaresima, tempo favorevole per convertirsi e ritrovare la piena comunione con Lui, partecipando intimamente al mistero della sua morte e risurrezione.
La Quaresima, pertanto, rappresenta per i credenti l’occasione propizia di una profonda revisione di vita. Nel mondo contemporaneo, accanto a generosi testimoni del Vangelo, non mancano battezzati che, dinanzi all’esigente appello ad intraprendere la “salita verso Gerusalemme”, assumono un atteggiamento di sorda resistenza ed a volte anche di aperta ribellione. Sono situazioni in cui l’esperienza della preghiera è vissuta in modo piuttosto superficiale, così che la parola di Dio non incide nell’esistenza. Lo stesso Sacramento della Penitenza è ritenuto da molti insignificante e la Celebrazione eucaristica domenicale soltanto un dovere da assolvere.
Come accogliere l’invito alla conversione che Gesù ci rivolge anche in questa Quaresima? Come realizzare un serio cambiamento di vita? Occorre innanzitutto aprire il cuore ai toccanti messaggi della liturgia. Il periodo che prepara alla Pasqua rappresenta un provvidenziale dono del Signore ed una preziosa possibilità per avvicinarsi a Lui, rientrando in se stessi e mettendosi in ascolto dei suoi interiori suggerimenti.
2. Ci sono cristiani che pensano di poter fare a meno di tale costante sforzo spirituale, perché non avvertono l’urgenza di confrontarsi con la verità del Vangelo. Essi tentano di svuotare e rendere innocue, perché non turbino il loro modo di vivere, parole come: “Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano” (Lc 6, 27). Tali parole, per queste persone, risuonano quanto mai difficili da accettare e da tradurre in coerenti comportamenti di vita. Sono infatti parole che, se prese sul serio, obbligano ad una radicale conversione. Invece, quando si è offesi e feriti, si è tentati di cedere ai meccanismi psicologici dell’autocompassione e della rivalsa, ignorando l’invito di Gesù ad amare il proprio nemico. Eppure le vicende umane d’ogni giorno mettono in luce, con grande evidenza, quanto il perdono e la riconciliazione siano irrinunciabili per porre in essere un reale rinnovamento personale e sociale. Questo vale nelle relazioni interpersonali, ma anche nei rapporti fra comunità e fra nazioni.
3. I numerosi e tragici conflitti che dilaniano l’umanità, scaturiti talvolta anche da malintesi motivi religiosi, hanno scavato solchi di odio e di violenza tra popoli e popoli. A volte, questo avviene anche tra gruppi e fazioni all’interno di una stessa nazione. Si assiste infatti talora, con un doloroso senso di impotenza, al riaffiorare di lotte che si credevano definitivamente sopite e si ha l’impressione che alcuni popoli siano coinvolti in una spirale di violenza inarrestabile, che continuerà a mietere vittime e vittime, senza una concreta prospettiva di soluzione. E gli auspici di pace, che si levano da ogni parte del mondo, risultano inefficaci: l’impegno necessario per avviare verso la desiderata concordia non riesce ad affermarsi.
Di fronte a questo inquietante scenario, i cristiani non possono restare indifferenti. E’ per questo che, nell’Anno giubilare appena concluso, mi sono fatto voce della richiesta di perdono della Chiesa a Dio per i peccati dei suoi figli. Siamo ben consapevoli che le colpe dei cristiani ne hanno purtroppo offuscato il volto immacolato, ma, confidando nell’amore misericordioso di Dio che non tiene conto del male in vista del pentimento, sappiamo anche di poter continuamente riprendere fiduciosi il cammino. L’amore di Dio trova la sua espressione più alta proprio quando l’uomo, peccatore e ingrato, viene riammesso alla piena comunione con Lui. In quest’ottica, la “purificazione della memoria” costituisce soprattutto la rinnovata confessione della misericordia divina, una confessione che la Chiesa, ai suoi diversi livelli, è chiamata ogni volta a fare propria con rinnovata convinzione.
4. L’unica via della pace è il perdono. Accettare e donare il perdono rende possibile una nuova qualità di rapporti tra gli uomini, interrompe la spirale dell’odio e della vendetta e spezza le catene del male, che avvincono il cuore dei contendenti. Per le nazioni in cerca di riconciliazione e per quanti auspicano una coesistenza pacifica tra individui e popoli, non c’è altra via che questa: il perdono ricevuto ed offerto. Quanto ricche di salutari insegnamenti risuonano le parole del Signore: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5, 44-45)! Amare chi ci ha offesi disarma l’avversario e può trasformare in un luogo di solidale cooperazione anche un campo di battaglia.
E’ una sfida, questa, che concerne le singole persone, ma anche le comunità, i popoli e l’intera umanità. Interessa, in modo speciale, le famiglie. Non è facile convertirsi al perdono ed alla riconciliazione. Riconciliarsi può già apparire problematico quando all’origine c’è una propria colpa. Se poi la colpa è dell’altro, riconciliarsi può essere visto addirittura come irragionevole umiliazione. Per fare un simile passo è necessario un cammino di interiore conversione; occorre il coraggio dell’umile obbedienza al comando di Gesù. La sua parola non lascia dubbi: non solo chi provoca l’inimicizia, ma anche chi la subisce deve cercare la riconciliazione (cfr Mt 5, 23-24). Il cristiano deve fare la pace anche quando si sente vittima di chi l’ha ingiustamente offeso e percosso. Il Signore stesso ha agito così. Egli attende che il discepolo lo segua, cooperando in tal modo alla redenzione del fratello.
In questo nostro tempo, il perdono appare sempre più come dimensione necessaria per un autentico rinnovamento sociale e per il consolidarsi della pace nel mondo. La Chiesa, annunciando il perdono e l’amore per i nemici, è consapevole di immettere nel patrimonio spirituale dell’intera umanità un modo nuovo di rapportarsi agli altri; un modo certo faticoso, ma ricco di speranza. In questo essa sa di poter contare sull’aiuto del Signore, che mai abbandona chi a Lui ricorre nelle difficoltà.
5. “La carità non tiene conto del male ricevuto” (1 Cor 13,5). In questa espressione della prima Lettera ai Corinti, l’apostolo Paolo ricorda che il perdono è una delle forme più elevate dell’esercizio della carità. Il periodo quaresimale rappresenta un tempo propizio per meglio approfondire la portata di questa verità. Mediante il Sacramento della riconciliazione, il Padre ci dona in Cristo il suo perdono e questo ci spinge a vivere nella carità, considerando l’altro non come un nemico, ma come un fratello.
Possa questo tempo di penitenza e di riconciliazione incoraggiare i credenti a pensare e ad operare nel segno di una carità autentica, aperta a tutte le dimensioni dell’uomo. Questo atteggiamento interiore li condurrà a portare i frutti dello Spirito (cfr Gal 5, 22) e ad offrire con cuore nuovo l’aiuto materiale a chi è nel bisogno.
Un cuore riconciliato con Dio e con il prossimo è un cuore generoso. Nei giorni sacri della Quaresima la ‘colletta’ assume un significativo valore, perché non si tratta di donare qualcosa del superfluo per tranquillizzare la propria coscienza, ma di farsi carico con sollecitudine solidale della miseria presente nel mondo. Considerare il volto dolorante e le condizioni di sofferenza di tanti fratelli e sorelle non può non spingere a condividere almeno parte dei propri beni con chi è in difficoltà. E l’offerta quaresimale risulta ancor più ricca di valore, se chi la compie si è liberato dal risentimento e dall’indifferenza, ostacoli che tengono lontani dalla comunione con Dio e con i fratelli.
Il mondo attende dai cristiani una coerente testimonianza di comunione e di solidarietà. Sono al riguardo quanto mai illuminanti le parole dell’apostolo Giovanni: “Ma se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?” (1 Gv 3, 17).
Fratelli e Sorelle! San Giovanni Crisostomo, commentando l’insegnamento del Signore sul cammino verso Gerusalemme, ricorda che Cristo non lascia i discepoli ignari delle lotte e dei sacrifici che li attendono. Egli sottolinea che rinunciare al proprio ‘io’ è difficile, ma non impossibile quando si può contare sull’aiuto di Dio a noi concesso “mediante la comunione con la persona di Cristo” (PG 58, 619 s).
Ecco perché, in questa Quaresima, desidero invitare tutti i credenti ad un’ardente e fiduciosa preghiera al Signore, perché conceda a ciascuno di fare una rinnovata esperienza della sua misericordia. Solo questo dono ci aiuterà ad accogliere e vivere in modo sempre più gioioso e generoso la carità di Cristo, che “non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità” (1 Cor 13, 5-6).
Con questi sentimenti invoco la protezione della Madre della Misericordia sul cammino quaresimale dell’intera Comunità dei credenti e di cuore imparto a ciascuno la Benedizione Apostolica.

PAPA: GLI SCOUT CATTOLICI, “PARTE PREZIOSA” DELLA CHIESA CHE OFFRE UN…

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13/06/2015

VATICANO

PAPA: GLI SCOUT CATTOLICI, “PARTE PREZIOSA” DELLA CHIESA CHE OFFRE “UN CONTRIBUTO IMPORTANTE” NELL’EDUCAZIONE DEI GIOVANI

Almeno 100mila scout all’incontro con Francesco. Il “metodo scout, basato sui grandi valori umani, sul contatto con la natura, sulla religiosità e la fede in Dio; un metodo che educa alla libertà nella responsabilità”. “Questo mi raccomando, capacità di dialogo, fare ponti, non fate muri, fate ponti. Ma questo può avvenire solo a una condizione: che i singoli gruppi non perdano il contatto con la parrocchia del luogo, dove hanno la loro sede, ma che in molti casi non frequentano”.

Città del Vaticano (AsiaNews) – Gli scout cattolici sono “una parte preziosa” della Chiesa, offrono “un contributo importante alle famiglie” nell’educazione dei giovani e possono portare “un nuovo fervore evangelizzatore e una nuova capacità di dialogo con la società”, per cui debbono integrarsi “nella pastorale della Chiesa particolare, stabilendo rapporti di stima e collaborazione ad ogni livello” con vescovi, parroci e gli altri sacerdoti. Una piazza san Pietro trasformata in una marea blu ha ascoltato oggi consigli e raccomandazioni che il Papa ha rivolto all’Agesci, l’associazione degli scout cattolici italiani.
Tra gli almeno 100mila scout presenti, che hanno riempito anche piazza Pio XII e l’inizio di via della Conciliazione, Francesco è lungamente passato con la jeep bianca, coloratasi, lungo il passaggio, per le decine di “fazzolettoni” colorati lanciati dai ragazzi e spesso presi al volo dal Papa.
“Vi dirò una cosa – ha detto loro il Papa – ma non vantatevi: voi siete una parte preziosa della Chiesa in Italia. Forse i più piccoli tra voi non se ne rendono bene conto, ma i più grandi spero di sì! In particolare, voi offrite un contributo importante alle famiglie per la loro missione educativa verso i fanciulli, i ragazzi e i giovani. I genitori ve li affidano perché sono convinti della bontà e saggezza del metodo scout, basato sui grandi valori umani, sul contatto con la natura, sulla religiosità e la fede in Dio; un metodo che educa alla libertà nella responsabilità. Questa fiducia delle famiglie non va delusa! E anche quella della Chiesa: vi auguro di sentirvi sempre parte della grande Comunità cristiana”.
Ricordando poi la “Carta del coraggio” elaborata l’anno scorso dall’Agesci, Francesco ha affermato che “questa ‘Carta’ esprime le vostre convinzioni e aspirazioni, e contiene una forte domanda di educazione e di ascolto rivolta alle vostre comunità capi, alle parrocchie e alla Chiesa nel suo insieme. Questa domanda investe anche l’ambito della spiritualità e della fede, che sono fondamentali per la crescita equilibrata e completa della persona umana. Quando una volta qualcuno chiese al vostro fondatore, Lord Baden Powell, ‘che cosa c’entra la religione [con lo scoutismo]?’, egli rispose che «la religione non ha bisogno di ‘entrarci’, perché è già dentro! Non c’è un lato religioso del Movimento scout… L’insieme di esso è basato sulla religione, cioè sulla presa di coscienza di Dio e sul suo Servizio» (Discorso ad una conferenza di Commissari scout/guide, 2 luglio 1926, in L’educazione non finisce mai, Roma 1997, p. 43)”.
“Nel panorama delle associazioni scout a livello mondiale, l’AGESCI è tra quelle che investono di più nel campo della spiritualità e dell’educazione alla fede. Ma c’è ancora tanto da lavorare, perché tutte le comunità-capi ne comprendano l’importanza e ne traggano le conseguenze. So che fate dei momenti formativi per i capi sull’accostamento alla Bibbia, anche con metodi nuovi, mettendo al centro la narrazione della vita vissuta a confronto con il Messaggio del Vangelo. Mi congratulo con voi per queste buone iniziative, e mi auguro che non si tratti di momenti sporadici, ma che si inseriscano in un progetto di formazione continua e capillare, che penetri fino in fondo nel tessuto associativo, rendendolo permeabile al Vangelo e facilitando il cambiamento di vita”.
“C’è una cosa che mi sta particolarmente a cuore per quanto riguarda le associazioni cattoliche, e vorrei parlarne anche a voi. Associazioni come la vostra sono una ricchezza della Chiesa che lo Spirito Santo suscita per evangelizzare tutti gli ambienti e settori. Sono certo che l’AGESCI può apportare nella Chiesa un nuovo fervore evangelizzatore e una nuova capacità di dialogo con la società. E questo mi raccomando, capacità di dialogo, fare ponti, non fate muri, fate ponti. Ma questo può avvenire solo a una condizione: che i singoli gruppi non perdano il contatto con la parrocchia del luogo, dove hanno la loro sede, ma che in molti casi non frequentano, perché, pur svolgendo là il loro servizio, provengono da altre zone. Siete chiamati a trovare il modo di integrarvi nella pastorale della Chiesa particolare, stabilendo rapporti di stima e collaborazione ad ogni livello con i vostri vescovi, con i parroci e gli altri sacerdoti, con gli educatori e i membri delle altre associazioni ecclesiali presenti in parrocchia e nello stesso territorio, e non accontentarvi di una presenza ‘decorativa’ alla domenica o nelle grandi circostanze. Ci sono, nell’AGESCI, molti gruppi che già sono pienamente integrati nella loro realtà diocesana e parrocchiale, che sanno fare tesoro dell’offerta formativa proposta dalla comunità parrocchiale ai ragazzi, ai giovanissimi, ai giovani, agli adulti, frequentando, insieme con gli altri loro coetanei, i gruppi di catechesi e formazione cristiana. Fanno questo senza rinunciare a ciò che è specifico dell’educazione scout. E il risultato è una personalità più ricca e più completa. Si voi siete d’accordo? Allora andiamo avanti così!”. “Buon cammino a tutti voi!”.

 

Publié dans:PAPA FRANCESCO, SCOUTS |on 15 juin, 2015 |Pas de commentaires »

Parable of th mustard seed

Parable of th mustard seed dans immagini sacre mustardseed3

http://2x2virtualchurch.com/art-in-religion-the-parable-of-the-mustard-seed/

 

Publié dans:immagini sacre |on 12 juin, 2015 |Pas de commentaires »
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