Angels, praise of Lord

http://www.larici.it/culturadellest/icone/contributi/apocrifi/index.html
INTRODUZIONE AGLI SCRITTI APOCRIFI, 2012 (1)
L’aggettivo «apocrifo», spesso sostantivato, deriva dal greco apokryphos che significa “segreto”, “celato”. Se in origine indicava un testo con un linguaggio ermetico che richiedeva una particolare formazione culturale oppure, nella tradizione cristiana più antica, con approfondimenti da non leggersi durante la liturgia, in seguito (dopo il II secolo (2)) prese ad assumere la connotazione negativa di “falso”. Tale cambiamento pare sia dovuto a san Gerolamo (347-419?) che, all’inizio, tradusse la Bibbia in latino dalla versione greca dei Settanta (che costituisce tuttora la versione liturgica dell’Antico Testamento per le Chiese ortodosse orientali greche e slave) ritenendola divinamente ispirata, ma poi, ripensandoci, accettò soltanto i testi scritti originariamente in ebraico e così distinse le “vere scritture” (in ebraico) dagli “apocrifi” (in greco).
Con il significato di “falso” si indicarono, di conseguenza, tutti gli scritti non riconosciuti ufficialmente (extra-canonici) dalla Chiesa per la mancanza di ispirazione divina o di apostolicità, ossia non scritti da testimoni oculari come gli apostoli e i discepoli, oppure a causa della riproposizione in altra forma dei testi canonici o per l’esposizione di opinioni o predizioni di un ignoto autore celato sotto uno pseudonimo famoso (pseudoepigrafi) o ancora per altri motivi: adattamenti al luogo e alla cultura delle comunità adottanti, cattive o contrastanti traduzioni, descrizione di eventi non certi, recupero di leggende e così via. C’è da sottolineare, però, che la Chiesa non li vietò mai ufficialmente, che alcuni Padri della Chiesa se ne servirono per dar forza ai loro scritti, che nella Bibbia sono presenti testi (come due lettere di san Paolo) la cui autenticità è stata oggetto di molte discussioni, e che, infine, la maggioranza di apocrifi con posizioni non dottrinali si perse con l’eresia che li supportava.
Gli apocrifi ebbero gran diffusione già a partire dalla fine del II secolo, in quanto i libri sacri presentavano molte lacune nella vita e nelle azioni dei personaggi o descrivevano gli avvenimenti in modo ostico ed eccessivamente simbolico, sì da non essere pienamente comprensibili al popolo oppure miravano a interpretare o addirittura capovolgere gli assunti ufficiali.
Occorre ricordare che tredici papiri, rilegati in cuoio e scritti in copto, furono ritrovati nascosti in una grotta, entro una giara di terracotta, a 5 km dal monastero cenobita pacomiano sull’isola di Nag Hammadi, nell’Alto Egitto, nel 1945. Essi contenevano, per intero o in frammenti, cinquantadue testi gnostici e pagani, compresa una riscrittura della Repubblica di Platone, che risalivano al II secolo. A tale ritrovamento si aggiunse quello, nel 1947, dei manoscritti del Mar Morto, o di Qumran, in una zona desertica a 30 km da Gerusalemme, cui ne seguirono altri. Tutto ciò portò alla conoscenza di interi testi (non solo nomi o frammenti) e dette l’avvio a più approfondite indagini sulle prime comunità cristiane.
Il fatto, per esempio, che i codici di Nag Hammadi fossero stati nascosti portò, dopo anni di studio, a ritenere che all’epoca fossero in corso delle lotte teologiche tra i cristiani che seguivano la nascente Chiesa, con la sua gerarchia, e i cristiani seguaci dello gnosticismo (dal greco gnosis, conoscenza) dei quali erano i codici trovati.
Gli gnostici erano anch’essi cristiani e frequentavano le chiese, ma interpretavano le Scritture in modo diverso. Ha scritto la studiosa statunitense Elaine Pagels: «I cristiani dell’ortodossia che nel II secolo stavano formando la Chiesa cattolica, romana e apostolica, pensavano che un universo separasse i comuni mortali da Dio. Per i cristiani della gnosi, invece, era la conoscenza di sé a portare a Dio. L’io, indagato e nutrito spiritualmente, diventava vera divinità». In altre parole, gli gnostici credevano che ci si potesse elevare allo stesso livello di Gesù raggiungendo l’illuminazione – «Colui che berrà dalla mia bocca diventerà come me, nello stesso modo che io diventerò come lui e le cose nascoste gli verranno rivelate» (Vangelo di Tommaso, 115.) – percorrendo diversi stadi per allontanare i desideri fisici e liberarsi dei pensieri con lunghe meditazioni e, infine, arrivare all’estasi: solo ora il maestro gnostico poteva gridare al suo discepolo «Vedo! Vedo profondità indescrivibili. Come dirti, figlio mio?… Come [descrivere] l’universo? [Sono mente e] vedo un’altra mente, quella che [muove] l’anima! Vedo quella che mi muove dal puro oblio. Tu mi dai potere! Vedo me stesso! Voglio parlare! Mi trattiene il timore. Ho trovato il principio del potere che è sopra a tutti i poteri, quello che non ha principio» (Zostriano (Codice VIII).).
Molte altre erano le differenze: per esempio, gli gnostici credevano che Gesù e gli apostoli, compreso Paolo di Tarso, non avessero rivelato ai discepoli che dietro al Dio biblico (imperfetto perché violento e aveva lasciato il male sulla Terra) ci fosse il Dio supremo (perfetto) e la gnosi era appunto la conoscenza di questo Dio superiore. O ancora, erano messe in dubbio la passione di Cristo e la sua risurrezione fisica: «Giovanni, per la folla laggiù a Gerusalemme io sono crocifisso, sono ferito con lance e canne, mi danno da bere aceto e fiele. Ma questa non è la croce di legno [...] Né quello sulla croce sono io [...] ora la moltitudine intorno alla croce non ha un solo aspetto, è la natura inferiore» (Atti di Giovanni), cioè la natura umana di Cristo era ritenuta soltanto apparente. Così, la risurrezione raccontata nei vangeli canonici era solo una metafora perché essa era l’estasi, la rinascita interiore, raggiunta da vivi con la gnosi: «Coloro che dicono che il Signore prima è morto e poi è risuscitato, si sbagliano, perché egli prima è risuscitato e poi è morto. Se uno non consegue prima la resurrezione non morirà, perché “come è vero che Dio vive” egli sarà già morto» (Vangelo di Filippo, 21). Fu questo uno dei punti di scontro più duri tra cristiani “canonici” e cristiani gnostici, non solo per il credo, ma perché scardinava la gerarchia ecclesiastica: vescovi e sacerdoti non sarebbero più stati i rappresentanti legittimi degli apostoli, ossia dei testimoni oculari della risurrezione, e di conseguenza non sarebbero stati più considerati l’anello necessario tra terreno e divino se chiunque poteva raggiungere la risurrezione interiore. Prevalsero i “canonici”, più organizzati e più aperti alle necessità materiali del popolo; gli gnostici furono proclamati eretici e i loro libri messi al bando.
Gli scritti apocrifi sono circa duecento, ma di non tutti si conosce il contenuto, infatti di alcuni si sa solamente il titolo perché citato da qualche Padre della Chiesa.
Si sogliono dividere in Apocrifi dell’Antico Testamento e in Apocrifi del Nuovo Testamento (ma non tutti gli storici concordano, cfr. Norelli). Ai primi appartengono apocalissi, testamenti, narrazioni e furono redatti, in luoghi diversi, dal IV secolo a.C. e il IX secolo d.C.; nei secondi, più numerosi, sono vangeli, atti, lettere, apocalissi e altri scritti di difficile schedatura. È tuttavia importante sottolineare che le Chiese cristiane – cattolica-romana, ortodossa e protestante – considerano diversamente i testi apocrifi (3).
Ciò che determinò la loro diffusione fu, da una parte, il racconto dei lati più umani e quotidiani dei personaggi (o, per Gesù, la sua eccezionalità tanto da ritrarlo quasi come un mito) (4) e, dall’altra, il peso maggiore dato ai sogni, o visioni, e alla loro interpretazione, cosa ammessa nella Bibbia soltanto a pochi eletti e dalla Chiesa molto raramente: «La diffidenza nei confronti della visione onirica nasce dalla convinzione che non soltanto Dio invia sogni agli uomini, bensì anche il demonio ha la capacità di farlo allo scopo di confondere e far errare il fedele. Vi sono, dunque, sogni veri e sogni ingannatori e, data la difficoltà di stabilire un criterio adeguato per operare una distinzione tra i due, tale atteggiamento di sospetto permane» (J. Le Goff).
Tuttavia, volendo sopraffare il paganesimo, la Chiesa dovette accettare alcuni episodi apocrifi, sia in ambito letterario e artistico che in quello devozionale e liturgico, come la nascita di Gesù in una grotta riscaldata dall’asino e il bue, l’adorazione dei Magi, la fuga in Egitto, alcuni momenti della predicazione di Cristo, i genitori, l’infanzia e la morte della Vergine Maria, compreso il suo ingresso al Tempio di Gerusalemme, la figura invecchiata di Giuseppe falegname e molto altro. Alcuni di questi episodi furono quindi trasformati in feste solenni, temi imprescindibili nella decorazione delle chiese e fonte di molti testi devozionali del Medioevo (per esempio, la Legenda aurea di Jacopo da Varagine).
Qui si sono raccolti quattro testi che introducono, sotto diverse angolazioni, lo studio degli antichi scritti apocrifi:
- Il Gesù dei Vangeli Apocrifi di Marcello Craveri (1914-2002), storico di religioni e di miti pagani e orientali, costituisce la prefazione alla raccolta I Vangeli Apocrifi (Torino 1990);
- Apocrifi. Istruzioni per l’uso è un articolo del padre francescano Frédéric Manns, specialista dei rapporti tra ebraismo e cristianesimo nei primi secoli, pubblicato sul periodico “Terrasanta” nel 2011;
- Gli apocrifi: minaccia o risorsa? è un articolo del biblista Giuseppe Mazza e del teologo don Giacomo Perego, entrambi docenti presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, pubblicato su “Rivista” (Roma 2007);
- Apocrifi cristiani antichi è una circostanziata voce del Dizionario di omiletica (Torino 1998) scritta da Enrico Norelli, professore ordinario di Storia del cristianesimo delle origini presso l’Università di Ginevra.
- Gli apocrifi, tendenze letterarie che hanno segnato la cultura cristiana è un testo, scritto nel 2004, di Patrice Perreault, biblista e docente all’Università di Montreal.
http://www.caritas-ticino.ch/about_us/storia2.htm
Il Vescovo Eugenio Corecco ha sviluppato l’idea che “La carità non ha come misura il bisogno dell’altro, ma la ricchezza dell’amore di Dio” in due momenti che ricordiamo con commozione, il primo nel 1991 parlando all’equipe di Caritas Ticino e il secondo un anno dopo al convegno del cinquantesimo, pubblicato sul libro “Diocesi di Lugano e Carità: sguardo al futuro” titolo anche della sua relazione. Li leggiamo qui di seguito.
DAL BISOGNO ALLA SOVRABBONDANZA
Mons. Eugenio Corecco , vescovo di Lugano, partecipando all’incontro di formazione degli operatori di Caritas Ticino del 14 giugno 1991, ripercorrendo i cento anni di dottrina sociale della chiesa, dalla Rerum Novarum alla Centesimus Annus, ha sviluppato il concetto di carità, solidarietà e comunione quale punto nodale dell’intervento sociale del cristiano che non può accontentarsi della nozione di giustizia: la risposta al bisogno sociale deve essere una risposta « sovrabbondante » al bisogno più profondo della persona.
La dignità dell’uomo
Così il vescovo Corecco si esprimeva: « I problemi del mondo, come i problemi delle nostre singole persone tra di loro, non sono risolvibili con la semplice nozione di giustizia. La nozione di giustizia ci fa fare la guerra: io prendo quello che mi spetta; la nozione di solidarietà mi aiuta ad affrontare la situazione in modo diverso mettendo prima di tutto in discussione la mia posizione e la mia persona. L’elemento fondamentale per ogni discorso sociale è che ciò che conta è la dignità dell’uomo, ciò che produce l’ingiustizia è il non rispetto della dignità dell’uomo, ma questa dignità dell’uomo può essere colta solo se si capisce che l’uomo si realizza, realizza il suo destino, attraverso la solidarietà, attraverso la gratuità e per finire in un rapporto di carità o di comunione con le altre persone. La carità, dunque la Caritas come una delle forme istituzionalizzate di questo discorso, è la denuncia del mondo, la denuncia più radicale, perché si può fare la rivoluzione per la giustizia e va bene, si può denunciare l’ingiustizia del mondo, però se si pongono veramente dei gesti di carità personale verso le altre persone, si contesta il mondo a un livello più radicale, si contesta una moralità laica che teorizza l’individualismo: per cui la carità è la forma più profonda, più radicale, inappellabile in fondo, di denuncia del mondo. »
La sovrabbondanza di Cristo
« Per capire che cos’è la solidarietà, la carità, la comunione, bisogna pensare che non hanno come misura, contrariamente alla giustizia, il diritto dell’altro: io sono giusto quando rispetto il diritto di quell’altro, per cui è il diritto dell’altro che determina il mio comportamento. La solidarietà e la carità non hanno come metro di misura il bisogno dell’altro, ma hanno come metro di misura la sovrabbondanza con la quale Cristo si è manifestato tra gli uomini. Per salvare l’umanità Dio non aveva bisogno di fare assolutamente niente, ma ha mandato il Figlio a morire sulla croce. Dunque c’è dentro una sovrabbondanza che è totale, perché non era necessario parlando in termini puramente filosofici: se Dio vuole salvare il mondo lo salva, lo dichiara salvo, fa un pensiero, dichiara salvo il mondo, lo perdona. Ma ha manifestato questo fatto attraverso una sovrabbondanza inimmaginabile tanto che fa scandalo,- si parla dello « scandalo della croce ». La croce è uno scandalo perché non si capisce come Dio possa essere morto sulla croce: in effetti non si capisce, uno ci crede o non ci crede, ma non lo può capire nessuno. Si può capire che è avvenuto un fatto dell’altro mondo, ma si comincia a dubitarne perché è fuori dalle categorie umane; quindi uno ci crede o non ci crede. Comunque la croce fa scandalo proprio per la sovrabbondanza, per cui la misura della carità non è il bisogno che incontriamo. Il bisogno che incontriamo ci provoca e dobbiamo partire da quello, ma di per sé non possiamo limitarci a quello, perché siamo chiamati a qualche cosa di più, ad essere sovrabbondanti. Questo è un altro modo per dire le dimensioni e la natura della solidarietà, della carità e della comunione.
Inadeguatezza e conversione
Magari nella vita riusciamo a realizzare solo un millimetro di questa cosa, ma l’importante è realizzare quel millimetro che ci sentiamo, di realizzare. Poi ogni persona ha dentro una chiamata sua e gli è data la capacità di realizzare due millimetri, tre millimetri, ma non è quello che conta. Quello che conta è la premessa per realizzare anche solo un millimetro e realizzarlo in termini veramente organici a quello che la Caritas può essere e deve essere. L’importante è capirlo, intravedere il valore di questo discorso, intravedere la sublimità, la sovrabbondanza del discorso in quanto tale. Guardando la persona di Cristo che manifesta Dio nella storia, primogenito di tutte le creature, nel senso che è l’uomo per eccellenza, guardando lui possiamo capire cosa siamo di per sé chiamati a fare. Dovrei scoraggiare me stesso per primo, perché tutti siamo inadeguati, ma il problema è di accettare che dovrebbe essere così e dobbiamo misurarci con questo fatto e con questi valori. In questo sta la conversione. Altrimenti riduciamo il tutto a una piccola cucina di cose da fare, di cose da tralasciare, a un moralismo che non ci salva, che non salva la nostra persona. Se la nostra persona entra in una dinamica di questo tipo, allora e come se avesse, una radice in più per vivere. Vive con dentro una prospettiva, un risvolto, una forza dunque, una virtù che le restituisce tutte le potenzialità umane. L’uomo è grande, è a immagine e somiglianza di Dio, dice la Bibbia, vuol dire che è capace di queste cose, può vivere questi valori come Cristo Figlio di Dio ha vissuto questi valori, per cui è immagine e somiglianza per quello. La dignità dell’uomo è dentro questa possibilità di grandezza. I Santi sono persone che hanno vissuto una umanità incredibile, anche se socialmente non contavano niente ».
DIOCESI DI LUGANO E CARITÀ: SGUARDO AL FUTURO
(estratto dal libro del 50° di Caritas Ticino pag. 199)
Mons. Eugenio Corecco
L’assillo di guardare al futuro, « alla ricerca di strade nuove per esprimere la carità », potrebbe nascere da un nostro dubbio interiore.
La carità è ancora atta a garantire la presenza della Chiesa nella società tenendo conto del contributo che essa deve dare alla soluzione dei problemi sociali del mondo contemporaneo? Una risposta semplicistica e perciò palesemente inadeguata, potrebbe essere quella di ricordare che la Chiesa, in realtà, dà il suo contributo alla soluzione dei problemi sociali non solo attraverso la Caritas, ma anche e soprattutto attraverso i sindacati cristiani, i quali, da sempre, lottano per la realizzazione della giustizia sociale.
Questa risposta potrebbe ingenerare l’equivoco di credere che il sindacato cristiano sia preposto alla realizzazione della giustizia, mentre la carità e la Caritas abbiano, come compito, solo quello di garantire il superfluo. Di qui il dubbio sottile, eventualmente contenuto nella formulazione del tema di questo Convegno.
In una società che pretende (almeno nei paesi ricchi come il nostro) di realizzare in modo sempre più globale il Walfare State (malgrado le ricorrenti crisi congiunturali), in uno Stato cioè sempre più sociale, la Caritas ha ancora una prospettiva di avvenire? Per definizione, infatti, il superfluo potrebbe anche non esistere, mentre sempre essenziale e imprescindibile è la giustizia.
Ma noi sappiamo che per il cristiano la virtù della carità non appartiene al novero delle cose superflue. Il pilastro fondamentale della vita del cristiano non sono le quattro virtù cardinali della prudenza, giustizia, fortezza e temperanza (formulate dalla filosofia stoica, da Seneca in particolare) e recepite anche dal pensiero cristiano. Il pilastro fondamentale della vita del cristiano sono le tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità.
La carità appartiene perciò all’essenza stessa dell’esperienza cristiana. Non è possibile, di conseguenza, per il cristiano, regredire semplicemente al livello della pratica delle virtù cardinali (cui appartiene anche la giustizia) e muoversi perciò solo sul terreno della razionalità umana e del diritto naturale, prescindendo dalla pratica della carità, che appartiene all’ambito della esperienza soprannaturale, cioè della redenzione e della grazia.
La carità non coincide con il superfluo, è l’essenza stessa della vita del cristiano. Costituisce perciò l’elemento essenziale della presenza del cristiano e della Chiesa nel mondo e del suo contributo alla realizzazione del bene comune.
Non esiste dubbio sul futuro della carità e perciò, in modo derivato, della Caritas, in quanto forma istituzionalizzata per attivare questa virtù teologale. La Caritas è un albero che non può essere tagliato; anzi, deve crescere e dare frutti sempre più abbondanti, così come ci insegna la parabola del Vangelo. Siamo tuttavia tutti consapevoli che, in una cultura positivista come quella in cui viviamo, un argomento « a priori » non ha più la forza convincente di un tempo. Dobbiamo di conseguenza reperire la risposta alla nostra domanda, percorrendo altri itinerari di ricerca.
La dottrina sociale della Chiesa che, paradossalmente, sembrereb be essere stata elaborata per porre le fondamenta di una concezione cristiana non della carità, ma della giustizia, ha subito, proprio su questa tematica, una profonda evoluzione.
La svolta nevralgica è avvenuta nel 1963 quando Papa Giovanni XXIII, nella Pacem in Terris, per fondare la dignità della persona umana non ha più utilizzato solo gli argomenti classici della filosofia, ma ha fatto ricorso anche alla Rivelazione. Il fondamento ultimo della dignità della persona umana, salvata dal sangue di Cristo versato sulla croce, sta nella sua filiazione divina.
Questa argomentazione di Giovanni XXIII ha introdotto nella dottrina sociale un nuovo criterio epistemologico. Da quello puramente filosofico razionale (sia pure illuminato dalla fede), il Magistero pontificio è passato alla adozione di una conoscenza direttamente derivata dalla Rivelazione, perciò dalla fede. Dalla filosofia è avvenuta una evoluzione verso la teologia.
Il risultato è sorprendente. Se la prima pagina della dottrina sociale della Chiesa, quella scritta da Leone XIII con la « Rerum Novarum » parla della giustizia, l’ultima pagina della stessa, se si prescinde dalla « Centesimus annus », quella scritta da Papa Giovanni Paolo II, cinque anni or sono, con la
« Sollicitudo Rei Socialis », propone il discorso della carità. Per liberare il proletariato dalla schiavitù in cui, nel secolo scorso (secolo del progresso), era stato assoggettato dal mondo padronale, Leone XIII ha invocato il criterio della giustizia e, su questa linea, si sono mossi anche i Papi successivi. Pio XI, commemorando la « Rerum Novarum », quarant’anni dopo (1931), con la « Quadragesimus Annus », affermava ancora, e giustamente, che non si può nascondere l’ingiustizia con la carità e che alla carità non spetta l’obbligo di coprire con un velo la violazione della giustizia.
Tutto ciò è profondamente vero, ma è evidente che in quel contesto il discorso sulla giustizia e sulla carità erano ancora condotti su due piani diversi, senza convergere verso una sintesi. Ciò dipende dal fatto che l’analisi della situazione di ingiustizia sociale, in cui versava la società, era fatta con criteri di natura prevalentemente economica e politica, mentre nella « Sollicitudo Rei Socialis », Papa Giovanni Paolo II ha introdotto un altro criterio di analisi.
Nel solco di Papa Giovanni XXIII, che, come abbiamo visto, aveva dichiarato la Redenzione di Cristo quale fondamento ultimo della dignità della persona umana, Giovanni Paolo II, nei numeri 35 40 della « Sollicitudo Rei Socialis », invece di una lettura economica, ha dato una lettura teologica delle cause della ingiustizia sociale esistente nel mondo.
Papa Giovanni Paolo II sostiene che la radice più profonda dei disordini sociali non è di natura economica o politica, ma di natura morale e teologica. Alla radice sta il peccato personale degli uomini; stanno le « strutture di peccato » che via via si sono consolidate nella società, ma alla cui origine emerge sempre il peccato personale dell’uomo.
La nozione di peccato non è filosofica, ma teologica, poiché il peccato noN ha come referente valori impersonali, come potrebbe essere per es. quello della giustizia, ma sempre il Dio personale; anzi, il Dio trinitario, dal cui seno si è rivelato il Figlio, nella incarnazione, per portare all’uomo la Grazia della redenzione.
Con la « Sollicitudo Rei Socialis » la dottrina sociale della Chiesa è stata così collocata all’interno del binomio con il quale da sempre è stata fatta la lettura cristiana della storia: il binomio del peccato e della Grazia. La Grazia, intesa come perdono e aiuto dell’uomo, per la conversione del suo cuore.
La storia dell’umanità, in effetti, è la storia del coinvolgimento di tutti gli uomini nelle conseguenze, sia del peccato che della Grazia.
Il coinvolgimento nel peccato si realizza, socialmente e politicamente, nelle « strutture di peccato » che creano condizionamenti e ostacoli per la realizzazione del bene comune e dello sviluppo dei popoli.
Il coinvolgimento della Grazia avviene, socialmente e politicamente, nella solidarietà tra gli uomini. Quello della solidarietà è l’unico criterio possibile per superare la brama del profitto e la sete del potere, in quanto aspetti negativi più caratteristici della vita sociale contemporanea. Si tratta, infatti, di una solidarietà che deve realizzarsi non solo tra le singole persone, ma anche tra i gruppi intermedi e tra le nazioni, tra Nord e Sud; di una solidarietà intesa come opzione preferenziale per i poveri, nel senso non solo materiale ma anche spirituale della parola.
Dalla nozione di giustizia, la dottrina sociale della Chiesa è evoluta perciò verso la nozione di solidarietà.
Ma di quale solidarietà intende parlare la « Sollicitudo Rei Socialis? » La solidarietà è senza dubbio una virtù umana, che potrebbe essere anche annoverata accanto alle quattro virtù cardinali già menzionate, attorno alle quali Seneca ha tentato la sintesi di tutta la sua filosofia morale.
Tuttavia, la solidarietà, afferma Giovanni Paolo II, tende a superare se stessa per rivestire la dimensione specificamente cristiana della gratuità totale, e perciò della carità, che è il segno distintivo dei discepoli di Cristo (Gv 13, 35). Il re ferente di questa solidarietà cristiana non è più perciò soltanto l’individuo umano, con i suoi diritti e la sua fondamentale uguaglianza rispetto a tutti, ma l’uomo, in quanto viva immagine di Dio Padre; in quanto persona riscattata dal sangue di Cristo e posta sotto l’azione permanente dello Spirito Santo.
Questo uomo, non più definito filosoficamente, ma teologicamente, deve essere amato, anche se nemico, con lo stesso amore con cui lo ama il Signore. Per lui bisogna essere disposti anche al sacrificio supremo: « dare la vita per i propri fratelli » (1 Gv 3, 13). Non è un caso che la « Sollicitudo Rei Socialis », a sostegno di questi concetti, introduce l’esempio di Massimiliano Kolbe, che ha dato la vita per un uomo a lui estraneo, in nome di Cristo, considerandolo come fratello.
Su questa base teologica si prospetta l’emergere di un nuovo modello di solidarietà e di unità del genere umano, al quale deve ispirarsi l’azione sociale del cristiano. Un modello che va al di là dei vincoli umani naturali, poiché ha come fondamento la carità. Per la prima volta nella dottrina sociale della Chiesa, la « Sollicitudo Rei Socialis » propone al mondo, come modello di riferimento, la forma della socialità tipica dell’esperienza cristiana; propone la comunione come modello per realizzare il bene comune di tutta l’umanità.
Se la Chiesa osa segnalare il proprio modello di comunione come esempio valido universalmente per realizzare la giustizia sociale, lo fa perché possiede la coscienza di essere chiamata dal Signore ad essere, come dice la Lumen Gentium, segno e sacramento di salvezza per il mondo intero.
« I meccanismi perversi » della società e le « strutture di peccato » potranno essere vinte, afferma la « Sollicitudo Rei Socialis », solo mediante l’esercizio della solidarietà umana che, per il cristiano, può logicamente configurarsi solo come comunione e perciò solo come frutto della carità.
A questo punto non possiamo non sottrarci, ancora una volta, ad una domanda precisa: ma cos’è la carità?
Come per la solidarietà, anche in merito alla carità le possibilità di equivoco sono grandi.
La carità non consiste solo nel fare qualche cosa per gli altri. È più di questo. Non può essere confusa con altruismo. Il fare, l’agire, l’intervenire, il dare, sono solo i modi in cui si realizza la carità, non sono la sua origine.
Non rileggeremo mai con sufficiente attenzione il celebre testo del cap. 13 della prima lettera ai Corinzi: « Anche se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli… anche se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza… anche se trasportassi le montagne con la fede, ma non avessi la carità, non sarei niente. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo alle fiamme per gli altri, ma non avessi la carità, non mi gioverebbe a nulla ».
È un testo che non lascia scampo. Il cristiano in quanto cristiano, non è nulla anche se facesse le cose più grandi di questo mondo, anche se distribuisse tutti i suoi beni in elemosina, o realizzasse la perfetta giustizia sociale. Non saremmo nulla, poiché per vocazione non siamo stati chiamati a dare o a realizzare la giustizia in quanto tale o a praticare l’elemosina, bensì a condividere con gli altri la nostra persona, in nome di Cristo.
La virtù teologale della carità esige dal cristiano di riconoscere l’altro come parte di se stesso; parte della propria persona e della propria umanità. Il cristiano deve lasciarsi determinare dal fatto che Cristo, sulla croce, ha stabilito un’unità oggettiva tra lui e gli altri. Il punto genetico della carità sta nel riconoscere l’unità stabilita tra gli uomini da Gesù Cristo. Il cristiano è chiamato ad amare l’uomo ed a fare unità con lui e, così, a realizzare anche la giustizia sociale, non grazie alla propria generosità, ma in nome di Gesù Cristo. La carità consiste nell’aprirsi all’altro, non in nome dei propri sentimenti naturali, ma in nome di Gesù Cristo. Per questo il cristiano è chiamato addirittura ad amare anche il suo nemico.
La carità è, di conseguenza, un gesto che nasce da una concezione diversa di noi stessi. Il punto che siamo perciò chiamati a convertire è prima di tutto la concezione che abbiamo di noi stessi. Una concezione capace di generare in noi una coscienza nuova circa la nostra persona, diversa da quella presente nel mondo.
La carità, così intesa, è la conseguenza della nostra adesione, nella fede, alla persona di Gesù Cristo, e della nostra speranza circa il fatto che, come afferma S. Paolo, « le tribolazioni del tempo presente sono senza paragone rispetto alla gloria che ci attende nella vita futura » (Rm 8, 18).
Solo in forza delle virtù teologali della fede, della speranza e della carità è possibile per il cristiano valutare in modo adeguato il destino globale dell’uomo. Sono i criteri che ci permettono di realizzare questo destino, dando una risposta adeguata anche alla « questione sociale ».
La nozione di solidarietà, proposta dalla « Sollicitudo Rei Socialis », sfocia nella nozione di comunione e di carità cristiana, superando tutti gli schemi dottrinali precedenti. Rimane evidentemente vero che non è possibile praticare la carità se non si realizza la giustizia, ma l’enciclica « Sollicitudo Rei socialis » afferma chiaramente anche che, per il cristiano, la giustizia deve essere vissuta e realizzata come, e in forza della carità. È l’insegnamento inequivocabile di S. Paolo: « Anche se dessi tutti i miei beni agli altri, ma non avessi la carità, non sarei nulla ».
Perché nulla? Perché senza la carità non mi porrei come segno di Cristo di fronte alle esigenze di giustizia sociale presenti nel mondo. In quanto cristiani siamo, infatti, chiamati a rendere presente Cristo nel mondo.
Attraverso ogni intervento sociale siamo chiamati a porre nel mondo un segno rivelatore della salvezza.
Il vero problema perciò non è quello di sapere se continuerà ad esistere, anche in avvenire, uno spazio di intervento sociale per la Caritas, ma piuttosto di riuscire a precisare sempre meglio la sua modalità di intervento nel mondo. La Caritas, in effetti, ha come missione di essere lo strumento istituzionale attraverso il quale la Chiesa interviene nel mondo, ponendosi esplicitamente come attuazione concreta delle virtù teologali e, in particolare, della carità.
I settori e i criteri d’intervento della Caritas, in seno alla società, possono cambiare, come, del resto, sono costantemente cambiati, anche nel corso di questo primo mezzo secolo di esistenza della nostra Caritas diocesana. L’esperienza non lascia nessun dubbio sul fatto che in via primaria, oppure anche solo in via di supplenza rispetto alla società civile e allo Stato, esisterà sempre uno spazio di intervento specifico della Caritas. Ciò è vero anche nell’ipotesi che avvenisse una totale realizzazione del Welfare State.
La ragione sta sia nel fatto che l’uomo è irriducibile ad un progetto culturale, sociale e politico di ogni tipo, sia nel fatto che l’amore per il prossimo è costitutivo dell’esperienza cristiana. La Caritas ha perciò un ruolo insopprimibile, indipendentemente dal fatto che si esprima secondo forme istituzionalizzate oppure solo individuali.
Il problema dell’avvenire non è quello della sopravvivenza della Caritas in quanto istituzione. Sarà sempre possibile individuare nuovi bisogni dell’uomo e della società e nuovi spazi d’intervento. Il vero problema è quello di riuscire a fare della Caritas un’espressione sempre più eloquente della missione pastorale della Chiesa. Anche se la Caritas copre un settore particolare, non può mai limitarsi a fare gesti solo particolari. Ogni gesto deve, nella misura del possibile, contenere ed esprimere il tutto.
La transizione, nella dottrina sociale della Chiesa, da una visione d’intervento fondata sul diritto naturale e perciò sulla virtù della giustizia, ad una visione fondata sulla solidarietà cristiana e perciò sulla comunione e la carità, rende il ruolo della Caritas insostituibile, perché è chiamata a realizzare non solo la giustizia umana, ma la solidarietà cristiana, che nella sua espressione più precisa assume la caratteristica della comunione e della carità.
Qualunque dovesse essere la natura e il settore dei suoi interventi in campo sociale, la Caritas è chiamata, con urgenza sempre più grande, ad esprimere nella società due valori specifici del cristianesimo, la cui rilevanza sociale non è misurabile infatti con criteri puramente razionali.
Il primo è la gratuità verso l’uomo in difficoltà, poiché è stata gratuita anche la redenzione offertaci da Cristo. Il secondo è quello dell’eccedenza, poiché eccedente è l’amore di Cristo verso di noi. La carità non ha come misura il bisogno dell’altro, ma la ricchezza e l’amore di Dio.
È, infatti, limitante guardare all’uomo e valutarlo a partire dal suo bisogno, poiché l’uomo è di più del suo bisogno e l’amore di Cristo è più grande del nostro bisogno.
Sarà sempre possibile dare nei confronti dell’uomo e dei suoi bisogni, spirituali e materiali, una testimonianza di gratuità e di eccedenza. Anzi, è un dovere al quale siamo chiamati in forza della nostra vocazione cristiana.
Ne consegue, più che mai, che la carità, anche nella forma istituzionale assunta nella Caritas, non può essere eliminata dall’esperienza di una Chiesa particolare e non può perciò essere eliminata dalla nostra Diocesi.
Eugenio Corecco, vescovo della diocesi di Lugano dal 1986, dr. jur. can. già professore all’Università di Friborgo e all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, presidente della Consociatio internationalis Studio Juris Canonici Promovendo, fondatore nel 1992 e Gran Cancelliere dell’Istituto Accademico di Teologia di Lugano.