Transfiguration of Christ. Sinai. 12th century.

http://oodegr.co/italiano/tradizione_index/insegnamenti/pregbrjancaninov.htm
LA PREGHIERA ORALE E VOCALE
Ignatij Brjancaninov
Il valore della preghiera orale
Nessuno tra coloro che desiderano progredire sulla via della preghiera pensi con leggerezza che la preghiera pronunciata dalle labbra e dalla voce e con la partecipazione dell’intelligenza sia di poco valore e non meriti la nostra stima. Se i Santi Padri parlano della sterilità della preghiera orale e vocale quando non è unita all’attenzione, non bisognerà concludere che hanno respinto o disprezzato questa preghiera come tale. Tutt’altro! Essi insistono solamente perché la si compia con attenzione. La preghiera orale e vocale compiuta con attenzione è l’inizio e la causa dell’orazione mentale; è anche una preghiera mentale. Abituiamoci per cominciare, a pregare attentamente in tal maniera, ed allora apprenderemo facilmente a pregare anche con il solo spirito nel silenzio della nostra interiorità.
La Testimonianza della Sacra Scrittura
La preghiera orale e vocale è menzionata nella Sacra Scrittura. L’esempio di questa preghiera e del canto vocale ci è dato dal Salvatore stesso e dagli Apostoli che l’avevano ricevuto da Lui. L’evangelista Matteo ci riferisce che dopo aver cantato l’inno alla fine della Mistica Cena, il Signore e gli Apostoli salirono verso il monte degli Ulivi[1]. Il Signore pregò in modo da essere inteso da tutti prima della resurrezione di Lazzaro, morto da quattro giorni[2]. Mentre erano rinchiusi in prigione, l’apostolo Paolo ed il suo compagno di viaggio Silas erano in preghiera a mezzanotte e cantavano le lodi di Dio: gli altri prigionieri potevano ascoltarli. Improvvisamente, coprendo la voce del loro canto, si verificò un grande terremoto, in modo che le fondamenta della prigione furono scosse; nel medesimo tempo, tutte le porte si aprirono, e le catene di tutti i prigionieri furono spezzate[3]. La preghiera di sant’Anna, madre del profeta Samuele, sovente presentata dai Santi Padri come un modello di preghiera, non era solamente mentale. “Quella – dice la Scrittura – parlava in cuor suo: solo le labbra si muovevano, ma non si udiva la voce”[4]. Questa preghiera non era vocale, ma, pur essendo una preghiera del cuore, era anche orale.
L’apostolo Paolo chiama la preghiera orale il frutto delle labbra. Ordina di offrire senza sosta a Dio un sacrificio di lode, cioè il frutto delle labbra che pronunciano il suo nome[5]; comanda di intrattenersi con dei salmi, con degli inni, e con dei canti spirituali, ed unendo la preghiera vocale ed orale al canto, di cantare e di celebrare nei nostri cuori le lodi del Signore[6]. Rimprovera la mancanza d’attenzione durante la preghiera orale e vocale. Se la tromba ha un suono confuso, chi si preparerà al combattimento? Da voi stessi, se con la lingua non dite una parola distinta (cioè intelligibile), come si saprà ciò che dite? Perché parlate a vuoto[7]. Benché l’Apostolo abbia detto queste parole a coloro che pregavano e che proclamavano ciò che il Santo Spirito loro ispirava nelle lingue straniere, i Santi Padri le applicano con ragione anche a coloro che pregano senza attenzione. Colui che prega così e che, per conseguenza, non comprende le parole che pronuncia, che è per se stesso se non uno straniero?
L’attenzione è essenziale
Fondandosi su questo insegnamento, san Nilo di Sora dice che colui che prega con le labbra e con la voce, ma senza attenzione, fa salire la preghiera in aria, ma non verso Dio, “È paradossale desiderare che Dio ti intenda, quando tu non comprendi te stesso”, diceva san Demetrio di Rostov, prendendo in prestito queste parole dal Santo vescovo e martire Cipriano di Cartagine. È esattamente ciò che succede a coloro che pregano oralmente e vocalmente, ma senza attenzione; non si capiscono, si lasciano trascinare dalle distrazioni, i loro pensieri vagano lontano nelle preoccupazioni, si estraniano dalla preghiera che spesso giunge ad arrestarsi bruscamente, senza ricordarsi di ciò che devono leggere; o invece di pronunciare le parole della preghiera che sono intenti a leggere, cominciano a dire quelle di altre preghiere, benché il libro sia aperto sotto i loro occhi. Come i Santi Padri non rimprovererebbero una simile preghiera recitata senza attenzione, mutilata, distrutta dalle distrazioni!
La Testimonianza dei Padri
“L’attenzione, dice san Simeone il Nuovo Teologo, deve essere anche strettamente legata alla preghiera come il corpo lo è all’anima: questi ultimi non possono essere separati; non possono esistere l’uno senza l’altro. L’attenzione deve essere come una sentinella in agguato per sorvegliare l’attacco del nemico. Che sia la prima a lottare contro il peccato, ad opporsi ai pensieri malvagi che si avvicinano al cuore! Quindi, dopo l’attenzione intervenga la preghiera per estirpare ed annientare istantaneamente tutti i pensieri malvagi contro i quali l’attenzione aveva prima ingaggiato il combattimento, perché, lei sola, l’attenzione non può dominarli. La vita e la morte dell’anima dipendono da questa battaglia condotta congiuntamente dall’attenzione e dalla preghiera. Se, per mezzo dell’attenzione, proteggiamo la purezza della preghiera, progrediremo. Se, al contrario, non ci preoccuperemo di conservarla pura, ma la lasceremo senza sorveglianza, i pensieri malvagi la insudiceranno, diventeremo uomini rilassati e non potremo fare dei progressi”.
L’attenzione deve assolutamente accompagnare la preghiera orale e vocale, come d’altra parte… ogni altra forma di preghiera. Quando è presente, i frutti della preghiera orale sono innumerevoli. L’asceta deve cominciare dalla preghiera orale. È quella che la Santa Chiesa insegna per prima ai fanciulli. “La radice della vita monastica, è la salmodia”, ha detto san Isacco Siro. “La Chiesa”, insegna san Pietro Damasceno, “ha adottato per uno scopo lodevole e gradevole a Dio, dei canti e diversi inni in ragione della debolezza dell’intelletto, affinché, noi che non conosciamo, si sia attratti dalla dolcezza della salmodia e cantiamo, per così dire malgrado noi, le lodi a Dio. Coloro che possono comprendere e penetrare il senso delle parole che pronunciamo, entrano in uno stato di umile commozione del cuore. Così, come con una scala, ci eleviamo verso i santi pensieri. Nella misura con cui progrediamo nell’abitudine di questi pensieri divini, un desiderio divino sorge e ci fa scoprire ciò che significa l’adorazione del Padre in Spirito ed in Verità[8], secondo le parole del Signore”.
I frutti della preghiera orale
La bocca e la lingua che si esercitano spesso nella preghiera e nella lettura della Parola di Dio si santificano; non possono più dire parole oziose o ridere, e diventano incapaci di pronunciare delle celie, delle oscenità o dei propositi turpi. Vuoi progredire nell’orazione mentale e nella preghiera del cuore? Allora incomincia ad essere attento durante la preghiera orale e vocale: la preghiera orale detta con attenzione si trasformerà essa stessa in preghiera mentale e del cuore. Vuoi iniziare a respingere rapidamente e con forza i pensieri seminati in noi dal nemico comune dell’umanità? Respingili, quando sei solo nella cella, con una preghiera orale attenta, pronunciando le parole pacatamente, con un’umile commozione del cuore. L’aria risuona di una preghiera orale e vocale attenta, ed i santi Angeli si avvicinano a coloro che pregano e cantano; si rallegrano e partecipano ai canti spirituali come furono giudicati degni di vederli alcuni santi e, fra loro, un nostro contemporaneo, il beato staretz Serafino di Sarov.
La pratica dei Padri
Numerosi padri illustri sono vissuti nella preghiera orale e vocale, e ciò non ha impedito loro di essere colmi dei doni dello Spirito. La causa dei loro progressi si trova nel fatto che in loro l’intelletto, il cuore, l’anima e tutto il corpo erano uniti alla voce ed alle labbra; pronunciavano la preghiera con tutta la loro anima, con tutte le loro forze, con tutto il loro essere, in breve con l’uomo tutto intero. È così che san Simeone della Montagna Ammirabile recitava durante la notte tutto il Salterio. San Isacco Siro menziona un felice staretz che aveva per occupazione la lettura dei salmi; gli fu concesso di non proseguire la lettura che per tre o quattro salmi, dopo di che la consolazione divina s’impadroniva di lui con una tale forza che rimaneva giorni interi in uno stato di felicissima estasi, cosciente né del tempo, né di se stesso.
Durante la lettura dell’Akatistos, san Sergio di Radonez fu visitato dalla Madre di Dio accompagnata dagli apostoli Pietro e Giovanni. Si racconta a proposito di san Ilarione di Suzdal che quando leggeva l’Akatistos in chiesa, le parole uscivano dalla sua bocca come se fossero fuoco, con una forza ed un’efficacia sugli ascoltatori che non si poteva spiegare. La preghiera orale dei santi era vivificata dall’attenzione e dalla grazia divina che ristabilisce l’unità delle potenze dell’uomo divise dal peccato; ciò che spiega che diffondeva una uguale forza sovrannaturale e che produceva un’impressione prodigiosa sugli ascoltatori. I santi hanno celebrato Dio con tutto il cuore; hanno cantato e professato Dio con una fermezza incrollabile, cioè senza distrazione, hanno cantato per Dio con saggezza[9].
Salmodia
Bisogna notare che i santi monaci dei primi secoli e tutti coloro che desideravano progredire nella preghiera non si preoccupavano del tutto o non si preoccupavano che molto poco del canto. Sotto il vocabolo “salmodia”, di cui si parla nelle loro Vite e nei loro scritti, bisogna intendere una lettura estremamente lenta dei salmi e delle preghiere. Una simile lettura è indispensabile se si vuole conservare un’attenzione vigilante ed evitare le distrazioni. A causa della lentezza e dell’affinità con il canto, questa lettura è stata chiamata “salmodia”. Si faceva con il cuore; i monaci di quei tempi avevano infatti per regola di imparare a memoria il Salterio. La recitazione dei salmi a memoria contribuisce molto a fissare l’attenzione. Una simile lettura – a dire il vero non è una lettura, perché non si fa per mezzo di un libro, ma si tratta proprio della salmodia – può essere compiuta in un’oscura cella, con gli occhi chiusi, ciò che protegge dalle distrazioni; quando una cella è illuminata quanto è indispensabile per la lettura di un libro e semplicemente per vederlo – distrae lo spirito e lo allontana dal cuore verso l’esterno. “Cantano, dice san Simeone il Nuovo Teologo, cioè le loro labbra pregano”. “Coloro che non cantano assolutamente, dice san Gregorio Sinaita, fanno bene, anche loro, se hanno già progredito; non hanno infatti, bisogno di recitare i salmi, ma hanno necessità di silenzio e della preghiera incessante”.
Lettura e preghiera
Per dirla chiaramente, i Padri chiamano “lettura” quella della Sacra Scrittura e degli scritti dei Santi Padri, e “preghiera” soprattutto la Preghiera di Gesù, come la preghiera del Pubblicano e altre preghiere estremamente brevi. Che queste preghiere sostituiscano vantaggiosamente la salmodia è incomprensibile per i principianti e non può essere loro spiegato in modo soddisfacente, perché ciò oltrepassa la saggezza psichica e non si spiega che con la felice esperienza.
Fratelli, stiamo attenti durante le preghiere orali e vocali che pronunciamo nei servizi in chiesa e nella solitudine della cella. Non rendiamo i nostri sforzi e la nostra vita in monastero sterile a causa della mancanza di attenzione e della negligenza nell’opera di Dio. La negligenza nella preghiera è fatale! Maledetto, dice la Scrittura, sia colui che compie l’opera di Dio con negligenza[10]. Il risultato di questa maledizione è evidente: una sterilità spirituale totale e l’assenza totale di progressi malgrado i numerosi anni trascorsi nella vita monastica. Mettiamo alla base dell’ascesa di preghiera la preghiera attenta, orale e vocale, è il principale ed il più importante tra i lavori monastici e quello per cui tutti gli altri esistono. In risposta a questa preghiera, il Signore misericordioso darà, a suo tempo, all’asceta perseverante, paziente ed umile la preghiera dell’intelletto e del cuore mosso dalla grazia. Amìn.
Trad. di M. C.
in: “Messaggero Ortodosso”, Roma, agosto-settembre 1985, pp. 10-16
http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=149
LA BELLEZZA CHE SALVA
Centralità della bellezza nel cristianesimo secondo Balthasar
sintesi della relazione di Elio Guerriero
Verbania Pallanza, 10 febbraio 2001
LA VIA DEL FRAMMENTO
Von Balthasar (1905-1988) ha cercato di dare una risposta alla grande domanda che attraversa tutto il 1900 e che oggi, con il processo di globalizzazione, è ancora più attuale: come è possibile che qualcosa di particolare, un frammento, possa avere una rilevanza universale? Come può la vicenda particolare di Gesù di Nazaret avere un valore per l’uomo di ogni luogo e di ogni tempo?
Interessato alla letteratura e alla musica von Balthasar si avvicina alla teologia soprattutto dopo l’incontro con Romano Guardini a Berlino, altro grande teologo che ricorreva alla letteratura per cogliere quelle domande a cui dare una risposta in termini teologici. Di Guardini condivide il rifiuto del soggettivismo di Kant e dell’idealismo tedesco. La realtà non è creata dal soggetto e deve essere percepita in maniera più obiettiva e completa.
Inoltre condivide la visione di Guardini secondo la quale vale la pena di guardare il reale in compagnia dei grandi maestri, come Socrate, Agostino, Dante, Pascal, Kirkegaard, Rilke, Dostoevskij. Insieme con loro si può percepire meglio il reale e accostarsi meglio a Cristo.
Laureatosi in letteratura, von Balthasar decide di diventare gesuita. Frequenta con disagio lo studentato di filosofia dove impera la filosofia scolastica. A Lione incontra De Lubac, che lo avvia alla conoscenza dei padri della Chiesa.
Nel 1939, diventato assistente degli studenti cattolici a Basilea, incontra Adrienne von Speyr che influenzerà profondamente la sua teologia. Cerca di capire- ripeteva spesso Adrienne – Dio non è così. Dio non tiene i conti. Dio è prodigo, è anzitutto colui che dà. Questa visione getta luce sul mistero trinitario: il Padre è colui che non tiene la divinità per sé, ma la dona completamente al Figlio, il quale la restituisce interamente al Padre in gratitudine, nello Spirito dell’agape. E’ questa la grande rivelazione di Adrienne.
Ma come mai vi è il peccato nel mondo e Dio lo permette? Il mondo, le creature, secondo Adrienne, sono il dono gratuito che il Padre fa al Figlio nel desiderio di donare sempre di più, sono come la rosa che l’amato dà all’amata. Di fronte al rifiuto delle creature, di fronte al peccato, il Figlio si offre spontaneamente per andare a riprenderle, per riportarle a casa. Gesù è come il pastore che va alla ricerca della pecorella smarrita.
In questa prospettiva Adrienne dà molta importanza alla discesa agli inferi, come annuncio di solidarietà totale con tutti gli uomini di tutti i tempi: Gesù vive totalmente la solidarietà con tutti.
A Basilea von Balthasar incontra Karl Barth, a cui attribuisce il merito di avere superato definitivamente la visione di Calvino secondo la quale Dio è venuto al mondo per dire sì e no. Dio, per Barth, è venuto al mondo per dire solo sì.
Per fare teologia secondo von Balthasar bisogna essere in qualche modo consanguinei di Dio, bisogna essere santi. Nasce da questa visione la polemica contro i « teologi a tavolino ». Solo nel dono si può capire che Dio non tiene nulla per se stesso, ma si dona. Apprezza di Bernanos la figura del santo che si fa carico del peccato di tanti e di Teresa di Lisieux la via dell’infanzia spirituale, la via del bambino che sta in braccio alla mamma, la via della fiducia gioiosa.
Siamo tutti frammenti, siamo tutti piccole creature, ma con un significato universale. Anche il più piccolo degli uomini è importante per Dio ed è importante per l’uomo.
Non invitato al concilio Vaticano secondo, dedicherà il suo tempo alla stesura della sua monumentale trilogia (Gloria, Teodrammatica e Teologica), che inizia proprio affrontando il tema della bellezza.
la bellezza che è Cristo
Von Balthasar critica severamente il mondo contemporaneo per avere abbandonato la bellezza e per averne smarrito il senso: « la bellezza disinteressata ha preso congedo in punta di piedi dal mondo moderno di interessi per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza » e, aggiunge « non è più amata e custodita nemmeno nella religione ».
Secondo Balthasar la bellezza è ciò che ha a che fare con la forma, tanto che in latino bello si dice « formosus ». Si coglie la forma percependo l’unità interna. Ciò che ha forma è armonico, ordinato e bello, è cosmo in opposizione a caos. Cogliendo la forma è possibile afferrare il principio organizzativo di ogni essere, che è tanto più strutturato quanto più è perfetto.
La forma – dice Balthasar – splende, si dà a conoscere. Per cercare di entrare nel cuore di una persona non si può fare a meno della sua forma, come per gustare un’opera d’arte.
Ma la luce della bellezza non solo illumina, ma anche nasconde. Quanto più si comprende un’opera d’arte tanto più ci avviciniamo al mistero. Quanto più ci avviciniamo ad una persona, tanto più scopriamo l’altro come alterità. Quanto più si tolgono i veli, tanto più ci avviciniamo a Dio.
Sono due aspetti del reale: da una parte la forma si dà a conoscere con lo splendore, dall’altra, quanto più splende, tanto più nasconde o rivela un mistero.
la liturgia del cosmo
Così quanto più noi ci avviciniamo alla realtà, ci avviciniamo all’altro, tanto più ci avviciniamo al mistero, alla trascendenza, a Dio. Ogni bellezza creata rimanda alla bellezza originaria di Dio, ne è una cifra: « I cieli narrano la gloria di Dio e l’opere delle sue mani annunzia il firmamento ». E’ la liturgia del cosmo. Il cosmo è un canto di bellezza, che può essere innalzato da ogni uomo.
Ma questa liturgia cosmica è come attraversata da una dissonanza, dalla presenza costante e in crescita del peccato, che ostacola sempre più l’uomo a scorgere la bellezza.
Di fronte al diffondersi del peccato Dio intraprende una paziente e straordinaria opera per riportare a casa l’uomo che si è allontanato e corre il rischio di perdersi. Poiché la bellezza del cosmo non basta, Dio decide di rendersi presente con la rivelazione in forme sempre più incisive e radicali. Innanzitutto nelle teofanie dell’Antico Testamento attraverso le quali si manifesta come un Dio che vuole entrare in dialogo con gli uomini rivelando il suo nome. Ma gli israeliti ne abusano.
Dio non si ritrae di fronte alla cattiveria degli uomini, ma si dona ancora di più, inviando i suoi profeti. Ma il popolo li ammazza.
la rivelazione di Dio
A Dio non resta che inviare il proprio Figlio. Ma anche il Figlio viene ucciso.
E’ questa la bellezza della rivelazione di Dio, che come il pastore della parabola, con infinita pazienza cerca in tutti i modi di riportare a casa la recalcitrante pecorella smarrita, senza ricorrere alla violenza, ma con un’opera illimitata di convinzione e di benevolenza.
La bellezza di Dio viene dalla sua azione buona, dal suo andare incontro alla creatura, dal suo venire al mondo per salvare la sua creatura.
Questo è possibile perché in Dio stesso, come svela il mistero trinitario, c’è in Dio fin dall’eternità questo dono. Il Padre, pur avendo la divinità, non la tenne per sé come tesoro geloso, ma la donò al Figlio. Questo gesto iniziale si ripete nella storia, con la venuta del Figlio nel mondo (kenosi), per convincere, come fa la mamma con il suo bambino, la creatura a tornare da lui.
la bellezza di Dio
La bellezza è il dono sproporzionato, la prodigalità di Dio che si manifesta a noi in particolare nella venuta del Figlio nel mondo. La bellezza è il viaggio del Figlio di Dio attraverso la terra per salire sulla croce. La bellezza cristiana è la non forma, è colui da cui si distoglie lo sguardo perché troppo brutto da vedere (canti del servo di Isaia). La bellezza è l’estremo amore di Dio nella gloria del suo morire.
Ma la vertigine di questo amore non termina sulla croce, ma scende sino agli inferi, nella solitudine della morte, nella solidarietà più estrema, per riportare a Dio quanto di imperfetto, di caotico e di deforme c’è nella creazione.
Il viaggio di Cristo nel mondo, di Dio che diventa senza forma per ridar forma al cosmo, per riportare ordine e pace lì dove aveva prevalso il caos e la violenza, è la risurrezione. La risurrezione è l’abbraccio tra Padre e Figlio nello Spirito dell’amore. Gli apostoli, e noi con loro, sono chiamati a rendere testimonianza e a vivere questa esperienza fondamentale di amore, di prodigalità estrema, di bellezza.
http://www.fondazionegraziottin.org/pdf/articoli.php?ART_TYPE=SPIRIT&EW_FATHER=17829
PORTARE IL PESO DEL DOLORE : GIOBBE, DAL MISTERO DEL MALE AL MISTERO DI DIO
Tratto da:<br />GIANFRANCO RAVASI, PORTARE IL PESO DEL DOLORE,
Edizioni San Paolo, 2013, p. 49-59
Guida alla lettura
Nell’ultima parte del volumetto “Portare il peso del dolore”, Gianfranco Ravasi tira le somme sul messaggio del libro di Giobbe: ne analizza il contenuto a tre livelli – il mistero dell’uomo, del dolore, di Dio – e arriva a concludere che, nonostante le apparenze e il giudizio comune, il vero argomento dello scritto non è il secondo (il mistero del dolore) ma il terzo (il mistero di Dio).
Ravasi sottolinea come quella di Giobbe sia innanzitutto una triplice storia: di un uomo, con tutti i limiti esistenziali e morali degli uomini; di un credente, che non si accontenta delle soluzioni confezionate dalla religione per spiegare l’enigma del male senza mettere in discussione la natura di Dio; di un sofferente che, dall’esperienza angosciante di un dolore inspiegato e inspiegabile, saprà trarre la forza di «esaltare la necessità della fede».
Posto a confronto con il mistero del male Giobbe rifiuta la “tecnologia” della retribuzione, per la quale ogni sofferenza è sanzione automatica di peccati personali, e tenta di aprire «una nuova riflessione che coinvolga Dio in modo positivo»: al punto che secondo Ravasi – e qui sta secondo noi la forza dirompente e scandalosa del libro, la sua difficoltà quasi inaccessibile – si può affermare che per Giobbe «il mistero del male deve condurre a Dio in un modo molto più genuino di quanto lo faccia l’esistenza del bene».
Condurre a Dio: è questo il vero cuore del libro. Troppo spesso confuso con uno svelamento del mistero del dolore (che, vale la pena ripeterlo, rimane tale anche al termine del racconto), Giobbe è in realtà un libro di pura teologia: «La questione centrale dell’opera non è il male di vivere, ma il come poter credere e in quale Dio credere nonostante l’assurdo della vita». La risposta è che esiste una ‘etzah, una razionalità divina superiore e incomprensibile, che «riesce a collocare in un progetto ciò che per l’uomo sembra invece debordare da ogni progetto, cioè il male». Alla fine, perciò, Giobbe riuscirà a cogliere non «l’incastro perfetto del male nella trama della storia e dell’essere», bensì «il volto di colui che questo incastro realizza non secondo quanto noi supponiamo ma secondo il suo disegno trascendente». E a questo punto si abbandonerà al disegno divino.
Conclusione forse troppo facile, per la nostra sensibilità moderna, come troppo facile, insoddisfacente e contraddetta dalla realtà era ed è la dottrina della retribuzione. Ma questo non deve sorprenderci: Giobbe vive in un mondo le cui coordinate culturali sono troppo distanti dalle nostre, in un mondo che non poteva in alcun modo prescindere da Dio e che nelle mani di Dio affidava anche il non-senso della vita. Il vero valore di una comprensione corretta della vicenda, quindi, non sta tanto nella possibilità di ricavarne risposte accettabili anche per noi, donne e uomini di oggi, ma nel rendersi conto, senza deformazioni devote, di ciò che realmente afferma sul tema del dolore, della malattia e della morte uno dei capisaldi della letteratura sapienziale di tutti i tempi. In altre parole, quello che per Giobbe era un punto d’arrivo spirituale ed esistenziale, per noi è una semplice acquisizione culturale. Semplice, ma non irrilevante, soprattutto per i credenti:
la conoscenza di ciò che questo libro dice, e soprattutto di ciò che non dice, è infatti un buon antidoto contro i cattivi maestri, contro coloro che – come gli amici di Giobbe – tentando di spiegare l’esistenza del male finiscono per trasmettere un’immagine perversa di Dio e della vita.
Il filosofo francese Philippe Nemo nel suo libro “Job ou l’excès du mal” (Parigi 1978, p. 111) ha dato questa felice definizione di Giobbe: «Giobbe tutto intero è il nome divino». Il vertice, infatti, dell’itinerario della ricerca del grande sofferente non è la soluzione ad una questione umana ma è nel «vedere Dio con i miei occhi», rifiutando tutte le spiegazioni di seconda mano, tutto il «sentito dire» (42,5). Per questo il messaggio dell’opera, anche se si snoda dall’intreccio tra l’uomo, il mondo, il male, la società e Dio, ha come meta ultima Dio, la sua parola, la sua teofania, la sua contemplazione.
Il mistero dell’uomo
Giobbe è innanzitutto la storia di un uomo, di un credente, di un sofferente. E’ la storia di un uomo: da questo volume si possono estrarre molti materiali per rappresentare la condizione umana, spesso affidati alla forza dei simboli. C’è un senso fortissimo ed esistenziale del limite umano: «L’uomo, nato di donna, breve di giorni e sazio di inquietudine, come fiore sboccia e subito è avvizzito, come ombra svanisce e mai si arresta» (14,1-2). Egli abita «tende di argilla e nella polvere ha fondamento» (4,19), «l’uomo, questo verme, l’essere umano, questo lombrico» (25,6). Non è solo un limite esistenziale ma anche morale: «Può il mortale essere giusto dinanzi a Dio, puro l’uomo dinanzi al suo Creatore?» (4,17). «Chi può estrarre il puro dall’impuro? Nessuno!» (14,4). L’uomo, infatti, è “nit’ab” e “ne’elah” (15,16): i due aggettivi evocano due simboli piuttosto realistici, il primo sottintende la reazione istintiva di fronte a qualcosa di ripugnante e disgustoso, il secondo, invece, significa “acido”, “alterato” e indica perciò una sopravvenuta corruzione o deformazione (vedi gli argomenti a fortiori sulla corruzione dell’uomo in 4,17-19 e 15,14-16 o 25,4-6).
Giobbe è, però, anche la storia di un credente. In ogni istante della sua storia drammatica, anche di fronte alla sua più cupa disperazione e alle sue più dure urla quasi blasfeme contro Dio, Giobbe non cessa di essere un credente. Anzi, la sua storia è per eccellenza quella della ricerca di Dio, evitando tutte le scorciatoie della teologia codificata e semplificata. Egli non abbandona mai questo filo anche nel silenzio più totale di Dio, anche nell’abisso dell’assurdo, ed è per questo che alla fine «i suoi occhi lo vedono»; ed è per questo che alla fine Dio, ignorando le accuse e le proteste, preferisce la fede nuda di Giobbe alla compassata religiosità dei suoi avvocati difensori teologi: «La mia ira si è accesa contro di voi perché non avete parlato di me con fondamento come il mio servo Giobbe» (42,7). Un forte senso di Dio pervade tutto il libro: «Nella sua mano Dio stringe l’anima di ogni vivente e il respiro dell’uomo di carne… Ciò che egli demolisce nessuno lo può ricostruire, chi egli incarcera nessuno lo può liberare. Se blocca le acque, tutto si inaridisce, se le sblocca si inonda la terra» (12,10.14-15). Il cammino di Giobbe è, quindi, quello di un credente che attraverso l’oscurità vuole giungere all’approdo della luce e del dialogo col suo Signore.
Ma Giobbe è anche e ininterrottamente la storia di un sofferente. È questa la dimensione evidente che non ha bisogno di essere illustrata. Il dolore d’altra parte, per tutte le teologie mature, è il banco di prova della fiducia in Dio e nella vita. Famoso è il quadro di base tracciato da Epicuro in un frammento conservato dal “De ira Dei” dello scrittore latino cristiano Lattanzio (c. 13): se Dio vuole togliere il male e non può, allora è debole (e quindi non è Dio); se può e non vuole, allora è radicalmente ostile nei confronti dell’uomo; se non vuole e non può, allora è debole e ostile; se vuole e può, perché esiste il male e perché esso non viene eliminato da Dio? I più diversi tentativi di soluzione e di spiegazione del dilemma Dio e/o il dolore costellano tutta l’avventura del pensiero umano. La stessa Bibbia, come si è visto, ci offre uno spettro molto variegato di soluzioni che tentano di circoscrivere qualche faccia di questo mistero. Giobbe usa questo campo di battaglia, il più difficile per la fede, proprio per esaltare la necessità della fede. La sua rappresentazione della sofferenza non è, quindi, romantica o esistenziale, ma sostanzialmente canalizzata al mistero di Dio.
Il mistero del male
Su questo grande interrogativo certamente Giobbe si attesta, ma non con lo scopo di metterlo a tema né tanto meno di risolverlo “razionalmente”. Nella Bibbia c’è, come si è detto, lo sforzo di penetrare in questa cittadella inafferrabile: c’è una proposta propria dei libri biblici storici, c’è una visione profetica, c’è una lettura caratteristica del Deuteronomio, c’è una interpretazione apocalittica, c’è una presentazione salmica legata alle suppliche del Salterio, c’è poi la grande proposta neotestamentaria vincolata alla morte di Cristo e alla sua pasqua. Giobbe tiene nel suo mirino soprattutto la proposta della letteratura biblica sapienziale (presente soprattutto nel libro dei Proverbi), codificata nella teoria della retribuzione che largo spazio avrà anche nel resto della teologia di Israele. Come si è detto, secondo questa teoria ogni sofferenza è sanzione di peccati personali. La sua applicazione può rivestire forme differenti: retribuzione terrena e personale (Pr 11,21.31; 19,17; Gb 22,2), retribuzione collettiva (Sir 11,20- 28; Qo 9,5), retribuzione immediata, retribuzione differita (Sal 37,10; 49,17; 73,18-19; Gb 8,8ss; Sir 11,26-28), retribuzione nell’oltrevita (Sap 3). Giobbe rifiuta questa “tecnologia” morale come insufficiente a spiegare storia ed esistenza. Egli adotta la realtà del male lasciandola nella sua forza di scandalo, nella sua provocazione bruta vanamente coperta dai veli retributivi proposti dai suoi amici teologi che dialogano con lui.
Ma la sua polemica e la sua sincerità nei confronti della soluzione sapienziale classica hanno lo scopo di sgombrare il terreno da ogni soluzione ipocrita e semplificatoria. Su questo terreno del male, “la rocca dell’ateismo”, come scriveva il drammaturgo tedesco Georg Büchner, Giobbe vuole aprire una nuova riflessione che coinvolga Dio in modo positivo. In un certo senso potremmo dire che per Giobbe il mistero del male, che egli fa balenare in tutta la sua tragica violenza e verità, deve condurre a Dio in un modo molto più genuino di quanto lo faccia l’esistenza del bene. Il poeta biblico è fermamente convinto che il male, proprio perché mistero, non può essere “razionalizzato”, addomesticato attraverso un facile teorema teologico. Il male e il dolore urlano con tutta la loro forza contro la mente dell’uomo. Ma il poeta biblico è altrettanto fermamente convinto che esiste una ‘etzah (38,2), una “razionalità” da mistero, cioè superiore e totalizzante, quella di Dio: essa riesce a collocare in un progetto ciò che per l’uomo sembra invece debordare da ogni progetto, cioè il male.
Il mistero di Dio
Siamo giunti, così, al vero cuore del libro. Giobbe è uno scritto “teologico” nel senso pieno del termine. Fondamentale è l’oscillazione tra la ricerca spasmodica di Dio dei cc. 3-27 e l’esaltante esperienza di Dio dei cc. 38-39 / 40-42. Giobbe resta contemporaneamente teso verso la disperazione e la bestemmia a cui lo conduce “logicamente” la sua intelligenza e verso la speranza e l’inno di lode a cui lo conduce la scoperta di Dio. Dio, infatti, vuole far balenare l’impossibilità di ridurre il suo “progetto” ad un semplice schema.
Giobbe riconosce, davanti alla sfilata dei segreti cosmici che gli vengono presentati da Dio nei suoi discorsi, di non essere in grado di sondare che qualche particella microscopica, mentre Dio sa percorrerli con la sua onniscienza e onnipotenza. Lo sfidato, Dio, diventa a sua volta sfidante nei confronti dell’uomo facendogli intuire che la “logica” di Dio è onnicomprensiva e ben più autentica di quella limitata della creatura, che si sente continuamente “insensata” e inceppata nel suo procedere. Alla fine, perciò, agli occhi di Giobbe non appare l’incastro perfetto del male nella trama della storia e dell’essere, bensì il volto di colui che questo incastro realizza non secondo quanto noi supponiamo ma secondo il suo disegno trascendente. E a questo punto Giobbe si abbandona al disegno divino: «Se pure corressi per mari stranieri tornerò sempre a far naufragio nel tuo, Signore» (M. Pomilio).
Giobbe diventa, in questa luce, una grande catechesi sulla fede pura e sul vero volto di Dio contro ogni compromesso e contraffazione anche teologica. Come si è detto, per Giobbe è insufficiente ogni lettura “umana”, perché l’analisi del mistero dell’uomo e del male è condotta in modo funzionale rispetto al vertice tematico autentico che è divino. La centralità del «vero Dio misconosciuto dall’uomo vecchio» (D. Barthélemy) è giustificabile in Giobbe a livello letterario e tematico. A livello esterno, letterario, perché Dio è sempre presente nell’opera come atteso, come interlocutore desiderato, anche se assente come parte in causa: «Oh, se sapessi dove incontrarlo, come arrivare sino al suo trono! Esporrei davanti a lui la mia causa con la bocca colma di argomenti. Conoscerei finalmente con quali discorsi mi replica, capirei che cosa mi deve comunicare» (23,3-5).
La stessa struttura del libro rivela questa tensione di fondo: la rivelazione e i discorsi finali del Signore sono la conseguenza logica e l’esito risolutivo del dialogo e della sfida che l’uomo-Giobbe lancia nel c. 31. Lo stesso “mediatore” sognato a un certo punto da Giobbe perché funga da arbitro neutrale nella contesa tra l’uomo e Dio non può che essere Dio stesso, perché nessuno può essere arbitro superiore rispetto a Dio. Si può dire con l’esegeta Jean Lévêque che Giobbe vive la sua prova «come una domanda su Dio ed è solo a Dio che vuole porla». E, come si è ripetuto, il senso ultimo di questo itinerario a delta ramificato non è quello di rendere ragione del mistero del dolore in sé preso, quanto piuttosto quello di dire «cose rette» su Dio (42,7). In altri termini: la questione centrale dell’opera non è il male di vivere, ma il come poter credere e in quale Dio credere nonostante l’assurdo della vita. Contro il razionalismo della teoria retributiva, contro il razionalismo teologico degli amici, Giobbe ribadisce la necessità della gratuità della fede, e l’esigenza del “vedere” attraverso un’autentica esperienza di fede (cfr. Sal 73,17).
Gianfranco Ravasi, nato nel 1942 a Merate (Lecco) e ordinato sacerdote nel 1966, è stato per molti anni Prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana di Milano. Nel settembre 2007, dopo essere stato nominato da Benedetto XVI Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e delle Pontificie Commissioni per i Beni Culturali della Chiesa e di Archeologia Sacra, è stato consacrato Arcivescovo Titolare di Villamagna di Proconsolare. A lungo docente di esegesi dell’Antico Testamento nella Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale e di Ebraico nel Seminario arcivescovile milanese, è membro di numerose accademie e istituzioni culturali italiane e straniere, oltre che autore di diversi volumi. Collabora con i quotidiani L’Osservatore Romano, Il Sole 24 Ore, Avvenire, con il settimanale Famiglia Cristiana e con il mensile Jesus. Il 20 novembre 2010 è stato creato Cardinale da Benedetto XVI.
21 GIUGNO 2015 | 12A DOMENICA – T. ORDINARIO B | OMELIA
SONO IL TUO CREATORE E REDENTORE
Oggi sentiamo che la Parola di Dio ci abbraccia e ci avvolge. I nostri giorni scorrono veloci tra nuvole e squarci di azzurro, tra crisi e tempeste e momenti lieti di pace e di serenità. Ci risulta sempre difficile capire il perché, le ragioni della situazione gioiosa o tragica che stiamo vivendo. Gioie e dolori, esperienze laceranti e stagioni appaganti quasi ci colgono all’improvviso. Ci conforta e ci guida nel cammino la certezza che Dio è con noi, ci ha creati e ci segue anche nella tempesta, ci solleva dal male, ci rende, talvolta nonostante noi, creature nuove.
SIAMO PICCOLE CREATURE
La pagina del Libro di Giobbe è eloquente nel presentarci ed interpretare le parole di Dio nell’uragano. Anche Giobbe vive nell’uragano, nella tempesta. La vita gli ha riservato una prova sull’altra, nella sua famiglia, nei suoi averi, nella sua stessa persona, disfatto dalle malattie. La situazione che sta vivendo lo ha portato a maledire addirittura il giorno della sua nascita. Giobbe è piccolo, fragile e fiaccato, ma non si arrende, interloquisce, discute, quasi pretende da Dio una risposta.
Perché tanto accanimento nei suoi confronti? Dio accetta la provocazione, la sfogo comprensibile del povero Giobbe, ma non si lascia circoscrivere dalle sue giuste rivendicazioni. Dio, il Creatore, risponde ponendo domande, mettendo Giobbe di fronte a ciò che non ha spiegazione. Egli si libra sugli uomini e sul mondo e non può spiegarsi, rendere ragione del suo essere e del suo agire alla piccola mente dell’uomo. La creazione è stata un vero uragano di grazia e di potenza. Nessun uomo può capire. La creazione è un grembo immenso da cui tutti noi proveniamo, ma ci sorpassa, non può essere misurata e vagliata dalla nostra mente. E’ essenziale comprendere il nostro limite: non possiamo spiegare Dio. E’ salutare accettare con serena umiltà la nostra condizione di creature.
GESU’ NELLE NOSTRE TEMPESTE
La tempesta infuria sul lago e ha colto di sorpresa gli apostoli che ora temono il peggio. Gesù è con loro e con sembra condividere il panico che attanaglia tutti. Gesù dorme. Il contrasto non potrebbe essere più evidente, più marcato. Che cosa nasconde questa esperienza, che cosa ci vuole trasmettere la Parola?
Gesù condivide la vita dei suoi, è con loro, è uno di loro. Un estraneo non riconoscerebbe in lui nulla di diverso, di straordinario. Gesù è uno di loro, condivide la condizione reale della vita umana, non è un fantasma, un’apparizione eterea.
In Gesù il Creatore si è accostato alla nostra vita, ha condiviso tutte le stagioni del nostro vivere. Ha amato come amiamo noi ed ha sofferto come e più di noi, ha lavorato, ha sperimentato l’odio e la morte. Eppure Gesù che dorme tranquillo sulla barca, in mezzo al terrore dei suoi, è qualcosa di più. I discepoli riconoscono di aver bisogno di lui: Gesù deve essere sveglio per aiutarli e liberarli dalle oscure forze della natura. La domanda e lo stupore dei suoi ci colpiscono e ci consentono di accostare il Dio che parla a Giobbe nell’uragano a Gesù che è signore del vento e della tempesta.
Come Yahweh anche Gesù parla nell’uragano e domina ed assoggetta la natura. La pagina di Marco, con la stessa accuratezza, sottolinea che Gesù è uno di noi, ma anche « altro » rispetto a noi. Lo sentiamo accanto a noi nel solcare il mare della vita e nello stesso tempo sperimentiamo la sua forza, la sua energia quando siamo abbandonati e persi.
L’AMORE DI CRISTO CI POSSIEDE
L’espressione è di Paolo, esce dalla sua penna, ma soprattutto dalla sua esperienza, dall’essere stato conquistato da Cristo, nonostante se stesso. Altrove Paolo, quasi come una eco di questo possesso da parte di Cristo nei nostri confronti, insiste che l’amore di Cristo ci incalza, ci spinge. Sperimentiamo oggi tante cose e tante esperienze che si impongono su di noi, che ci reclamano, che ci schiavizzano; ne siamo posseduti e ci sentiamo comunque insoddisfatti, con il fiato corto.
Comprendiamo che non ci resta che salire sulla barca di Gesù, stargli accanto, respirare la sua pace e con lui affrontare le nostre tempeste, il peso e la sofferenza del vivere. Gesù con noi e in noi ci possiede con il suo amore che ci riscatta e ci libera.
« L’amore è l’unico tesoro
che potete accumulare in questo mondo e portare con voi nell’altro. Tutta la gloria, il lavoro, le fortune, i tesori e i successi che credete di aver posseduto in questo mondo, resteranno in questo mondo ». (S. Charbel)
D. Gianni Mazzali SDB
DIO È NEI CIELI?
CHRISTIAN CANNUYER
GENNAIO 2002
Partendo dall’affermazione della più nota preghiera cristiana, “Padre nostro che sei nei cieli…”, l’Autore, docente alla Facoltà di teologia dell’Università di Lille e Presidente della Società Belga di Studi orientali, esamina il significato biblico dell’espressione “cielo”, in quanto sede di Dio. Quali rapporti vi sono fra Dio e il cielo, e di quale cielo sta parlando il testo sacro? Per rispondere a queste domande si espone un sintetico quadro delle varie accezioni di questo termine nella Scrittura e dei suoi significati.
Come molte religioni, la Bibbia fa del cielo il dominio di Dio, il suo santuario, il suo regno. Questa collocazione ha attraversato tutto l’immaginario ebraico e cristiano sino a lasciare tracce profonde nella nostra religiosità attuale, malgrado il «disincanto» del cielo cui hanno portato la scienza e l’esegesi moderna: come i cristiani dei primi secoli, non continuiamo a pregare ogni giorno «Padre nostro, che sei nei cieli»?
Prima della creazione Dio Padre circondato da angeli, ms. fr. 50, fol. 13 dello Specchio della storia di Vincent de Beauvais, XV secolo. Parigi, Biblioteca Nazionale di Francia, dipartimento dei Manoscritti.
Nel 1922, il grande storico delle religioni Raffaele Pettazzoni (1883-1959) pubblicò L’essere celeste nelle credenze dei popoli primitivi, in cui metteva in evidenza che, nella maggior parte delle «visioni del mondo» definite primitive, l’immensità del cielo, la sua influenza sulla fertilità del suolo, la sua luce splendente, la sua inaccessibilità avevano portato alla sua personificazione mitica, identificandolo insomma con quell’Essere supremo di cui l’etnologo tedesco Wilhelm Schmidt (1868-1954) aveva creduto di riconoscere l’importanza alle origini del pensiero religioso di una quantità di popoli arcaici.
All’origine del sentimento religioso c’è lo stupore di fronte al cielo?
Mircea Eliade (1907-1986), nel suo Trattato di storia delle religioni, ha cercato di perfezionare questi approcci, mostrando che il cielo, per la sua grandezza, la sua forza, la sua immutabilità, ha potuto all’inizio essere per l’uomo il luogo di un’espressione simbolica della trascendenza, una rivelazione del sacro o del divino (ierofania) offerta allo spirito stupito in modo immediato, non in seguito ad una riflessione speculativa., come avrebbe voluto Schmidt, né di un’affabulazione mitica e prelogica, come affermava Pettazzoni. Per Eliade, questa potenza simbolica della ierofania uranica è un dato primordiale della religiosità. È il motivo per cui gli dèi buoni, eterni, immutabili, e, al di sopra di loro, il più grande, il Creatore, demiurgo o Essere supremo, sono collocati nel cielo, ovvero identificati con esso. Paradossalmente, questi dèi o Essere celesti supremi, onnipotenti e onniscienti. sembrano tanto distanti da scomparire dalla vita quotidiana, dal culto comune, dalla consapevolezza immediata: sono degli dèi «ritirati» o «inattisi» (dei otiosi), in riposo nell’eterno splendore dell’empireo; persino il Dio della Bibbia non si riposa dopo tutta la fatica dei «Sette giorni» della creazione? In numerose religioni «arcaiche», come in Australia o nell’Africa nera, i grandi dèi celesti primordiali cedono il posto a dèi più accessibili, più vicini agli umani, anche più dinamici, attori di una mitologia in crescita e multiforme. Indipendentemente dalla pertinenza delle con conclusioni di Eliade – alle quali certamente oggi si rimprovera un eccesso di dogmatismo e di generalizzazioni affrettate – esse sembrano aver messo il dito su un aspetto dell’esperienza «arcaica» del sentimento «religioso»: il fascino abbagliante di fronte alla bellezza, all’immensità, alla luce incomparabile dell’azzurro. Ciascuno di noi non prova questo a partire dalla sua prima infanzia?
Il Cielo-dio: una credenza universalmente diffusa
Sulle rocce della Val Camonica, in Lombardia, a nord di Brescia, dei graffiti rupestri risalenti al 5000-3000 a.C. rappresentano uomini in preghiera, con le braccia alzate verso il cielo. Non è che un esempio tra gli altri dell’importanza del cielo nelle religioni della preistoria. Parecchie religioni conservano almeno la traccia di un culto antichissimo al Dio cielo o a un Essere supremo che vi risiede: così presso le popolazioni turco-mongoliche dell’Asia centrale, il grande dio nazionale e imperiale Tengri non è altro che il Köke Möngke Tenri, «Eterno Cielo Blu», che è elevato (űze) sovrano e forte (kütch), ma allo stesso tempo inaccessibile e spesso ozioso, al quale solo il khan e i grandi rendono culto. Il caso più conosciuto è quello della Cina dove, a partire dall’VII secolo a.C., la dinastia dei Chou ha formalizzato la religione del «Sovrano dell’ Alto del vasto cielo» (Hao-t’ien Chang-ti), cioè del Cielo stesso (t’ien), di cui l’imperatore era considerato come il Figlio, solo abilitato a venerare il Padre nella capitale, su una collinetta a forma di volta celeste. La nostra stessa parola per dio, dal latino deus, viene dalla radice diu-, dei-, «brillare», che traduce la natura celeste del grande dio comune a tutti gli Indoeuropei e ha dato origine anche al nome del giorno (latino dies, di dove, in italiano, «diurno», o le finali in -di dei nomi dei giorni della settimana); presso i Greci Zeus (al genitivo Dios), e in indo Dyauh-Pitâ (Dio padre), analogo al Dius-pater («dio padre», cioè Jupiter) dei Romani, il dio celeste Diêvas o Dievs delle antiche religioni lituana e lettone, e sino al dio Tyr degli Scandinavi. Georges Dumézil ha ben dimostrato che gli dèi sovrani Varuna e Mitra, che occupano il primo posto nella trifunzionalità del pantheon indoeuropeo, sono in origine degli dèi del cielo. La stessa considerazione vale per il dio supremo degli Iranici, Ahura Mazda, al quale la riforma monoteista di Zarathustra (Zoroastro) conserverà gli attributi di un dio uranico, luminoso, sapiente e bello.
Dei del cielo nel mondo biblico
Più vicino al mondo biblico, c’è bisogno di ricordare che il sumerico dingir, corrispondente all’akkadico ellu, «dio», significa fondamentalmente «ciò che è chiaro, brillante»? Il segno cuneiforme che descrive queste parole rappresenta una stella e ritorna anche nel termine an, «cielo». Il capo supremo del pantheon babilonese, Anu, non è altro che il cielo e il suo tempio principale di Uruk portava il nome di E-an-na, «casa del Cielo».
Presso i Cananei, i Fenici e gli Aramei il titolo di Baal-Šamêm, «signore dei cieli», che appare dal II millennio prima della nostra era, fu attribuito a partire dal IX secolo a.C. ad una divinità suprema considerata sempre più come il Creatore per eccellenza. È probabilmente per lui che Gezabele di Tiro, sposa del re Acab di Israele (874-853), aveva introdotto un culto sul monte Carmelo (1 Re 18). concorrenza che suscitò, come è noto, la feroce opposizione della nobile figura del profeta Elia. In epoca ellenistica questo Baal fu identificato dai Greci con Zeus Hypsistos (Altissimo), e sotto l’epiteto di Theos Hagios Ouranios, «Dio Santo Celeste», fu venerato sino al III secolo della nostra era nel tempio tirio di Qadeš, all’estremo nord della Galilea (Tell Qedeš, 10 chilometri a nord del sito di Hazor).
Certo, il Dio d’Israele ha creato il cielo (Gn 1,1), che testimonia la sua gloria (Sal 19), e l’Antico Testamento abolisce l’uranolatria. D’altra parte, anche i cieli dovranno essere rinnovati dal Creatore alla fine dei tempi (Is 65,17; Ap 21,1; 6,14). Il cielo, nella maggioranza dei testi, rimane considerato come la dimora di Dio o il suo santuario, di dove egli osserva gli uomini (Sal 33,13-14; 102,20; Is 63,15). Dio è il Dio del cielo (Ne 1,4). verso il quale si alzano le braccia quando si prega (Es 9,29; cf anche 2 Cr 30,27). «Io ho visto il Signore seduto sul trono; tutto l’esercito del cielo gli stava intorno, a destra e a sinistra», proclama il profeta Michea, figlio di Yimla, al re Acab, predicendogli la disfatta contro gli Aramei (1 Re 22, 19): alla pari dei Baal cananei, il Dio dell’Antico Testamento è un re celeste circondato da una corte e da un esercito.
Il cielo giunge anche a designare allusivamente Dio in persona: «Levano la loro bocca fino al cielo», dice il salmo 73,9, dei malvagi… E Daniele (4,23) ingiunge al re Nabucodonosor, se vuole conservare la sua regalità, di riconoscere la sovranità del Cielo, cioè quella del Dio Altissimo. A partire dal libro dei Maccabei (scritto verso il 100 a.C.) questa immagine diventerà molto frequente e s’imporrà nel giudaismo (cf 1 Mac 12,15).
Il Dio del cielo nel Nuovo Testamento
La maggior parte di questi concetti sono ripresi nel Nuovo Testamento (cf At 7,49). Dio è il Dio del cielo (ho Theòs lou ouranou: Ap 11,13). «Chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l’abita. E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso», dice Gesù agli scribi e ai farisei ipocriti (Mt 23,22). L’uso di sostituire il nome del cielo a quello di Dio si generalizza; là dove Matteo parla di «regno dei cieli», Luca e Marco usano «regno di Dio» (es. Mc 1,15 e Mt 4,17). Gesù stesso intrattiene col cielo una relazione molto stretta. Figlio del Padre che è nei cieli (Mt 12,50; 18,19), da lì è venuto e li ritornerà. «Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Eppure nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dai cielo», egli confida al fariseo Nicodemo (Gv 3,12-13). È il motivo per cui il cielo stesso riconosce autentica la missione di Cristo aprendosi per lui (Mt 3,6) e mandandogli lo Spirito (Gv 1,32). La risurrezione esalta Gesù nel più alto dei cieli (Eb 4,14; 7,26), dove gli è affidata ogni autorità (Mt 28,1 8), nella Gerusalemme celeste incastonata in uno scrigno cosmico rischiarato da un cielo rinnovato (Ap 3,12; 21,5). Alla fine dei tempi, il Signore «discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti. saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria» (1Ts 4,16-17).
Tuttavia abbastanza presto l’insistenza del monoteismo di Israele sulla trascendenza divina portò a riflettere sui limiti provocati da un’associazione troppo stretta di Dio con lo spazio celeste, soprattutto il «nostro» cielo visibile. Il «cielo di Dio» doveva, evidentemente, trovarsi al di là del firmamento, in altri «cieli» che il nostro. Invitava a concludere in questo senso il fatto che nell’ebraico biblico la parola «cielo» si presenta in genere sotto una forma di plurale irregolare (šâmayim, «i cieli»). Forse sotto l’influsso dell’astronomia babilonese, si giunse a concepire una molteplicità di cieli, l’esistenza di un «cielo dei cieli» (Ne 9,6; Dt 10,14); il salmo 108,5-6 sviluppa l’idea di una grandezza di Dio che sorpassa ampiamente i cieli: «La tua bontà è grande fino ai cieli e la tua verità fino alle nubi. Innalzati, Dio, sopra i cieli, su tutta la terra la tua gloria». E in 1 Re 8,27, la straordinaria preghiera di Salomone, che afferma l’onnipotenza e la trascendenza di Dio, arriva a mettere in discussione qualsiasi «localizzazione» del Creatore, che sia nel Tempio di Gerusalemme o in questi «spazi ultrasiderali»: «Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruita!».
Dio più alto del cielo, Dio fuori del cielo
L’immagine di una molteplicità di cieli per tradurre la trascendenza divina ha conosciuto un grande favore nella letteratura apocalittica ebraica tardiva. Nell’Apocalisse e di Albramo (scritta in ebraico verso la fine del I secolo d.C., ma conservata in antico slavo e in rumeno), il patriarca trasportato al settimo cielo, contempla Dio che vi dirige la creazione, «immagine del cielo e di ciò che contiene». Nella seconda lettera ai Corinzi (12,2). Paolo dice a sua volta di avere conosciuto l’esperienza di un’elevazione sino al «terzo» cielo, immagine del paradiso. Così il cielo in cui Dio sta in trono non è il «nostro» cielo immediato «il più scuro, poiché vede tutte le ingiustizie degli uomini (Testamento di Levi, 3, 1).
Per gli gnostici il cielo è male e non vi si trova Dio
Tra i primi ad aver lanciato un’offensiva ben più radicale contro una collocazione di Dio in cielo si pongono probabilmente gli gnostici. Lo gnosticismo, corrente religiosa nata nel II secolo d.C. in Siria-Palestina e in Egitto, alla periferia del giudaismo e del cristianesimo, si caratterizza per una posizione violentemente anticosmica: il mondo materiale, visibile, è male, è opera di un demiurgo pericoloso, di un falso dio nato da una tragica decadenza in seno al divino stesso. Questo dio ingannatore e malvagio, identificato da numerosi gnostici col Dio ebraico, quello dell’Antico Testamento, è all’origine della chiusura delle anime, particelle della luce divina, nei corpi. Egli abita nel cielo che ha creato e dal quale comanda il cosmo empio per mezzo di «Potenze», gli Arconti, la cui tirannide ricorda l’impietosa autorità delle divinità celesti dell’astrologia mesopotamica. Anche il cielo, che appartiene al creato. non è per gli gnostici che un grottesco surrogato della dimora luminosa del vero Padre, del Pro-principe, del vero Dio di cui il demiurgo nasconde all’uomo l’esistenza presentandosi come il solo Creatore. È in se stesso che l’uomo, grazie alla conoscenza (gnosi) di sé rivelata da un inviato della luce, troverà la propria salvezza, non alzando gli occhi verso il cielo. Nel Vangelo secondo Tommaso, trovato a Nag Harnmadi (Alto Egitto) nel 1946, Gesù presentato in questa qualità di inviato della luce (un Gesù doceta, in apparenza d’uomo, non incarnato, perché l’incarnazione non potrebbe essere che una ripugnante commistione del divino con la materia malvagia), afferma con forza: «Se coloro che vi guidano vi dicono: “Ecco, il regno è nei cieli !“. allora gli uccelli del cielo vi precederanno. Se vi dicono che è nel mare, allora vi precedono i pesci. Ma il regno è dentro e al di fuori di voi. Quando voi vi conoscerete, allora sarete conosciuti e saprete che siete i figli del Padre Vivente» (logion 2). Inoltre, aggiunge il Salvatore, «questo cielo passerà e passeranno quelli che sono al di sopra di lui» (logion 11). In modo che lo spazio celeste accessibile allo sguardo dell’uomo non può in alcun caso essere considerato come dimora del divino. E, tutt’al più, la stamberga dell’aborto demiurgico, il tugurio del Creatore geloso e terribile della Scrittura ebraica.
Rivelando il «Padre nostro che è nei cieli», Gesù, per gli gnostici, invita dunque a scoprire il vero Padre che vive nella luce, che non abita il cielo cosmico, ma nei cieli dei cieli, gli eoni degli eoni che sono evidentemente al di fuori dello spazio. E il motivo per cui taluni testi gnostici. che evocano la liberazione dell’anima che ritorna verso la luce da cui proviene, descrivono questo processo come un’ascensione non verso il «cielo», ma verso una serie di cieli successivi (sino al decimo nell’Apocalisse di Paolo), la cui moltiplicazione tradisce il discredito gettato sul cielo siderale, cosmico, assolutamente lontano dalla trascendenza divina, Vi è in questo una svolta ed un chiaro superamento del tema della pluralità dei cieli dell’apocalittica ebraica. Nemmeno il «settimo» cielo trova grazia agli occhi degli gnostici e L’ipostasi degli Arconti (un altro testo di Nag Hammadi) vi colloca il trono del false «dio delle forze», Sabaoth Per loro, il cielo è decisamente spogliato del prestigio di essere la casa di Dio e il luogo della salvezza dell’uomo.
Oggi, il disincanto verso il cielo?
In questo modo gli gnostici annunciano il «disincanto» o la «demitizzazione» con cui l’esegesi esistenziale del luterano Rudolf Bultmann (1884- 1976) purgherà il cielo cristiano, non vedendovi altro che un’immagine della trascendenza divina legata alle strette costrizioni delle rappresentazioni cosmiche proprie al mondo antico. Gesù, «disceso dal cielo», secondo il simbolo niceno (cf anche Gv 3,13 e 6,51), vi «risale» all’Ascensione per sedere alla destra del Padre (cf Gv 3,13; 6,62; 20,17; Ef 4,9-10): per la fede moderna, si comprende questa affermazione della fede della Chiesa come una metafora che indica l’ingresso di Gesù nella gloria del Padre, un mistero indicibile di cui gli apostoli ebbero un’esperienza che può essere espressa soltanto in maniera simbolica. Il rapimento (analépsis, cf Lc 24,5) o la salita (anábasis, cf Gv 20,17) di Gesù «al cielo», evidente ricordo del viaggio celeste di Elia o di Enoch nell’Antico Testamento, di Esdra, di Baruc, di Mosè, d’Abramo o di Levi negli scritti intertestamentari, è indissociabile dal mistero della sua risurrezione. Esso esprime la sua vittoria sulla morte, la sua intimità col Padre, la promessa all’uomo della vita eterna. Come scrive Leone Magno (papa dal 440 al 461), «L’ascensione di Cristo è dunque la nostra propria elevazione e, là dove in precedenza è andata la gloria del capo, là è chiamata anche la speranza del corpo». Così il cielo, dimora di Dio, diventa per i cristiani speranza e luogo simbolico della salvezza.
Se la scienza moderna ha largamente contribuito a disincantare il cielo, essa ha nello stesso tempo rivelato l’immensità prima impensabile degli spazi intersiderali, dell’universo intergalattico che, oggi forse più ancora di ieri, attraverso la sua misteriosa relazione col tempo, con l’Essere, col divenire, appare come il santuario simbolico del Creatore. È là, nel cuore del mistero dell’essere di cui l’universo conserva la lunga memoria, che noi continuiamo, se non a collocare, perlomeno ad imparare a conoscere il «Padre nostro che è nei cieli».
da “Il cielo nella Bibbia”, ne Il mondo della bibbia, 61 (2002), n. 1, pp. 13-17, tr. dal francese di R. Bertazzoli.
http://www.apostoline.it/riflessioni/profeti/ISAIA.htm
I PROFETI – ISAIA: L’INCONTRO CON LA GRANDEZZA
di LUIGI VARI, biblista
Il profeta Isaia, certamente il più famoso tra i profeti, quello che abbiamo più occasione di ascoltare la domenica a Messa, è certamente difficile da presentare. Isaia è complesso, non si legge tutto d’un fiato, ha bisogno di tempo e di studio. Il libro che noi chiamiamo « Isaia » è specchio della complessa attività di questo personaggio e del grande movimento che da esso si è originato. Il libro di Isaia infatti è più una biblioteca che un libro, in quanto contiene tre libri almeno, che gli studiosi chiamano rispettivamente ISAIA, DEUTEROISAIA (secondo Isaia) e TRITOISAIA (terzo Isaia). Questo significa che nel nome di Isaia si è sviluppato un movimento che ha superato la sua vita.
Pensare che quest’uomo abbia influito tanto nell’esperienza del suo popolo da essere diventato uno a cui rifarsi, come un caposcuola, ci rende curiosi e ci spinge ad un incontro umile con un personaggio che deve essere stato straordinario.
Con gli occhi di Dio
Isaia inizia il suo ministero nel 740 e deve averlo esercitato per almeno 40 anni, quando erano re Acaz e poi Ezechia. Anche lui, come tutti, vive la storia del suo tempo e cerca di leggerla con gli occhi di Dio. Vuole che a guidare le scelte del popolo siano criteri profondi, quali quelli della fedeltà all’alleanza, ed inevitabilmente si trova di fronte ad altri modi di lettura che sembrano essere più intelligenti, ma che portano il popolo alla rovina.
Quello che colpisce in Isaia è l’intensità dell’esperienza di Dio, visto in tutta la sua grandezza: « io vidi il Signore seduto su un trono molto elevato, la sua gloria riempiva il tempio » (Is 6,1), la grandezza di Dio spaventa il profeta: « io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono ed in mezzo ad un popolo dalle labbra impure io abito » (6,5). La grandezza, però, non è lontananza, Dio è il Santo, ma è il Santo che si preoccupa del suo popolo: « chi manderò e chi andrà per noi? » e che cerca qualcuno che abbia il coraggio di essere sua presenza fra la gente. La grandezza di Dio prima spaventa e poi coinvolge il profeta che accetta: « Eccomi, Signore, manda me ».
Ogni incontro con Dio è incontro con la grandezza: mai fine a se stessa, ma che ci raggiunge e si impegna con la nostra debolezza per sollevarci.
Il profeta è chiamato a lasciarsi coinvolgere da questa grandezza e dunque a condividere con Dio l’amore per il suo popolo, a farsi carico delle difficoltà che il popolo vive e a difenderlo dalle minacce. Il profeta è grande della grandezza di Dio quando diventa presenza che solleva, capacità di farsi carico e di condividere, di essere presente quando Dio ha bisogno di entrare nella storia dell’uomo.
Liberarsi dalla paura
Isaia inizia il suo cammino di profeta e scopre che il popolo è segnato dallo scoraggiamento, paralizzato dalla paura. Cerca allora di dare coraggio e si rivolge al re Acaz: « Veglia e stà calmo, il tuo cuore non deve indebolirsi a causa di questi due resti di tizzoni fumanti » (7,4). L’immagine di « tizzone fumante » dice la morte, la debolezza mortale. Dio incoraggia il suo popolo, lo libera dalla paura, invitandolo a guardare con occhio attento il motivo della paura e a rendersi conto che è, per molti versi, ingiustificata. Non è facile, però, liberarsi dalla paura. Si tratta di fare scelte segnate dalla fede,si tratta di avere il coraggio di accantonare i calcoli che ci rendono sicuri. È il dramma di sempre: quanto ci si può fondare su Dio per le scelte che riguardano la nostra vita? Il re è invitato da Isaia a correggere la propria politica e a fidarsi di Dio. Che cosa deve fare un re? Capita spesso di dover notare una sorta di sorriso compassionevole di fronte alla parola di Dio, un sorriso di sufficienza che tende a relegare Dio nella schiera degli ingenui che non faranno mai storia; capita quando si nega alla Parola di illuminare le nostre scelte, quando non si riconosce la possibilità che il punto di vista di Dio possa essere quello giusto anche se contrasta con il nostro giudizio spesso reso debole dalla paura. E quando questo capita, quando neghiamo a Dio la concretezza noi neghiamo la sua grandezza, per cui il profeta afferma: « se voi non vi terrete fermi (se non vi fidate del giudizio di Dio), voi non sarete tenuti fermi » (7,9: lettura della CEI: se voi non crederete non sussisterete), l’alternativa è fra l’essere fondati e l’essere sbattuti da ogni vento.
Acaz si trova davanti a questo dilemma, ma Dio non lo lascia solo; lo invita chiedere un segno: « Il Signore parlò ancora ad Acaz in questi termini: »Domanda un segno per te al Signore tuo Dio, domandalo negli abissi o sulla sommità del cielo » . Acaz rispose: « Io non lo domanderò e non metterò il Signore alla prova » (Is 7,10-12).
Il segno non è necessariamente un miracolo, è qualcosa di verificabile nel tempo. Acaz viene invitato a scegliere, ma senza rinunciare alla possibile verifica; qui scatta il dramma: il re non vuole nessun segno! La paura che rende il re incapace di decidere per il bene viene scelta come stato di vita, come situazione permanente.
A questo punto la storia sembrerebbe chiusa alla speranza, il rifiuto sembra condannare l’uomo alla paura perpetua; la paura, la paralisi diventano incapacità di fare il bene.
L’Emmanuele: il segno della fedeltà di Dio
Isaia, profeta, scopre allora che LA STORIA È DI DIO, che l’uomo è di Dio: « Ascoltami dunque, casa di Davide, è troppo poco per voi affaticare gli uomini, che voi volete affaticare anche il mio Dio? Il Signore vi darà lui stesso un segno, ecco: la Vergine concepirà e partorirà un figlio che chiamerà Emmanuele » (7,10-14).
L’Emmanuele è, nella lettura dei Vangeli (Mt 1,23) e della tradizione cristiana, lo stesso Cristo che viene così ad essere il segno della fedeltà di Dio, della speranza, della liberazione dalla paura per l’uomo che cammina ogni giorno aggredito da tanti tipi di tenebra.
Cristo è la luce che orienta il cammino: »il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce: su coloro che abitavano in terre tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia (…) poiché un bimbo è nato per noi, ci è stato dato un figlio (…) consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace ».
Isaia è molto più ricco di quanto non appaia da queste poche righe; ma io penso che in questa parte di profezia che abbiamo incontrato ci siano elementi di grande riflessione per l’attualità della nostra vita. Le domande del re e le sue paure sono spesso anche le nostre, come è nostra a volte la paura, una paura dalla quale ci lasciamo sedurre. Isaia indica la fedeltà di Dio, la speranza, la fiducia come strada di uscita dalla paura e ci invita a verificare vivendo la verità di Dio e delle sue parole; verità che per noi è Cristo.
C’è una poesia di Brecht che forse può dare un’idea non solo della tristezza di un cuore senza speranza, ma anche di come sia necessario e grande l’annuncio dell’Emmanuele e della gioia che lo accompagna.
« Non vi fate sedurre/ non esiste ritorno/ il giorno sta alle porte,/ già è qui vento di notte./Altro mattino non verrà.// Non vi lasciate illudere/ che è poco, la vita,/ bevetela a gran sorsi/ non vi sarà bastata/ quando dovrete perderla.// Non vi date conforto:/ vi resta poco tempo./ Chi è disfatto marcisca./ La vita è la più grande:/ nulla sarà più vostro.// Non vi fate sedurre/ da schiavitù e da piaghe:/ che cosa vi può ancora spaventare?/ Morire con tutte le bestie./ E non c’è niente dopo ».
(B. Brecht, Poesie e Canzoni, R. Leiser e F Fortini, 1961 Torino).
Con questa poesia concludiamo il nostro incontro con il profeta Isaia lasciando alle sue parole, soprattutto quelle sull’Emmanuele, il compito di dissipare l’angoscia o la tristezza che da questa lettura potrebbe nascere nel nostro cuore.