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OMELIA (28-06-2015) :

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OMELIA (28-06-2015)

FR. MASSIMO ROSSI

Dio non ha creato la morte e non gode della rovina dei viventi. Le creature del mondo sono buone; in esse non c’è veleno di morte. Questa dichiarazione del Libro della Sapienza sprizza ottimismo e positività da tutti i pori! Questa dichiarazione del Libro della Sapienza smentisce tutti coloro che credono e insegnano che, se Dio ha creato tutto, ha creato anche il male; (smentisce tutti coloro che credono e insegnano) che Dio mette alla prova la (nostra) fede inviando sofferenze e calamità; (smentisce tutti coloro che credono e insegnano) che Dio provoca la rovina dei malvagi… Affermazioni come queste ridimensionano non poco la bontà infinita di Dio e al tempo stesso insinuano la malizia nel nostro DNA, quel veleno di morte che ammorba ogni atto, ogni parola, ogni pensiero umano… Mentre scrivevo l’omelia, la radio trasmetteva la notizia della tragedia di un barcone carico di profughi, salpato dalla Libia e rovesciatosi nel Golfo di Sicilia, provocando la morte di più di 700 persone, tra le quali, 50 bambini… All’improvviso l’euforia si è spenta. Come si fa a parlare della bontà di Dio e delle sue creature, quando si ascoltano notizie come questa? Lo scenario apocalittico cui assistiamo ormai da dieci anni e più non è imputabile a cause naturali; è una catastrofe provocata, favorita, alimentata dai calcoli politici, dagli interessi economici; in altri termini, dall’egoismo e dalla prepotenza degli uomini… E siamo colti anche noi, dalla tentazione di concludere che, alla luce di quanto accade oggi, come nei secoli passati, le parole che leggiamo e ascoltiamo a Messa, anche queste sono solo parole! Tutt’al più, si tratta pii desideri di uomini e donne sull’orlo della disperazione, i quali hanno bisogno, abbiamo bisogno di credere che Dio è buono, almeno Lui, e che non tutti gli uomini e le donne sono cattivi, schiavi del denaro, persone squallide, bestie più che persone… Eppure, il Vangelo ci chiede di continuare a credere nella bontà di Dio. La fede è necessaria proprio quando la situazione precipita, quando, umanamente parlando, le speranze non sono più sostenibili: quando una figlia, per la quale avevamo chiesto a Dio la guarigione, muore, quale speranza rimane? organizziamo un bel funerale, preghiamo per la pace dell’anima sua e la rassegnazione dei familiari. Invece, Gesù esorta il capo della sinagoga a non temere, la fede può ancora sostenere la sua preghiera. C’è sempre un buon motivo per continuare a pregare! e Dio può veramente aiutarci! Ma perché Dio ci possa aiutare, è necessario mantenere aperto il canale di comunicazione con Lui, e questo canale, questa comunicazione si chiama fede. Se avete fatto attenzione, il pensiero che muove la donna affetta da emorragie a toccare il mantello di Gesù non è soltanto la guarigione, ma la salvezza: la salvezza è categoria molto più vasta che la salute fisica. È come se la donna avesse firmato un assegno in bianco senza cifra, e chiedesse al Signore di scrivere Lui la cifra. È come se la donna avesse detto a Dio, in cuor suo: « Io lo so che tu mi ascolti, io lo so che farai qualcosa per il mio bene, ma so anche che Tu conosci meglio di me qual è il mio bene. Dunque, io ti prego, e lascio a te la decisione di cosa fare, di quale aiuto darmi. ». E, come la donna emorroissa continua a credere nella potenza risanatrice di Gesù, anche il padre della bambina continua a credere in Gesù, nonostante l’apparente irreparabilità del suo dramma. Quello che impariamo da questa pagina di Vangelo è che anche quando i nostri occhi non sono più in grado di vedere soluzioni ai problemi, anche quando sembra che tutto sia ormai perduto, Dio conosce vie di salvezza, soluzioni ulteriori. Del resto, anche gli apostoli, Pietro in testa, non capirono subito che cosa Gesù stava facendo, lo avrebbero capito soltanto dopo, a cose fatte (cfr. Gv 13). Il gesto della lavanda dei piedi fu per Gesù l’occasione per dichiarare ai Dodici che il Padre aveva comunicato al Figlio i suoi progetti, progetti di bene, ma questi progetti non erano, non sono immediatamente chiari…bisognava fidarsi, bisogna fidarsi! La fede si accorda a Dio, prima che intervenga, non dopo, una volta verificato il Suo intervento e la conformità dello stesso alle nostre preghiere. Anzi, è la fede (preventiva) che muove, per così dire, Dio ad agire per il bene nostro. L’episodio del paralitico calato dal tetto, col suo lettuccio, davanti a Gesù, affinché lo guarisse, è paradigmatico: il desiderio del miracolo era implicito; ma Gesù risponde: « Ti sono perdonati i tuoi peccati. » (Mc 2,1-12), lasciando verosimilmente sbigottito il malato e, con lui, i suoi amici… I farisei e i dottori della Legge presenti rimasero addirittura scandalizzati: « Chi si crede d’essere? Soltanto Dio può perdonare i peccati! ». In verità, il concetto cristiano di salvezza riguarda essenzialmente il perdono dei peccati. Ma, come al solito, le vie del Signore, i suoi pensieri sono molto, molto lontani dalle nostre vie e dai nostri pensieri. Noi pensiamo alla salute del corpo; Dio punta alla salvezza dell’anima. Il corpo è destinato a perire; l’anima, invece, è immortale. Il versetto conclusivo del Vangelo è ad un tempo tenero e assurdo: il Signore ordina ai genitori che diano da mangiare alla bambina: un indizio che Dio ha a cuore l’integrità di tutta la persona, non solo la parte spirituale. La raccomandazione insistente di mantenere il segreto su quanto era avvenuto è poco realista, dal momento che tutta la casa era affollata di parenti e conoscenti accorsi per manifestare il loro cordoglio alla famiglia… Inoltre il paese non dev’essere stato un grande paese. Infine quella bambina era figlia del capo della sinagoga, un uomo in vista, conosciuto e stimato da tutti… Come si poteva impedire che la notizia trapelasse? In realtà non si trattava di tener nascosta la notizia, ma di evitare che il miracolo assumesse un rilievo esagerato rispetto al suo valore reale; mi spiego: richiamare in vita un cadavere, un fatto certamente straordinario, non risolveva tuttavia il problema della morte! Sarebbe stata la risurrezione di Cristo a togliere l’ultima parola alla morte. Soltanto allora, quando cioè Gesù fosse risorto dai morti, l’annuncio della Pasqua avrebbe potuto risuonare in tutto il suo vigore, in tutta la sua portata salvifica. La Pasqua del Signore produce un cambiamento sostanziale nel cammino del Vangelo: dal silenzio spaventato si passa all’annuncio coraggioso; dal segreto, alla proclamazione apertis verbis. E qui casca l’asino! Siamo ancora poco chiari nell’annunciare il Vangelo, poco coraggiosi, troppo diplomatici… C’è ancora parecchio rispetto umano nella nostra predicazione… Rinnegare sé stessi! forse è questo il segreto dello specifico cristiano, ciò che chiamiamo ?differenza cristiana’. Imploriamo la forza dello Spirito Santo, l’unico vero, grande miracolo che Dio ha fatto a noi e per noi.

Mat-05,01-07 – Sermon sur la montagne

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Publié dans:immagini sacre |on 25 juin, 2015 |Pas de commentaires »

S. GREGORIO DI NISSA – I OMELIA SULLE BEATITUDINI, ORAZIONE PRIMA

http://christusveritas.altervista.org/san_gregorio_nissa.htm

S. GREGORIO DI NISSA – I OMELIA SULLE BEATITUDINI

ORAZIONE PRIMA

« Vedendo le folle il Signore salì sul monte e, sedutosi, lo raggiunsero i suoi discepoli; dischiusa la bocca li ammaestrava dicendo: Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli » (Mt 5,1).
Quale discepolo del Logos, tra coloro che si sono radunati, è degno di ascendere con Lui dalla terra, dalle cavità terrestri e dai bassi pensieri, fino al monte spirituale della superiore contemplazione? Questo monte mette in fuga ogni ombra che proviene dai cumuli crescenti della malvagità; esso è circonfuso da ogni lato dal raggio della luce vera e nell’aria pura della verità permette di vedere tutto dall’alto, tutto quanto è invisibile a coloro che sono rinchiusi nella caverna. Lo stesso Logos divino, chiamando beati quelli che sono ascesi con Lui, spiega quali e quante siano le realtà che si vedono da questa altura; mostra, per esempio, con un dito, qui il regno dei cieli, là l’eredità della terra superiore; poi mostra la misericordia, la giustizia, la consolazione, l’avvenuta parentela di tutto il creato con Dio e il frutto delle persecuzioni, che è divenire familiari di Dio; il Logos mostra poi quante altre cose è a loro possibile vedere, indicando con il dito, dall’alto del monte, ciò che è scorto dalla superiore visione, attraverso la speranza.
Dal momento che il Signore ascende al monte, ascoltiamo Isaia che grida: « Venite, ascendiamo al monte del Signore » (Is 35,4). Se anche ci asteniamo dal peccato, fortifichiamo, come indica la profezia, le mani abbandonate nella stanchezza e le ginocchia indebolite! se infatti saremo sulla sommità, troveremo colui che medica ogni malattia ed ogni infermità, prendendo su di sé le nostre debolezze e caricandosi delle nostre malattie. Pertanto corriamo anche noi per ascendere al monte, perché stabiliti con Isaia sulla sommità della speranza, possiamo vedere dall’alto tutti quei beni che il Logos mostra a coloro che lo seguono sulla vetta. Il Logos divino dischiuda anche per noi la bocca e ci insegni quelle verità il cui ascolto è beatitudine. Siano per noi l’inizio della contemplazione di quanto abbiamo detto, le parole iniziali del suo insegnamento. « Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli ». Se un uomo, avido di ricchezze, trovasse delle lettere che indicano il luogo di un tesoro e se il luogo che contiene il tesoro richiedesse, a coloro che aspirano alle ricchezze lì sepolte, molto sudore e fatica, forse quell’uomo perderebbe coraggio di fronte alle fatiche? Forse trascurerebbe il guadagno? Stimerebbe forse più dolce della ricchezza il non dover sopportare nessuna fatica per lo sforzo? No, certamente no! Chiamerebbe, anzi, tutti i suoi amici a questa impresa e, radunato attorno a sé, da ogni parte e per quanto fosse possibile, l’aiuto necessario allo scopo, grazie al numero della manodopera farebbe suo il bene nascosto. Questo, fratelli, è quel tesoro indicato dalla lettera, ma il bene prezioso è nascosto dall’oscurità. Anche noi, dunque, che aspiriamo all’oro incorrotto, facciamo uso delle molte « mani » della preghiera, così che la ricchezza venga per noi alla luce e tutti ci dividiamo equamente il tesoro e ognuno lo possegga intero. La spartizione della virtù, infatti, è di tale natura che, pur venendo divisa tra tutti coloro che se ne contendono il possesso, in ciascuno è presente tutta intera, senza diminuire in coloro che vi partecipano. Nella spartizione della ricchezza terrena, infatti, colui che ha tratta per sé la parte più grande, commette ingiustizia verso coloro che volevano dividere in parti uguali; infatti rende più piccola la parte dei compagni, chi sovrabbonda nella sua. La ricchezza spirituale, invece, fa come il sole, che si distribuisce a tutti coloro che guardano verso di lui e rimane intero in ciascuno. Poiché dunque si spera, dopo la fatica, un guadagno uguale per ciascuno, uguale per noi tutti sia la collaborazione, attraverso la preghiera, nel richiedere ciò che cerchiamo.
Sul concetto di beatitudine: indica la realtà divina che trascende ogni facoltà umana
Per prima cosa, io dico, bisogna pensare attentamente alla beatitudine, cosa mai essa sia. Beatitudine è il possesso di tutte le cose che sono pensate come bene, a cui non manchi nulla di ciò che un desiderio buono può volere. Per noi potrebbe diventare più chiaro il significato di beatitudine; confrontandolo con il suo contrario. Il contrario di beato è infelice. L’infelicità è la tribolazione nelle prove penose e non volute. L’atteggiamento delle persone che si trovano in queste due situazioni è diametralmente opposto. Sicuramente, infatti, l’uomo che si stima beato, gioisce di ciò che gli è posto innanzi per il suo godimento e se ne compiace, l’uomo che si ritiene infelice, al contrario, si rattrista e si addolora della sua presente condizione. Ciò che è da ritenere veramente beato, dunque, è la divinità stessa. Qualsiasi cosa, infatti, noi stabiliamo che essa sia, la beatitudine è quella vita incorrotta, è il bene ineffabile e incomprensibile, è l’inenarrabile bellezza, è la carità stessa, è la sapienza, la potenza, la luce vera, la sorgente di ogni bontà, la potenza che sovrasta ogni cosa; è il solo amabile, è ciò che permane perennemente inalterato, è il compiacimento senza fine, letizia eterna di cui, se uno dicesse tutto ciò che può, non direbbe nulla di ciò che la sua dignità comporta. Il pensiero, infatti, non può giungere a comprendere ciò che la beatitudine è e se anche riuscissimo a pensare, riguardo ad essa, qualche cosa di ciò che è più sublime, l’oggetto del nostro pensiero non potrebbe essere comunicato con nessun discorso.
Nell’uomo « immagine di Dio » si riflettono i « caratteri » della beatitudine trascendente. Cristo rivela questi caratteri oscurati dal peccato.
Poiché chi plasmò l’uomo lo fece ad immagine di Dio, si dovrebbe, di conseguenza, ritenere beato ciò che è chiamato con tale denominazione per partecipazione alla vera beatitudine. Come per la bellezza fisica il bello archetipo è presente nel volto vivente e sostanziale e viene al secondo posto, per imitazione, ciò che si mostra nell’immagine, così, anche la natura umana, che è immagine della beatitudine trascendente, reca impressa in se stessa il carattere della bellezza del bene, ogni qual volta mostra in sé le impronte dei beati caratteri. Ma poiché la lordura del peccato rovinò la bellezza dell’immagine, giunse chi ci lavò con la sua acqua, acqua vivente che zampilla per la vita eterna, così che noi, deposta la vergogna del peccato, fossimo di nuovo rinnovati, secondo la forma della beatitudine. E, come nell’arte della pittura, l’intenditore potrebbe dire agli inesperti che è bella quella figura composta da certe parti del corpo: da una certa capigliatura, da certe orbite oculari, da una certa linea della sopracciglia, da una certa posizione delle guance, insomma da tutte quelle parti, una per una, per cui la bellezza della forma è completa, così anche colui che dipinge la nostra anima per imitazione dell’unica beatitudine, descrive nel discorso, una per una, le disposizioni che tendono alla beatitudine e dice, prima di tutto: « Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli ». Ma che guadagno trarremo dalla munificenza, se non ci sarà chiarito il significato riposto in quelle parole? Anche nell’arte medica, infatti, molti farmaci preziosi e di difficile reperimento, rimangono inutili e sconosciuti, per coloro che non li conoscono, finché non si apprenda dalla Medicina a che cosa sia utile ciascuno di essi.
La povertà di spirito è la povertà di vizi.
Che cosa è dunque la povertà di spirito che permette di impadronirsi del regno dei cieli? Nella Scrittura abbiamo imparato due generi di ricchezza; una è ricercata con sollecitudine, l’altra è condannata. è ricercata la ricchezza della virtù, rigettata quella materiale terrena, poiché una è possesso dell’anima, l’altra, al contrario, è conforme all’inganno dei beni sensibili. Perciò il Signore vieta di accumulare quel tipo di tesoro che giace esposto al pasto delle tarme e all’insidia dei ladri [Mt 6,19]. Egli ordina invece di avere sollecitudine per la ricchezza di quei beni superiori che la corruzione non può intaccare. Parlando di tarme e di ladro Egli indicò colui che rovina i tesori dell’anima. Se dunque si oppongono la povertà e la ricchezza, certamente, secondo l’analogia, anche la povertà che è insegnata nella Scrittura è doppia. L’una è da rigettare, l’altra è da stimarsi beata. Colui che è povero di temperanza, o del prezioso bene della giustizia, o della sapienza, o della prudenza, o di qualsiasi altro tesoro prezioso, risulta povero e privo di beni, mendico, afflitto per la privazione e da compassionare per la povertà di beni preziosi. Colui che, al contrario, è povero volontariamente di tutto ciò che viene pensato come male e non tiene nessun tesoro diabolico custodito nei suoi magazzini, ma vivendo di spirito si guadagna, grazie ad esso, il tesoro della povertà dei vizi, questo dovrebbe trovarsi in quella povertà beata indicata dal Logos, il cui frutto è il regno dei cieli.
La povertà di spirito, come umiltà d’animo, è uno degli attributi divini che l’uomo può imitare.
Ma torniamo ad occuparci del tesoro, e non discostiamocene, rivelando, grazie allo scavo della parola, ciò che è nascosto. « Beati -Egli dice- i poveri di spirito ». è già stato detto prima, e ora di nuovo sarà ripetuto, che lo scopo della vita secondo virtù è la somiglianza con Dio. Ma ciò che è impassibile e privo di corruzione sfugge completamente all’imitazione degli uomini. Non è possibile, infatti, che la vita immersa nelle passioni si renda simile alla natura che è impassibile. Se dunque, come dice l’Apostolo [1Tm 6,15], solo il divino è da stimarsi beato e la comunione di beatitudine avviene per gli uomini mediante la Somiglianza di Dio e, infine, l’imitazione del divino è impossibile, allora la beatitudine è irraggiungibile per l’uomo. Ma vi sono degli attributi della divinità che vengono proposti come possibili da imitare per coloro che vogliono. Quali sono dunque questi attributi? Mi sembra che per povertà di spirito il Logos intenda l’umiltà d’animo volontaria. Come modello di quest’ultima l’Apostolo ci mostra la povertà di Dio, quando dice di Lui « pur essendo ricco, si fece povero a causa nostra, perché noi diventassimo ricchi grazie alla sua povertà » [2Cor 8,9]. Considerando dunque che tutte le altre perfezioni contemplate nella natura divina oltrepassano la misura della natura umana e che l’umiltà è connaturale e congeniata a noi che camminiamo sul suolo terrestre e che siamo fatti di terra e verso la terra rifluiamo, se tu, per quanto è possibile alla tua natura, avessi imitato Dio, ti saresti rivestito tu stesso della forma della beatitudine. E nessuno creda che conquistare la perfezione dell’umiltà d’animo sia cosa semplice o priva di fatica. Al contrario, nulla di ciò che è praticato per virtù è in ugual modo faticoso. Perché? Perché mentre l’uomo che aveva ricevuto i buoni semi dormiva, il seme principale della messe contraria, che è presso il nemico della nostra vita, la zizzania della superbia, attecchiva. Il nemico, infatti, nello stesso modo e per la stessa causa per cui precipitò sulla terra, trascinò nella comune rovinosa caduta il misero genere umano e non vi è per la natura umana nessun altro male simile a quello che si generò per la superbia. Poiché dunque la passione dell’alterigia è in qualche modo naturale per quasi tutti coloro che partecipano della natura umana, il Signore inizia da qui le beatitudini. Egli raccomanda, per estirpare la superbia dalla nostra costituzione, quale male primordiale, di imitare Colui che si fece povero di sua volontà, che è l’unico veramente felice, perché noi, per quanto ci è possibile, diventiamo simili a Lui, resi somiglianti dalla scelta di farsi poveri e miriamo alla comunione della beatitudine. Sia in noi, dice l’Apostolo [Fil 2,5-7], questo sentimento che fu anche di Cristo, che pur esistendo in forma di Dio, non ritenne oggetto di rapina il suo essere uguale a Dio, ma umiliò se stesso assumendo forma di schiavo. Che cosa c’è di più umile per il re degli esseri di entrare in comunione con la povertà della nostra natura? Re dei re, signore dei signori, liberamente prese la forma della schiavitù. Il giudice di ogni cosa diviene tributario di coloro che detengono il dominio. Il signore della creazione scende in una grotta, colui che ha tutto nelle sue mani non trova posto nell’albergo, ma è esposto in una mangiatoia di animali irragionevoli. Lui che è puro e privo di commistione, accoglie la lordura della natura umana e attraversando tutta la nostra povertà, giunge fino all’esperienza della morte. Guardate qual è la misura della povertà volontaria! La vita gusta la morte; il giudice è condotto a giudizio; il signore della vita di tutti gli esseri è soggetto alla sentenza del giudice; il re di tutte le potenze sopramondane non sfugge alle mani dei carnefici. Perciò, dice l’Apostolo, volgi lo sguardo al modello e alla misura dell’umiltà d’animo.
Vanità della superbia: gli invalicabili limiti della condizione terrena.
Mi pare giusto, però, esaminare subito attentamente anche l’assurdità del vizio contrario, così che la beatitudine diventi per noi effettiva una volta che l’umiltà d’animo sia realizzata con completa facilità. Come infatti i medici esperti, una volta tolta la causa che origina la malattia, hanno facilmente ragione del male, così anche noi, smorzata la superbia di coloro che sono accecati dalla febbre del ragionamento, rendiamoci facilmente accessibile la via dell’umiltà d’animo. Come si potrebbe meglio mostrare la vanità dell’alterigia, da quale altro punto si potrebbe partire, se non indicando quale sia la natura umana? Colui, infatti, che volge lo sguardo a se stesso e non alle realtà che lo circondano, non dovrebbe, ragionevolmente, incorrere in questo vizio. Che cosa è dunque un uomo? Vuoi che pronunci il più solenne e il più pregevole dei discorsi? Ma anche colui che vuole ornare la nostra condizione e rendere più grande di quanto non sia la nobiltà umana, afferma che l’origine della natura dell’uomo viene dal fango; la nobiltà e la grandiosità dell’orgoglio hanno dunque la stessa natura del mattone. Se poi intendi per origine della natura umana la generazione, continua e alla portata di tutti, vattene, non proferir parola a questo proposito, non mormorare, non rivelare, come dice la Legge, la vergogna del padre e della madre, non rendere pubblico, con la parola, ciò che avrebbe bisogno di nascondimento e di profondo silenzio. E non arrossire, fantoccio di terra, cenere tra non molto, tu che trattieni in te stesso il soffio di breve durata, come quello di una bolla, tu che sei pieno di superbia e ardente di alterigia e che gonfi la mente con il tuo pensiero vano! Non vedi entrambi i confini della vita dell’uomo, come essa inizia e in che cosa termina? Ma tu ti insuperbisci nella giovinezza e guardi al fiore dell’età e ti orni della primavera degli anni perché le tue mani smaniano per la voglia di muoversi e i tuoi piedi sono leggeri nel saltare e la treccia fluttua nell’aria. La prima barba si delinea sulle guance e la tua veste fiorisce nel colore della porpora; sono ricamati per te i tessuti di seta, istoriati con scene di guerra o di fiere o con altre storie; tu guardi anche i calzari, accuratamente lucidati di nero, resi piacevoli dai disegni sui fermagli. A tutto ciò volgi lo sguardo e non guardi te stesso.
L ‘inganno delle passioni: la vita come « sogno »; la vita come « messa tn scena ».
Ti mosterò io, come in uno specchio, chi sei e quale sei. Non hai visto al cimitero i misteri della nostra natura? L’ammucchiarsi continuo delle ossa, i crani denudati delle carni, che ispirano qualche cosa di pauroso e di orrido, dagli occhi svuotati? Hai visto le bocche che digrignano i denti e il resto delle membra in balia del caso? Se hai visto questi spettacoli in essi hai contemplato te stesso. Dove sono, dunque, i segni della presente età fiorente? La bellezza fiera che lampeggia negli occhi sotto l’arcata delle sopracciglia? Dove la dritta narice che sta nel mezzo delle belle guance? Dove le chiome che scendono sul collo, le trecce che circondano le tempie? Dove le mani che tirano l’arco, i piedi che cavalcano? Dove sono la porpora, il bisso, la sopravveste, la cintura, i sandali, il cavallo, la corsa, il fremito? Dov’è tutto ciò, per cui ora cresce la tua superbia? Dov’è, in quell’ossame, ciò per cui ora ti innalzi e insuperbisci? Che sogno è mai questo, così privo di consistenza? Che fantasie oniriche sono mai? Quale ombra è così inconsistente, sfuggendo al tatto, come il sogno della gioventù che svanisce nel momento stesso in cui appare? Rivolgo queste considerazioni a coloro che in gioventù, a causa dell’incompiutezza dell’età, sono fuori di senno. Che cosa si potrebbe dire, poi, di coloro che sono ormai arrivati a quel punto in cui l’età è avanzata, la cui condotta è inquieta e in cui la malattia della superbia aumenta? Essi pongono a tale condotta malata il nome di carattere. Un’elevata posizione di comando e lo spadroneggiare grazie ad essa, sono il fondamento di tale superbia. Sono affetti da questa passione, infatti, sia coloro che sono al potere, sia coloro che si preparano ad esso e succede anche che i racconti relativi al potere, rinfocolino di nuovo la malattia già cessata. Quale parola sarà in grado di penetrare nelle loro orecchie ostruite dalla voce degli araldi? Chi persuaderà coloro che sono in questa situazione, a non ritenersi diversi da chi va in trionfo sotto un baldacchino? Anche tra loro vi sono di quelli, che pur curati nella persona, secondo l’arte degli esperti, con la veste di porpora cosparsa d’oro, pur seguendo il trionfo sotto il baldacchino, non si lasciano penetrare per nulla, per simili circostanze, dalla malattia della superbia. Essi mantengono la stessa disposizione d’animo prima e durante il corteo trionfale e non si rattristano quando scendono da cavallo e quando si spogliano della loro pompa. Coloro invece, che per la loro carica, vanno in trionfo sulla scena della vita, non considerando né il vicino passato né il prossimo futuro, scoppiano come bolle al soffio. Costoro si gonfiano nella stessa maniera di una bolla alla voce stentorea dell’araldo e si applicano la forma di un volto altrui, mutando l’espressione naturale del proprio viso in un atteggiamento grave e pauroso; escogitano una voce più terribile della propria, trasformandola in un verso feroce, per spaventare chi ascolta. Non rimangono entro i limiti umani, ma rivendicano per sé la potenza e l’autorità divina. Si credono, infatti, signori della vita e della morte perché, chi tra loro è giudice, per gli uni decide l’assoluzione, per gli altri stabilisce la condanna a morte; non considerano chi è veramente il signore della vita umana; lui solo definisce l’inizio e la fine dell’essere. Questo sarebbe perciò sufficiente a reprimere l’orgoglio: vedere molti potenti rapiti sulla stessa scena del comando, dal mezzo dei loro seggi e trasportati nelle tombe sotto cui il piano sostituisce la voce degli araldi. Come può dunque essere signore della vita altrui colui che è straniero alla propria? Costui, dunque, se è povero di spirito, volgendo lo sguardo a Colui che per noi, liberamente si è fatto povero e guardando a colui che condivide la stessa dignità di natura, non sarà arrogante verso il suo simile, ingannato dalla tragica finzione del potere, e sarà veramente felice di cambiare l’umiltà momentanea con il regno dei cieli.
La povertà beata è anche la povertà materiale.
Non rigettare, fratello, anche l’altro discorso, relativo alla povertà che ci avvicina alla ricchezza celeste. « Vendi tutti i tuoi beni -dice il Signore- dalli ai poveri, poi seguimi e avrai un tesoro nei cieli » [Mt 19,27]. Simile povertà, in effetti, non mi sembra in disaccordo con quella che è ritenuta beata. « Guarda tutto ciò che avevamo; abbandonatolo ti abbiamo seguito! -dice il discepolo al Signore- che cosa dunque ci sarà per noi? ». Qual è la risposta? « Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli ». Vuoi comprendere chi sia il povero di spirito? è colui che ha fatto il cambio del benessere materiale con la ricchezza celeste, colui che si scuote di dosso la ricchezza terrestre come un peso, per essere trasportato in alto nell’aria, come dice l’Apostolo [1Ts 4,17], elevato su una nube fino a Dio.
L’oro è un bene pesante, pesante è ogni genere di materia ricercata con cura per la ricchezza. Leggera ed elevante è invece la virtù. Certo sono opposte una all’altra la pesantezza e la leggetezza. è dunque impossibile che diventi leggero colui che ha spinto se stesso nella pesantezza della materia. Se dunque è necessario salire alle cose di lassù, diventiamo poveri di ciò che trascina in basso, perché possiamo dimorare anche noi nelle regioni superiori. Quale sia il modo ce lo indica il salmo: « Egli ha dato con larghezza ai poveri, la sua giustizia rimane nei secoli dei secoli » [Sal 111,9]. Colui che spartisce i suoi beni con il povero, si stabilirà dalla parte di Colui che si fece povero per noi. Si fece povero il Signore: non aver paura neanche tu della povertà! Ma Colui che si fece povero per noi, regna su tutto il creato. Se dunque tu ti farai povero con chi si fece povero, regnerai anche tu con chi regna. « Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli »; voglia il cielo che anche noi siamo fatti degni di questo regno, in Cristo Gesù, nostro Signore, a cui è la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.

 

BENEDETTO XVI : SAN GREGORIO DI NISSA

http://www.atma-o-jibon.org/italiano5/rit_benedetto418.htm

BENEDETTO XVI

Piazza San Pietro

Mercoledì, 5 settembre 2007

SAN GREGORIO DI NISSA

Cari fratelli e sorelle!

Vi propongo alcuni aspetti della dottrina di san Gregorio Nisseno, del quale abbiamo già parlato mercoledì scorso. Anzitutto Gregorio di Nissa manifesta una concezione molto elevata della dignità dell’uomo. Il fine dell’uomo, dice il santo Vescovo, è quello di rendersi simile a Dio, e questo fine lo raggiunge anzitutto attraverso l’amore, la conoscenza e la pratica delle virtù, «raggi luminosi che discendono dalla natura divina» (De beatitudinibus 6: PG 44,1272C), in un movimento perpetuo di adesione al bene, come il corridore è proteso in avanti. Gregorio usa, a questo riguardo, un’efficace immagine, presente già nella Lettera di Paolo ai Filippesi: épekteinómenos (3,13), cioè « protendendomi » verso ciò che è più grande, verso la verità e l’amore. Questa icastica espressione indica una realtà profonda: la perfezione che vogliamo trovare non è una cosa conquistata per sempre; perfezione è questo rimanere in cammino, è una continua disponibilità ad andare avanti, perché non si raggiunge mai la piena somiglianza con Dio; siamo sempre in cammino (cfr Homilia in Canticum 12: PG 44,1025d). La storia di ogni anima è quella di un amore ogni volta colmato, e allo stesso tempo aperto su nuovi orizzonti, perché Dio dilata continuamente le possibilità dell’anima, per renderla capace di beni sempre maggiori. Dio stesso, che ha deposto in noi i germi di bene, e dal quale parte ogni iniziativa di santità, «modella il blocco… Limando e pulendo il nostro spirito, forma in noi il Cristo» (In Psalmos 2,11: PG 44,544B).
Gregorio si preoccupa di precisare: «Non è in effetti opera nostra, e non è neppure la riuscita di una potenza umana divenire simili alla Divinità, ma è il risultato della munificenza di Dio, che fin dalla sua prima origine ha fatto grazia della somiglianza con Lui alla nostra natura» (De virginitate 12,2: SC 119,408-410). Per l’anima, dunque, «si tratta non di conoscere qualcosa di Dio, ma di avere in sé Dio» (De beatitudinibus 6: PG 44,1269c). Del resto, nota acutamente Gregorio, «la divinità è purezza, è affrancamento dalle passioni e rimozione di ogni male: se tutte queste cose sono in te, Dio è realmente in te» (De beatitudinibus 6: PG 44,1272C).
Quando abbiamo Dio in noi, quando l’uomo ama Dio, per quella reciprocità che è propria della legge dell’amore, egli vuole ciò che Dio stesso vuole (cfr Homilia in Canticum 9: PG 44,956ac), e quindi coopera con Dio a modellare in sé la divina immagine, così che «la nostra nascita spirituale è il risultato di una libera scelta, e noi siamo in qualche modo i genitori di noi stessi, creandoci come noi stessi vogliamo essere, e per nostra volontà formandoci secondo il modello che scegliamo» (Vita Moysis 2,3: SC 1bis,108). Per ascendere verso Dio, l’uomo deve purificarsi: «La via, che riconduce al cielo la natura umana, altro non è che l’allontanamento dai mali di questo mondo… Divenire simile a Dio significa divenire giusto, santo e buono… Se dunque, secondo l’Ecclesiaste (5,1), « Dio è nel cielo » e se, secondo il profeta (Sal 72,28) voi « aderite a Dio », ne consegue necessariamente che dovete essere là dove Dio si trova, dal momento che siete uniti a Lui. Poiché egli vi ha comandato che, quando pregate, chiamiate Dio Padre, vi dice di diventare senz’altro simili al vostro Padre celeste, con una vita degna di Dio, come il Signore ci ordina più chiaramente altrove, dicendo: « Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste! » (Mt 5,48)» (De oratione dominica 2: PG 44,1145ac).
In questo cammino di ascesa spirituale, Cristo è il modello e il maestro, che ci fa vedere la bella immagine di Dio (cfr De perfectione christiana: PG 46,272a). Ciascuno di noi, guardando a Lui, si ritrova ad essere «il pittore della propria vita», che ha la volontà come esecutrice del lavoro e le virtù come colori di cui servirsi (ibid.: PG 46,272b). Dunque, se l’uomo è ritenuto degno del nome di Cristo, come deve comportarsi? Gregorio risponde così: «[Deve] esaminare sempre nel suo intimo i propri pensieri, le proprie parole e le proprie azioni, per vedere se esse sono rivolte a Cristo o se si allontanano da lui» (ibid.: PG 46,284c). E questo punto è importante per il valore che dà alla parola cristiano. Cristiano è uno che porta il nome di Cristo e quindi deve assimilarsi a Lui anche nella vita. Noi cristiani col Battesimo ci assumiamo una grande responsabilità.
Ma Cristo – ricorda Gregorio – è presente anche nei poveri, per cui essi non devono mai essere oltraggiati: «Non disprezzare costoro, che giacciono stesi, come se per questo non valessero niente. Considera chi sono, e scoprirai quale è la loro dignità: essi ci rappresentano la Persona del Salvatore. Ed è così: perché il Signore, nella sua bontà, prestò loro la sua stessa Persona, affinché, per mezzo di essa, si muovano a compassione coloro che sono duri di cuore e nemici dei poveri» (De pauperibus amandis: PG 46,460bc). Gregorio, abbiamo detto, parla di salita: salita a Dio nella preghiera mediante la purezza del cuore; ma salita a Dio anche mediante l’amore per il prossimo. L’amore è la scala che guida verso Dio. Di conseguenza, il Nisseno apostrofa vivacemente ogni suo ascoltatore: «Sii generoso con questi fratelli, vittime della sventura. Da’ all’affamato ciò che togli al tuo ventre» (ibid.: PG 46,457c).
Con molta chiarezza Gregorio ricorda che tutti dipendiamo da Dio, e perciò esclama: «Non pensate che tutto sia vostro! Ci deve essere anche una parte per i poveri, gli amici di Dio. La verità, infatti, è che tutto viene da Dio, Padre universale, e che noi siamo fratelli, e apparteniamo a una medesima stirpe» (ibid.: PG 46,465b). E allora il cristiano si esamini, insiste ancora Gregorio: «Ma a che ti serve digiunare e fare astinenza dalle carni, se poi con la tua malvagità non fai altro che addentare il tuo fratello? Che guadagno ne trai, dinanzi a Dio, dal fatto di non mangiare del tuo, se poi, agendo da ingiusto, strappi dalle mani del povero ciò che è suo?» (ibid.: PG 46,456a).
Concludiamo queste nostre catechesi sui tre grandi Padri Cappadoci richiamando ancora quell’aspetto importante della dottrina spirituale di Gregorio Nisseno, che è la preghiera. Per progredire nel cammino verso la perfezione ed accogliere in sé Dio, portare in sé lo Spirito di Dio, l’amore di Dio, l’uomo deve rivolgersi con fiducia a Lui nella preghiera: «Attraverso la preghiera riusciamo a stare con Dio. Ma chi è con Dio è lontano dal nemico. La preghiera è sostegno e difesa della castità, freno dell’ira, acquietamento e dominio della superbia. La preghiera è custodia della verginità, protezione della fedeltà nel matrimonio, speranza per coloro che vegliano, abbondanza di frutti per gli agricoltori, sicurezza per i naviganti» (De oratione dominica 1: PG 44,1124A-B). Il cristiano prega ispirandosi sempre alla preghiera del Signore: «Se dunque vogliamo pregare che scenda su di noi il Regno di Dio, questo gli chiediamo con la potenza della Parola: che io sia allontanato dalla corruzione, che sia liberato dalla morte, che sia sciolto dalle catene dell’errore; non regni mai la morte su di me, non abbia mai potere su di noi la tirannia del male, non domini su di me l’avversario né mi faccia prigioniero attraverso il peccato, ma venga su di me il tuo Regno, affinché si allontanino da me o, meglio ancora, si annullino le passioni che ora mi dominano e signoreggiano» (ibid. 3: PG 44,1156d-1157a).
Terminata la sua vita terrena, il cristiano potrà così rivolgersi con serenità a Dio. Parlando di questo San Gregorio pensa alla morte della sorella Macrina e scrive che essa nel momento della morte pregava Dio così: «Tu che hai sulla terra il potere di rimettere i peccati perdonami, « affinché io possa avere ristoro » (Sal 38,14), e perché venga trovata al tuo cospetto senza macchia, nel momento in cui vengo spogliata del mio corpo (cfr Col 2,11), così che il mio spirito, santo e immacolato (cfr Ef 5,27), venga accolto nelle tue mani, « come incenso di fronte a te » (Sal 140,2)» (Vita Macrinae 24: SC 178,224). Questo insegnamento di San Gregorio rimane valido sempre: non solo parlare di Dio, ma portare Dio in sé. Lo facciamo con l’impegno della preghiera e vivendo nello spirito dell’amore per tutti i nostri fratelli.

Abraham’s Journey

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LA LAICITÀ DEL CREDENTE – IL RAPPORTO CON IL MONDO NELL’EVANGELO DI GESÙ E DI PAOLO

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LA LAICITÀ DEL CREDENTE – IL RAPPORTO CON IL MONDO NELL’EVANGELO DI GESÙ E DI PAOLO

sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio
Verbania Pallanza, 11 febbraio 2006

Ho scritto vent’anni fa un libretto sulla laicità del credente: se oggi dovessi tornare sull’argomento, eviterei il termine « laicità », troppo polisemico e ambiguo, sostituendolo con un termine più in sintonia con le testimonianze bibliche, quello di « mondanità ».
L’esperienza dei credenti, dei cristiani nel mondo, è un’esperienza « mondana ». Il termine « mondanità », più che quello di « laicità » è in sintonia con le testimonianze bibliche.
I testi di Paolo su questo tema, sono abbastanza difficili, ma se letti un po’ attentamente, risultano stimolanti anche per noi.
IL « MONDO » PER PAOLO
Innanzitutto, Paolo per « mondo » usa due vocaboli che derivano dal giudaismo greco, non dalla tradizione ebraica più antica, che parla di Mondo come creazione di Dio. Anzitutto « kosmos »: il mondo come realtà bella e ordinata e poi « aion », cioè « il mondo nella sua durata », noi diremmo « le generazioni del mondo che si succedono ».
Soprattutto in Gesù e Paolo, il problema del mondo non è tanto sapere che cos’è il mondo, che cos’è il tempo, ma il rapporto tra noi e mondo. O, in altra prospettiva, che cosa vuol dire il tempo, il mondo per noi.
Nel corso di quest’anno voi analizzate soprattutto il versante dei credenti nel mondo, cioè la presenza dei credenti nella politica e nella società. Io ho scelto dei testi un po’ difficili e anche a prima vista ambigui in Paolo, per riuscire a dire qualche cosa su questo argomento così complesso. Sono testi difficili, ma che bisogna avere il coraggio di affrontare, perché sono anche molto importanti. Certo, Paolo non è l’unico, ma è una presenza abbastanza significativa delle scritture cristiane.
1 Corinzi 5,9-11: la comunità dei credenti dentro la storia
« Vi scrissi nella mia lettera di non mescolarvi con i debosciati, ma non intendevo in ogni caso riferirmi ai debosciati di questo mondo o agli avari, ladri, idolatri. Altrimenti dovreste uscire dal mondo. Vi scrissi invece di non mescolarvi con chi portando il nome di fratello è debosciato o avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro: non mangiate neppure insieme a tale persona. »
1 Corinti è una lettera inviata alla chiesa che Paolo aveva fondato a Corinto. Corinto era una città portuale, allora molto importante. La Corinto greca era stata distrutta dai Romani nel 150 circa prima di Cristo, ma poi nel 49 Giulio Cesare l’aveva rifondata come colonia romana. Corinto rappresentava l’incontro di due culture, la greca e la romana. Qui confluivano vari gruppi sociali. Mentre Atene in quel periodo era in crisi, Corinto era la grande città, dove si tenevano anche i giochi panellenici (non solo ad Olimpia!). In quel mondo culturale molto vivo e variegato assistiamo al primo incontro, o scontro per qualche verso, di una comunità cristiana nel mondo, in una città a cultura metropolitana.
In una prima lettera andata perduta alla comunità di Corinto, che Paolo aveva fondato nel 50 circa, vi era questa sorprendente esortazione: « Voi dovete evitare l’incontro con i pornoi ». I pornoi erano i debosciati. Però la parola pornos non vuol dire solo il debosciato sessuale, ma anche, secondo la polemica giudaica, l’idolatra. Gli Ebrei chiamavano « immorali » i pagani che adoravano le divinità. Poiché però Corinto era anche una città eticamente molto corrotta, il significato di questa parola ondeggia tra « idolatria » e « licenziosità etico-morale, sessuale ».
Allora i credenti di Corinto hanno risposto a Paolo, chiedendogli come fosse possibile per loro, che erano un piccolo gruppo di 40-50 persone al massimo in una città che poteva avere trecento-quattrocentomila abitanti, evitare l’incontro con gli idolatri, con i debosciati, con i pagani. E Paolo nella risposta torna sulla sua esortazione precedente e chiarisce che c’è stato un equivoco, un’incomprensione, affermando che non si riferiva ai debosciati di questo mondo, ma ai debosciati che sono fratelli, che appartengono alla comunità. Se i credenti infatti non dovessero mischiarsi con la società, dovrebbero uscire dal mondo. Paolo afferma quindi chiaramente che l’esistenza della comunità cristiana è un’esistenza « nella » società, « nel » mondo. È un’esperienza di chi « fa parte » di questa società, di questa città, del mondo. L’esistenza cristiana non è un’esistenza che si deve vivere in uno spazio separato, al di sopra della società, ma dentro la società, assumendo la rete dei rapporti, assumendo la mescolanza. In Italia si è discusso e si discute sui « meticci », sul « meticciato ». Appena ne ho sentito parlare, ho pensato che l’esempio più chiaro di meticciato è Gesù! Gesù è un meticcio: figlio di Dio e figlio dell’uomo!
LA LETTERA AI GALATI: LIBERI DAL MONDO IDOLATRICO E DALLA LEGGE MOSAICA
Il secondo testo molto più impegnativo e problematico comprende vari brani della lettera ai Galati. Si tratta di una lettera enciclica, perché inviata a diverse comunità della Galazia. La regione galata era stata abitata dal 200 circa a.C. dai Galli, dai Celti, che, venuti dalla Francia, si erano sedentarizzati al centro della penisola anatolica, dando vita ad un regno. Nel 25, con la morte dell’ultimo re dei Galati, Aminta, il regno passò ai Romani, i quali hanno poi costituito con le regioni più vicine la famosa provincia di Galazia, con capitale Ancyra, l’attuale Ankara. Paolo aveva fondato alcune comunità in questa regione, comunità che poi avevano ricevuto la visita di missionari giudeo-cristiani tradizionalisti, o addirittura reazionari. Questi missionari affermavano che il vangelo della libertà di Paolo era un vangelo annacquato, presentato così per avere più facilmente l’adesione dei Galati, mentre il vangelo vero di Gesù Cristo esigeva anche la circoncisione (si rivolgevano a dei pagani) e quindi l’osservanza della legge mosaica.
Paolo scrive a questi Galati, che godevano della libertà di cristiani, cercando di parare la loro ricaduta nella religione mosaica, in cui Cristo era soltanto un’aggiunta. Cristo, in questa concezione, veniva inserito dentro uno schema che riservava la salvezza esclusivamente a coloro che avevano la circoncisione, che cioè osservavano la legge mosaica.
All’inizio di questo testo molto difficile, e anche ambiguo, dice:
« Io Paolo… alle chiese della Galazia. Grazie a voi e pace da Dio, nostro Padre, e dal Signore Gesù Cristo, il quale ha dato se stesso per i nostri peccati… » (Gal 1,4)
In questa affermazione appare una fede cristiana « prepaolina », propria dei giudeo-cristiani, convinti che i sacrifici di espiazione del tempio di Gerusalemme non fossero più il sacramento del perdono, perché sostituiti dalla morte di Gesù, il nuovo sacramento del perdono. I tradizionalisti giudeo-cristiani ritenevano però che Gesù dovesse essere coordinato con la religione mosaica, mentre Paolo vedeva in questo coordinamento una diminuzione della forza salvifica di Cristo. Per Paolo la salvezza non sta nel perdono dei peccati, non dipende dalla conversione, ma è qualcosa di molto più radicale. Infatti il perdono dei peccati risolve solo sul momento la situazione. E allora Paolo, iniziando la sua lettera, per persuadere i suoi ascoltatori della propria fedeltà alla tradizione, nonostante tutta la sua radicalità, riporta anzitutto la formula tradizionale protocristiana della morte di Cristo come sacramento del perdono dei peccati al posto dei sacrifici del tempio, ma per dire subito dopo dove sta esattamente l’azione di Cristo:
« affinché Egli ci riscatti da questo mondo malvagio ».
La salvezza quindi non sta tanto nel perdono dei peccati ma in un evento di liberazione e di riscatto da « questo mondo malvagio ». L’espressione « questo mondo » è abbastanza ambigua e in Paolo di solito ha valore deteriore, peggiorativo. Non indica il mondo nella sua fisicità, ma nel suo rapporto con gli uomini e quindi si riferisce alla storia, alla società. Che cosa sia questo mondo malvagio Paolo lo precisa nel capitolo quarto della lettera: questo mondo è una realtà negativa anzitutto perché è un mondo idolatrico.
Le piccole comunità cristiane come quella di Corinto o come quelle presenti nell’impero romano erano a contatto con un’umanità idolatrica, un’umanità che piegava le ginocchia davanti a realtà create, come se fossero Dio. Allora in Galati 4, riferendosi a questi credenti di Galazia, che si erano convertiti alla sua predicazione, Paolo dice:
« Un tempo voi che non conoscevate (qui conoscere significa riconoscere, non è un atto di conoscenza intellettuale) il Dio creatore eravate schiavi di dei che non sono tali per natura » (Gal 4,8)
L’ambiente in cui Paolo comunica con le sue comunità è idolatrico, è un mondo schiavo di queste divinità, che in realtà sono delle nullità, e che hanno consistenza solo per quelli che le riconoscono.
Abbiamo un testo parallelo in 1Corinti, 8, 5-6, in cui Paolo dice:
« Anche se ci sono dei cosiddetti dei sia in cielo che in terra – come di fatto c’è una quantità di dei e signori -, per noi invece esiste un solo Dio, il Padre… e c’è un solo Signore, Gesù Cristo ».
Ci sono molti dei e molti signori riconosciuti, adorati, venerati, a cui si serve, ma noi credenti in Cristo riconosciamo un solo Dio, il Padre, e un solo signore, Gesù Cristo. Allora gli dei erano i capi delle nazioni, gli imperatori, i signori, che avevano il potere di vita e di morte su tutti.
« Lui ci ha riscattati, liberati da questo mondo malvagio » vuol dire allora che Cristo ci ha liberati da un mondo in quanto espressione idolatrica, in quanto ambiente in cui si piegano le ginocchia davanti a realtà umane, create come se fossero degli dei, da un mondo schiavizzato.
Oggi il mondo idolatrico si manifesta in forme nuove, per esempio nel grande feticcio del mercato. Si parla delle « leggi del mercato » del « libero mercato » come se fossero il decalogo! È un mondo idolatrico, dove si adora il mondo, dove le persone sono sacrificate al mondo, dove le persone si inginocchiano davanti alle leggi del mondo.
E Paolo ci dice: « Cristo ci ha riscattati da questo mondo idolatrico » Questa è la prima caratteristica.
Una seconda caratteristica riguarda la circoncisione e la legge mosaica.
Paolo scrive ai credenti di Galazia, i quali volevano farsi circoncidere, perché i predicatori giudeo-cristiani avversari di Paolo, dicevano che se non si fossero fatti circoncidere, essi non avrebbero avuto la salvezza. Cristo non basta, si deve osservare anche la legge mosaica.
Paolo pone un’equivalenza tra l’idolatria del mondo pagano (« quelli che non conoscono Dio perché sono schiavi di divinità che non sono realmente tali ») e l’adorazione della legge propria del mondo giudaico. La legge mosaica è qui considerata non nella sua derivazione divina, ma in quanto elemento che costituisce il centro dell’esistenza delle persone. I predicatori giudeo-cristiani infatti sostenevano che senza circoncisione, cioè senza l’assunzione della legge mosaica, non c’è salvezza. In questo modo, la legge, e quindi la religione mosaica, viene eretta a dio di questo mondo (gli uomini si definiscono in rapporto al possesso o alla privazione della legge mosaica).
La legge mosaica, la circoncisione, era per natura sua un elemento discriminante, perché quelli che avevano la legge e la osservavano, erano accolti da Dio, erano sulla via della salvezza, mentre quelli che non avevano la legge mosaica, i gentili, i pagani, erano ipso facto considerati peccatori. Lo dice Paolo stesso in Galati 2, quando si rivolge a Pietro, in seguito alla scissione della comunità di Antiochia. Antiochia era una comunità mista, dove le regole della dietetica e della tradizione ebraica non erano osservate, e tutti i credenti mangiavano insieme nella libertà cristiana. Poi erano arrivati alcuni da Gerusalemme, mandati da Giacomo, fratello del Signore Gesù, che sostenevano che non si dovesse mangiare insieme, perché c’erano le regole da rispettare. Pietro aveva ceduto e si era ritirato con quei giudeo-cristiani circoncisi che mangiavano secondo le regole, lasciando soli i poveri pagani convertiti, causando così una scissione nella comunità. Paolo afferma di avere contrastato Pietro a viso aperto, perché il suo comportamento era meritevole di condanna e fonte di scandalo. Così rimprovera Pietro: « Noi giudei che per natura siamo tali e per condizione naturale non siamo dei peccatori provenienti dal mondo dei gentili. » (Gal 2,15)
Mentre i gentili erano nella situazione di essere peccatori (non perché commettessero dei peccati, ne commettevano anche i giudei), i giudei, all’interno del sistema mosaico, avevano i mezzi per ottenere il perdono attraverso il pentimento e i sacrifici espiatori.
Possiamo così comprendere ora pienamente il « Lui ci ha liberati da questo mondo malvagio »: Cristo ci ha liberato da questo mondo idolatrico, in cui impera l’idolatria, l’adorazione delle cose, delle persone, dei capi, delle creature, Cristo ci ha liberato da questo mondo dove vige la regola della discriminazione prodotta dalla legge mosaica, da questo mondo dove si adora la religione.
Altro che la religione civile! Paolo dice che Gesù ci ha riscattati da questo mondo in cui la religione mosaica, (patto sinaitico, riti di espiazione) era discriminante nei confronti di coloro che erano per condizione degli esclusi.
L’evento liberante di Cristo è pertanto un evento liberante dal mondo dell’idolatria e dal mondo delle religioni (anche della religione cattolica!), intendendo per religioni un insieme di credenze, un insieme di riti, di espressioni sociali che sono separanti, escludenti.
In realtà, il mondo giudaico aveva un respiro universalista, che implicava però l’assimilazione dei diversi. I giudei cioè non sostenevano che il loro Dio salvasse solo loro. La salvezza riguardava tutti, anche i gentili, a condizione che i gentili si facessero ebrei, cioè accettassero la circoncisione, come dicevano gli avversari di Paolo, perdendo così la propria identità culturale e diventando altri.
Paolo rappresenta un universalismo qualitativo, e cioè un universalismo che mette sullo stesso piano gli uni e gli altri, gli ebrei che avevano una tradizione monoteistica, la legge, il patto, la circoncisione, il tempio, il culto, e i gentili che non l’avevano. Davanti al Dio di Gesù Cristo, l’uomo delle religioni e l’uomo che non ha nessuna religione, sono parificati.
GALATI 3,27-28: LIBERI IN CRISTO DALLE DIVERSITÀ IDENTITARIE
In Galati 3, 27-28, abbiamo quel testo straordinario di Paolo, che bisognerebbe che fosse pronunciato ogni giorno, soprattutto oggi:
« Sì, quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è giudeo, né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio né femmina, perché tutti voi siete un solo essere in Cristo Gesù. »
3,27: « Sì, quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo… »
L’immagine del vestito era un’immagine tradizionale utilizzata anche nei misteri greci dove si indossava un abito nuovo, come segno di una novità della vita: si chiude una porta alle spalle, al passato, e si apre una porta sul futuro, sulla novità.
« Non c’è giudeo né greco » (era la grande divisione del mondo di allora, monoteisti – politeisti), « non c’è schiavo né libero » (era la grande frattura di tipo sociale, di tipo politico: nelle assemblee delle città greche lì dove si decideva della res pubblica, non potevano prender parte tutti coloro che abitavano nella città, ma solo coloro che avevano il diritto di cittadinanza. Le minoranze etniche, per esempio, erano prive di questo diritto), « non c’è maschio né femmina ».
Non c’è « poiché tutti voi siete un solo essere in Cristo Gesù », avete ricevuto una nuova identità.
Se noi avessimo chiesto a Paolo chi fosse lui, prima di Damasco, avrebbe risposto con molto orgoglio di essere un ebreo, un monoteista, un circonciso, al di dentro del patto di Dio e della sua legge. Se glielo avessimo chiesto dopo, avrebbe risposto di essere « un essere in Cristo ». Paolo è un mistico, non è un moralista. Essere cristiano per Paolo è essere coinvolto dentro il Risorto. Il Risorto è lo Spirito di Dio, è Gesù di Nazareth trasformato, Gesù di Nazareth che ha subito una metamorfosi nella resurrezione, divenendo Spirito che dà la vita.
L’identità cristiana si colloca dentro questo spazio nuovo di vita, che è la signoria di Cristo e che è lo Spirito di Dio.
Allora quando Paolo dice che non c’è giudeo, greco, schiavo, libero, maschio femmina, certamente non vuol dire che queste diversità non esistono più, ma che queste diversità non sono più identitarie, cioè non costituiscono più l’identità della persona. La persona non si definisce più in rapporto a Cristo come ebreo o gentile, schiavo, libero, maschio e femmina: si definisce come uno che è in Cristo, che è dentro questo spazio delle forze nuove della vita di Cristo.
Noi viviamo oggi in Europa e nel mondo un forte ritorno alle affermazioni delle identità. Dopo la caduta dell’impero sovietico abbiamo assistito ad una moltiplicazione di stati in Europa, anche di piccoli stati: la Cecoslovacchia si è divisa in due stati, e poi la Jugoslavia si è frantumata, con la Bosnia, ecc.. C’è una corsa all’identità nazionale o localistica: nel nord dell’Italia all’identità padana. Cristo ci ha liberato dalle identità culturali, dalle identità religiose, dalle identità sociali, dalle identità di genere.
Per Paolo quindi Cristo ci ha liberato dal mondo in quanto idolatrico e da un mondo delle religioni in quanto grandezze separanti e discriminanti. Cristo ci ha liberato dalle diversità identitarie. Le diversità restano, ma non sono più l’identità vera, sono solo delle varianti culturali, religiose, morali, ecc. perché l’identità è un’altra.
GALATI 5,1-2;13: CHIAMATI ALLA LIBERTÀ
La liberazione da questo mondo idolatrico e delle religioni discriminanti e identitarie, è il vangelo, la lieta novella.
Cristo vi ha liberati: il cristianesimo non è un appello all’autoliberazione, ma è un evento di liberazione, un evento di grazia.
Però questo evento di liberazione, che è un dono, è anche un compito, affidato alla nostra responsabilità. L’evento di liberazione non è una situazione data una volta per sempre, ma sollecita il nostro impegno responsabile.
Abbiamo due testi, sempre in Galati, che ripetono la stessa idea:
« Cristo ci ha liberati per una vita di libertà ». (Gal 5,1) E poiché noi siamo stati liberati per la libertà, Paolo esorta: « state saldi dunque ». Ecco la responsabilità: la saldezza nella libertà. Stare saldi vuol dire « non sottoponetevi di nuovo al giogo della schiavitù » (Gal 5,1), che sappiamo essere la schiavitù del mondo idolatrico e del mondo delle religioni separanti.
E in Galati 5, 13 Paolo ripete: « voi infatti, fratelli, siete stati chiamati alla libertà ». Cioè voi siete stati chiamati (da Dio) a poggiare la vostra vita sulla libertà, « soltanto che poi questa libertà non diventi un « aformèn », una base di lancio per la carne. » In questo caso « carne » in Paolo un’esistenza dominata da un dinamismo egocentrico, dall’ego. « Ma al contrario, mediante l’agape, mediante l’amore, siate schiavi gli uni degli altri ». Mediante l’agape, l’amore, che è frutto dello Spirito del Risorto, siamo chiamati e resi capaci di prenderci reciprocamente cura, di farci schiavi gli uni degli altri. La libertà cristiana è una libertà responsabile, solidale, del prendersi reciprocamente cura. È una libertà che consiste in una reciproca schiavitù.
Paolo in questi testi emerge come l’apostolo di un cristianesimo radicale, di un cristianesimo di confine, di un cristianesimo mistico, di un cristianesimo della libertà da un mondo idolatrico, dal mondo delle religioni discriminanti e identitarie.
GALATI 6,11.14-15: UN MONDO NUOVO
In Galati, 6, 11-15, in conclusione della lettera, Paolo parla in prima persona, scrivendo di proprio pugno. Afferma:
« Guardate con che caratteri grossi io scrivo di mia mano »
e tra le cose bellissime che dice, afferma al v. 14:
« Per me non avvenga mai che io mi vanti » (per vantarsi non si intende il vantarsi davanti agli uomini ma il vantarsi davanti a Dio, cioè accampare dei diritti, delle pretese, nei confronti di Dio),
« io mi posso vantare solo di una cosa: della croce del Signore nostro Gesù Cristo ».
La croce per Paolo non è solo la morte, ma è morte e risurrezione. La croce è un simbolo che esprime per un verso il lato tragico e cioè la morte orrenda del crocifisso, la tortura riservata agli schiavi e ai traditori. Il servile supplicium di cui parla Seneca. Per un altro verso la croce è il simbolo della resurrezione dai morti.
Dio ha risuscitato non un sant’uomo, ma il crocifisso, cioè il maledetto, « maledetto colui che pende dal legno » (Deut 21, 23). Questa maledizione Paolo la riporta in Galati 3, capovolgendola: il maledetto è la fonte di benedizione per tutte le genti.
Paolo dice « mi vanto soltanto della croce di Cristo ». Io direi: mi vanto solo di Dio che ha risuscitato il Crocifisso. Questo è il simbolo della croce.
Dice: « Mediante la quale croce, questo evento di Dio che ha risuscitato il crocifisso, il mondo è stato ed è crocefisso per me e io sono morto per il mondo ».
Il mondo di cui parla è sempre il mondo idolatrico, di mondo delle religioni discriminanti, dell’adorazione degli idoli. Paolo in questo testo non dice che il mondo idolatrico, delle religioni discriminanti, delle identità separanti, è morto, non conta più, che noi siamo liberi. No, per Paolo il mondo idolatrico e il mondo delle religioni separanti non hanno alcun influsso su di me.
Questo testo bellissimo riesce anche a farci capire esattamente in che senso Paolo dice che mediante Cristo siamo stati riscattati da questo mondo. Quello che è riscattato è il rapporto, è la dipendenza: non siamo più dipendenti da questo mondo idolatrico, da questo mondo delle religioni discriminanti.
Al versetto 15 dice: « Infatti né la circoncisione, né l’incirconcisione, che erano i due mondi, vale qualche cosa. »
Paolo riconosce che ci sono i circoncisi, ma questo non ha più valore, non è più l’identità delle persone, perché quello che vale è un mondo nuovo, è una creazione nuova.
La nuova creazione è un mondo in cui non c’è più la dipendenza delle persone dall’idolatria e dalla discriminazione. Là dove le persone si liberano dalla schiavitù degli idoli e si liberano dalle religioni discriminanti, lì nasce il nuovo mondo. Il profeta Isaia aveva parlato di « cieli nuovi e terra nuova », noi diremmo di una società nuova. Noi siamo nel mondo, dice Paolo, ma non siamo succubi del mondo idolatrico e del mondo delle religioni discriminanti.
2 CORINTI 5,14-15: MORIRE CON CRISTO ALLA VITA EGOCENTRICA
Nella seconda lettera ai Corinti, 5,14 Paolo afferma che noi siamo mossi dall’amore di Cristo, cioè che l’amore che Cristo ha per noi ci muove nella vita.
« L’agape di Cristo ci sollecita, ci spinge, spinge noi che giudichiamo questo fatto: uno solo è morto, a favore di tutti. »
Nella liturgia eucaristica abbiamo una traduzione che a mio avviso è non solo infelice, ma è un po’ furbastra. Il testo originale è: « Questo è il mio corpo, (vuol dire: questo sono io) « uper umon » c’è nel testo biblico. Nella messa si dice: « questo è il mio corpo dato in sacrificio per voi ». Il significato greco è: questo sono io che ho dato me stesso a favore vostro, per il bene vostro.
L’inserimento subdolo della parola « sacrificio » avvalora la tradizionale visione cattolica della messa, della cena del Signore, come sacrificio. Ora Paolo è contrario alla concezione sacrificale ed espiatoria della morte in croce di Gesù, concezione che traspare solo in Romani 3, 24-25, e poi in 1Corinti 5, 7.
Paolo qualche volta per ingraziarsi i suoi ascoltatori ripete alcune espressioni tradizionali, per poi però correggerle. La morte di Gesù non è un sacrificio espiatorio, ma un atto di amore per noi: Gesù è morto a favore nostro, per il bene nostro.
Poi Paolo prosegue:
« uno solo è morto per tutti, dunque tutti sono morti ».
Questa consequenzialità ci sconcerta, perché noi avremmo detto più logicamente che poiché uno è morto per tutti, noi otteniamo la vita attraverso la sua morte, e non che « morto uno, morti tutti! » Alla base del versetto c’è la concezione mistica di Paolo, per il quale l’esperienza cristiana è l’esperienza di chi viene inserito dentro il Cristo risorto, di chi entra in comunione col Cristo risorto. La mistica di Paolo non è teocentrica, ma cristocentrica, cioè riguarda l’unione col Cristo risorto. Allora se uno è morto per tutti, tutti quelli che sono in Cristo sono coinvolti nell’evento della sua morte. Questo è il senso.
Cristo non è un individuo isolato, ma ha un valore rappresentativo, che ci coinvolge. Quello che capita a Lui capita ai credenti, perché i credenti sono inseriti in Lui e l’evento suo diventa evento nostro, dei credenti. Lui è morto a favore di tutti, dunque tutti sono morti. In che senso sono morti? Naturalmente il versetto 15:
« Ed egli è morto per tutti, affinché quelli che vivono, i viventi, gli uomini non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto ed è risuscitato per loro ».
La morte di cui si parla è la morte all’ego: non vivono più per se stessi, ma vivono per Cristo e per gli altri. La conseguenza è:
« cosicché noi d’ora in poi non conosciamo più nessuno secondo un giudizio umano, carnale, e se anche noi prima avessimo conosciuto Cristo in modo carnale, d’ora in poi non lo conosciamo più così »,
il rapporto con lui è un nuovo rapporto.
« Di conseguenza se uno è in Cristo, è dentro Cristo, è coinvolto dentro la sua vicenda (questa è la mistica cristocentrica di Paolo), costituisce la cellula del nuovo mondo creato ».
È interessante il parallelismo tra la persona credente che entra nello spazio creato da Cristo e dal suo Spirito e il mondo.
« il vecchio se ne è andato, ecco sorto il nuovo ».
La novità portata da Cristo è esattamente questa: non vivere più centrati nell’ego (introflessione), ma vivere per colui che è morto e risuscitato per noi (estroflessione).
Paolo è partito dalla morte di estroflessione di Cristo: Cristo è morto a favore di tutti, a favore nostro, non a favore di se stesso. E nella sua morte a favore nostro, Lui ha coinvolto noi che moriamo al vivere per noi stessi, in modo da vivere per Lui. Quindi c’è questa partecipazione del credente alla vita di oblatività del Cristo. La novità non sta nell’assetto fisico del mondo, nelle istituzioni, ma la novità concerne l’esistenza, il rapporto.
ROMANI 8,18-25: SOLIDARIETÀ TRA CREDENTI E MONDO
In Romani 8, 18-25, Paolo mette in parallelismo noi e il mondo creato: da una parte noi credenti che abbiamo la primizia dello Spirito il cui frutto è l’agape, la forza con cui si diventa schiavi gli uni degli altri, e dall’altra il mondo creato, con tutta probabilità inanimato. Paolo dopo aver detto che il credente è stato riscattato da questo mondo malvagio, che è morto con Cristo alla sua vita egocentrica e quindi ha ricevuto questa vita di altruismo e di amore, che è libera, ecc., alla fine afferma la comunanza di condizione tra noi e il mondo. Noi gemiamo e il mondo geme, noi aspettiamo e il mondo aspetta. « Noi » e il mondo, la totalità, sono accomunati nell’attesa e nel gemito. Il gemito di cui parla Paolo indica i dolori del parto, le sofferenze che preparano la nuova nascita, non i rantoli della morte. La comunità dei credenti non sta al di fuori del gemito del mondo, del gemito che è sofferenza, ed anche strazio, ma che prelude ad una nuova nascita.
« Non solo: noi gemiamo in attesa del riscatto del nostro corpo ».
Per Paolo noi non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo, siamo corporeità. E corporeità significa relazionalità. L’uomo è per essenza relazionalità: relazionalità a Dio, la creatura che riconosce il creatore, e quindi non adora le creature; relazionalità nei confronti degli altri, in questa schiavitù di amore reciproco; relazionalità verso il mondo, cioè noi siamo esseri essenzialmente mondani, per cui la sorte dei credenti, degli uomini è la sorte del mondo. Allora il mondo geme in attesa di essere liberato dalla vacuità dell’essere. Quando leggo questo testo mi viene in mente la vacuità di molte espressioni della nostra vita, l’inconsistenza, la stupidità, il non essere insomma. Il mondo liberato dalla vacuità è l’uomo liberato nella sua relazionalità essenziale a Dio, agli altri e al mondo. Gemiamo noi, geme il mondo creato e geme lo Spirito, con gemiti, dice, inenarrabili. Lo Spirito di Dio, che per Paolo abita nei credenti, è presente nel mondo, ed è presente come principio della trasformazione, della liberazione. E Lui stesso geme in attesa. È straordinario!
La comunità dei credenti non sta sopra, non è in una condizione diversa rispetto agli altri, cioè ai credenti non è risparmiato niente che non sia risparmiato agli altri. L’esistenza dei credenti è un’esistenza nel gemito, nella sofferenza, propria di chi non è arrivato ancora, in un cammino faticoso. In un testo della seconda Corinti Paolo dice: « io porto sempre in giro (Paolo era un missionario) la necrosi di Gesù », il morire di Gesù. Paolo avverte che la sua esistenza di apostolo, ma anche quella dell’insieme di tutti i credenti, è un processo intaccato dalla morte. Per Paolo la morte non è quella che arriva alla fine. La morte è un processo che rende la vita dell’uomo caduca, minacciata, precaria, sofferente, addolorata. Allora ai credenti non è risparmiato niente che non sia risparmiato ad altri. I credenti vivono in questo mondo, i credenti sono stati liberati da Cristo dal mondo idolatrico, dal mondo delle religioni discriminanti. I credenti cioè hanno la primizia dello Spirito ma non sono degli arrivati.
ROMANI 12,1-2: IL CULTO DEI CREDENTI
Paolo, dopo aver esposto il suo vangelo ai Romani nei primi undici capitoli, conclude con un’esortazione: « Io vi esorto ». Paolo, di regola, non comanda, ma esorta. L’esortare è l’atteggiamento del padre nei confronti dei figli, non di un padre padrone. Paolo sollecita, prega, esorta, come un padre esorta i figli.
Vi prego dunque fratelli (adelfòi in questo caso andrebbe tradotto con « fratelli e sorelle »).
Per inciso, Paolo non dice mai « figli miei », o quasi mai. Usa « figli miei » solo in due-tre testi, dove dice: io sono padre in quanto vi ho generati attraverso il vangelo. Quindi è il vangelo l’elemento generativo. Paolo si presenta come un fratello. Quindi, la comunità cristiana per Paolo è una fraternità. Nel mondo greco l’amore tra fratelli era maggiormente considerato, ancor più dell’amore tra marito e moglie.
Non è paolina la concezione della chiesa come « popolo di Dio », introdotta dal concilio su sollecitazione soprattutto di Congar e della scuola francese dei domenicani di Le Saulchoir, che giustamente volevano sottolineare che la comunità dei credenti è in cammino nella storia.
Per Paolo la comunità è una fraternità, una famiglia. Una famiglia non nel suo aspetto di paternità e figliolanza, ma di fraternità. La cosa è talmente interessante, che quando si passa alle lettere pastorali, cioè alle lettere di Tito e di Timoteo, che sono della tradizione paolina, anche lì si trova l’affermazione che la chiesa è famiglia di Dio. Però la famiglia di Dio di cui si parla è costituita dai padri e dai figli, in cui il padre è il grande capo nella famiglia. Tant’è vero che l’autore di queste lettere pastorali sostiene che il presbitero deve saper comandare, tenere sotto controllo i figli e le mogli… La stessa metafora della famiglia viene usata in modo non solo diverso, ma addirittura contrapposto.
Vi esorto dunque fratelli e sorelle mediante i gesti di misericordia di Dio. O ancor più fedelmente: per le viscere materne di Dio. Quello che diventa sollecitante per i credenti sono le viscere materne di Dio, e Paolo è il comunicatore di questi gesti di « visceralità », di « amore viscerale » di Dio. Vi esorto a mettere davanti all’altare, non le offerte sacrificali, ma la vostra esistenza mondana quale vittima sacrificale. Ancora una volta Paolo utilizza in modo non rituale concetti cultuali. Quello che Dio gradisce come offerta viva e santa, come dono è l’esistenza mondana dei credenti, è la loro mondanità, la loro corporeità. E questo è il culto intellettuale. L’offerta che gli uomini fanno a Dio deve essere un’offerta adeguata alla loro natura di esseri intelligenti, di esseri logici, che hanno il logos, la mente, l’intelligenza, il pensiero. Le offerte animali, di esseri che non hanno il pensiero, non sono adeguate alla natura umana.
« Non siate conformisti nei confronti di questo mondo (to aiòni) »,
di questo mondo idolatrico, di questo mondo che adora le religioni discriminanti. Non siate conformisti, ma
dovete operare la metamorfosi che renda nuova la vostra mente, il vostro modo di vedere le cose, in modo che voi possiate discriminare e conoscere quello che è la volontà di Dio, quello che è il bene, quello che piace a Lui ed è perfetto.
È un testo molto pregnante. Essere anticonformisti vuol dire trasformare il modo di guardare il mondo perché corrisponda al volere di Dio. Paolo non dice che dobbiamo seguire la volontà di Dio comunicataci da qualcuno che ritiene di conoscerla a perfezione al posto nostro, ma che « noi » dobbiamo trasformare il nostro modo di vedere, dobbiamo rinnovare la luce della nostra mente in modo da corrispondere a quello che Dio vuole da noi.
dibattito
PAOLO, GESÙ E I NON CREDENTI
Paolo parla solo dei credenti e probabilmente non si è mai posto il problema dei non credenti. È uno spazio vuoto che lui non ha riempito. Chiediamo a lui solo quello di cui si è interessato.
La seconda osservazione da fare è che Paolo quando dice « il credente in Cristo », il Cristo di cui parla è il Risorto. Ecco perché Paolo non ha nessuna attenzione per il Gesù di Nazareth, per il Gesù biografico. Il Gesù risorto è il Gesù di Nazareth, non è un altro, però il Gesù biografico non gli interessa minimamente.
Tant’è vero che di tutte le parole dette da Gesù secondo la tradizione Paolo ne cita espressamente solo due, che non hanno grande peso: « Quelli che sono ministri dell’annuncio devono vivere dell’annuncio », e poi la parola di Gesù sull’indissolubilità matrimoniale. Tutta la teologia di Paolo ruota sulla morte e risurrezione di Gesù. Il resto non gli interessa. Probabilmente Paolo ha trascurato del tutto quello che Gesù ha detto e fatto perché il Gesù delle parole e dei fatti era stato brandito dai suoi avversari, che avevano inserito Gesù dentro il sistema mosaico, come sostenitore dell’osservanza della legge mosaica. C’è qualche cosa di vero in questo.
Però il vero problema per Paolo è la liberazione dal mondo idolatrico, per la quale i gesti e le parole di Gesù non sono efficaci. Paolo ritiene che il cuore dell’uomo non cambia sostanzialmente con i buoni esempi, con le buone parole. La schiavitù del mondo idolatrico, del mondo delle religioni discriminanti è qualcosa di così profondo da non essere scalfita dalle parole e dagli esempi. È necessario il grande gesto liberante di Cristo, del Cristo Risorto. Il Cristo Risorto è molto più potente del Gesù di Nazareth, che aveva a disposizione per influire solo le sue parole e il suo esempio. Nient’altro. Invece il Cristo Risorto ha in mano la potenza dello Spirito, lo Spirito di Dio, lo Spirito creatore.
Essere nel Cristo Risorto, è essere nello Spirito. In Paolo c’è questo parallelismo: noi siamo in Cristo e noi siamo nello Spirito di Cristo, nello Spirito di Dio. Se le cose stanno così, noi potremmo dire allora che per Paolo i credenti non sono quelli che conoscono Gesù di Nazareth, le sue parole, i suoi esempi, ma quelli che sono dentro lo Spirito, quelli che sono animati dallo Spirito. E lo Spirito e il Cristo Risorto non sono una presenza locale, ma universale. Il Gesù di Nazareth poteva influire con la parola e con l’esempio solo su quelli che incontrava in Palestina, mentre per Paolo il Cristo Risorto e lo Spirito possono influire sull’universalità degli uomini. Il Gesù di Nazareth è una grandezza particolare culturalmente situata. Invece il Cristo Risorto che in qualche modo si identifica con lo Spirito è una grandezza universale, è una grandezza che può influire su tutti. Allora, bisogna distinguere tra quello che vuol dire « essere in Cristo » e la confessione cristiana, la credenza cristiana, i sacramenti, la vita associata cristiana. L’essere in Cristo non equivale alla vita associata cristiana. Ecco perché Paolo è radicale, annuncia un cristianesimo di frontiera, un cristianesimo che è possibile anche per quelli che non sono dentro la Chiesa.
Così Paolo, che non si è mai posto il problema dei non credenti con la sua concezione dell’essere nel Cristo Risorto, nello Spirito, propugna un cristianesimo che travalica l’aspetto confessionale.
PAOLO E LA TEOLOGIA DEL SACRIFICIO ESPIATORIO
Se noi intendiamo per sacrificio quella oblatività per cui uno dà la sua vita per amore dell’altro, non esistono problemi. Però nella teologia del sacrificio, il sacrificio è un atto religioso, un atto cioè che coinvolge Dio. Finché noi diciamo che Dio ha dato la sua vita a favore nostro per un atto di amore estremo per noi, d’accordo. Ma se usiamo la parola sacrificio, per dire che Gesù offre la sua vita per il perdono dei nostri peccati, facciamo riferimento alla concezione arcaica di un Dio, che ha bisogno del sangue, della vittima sacrificale. Voglio dire che l’Eucarestia, come la morte di Gesù, secondo Paolo, è al di fuori di questo schema vittimario, delle vittime e dei sacrificatori, dei sacrifici nel senso religioso.
Nel brano della lettera ai Romani Paolo esorta ad offrire le nostre esistenze come sacrificio vivo, non ad offrire vittime sacrificali. La nostra vita mondana è quello che Dio vuole da noi, non le vittime. Se ci sono le vittime, ci sono anche i sacrificatori, i sacrificatori provvidenziali.
So che è una battaglia perduta, però… chissà che grazie ad un concilio si possa tradurre letteralmente durante la Cena del Signore: « Questo sono io che ho dato la mia vita per amore vostro ». Questa è la traduzione corretta. Ecco perché dico che quella traduzione (« offerto in sacrificio per voi ») per un verso non è esatta e per un altro verso è un po’ furba, in quanto inserisce la visione sacrificale dentro il testo.
La critica al culto sacrificale è presente già nella linea profetica. In Isaia si dice: Quando voi venite al tempio e calpestate i miei pavimenti, io volgo la faccia dall’altra parte. Andate fuori, quello che io voglio è giustizia. Simili i testi di Amos. Qui la critica è alla dissociazione tra culto e vita. Paolo introduce un nuovo elemento: non critica la dissociazione ma vuole una sostituzione: l’unica offerta che piace a Dio è la vita mondana, cioè un culto non rituale. Per culto intendiamo un dono, un atto di benevolenza verso Dio, e allora questo atto di benevolenza non è più costituito da riti, ma è costituito dalla vita mondana, dalla vita profana.
religioni discriminanti e fede universale
Paolo polemizza contro la religione mosaica, perché è discriminante, perché discrimina tra quelli che sono dentro e quelli che sono fuori, tra gli inclusi e gli esclusi.
Quando Paolo afferma che dobbiamo uscire dalla religione mosaica, perché la legge, la circoncisione, ecc., sono discriminanti, non vuole rinunciare all’ebraismo e aderire ad un’altra religione. Paolo sostiene che si debba risalire all’indietro, oltre Mosè, perché la vera identità ebraica da mantenere è quella di Abramo, quella di una figura universale: « in te saranno benedette tutte le tribù della terra ».
Al tempo di Gesù il giudaismo aveva « mosaizzato » Abramo, sostenendo che Abramo avesse osservato la legge ancora prima che fosse promulgata (ci sono dei testi molto chiari da questo punto di vista), inserendo quindi l’abramismo dentro il mosaismo. Paolo toglie Abramo dal mosaismo, ritornando all’origine, alla figura abramica, che è figura universale. Per cui le promesse abramitiche, patriarcali, per Paolo, mantengono il loro valore, non solo per i discendenti carnali, gli ebrei, ma per tutti, come era originariamente. La legge non può abrogare la promessa.
L’immagine che Paolo ha di Dio non è quella del Dio legislatore (quello del Sinai), e quindi del Dio sanzionatore, che sanziona il bene e il male con il premio e il castigo, ma quella del Dio promettente, del Dio che promette. E la promessa, dice Paolo, è come un testamento, che è del tutto gratuito: è il padre che dona al figlio un’eredità. Allora, il Dio che Paolo ha vissuto, alla luce di Cristo naturalmente, (grande convergenza in questo tra Gesù e Paolo) è il Dio della promessa, della promessa unilaterale, della promessa incondizionata, della promessa a tutti, agli Ebrei e ai gentili, agli schiavi e ai liberi, ai maschi e alle femmine, agli omosessuali e agli eterosessuali, agli islamici e ai cattolici…
Qui sta la attualità di Paolo, che ha combattuto una battaglia estrema contro una religione che discriminava con la legge e con la circoncisione. Oggi le religioni sono discriminanti con altri fattori. La lotta di Paolo per la liberazione dalla religione mosaica è una lotta di liberazione da tutte le religioni, in quanto e nella misura in cui sono discriminanti. Qui permane l’attualità della distinzione tra fede e religione: Abramo è il padre dei credenti, non dei religiosi. E la fede, a differenza della legge, è una grandezza transculturale, cioè potenzialmente aperta a tutti, a tutti che restano diversi perché il giudeo credente resta giudeo, il gentile credente resta gentile, il maschio maschio e la femmina femmina, ecc. Al posto del Dio legislatore e sanzionatore, al posto delle religioni discriminanti, il Dio abramico della promessa.
LA MORTE ULTIMO NEMICO
Paolo considera la morte non come un fatto fisico, ma come l’ultimo nemico di Cristo e dell’uomo. Alcuni possono accusare Paolo di essere un uomo che non sa accettare la morte, di avere un atteggiamento un po’ infantile di ribellione di fronte ad un fato ineluttabile. In Paolo la morte non è la morte beata di San Francesco, la morte di chi vuole ricongiungersi col suo Signore, quindi la sorella morte. Neppure è il destino nudo e crudo dell’uomo che non può infantilmente rifiutare. Per Paolo la morte è una violenza all’uomo. La morte per lui non è l’ultimo istante della vita, ma ciò che mortifica la nostra vita.
C’è questa spina dentro l’esistenza umana, esposta ogni giorno alla morte: noi portiamo in giro sempre la necrosi di Gesù, e cioè questo processo progressivo che intacca la vita del credente e del non credente, per cui Paolo dice che la morte è il signore del mondo. Questo signore del mondo deve essere detronizzato, in quanto entra in collisione con la signoria di Cristo. È un motivo cristologico. Cristo ha vinto la morte in sé, ma se non vince la morte in noi lui non è più il nostro signore, il nostro signore è la morte. Di fatto in 1 Corinti 15 Paolo riporta l’affermazione dei salmi « finché lui abbia posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi ». L’ultimo nemico, quello più trememdo, quello più spaventoso, è la morte.
Paolo ha una concezione alta della vita e del Dio della vita. Questo Dio della vita deve dire l’ultima parola sui viventi, e non la morte. La risurrezione vuol dire proprio questo. Non per niente al cap. 15 di 1Cor Paolo termina con due citazioni dell’antico testamento: Dov’è o morte il tuo pungiglione? Dov’è o morte la tua vittoria? La morte è stata ingoiata dalla vittoria di Cristo.
Paolo in Romani 5 afferma: « Mediante un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e tramite il peccato la morte… » Noi dobbiamo essere riscattati dal peccato e dalla morte, che sono i due signori che sono entrati nel mondo. Il riscatto dal peccato, dal male oscuro che è l’idolatria, avviene attraverso la morte e la risurrezione di Cristo. Ma la liberazione dal peccato non è ancora la liberazione dalla morte. Paolo ha collegato peccato e morte, entrati tutti e due nel mondo, ma nella liberazione, allo stato attuale, noi siamo stati liberati solo dal peccato, da questa potenza condizionante a cui possiamo resistere, ma non ancora dalla morte. L’azione liberatrice di Cristo è stata distinta da Paolo in due fasi: la liberazione dal peccato e la liberazione dalla morte. Dal punto di vista antropologico uno può accusare Paolo di un sogno infantile, non tanto di non morire, ma di ritenere che tutta la vita è sotto il segno tenebroso della morte. La morte minaccia ed estenua la vita nelle sofferenze, nei disagi, ma la speranza è la vittoria sulla morte perché Paolo prende sul serio la risurrezione di Cristo e la solidarietà nostra con Cristo. Non basta la vittoria di Gesù sulla sua morte, ma è necessario la vittoria di Gesù sulla nostra morte, se noi siamo identificati con Lui. È la mistica cristocentrica paolina.

PAPA FRANCESCO: LA FAMIGLIA – 20. FERITE (I)

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2015/documents/papa-francesco_20150624_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 24 giugno 2015

LA FAMIGLIA – 20. FERITE (I)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nelle ultime catechesi abbiamo parlato della famiglia che vive le fragilità della condizione umana, la povertà, la malattia, la morte. Oggi invece riflettiamo sulle ferite che si aprono proprio all’interno della convivenza famigliare. Quando cioè, nella famiglia stessa, ci si fa del male. La cosa più brutta!
Sappiamo bene che in nessuna storia famigliare mancano i momenti in cui l’intimità degli affetti più cari viene offesa dal comportamento dei suoi membri. Parole e azioni (e omissioni!) che, invece di esprimere amore, lo sottraggono o, peggio ancora, lo mortificano. Quando queste ferite, che sono ancora rimediabili, vengono trascurate, si aggravano: si trasformano in prepotenza, ostilità, disprezzo. E a quel punto possono diventare lacerazioni profonde, che dividono marito e moglie, e inducono a cercare altrove comprensione, sostegno e consolazione. Ma spesso questi “sostegni” non pensano al bene della famiglia!
Lo svuotamento dell’amore coniugale diffonde risentimento nelle relazioni. E spesso la disgregazione “frana” addosso ai figli.
Ecco, i figli. Vorrei soffermarmi un poco su questo punto. Nonostante la nostra sensibilità apparentemente evoluta, e tutte le nostre raffinate analisi psicologiche, mi domando se non ci siamo anestetizzati anche rispetto alle ferite dell’anima dei bambini. Quanto più si cerca di compensare con regali e merendine, tanto più si perde il senso delle ferite – più dolorose e profonde – dell’anima. Parliamo molto di disturbi comportamentali, di salute psichica, di benessere del bambino, di ansia dei genitori e dei figli… Ma sappiamo ancora che cos’è una ferita dell’anima? Sentiamo il peso della montagna che schiaccia l’anima di un bambino, nelle famiglie in cui ci si tratta male e ci si fa del male, fino a spezzare il legame della fedeltà coniugale? Quale peso ha nelle nostre scelte – scelte sbagliate, per esempio – quanto peso ha l’anima dei bambini? Quando gli adulti perdono la testa, quando ognuno pensa solo a sé stesso, quando papà e mamma si fanno del male, l’anima dei bambini soffre molto, prova un senso di disperazione. E sono ferite che lasciano il segno per tutta la vita.
Nella famiglia, tutto è legato assieme: quando la sua anima è ferita in qualche punto, l’infezione contagia tutti. E quando un uomo e una donna, che si sono impegnati ad essere “una sola carne” e a formare una famiglia, pensano ossessivamente alle proprie esigenze di libertà e di gratificazione, questa distorsione intacca profondamente il cuore e la vita dei figli. Tante volte i bambini si nascondono per piangere da soli …. Dobbiamo capire bene questo. Marito e moglie sono una sola carne. Ma le loro creature sono carne della loro carne. Se pensiamo alla durezza con cui Gesù ammonisce gli adulti a non scandalizzare i piccoli – abbiamo sentito il passo del Vangelo – (cfr Mt 18,6), possiamo comprendere meglio anche la sua parola sulla grave responsabilità di custodire il legame coniugale che dà inizio alla famiglia umana (cfr Mt 19,6-9). Quando l’uomo e la donna sono diventati una sola carne, tutte le ferite e tutti gli abbandoni del papà e della mamma incidono nella carne viva dei figli.
E’ vero, d’altra parte, che ci sono casi in cui la separazione è inevitabile. A volte può diventare persino moralmente necessaria, quando appunto si tratta di sottrarre il coniuge più debole, o i figli piccoli, alle ferite più gravi causate dalla prepotenza e dalla violenza, dall’avvilimento e dallo sfruttamento, dall’estraneità e dall’indifferenza.
Non mancano, grazie a Dio, coloro che, sostenuti dalla fede e dall’amore per i figli, testimoniano la loro fedeltà ad un legame nel quale hanno creduto, per quanto appaia impossibile farlo rivivere. Non tutti i separati, però, sentono questa vocazione. Non tutti riconoscono, nella solitudine, un appello del Signore rivolto a loro. Attorno a noi troviamo diverse famiglie in situazioni cosiddette irregolari – a me non piace questa parola – e ci poniamo molti interrogativi. Come aiutarle? Come accompagnarle? Come accompagnarle perché i bambini non diventino ostaggi del papà o della mamma?
Chiediamo al Signore una fede grande, per guardare la realtà con lo sguardo di Dio; e una grande carità, per accostare le persone con il suo cuore misericordioso.

Solemnity of the Nativity of Saint John the Baptist

Solemnity of the Nativity of Saint John the Baptist  dans immagini sacre

http://nforgukang.typepad.com/blog/2013/06/reflections-for-the-nativity-of-john-the-baptist-.html

Publié dans:immagini sacre |on 23 juin, 2015 |Pas de commentaires »

MANIFESTIAMO CRISTO IN TUTTA LA NOSTRA VITA: SAN GREGORIO DI NISSA

http://www.prayerpreghiera.it/padri/padri.htm

DAL TRATTATO « L’IDEALE PERFETTO DEL CRISTIANO » DI SAN GREGORIO DI NISSA, VESCOVO
(PG 46,283-286)

MANIFESTIAMO CRISTO IN TUTTA LA NOSTRA VITA

Tre sono gli elementi che manifestano e distinguono la vita del cristiano: l’azione, la parola e il pensiero. Primo fra questi è il pensiero, al secondo posto viene la parola che dischiude e manifesta con vocaboli ciò che è stato concepito col pensiero. Dopo, in terzo luogo, si colloca l’azione, che traduce nei fatti quello che è stato pensato.
Se perciò una qualunque delle molte cose possibili ci porta naturalmente o a pensare o a parlare o ad agire, è necessario che ogni nostro detto o fatto o pensiero sia indirizzato e regolato da quelle norme con le quali Cristo si è manifestato, in modo che non pensiamo, né diciamo. né facciamo nulla che possa allontanarci da quanto ci indica quella norma sublime.
E che altro, dunque, dovrebbe fare colui che è stato reso degno del grande nome di Cristo, se non esplorare diligentemente ogni suo pensiero, parola e azione, e vedere se ognuno di essi tenda a Cristo oppure se ne allontani?
In molti modi si può fare questo importante esame. Infatti tutto ciò che si fa o si pensa o si dice, sotto la spinta di qualche mala passione, questo non si accorda affatto con Cristo, ma porta piuttosto il marchio e l’impronta del nemico, il quale mescola alla perla preziosa del cuore, il fango di vili cupidigie per appannare e deformare il limpido splendore della perla.
Ciò che invece è libero e puro da ogni sordida voglia, questo è certamente indirizzato all’autore e principe della pace, Cristo. Chi attinge e deriva da lui, come da una sorgente pura e incorrotta, i sentimenti e gli affetti del suo cuore, presenterà, con il suo principio e la sua origine, tale somiglianza quale può aver con la sua sorgente l’acqua, che scorre nel ruscello o brilla nell’anfora.
Infatti la purezza che è in Cristo e quella che è nei nostri cuori è la stessa. Ma quella di Cristo si identifica con la sorgente, la nostra invece promana da lui e scorre in noi, trascinando con sé per la via la bellezza ed onestà dei pensieri, in modo che appaia una certa coerenza ed armonia fra l’uomo interiore e quello esteriore, dal momento che i pensieri e i sentimenti che provengono da Cristo, regolano la vita e la guidano nell’ordine e nella santità.
In questo dunque, a mio giudizio, sta la perfezione della vita cristiana, nella piena assimilazione e nella concreta realizzazione di tutti i titoli espressi dal nome di Cristo, sia nell’ambito interiore del cuore, come in quello esterno della parola e dell’azione.

NATIVITÀ DI SAN GIOVANNI BATTISTA PROFETA E MARTIRE – 24 GIUGNO

http://www.santiebeati.it/dettaglio/20300

NATIVITÀ DI SAN GIOVANNI BATTISTA PROFETA E MARTIRE

24 GIUGNO

Ain Karem, Giudea – † Macheronte? Transgiordania, I secolo

Giovanni Battista è l’unico santo, oltre la Madre del Signore, del quale si celebra con la nascita al cielo anche la nascita secondo la carne. Fu il più grande fra i profeti perché poté additare l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. La sua vocazione profetica fin dal grembo materno è circondata di eventi straordinari, pieni di gioia messianica, che preparano la nascita di Gesù. Giovanni è il Precursore del Cristo con la parole con la vita. Il battesimo di penitenza che accompagna l’annunzio degli ultimi tempi è figura del Battesimo secondo lo Spirito. La data della festa, tre mesi dopo l’annunciazione e sei prima del Natale, risponde alle indicazioni di Luca. (Mess. Rom.)

Patronato: Monaci
Emblema: Agnello, ascia

Martirologio Romano: Solennità della Natività di san Giovanni Battista, precursore del Signore: già nel grembo della madre, ricolma di Spirito Santo, esultò di gioia alla venuta dell’umana salvezza; la sua stessa nascita fu profezia di Cristo Signore; in lui tanta grazia rifulse, che il Signore stesso disse a suo riguardo che nessuno dei nati da donna era più grande di Giovanni Battista.

Giovanni Battista è il santo più raffigurato nell’arte di tutti i secoli; non c’è si può dire, pala d’altare o quadro di gruppo di santi, da soli o intorno al trono della Vergine Maria, che non sia presente questo santo, rivestito di solito con una pelle d’animale e con in mano un bastone terminante a forma di croce.
Senza contare le tante opere pittoriche dei più grandi artisti come Raffaello, Leonardo, ecc. che lo raffigurano bambino, che gioca con il piccolo Gesù, sempre rivestito con la pelle ovina e chiamato affettuosamente “San Giovannino”.
Ciò testimonia il grande interesse, che in tutte le epoche ha suscitato questo austero profeta, così in alto nella stessa considerazione di Cristo, da essere da lui definito “Il più grande tra i nati da donna”.
Egli è l’ultimo profeta dell’Antico Testamento e il primo Apostolo di Gesù, perché gli rese testimonianza ancora in vita. È tale la considerazione che la Chiesa gli riserva, che è l’unico santo dopo Maria ad essere ricordato nella liturgia, oltre che nel giorno della sua morte (29 agosto), anche nel giorno della sua nascita terrena (24 giugno); ma quest’ultima data è la più usata per la sua venerazione, dalle innumerevoli chiese, diocesi, città e paesi di tutto il mondo, che lo tengono come loro santo patrono.
Inoltre fra i nomi maschili, ma anche usato nelle derivazioni femminili (Giovanna, Gianna) è il più diffuso nel mondo, tradotto nelle varie lingue; e tanti altri santi, beati, venerabili della Chiesa, hanno portato originariamente il suo nome; come del resto il quasi contemporaneo s. Giovanni l’Evangelista e apostolo, perché il nome Giovanni, al suo tempo era già conosciuto e nell’ebraico Iehóhanan, significava: “Dio è propizio”.
Nel Vangelo di s. Luca (1, 5) si dice che era nato in una famiglia sacerdotale, suo padre Zaccaria era della classe di Abia e la madre Elisabetta, discendeva da Aronne. Essi erano osservanti di tutte le leggi del Signore, ma non avevano avuto figli, perché Elisabetta era sterile e ormai anziana.
Un giorno, mentre Zaccaria offriva l’incenso nel Tempio, gli comparve l’arcangelo Gabriele che gli disse: “Non temere Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio che chiamerai Giovanni. Avrai gioia ed esultanza e molti si rallegreranno della sua nascita, poiché sarà grande davanti al Signore” e proseguendo nel descrivere le sue virtù, cioè pieno di Spirito Santo, operatore di conversioni in Israele, precursore del Signore con lo spirito e la forza di Elia.
Dopo quella visione, Elisabetta concepì un figlio fra la meraviglia dei parenti e conoscenti; al sesto mese della sua gravidanza, l’arcangelo Gabriele, il ‘messaggero celeste’, fu mandato da Dio a Nazareth ad annunciare a Maria la maternità del Cristo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. Vedi anche Elisabetta, tua parente, nella vecchiaia ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile; nulla è impossibile a Dio”.
Maria allora si recò dalla cugina Elisabetta per farle visita e al suo saluto, declamò il bellissimo canto del “Magnificat”, per le meraviglie che Dio stava operando per la salvezza dell’umanità e mentre Elisabetta esultante la benediceva, anche il figlio che portava in grembo, sussultò di gioia.
Quando Giovanni nacque, il padre Zaccaria che all’annuncio di Gabriele era diventato muto per la sua incredulità, riacquistò la voce, la nascita avvenne ad Ain Karim a circa sette km ad Ovest di Gerusalemme, città che vanta questa tradizione risalente al secolo VI, con due santuari dedicati alla Visitazione e alla Natività.
Della sua infanzia e giovinezza non si sa niente, ma quando ebbe un’età conveniente, Giovanni conscio della sua missione, si ritirò a condurre la dura vita dell’asceta nel deserto, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano locuste e miele selvatico.
Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio (28-29 d.C.), iniziò la sua missione lungo il fiume Giordano, con l’annuncio dell’avvento del regno messianico ormai vicino, esortava alla conversione e predicava la penitenza.
Da tutta la Giudea, da Gerusalemme e da tutta la regione intorno al Giordano, accorreva ad ascoltarlo tanta gente considerandolo un profeta; e Giovanni in segno di purificazione dai peccati e di nascita a nuova vita, immergeva nelle acque del Giordano, coloro che accoglievano la sua parola, cioè dava un Battesimo di pentimento per la remissione dei peccati, da ciò il nome di Battista che gli fu dato.
Anche i soldati del re Erode Antipa, andavano da lui a chiedergli cosa potevano fare se il loro mestiere era così disgraziato e malvisto dalla popolazione; e lui rispondeva: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno e contentatevi delle vostre paghe” (Lc 3, 13).
Molti cominciarono a pensare che egli fosse il Messia tanto atteso, ma Giovanni assicurava loro di essere solo il Precursore: “Io vi battezzo con acqua per la conversione, ma colui che viene dopo di me è più potente di me e io non sono degno neanche di sciogliere il legaccio dei sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”.
E alla delegazione ufficiale, inviatagli dai sommi sacerdoti disse, che egli non era affatto il Messia, il quale era già in mezzo a loro, ma essi non lo conoscevano; aggiungendo “Io sono la voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore, come disse il profeta Isaia”.
Anche Gesù si presentò al Giordano per essere battezzato e Giovanni quando se lo vide davanti disse: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato dal mondo!” e a Gesù: “Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?” e Gesù: “Lascia fare per ora, poiché conviene che adempiamo ogni giustizia”.
Allora Giovanni acconsentì e lo battezzò e vide scendere lo Spirito Santo su di Lui come una colomba, mentre una voce diceva: “Questo è il mio Figlio prediletto nel quale mi sono compiaciuto”. Da quel momento Giovanni confidava ai suoi discepoli “Ora la mia gioia è completa. Egli deve crescere e io invece diminuire” (Gv 3, 29-30).
La sua missione era compiuta, perché Gesù prese ad iniziare la sua predicazione, aveva formato il gruppo degli apostoli e discepoli ed era seguito da una gran folla; egli aveva predicato proprio per questo, preparare un popolo degno, che accogliesse Gesù e il suo messaggio di Redenzione.
Aveva operato senza indietreggiare davanti a niente, neanche davanti al re d’Israele Erode Antipa († 40 d.C.), che aveva preso con sé la bella Erodiade, moglie divorziata da suo fratello; ciò non era possibile secondo la legge ebraica, la “Torà”, perché il matrimonio era stato regolare e fecondo, tanto è vero che era nata una figlia Salomè.
Per questo motivo un giudeo osservante e rigoroso come Giovanni, sentiva il dovere di protestare verso il re per la sua condotta. Infuriata Erodiade gli portava rancore, ma non era l’unica; perché il Battesimo che Giovanni amministrava, perdonava i peccati, rendendo così inutili i sacrifici espiatori, che in quel tempo si facevano al Tempio, e ciò non era gradito ai sacerdoti giudaici.
Erode fece arrestare e mettere in carcere Giovanni su istigazione di Erodiade, la quale avrebbe voluto che fosse ucciso, ma Erode Antipa temeva Giovanni, considerandolo uomo giusto e santo, preferiva vigilare su di lui e l’ascoltava volentieri, anche se restava molto turbato.
Ma per Erodiade venne il giorno favorevole, quando il re diede un banchetto per festeggiare il suo compleanno, invitando tutta la corte ed i notabili della Galilea. Alla festa partecipò con una conturbante danza anche Salomè, la figlia di Erodiade e quindi nipote di Erode Antipa; la sua esibizione piacque molto al re ed ai commensali, per cui disse alla ragazza: “Chiedimi qualsiasi cosa e io te la darò”; Salomé chiese alla madre consiglio ed Erodiade prese la palla al balzo, e le disse di chiedere la testa del Battista.
A tale richiesta fattagli dalla ragazza davanti a tutti, Erode ne rimase rattristato, ma per il giuramento fatto pubblicamente, non volle rifiutare e ordinò alle guardie che gli fosse portata la testa di Giovanni, che era nelle prigioni della reggia.
Il Battista fu decapitato e la sua testa fu portata su un vassoio e data alla ragazza che la diede alla madre. I suoi discepoli saputo del martirio, vennero a recuperare il corpo, deponendolo in un sepolcro; l’uccisione suscitò orrore e accrebbe la fama del Battista.
Molti testi apocrifi, come anche i libri musulmani, fra i quali il Corano, parlano di lui; dai suoi discepoli si staccarono Andrea e Giovanni apostoli per seguire Gesù. Il suo culto come detto all’inizio si diffuse in tutto il mondo conosciuto di allora, sia in Oriente che in Occidente e a partire dalla Palestina si eressero innumerevoli Chiese e Battisteri a lui dedicati.
La festa della Natività di S. Giovanni Battista fin dal tempo di s. Agostino (354-430), era celebrata al 24 giugno, per questa data si usò il criterio, essendo la nascita di Gesù fissata al 25 dicembre, quella di Giovanni doveva essere celebrata sei mesi prima, secondo quanto annunciò l’arcangelo Gabriele a Maria.
Le celebrazioni devozionali, folkloristiche, tradizionali, sono diffuse ovunque, legate alla sua venerazione; come tanti proverbi popolari sono collegati metereologicamente alla data della sua festa.
S. Giovanni Battista, tanto per citarne alcune, è patrono di città come Torino, Firenze, Genova, Ragusa, ecc. Per quanto riguarda le reliquie c’è tutta una storia che si riassume; dopo essere stato sepolto privo del capo a Sebaste in Samaria, dove sorsero due chiese in suo onore; nel 361-362 ai tempi dell’imperatore Giuliano l’Apostata, il suo sepolcro venne profanato dai pagani che bruciarono il corpo disperdendo le ceneri.
Ma a Genova nella cattedrale di S. Lorenzo, si venerano proprio quelle ceneri (?), portate dall’Oriente nel 1098, al tempo delle Crociate, con tutti i dubbi collegati.
Per la testa che si trovava a Costantinopoli, per alcuni invece ad Emesa, purtroppo come per tante reliquie del periodo delle Crociate, dove si faceva a gara a portare in Occidente reliquie sante e importanti, la testa si sdoppiò, una a Roma nel XII secolo e un’altra ad Amiens nel XIII sec.
A Roma si custodisce senza la mandibola nella chiesa di S. Silvestro in Capite, mentre la cattedrale di S. Lorenzo di Viterbo, custodirebbe il Sacro Mento. Risparmiamo la descrizione di braccia, dita, denti, diffusi in centinaia di chiese europee.
Al di là di queste storture, frutto del desiderio di possedere ad ogni costo una reliquia del grande profeta, ciò testimonia alla fine, la grande devozione e popolarità di quest’uomo, che condensò in sé tanti grandi caratteri identificativi della sua santità, come parente di Gesù, precursore di Cristo, ultimo dei grandi profeti d’Israele, primo testimone-apostolo di Gesù, battezzatore di Cristo, eremita, predicatore e trascinatore di folle, istitutore di un Battesimo di perdono dei peccati, martire per la difesa della legge giudaica, ecc.

Autore: Antonio Borrelli

Publié dans:San Giovanni Battista |on 23 juin, 2015 |Pas de commentaires »
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