Archive pour avril, 2015

CREDERE DA SOLI O CREDERE INSIEME?

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CREDERE DA SOLI O CREDERE INSIEME?

Prospettiva ecclesiologica

ERIO CASTELLUCCI

«La stessa professione della fede è un atto personale ed insieme comunitario. È la Chiesa, infatti, il primo soggetto della fede. Nella fede della comunità cristiana ognuno riceve il Battesimo, segno efficace dell’ingresso nel popolo dei credenti per ottenere la salvezza. Come attesta il Catechismo della Chiesa Cattolica: «‘Io credo’ è la fede della Chiesa professata personalmente da ogni credente, soprattutto al momento del Battesimo. ‘Noi crediamo’ è la fede della Chiesa confessata dai Vescovi riuniti in Concilio, o più generalmente, dall’assemblea liturgica dei fedeli. ‘Io credo’: è anche la Chiesa nostra Madre che risponde a Dio con la sua fede e che ci insegna a dire ‘Io credo’, ‘Noi crediamo’» (n. 167)».1
Se c’è una religione nella quale credere da soli e credere insieme vanno di pari passo e non si possono contrapporre, questa è certamente il cristianesimo; esistono infatti diversi motivi fondanti la correlazione tra dimensione personale e comunitaria della fede. Ne ricordo tre, che sono alla base dell’ecclesiologia.

L’impronta della Trinità della “persona”
Con la nozione di “persona”, radicata nei racconti biblici della creazione, il cristianesimo ha intrecciato nella concezione dell’“essere umano” due idee diverse: l’idea di “individuo” e quella di “relazione”. La persona è l’essere umano dotato individualmente delle caratteristiche proprie della specie umana, almeno in senso potenziale, ossia l’intelletto e la libera volontà; ma è nello stesso tempo l’essere umano in relazione, poiché nella concezione biblica l’uomo non è fatto per restare solo, ma per costituire una coppia («maschio e femmina li creò»: Gen 1,27) e per dare vita ad una società («siate fecondi e moltiplicatevi »: Gen 1,22). Gli uomini sono creati a immagine e somiglianza di Dio (cf Gen 1,26-27) che non è un essere solitario, ma comunione di Persone: per questo sono intimamente spinti alla relazione, ad uscire da loro stessi e a raccogliersi in “comunione”. Se Dio fosse una persona sola, allora anche gli uomini, fatti a sua immagine, si realizzerebbero restando chiusi in se stessi; ma se Dio è Trinità di persone, allora gli uomini si realizzano in proporzione all’autenticità delle loro relazioni.
La nozione di “persona” comprende quindi due dimensioni inscindibili, che rischiano però di procedere spesso parallele o addirittura in contrasto: quella individuale e quella sociale. Come scrive un economista contemporaneo: «È proprio grazie alla nozione di persona che la cultura europea è riuscita a realizzare l’incontro tra individuo e società, categorie, queste, che di per sé sono conflittuali ».2
Per il cristianesimo quindi l’uomo è un individuo sociale, proteso fuori di se stesso: verso Dio, in una relazione religiosa che lo rende “inquieto” fino a quando non riposa in lui;3 verso i propri simili, stringendo legami che vanno dalla sessualità alla politica, passando attraverso le relazioni di famiglia, amicizia, collaborazione; verso la natura, della quale egli stesso è intessuto e per mezzo della quale egli vive, lavora, cresce; anche la relazione dell’uomo con se stesso è spinta ad uscire da sé, poiché l’uomo è l’unica creatura che possa porsi di fronte a se stesso come un soggetto di fronte a un oggetto: è il dono dell’autocoscienza.
In queste quattro relazioni creaturali dell’essere umano – religiosa,sociale, cosmica ed esistenziale- si può vedere un “germe ecclesiale”:Dio ha voluto l’uomo non come un’isola, ma come un essere teso alla relazione, portato a stringere rapporti e ad aprirsi agli altri e a lui stesso. “Adamo” ed “Eva” sono individui, ma essenzialmente aperti alla comunione con Dio e con i loro simili, alla relazione con la natura e con loro stessi. In fondo è questa la prima forma di alleanza di Dio con l’uomo: alleanza sigillata nell’atto stesso di creare l’uomo come essere in cerca di relazione, capace di comunione.4 Quella concentrata in Adamo è ancora un’ecclesiologia nascosta ed implicita: quasi un seme deposto, che avrebbe fruttificato solo gradualmente passando attraverso le successive fasi della storia salvifica.

La chiamata dei dodici
Per quale motivo Gesù non si dedica da solo alla predicazione del Regno di Dio, ma vuole dall’inizio circondarsi di dodici collaboratori? La ragione è evidente: Gesù dà corpo allo stile del Dio dei Patriarchi, che è suo Padre, al quale «piacque chiamare gli uomini a questa partecipazione della sua stessa vita non tanto in modo individuale e quasi senza alcun legame gli uni con gli altri, ma di riunirli in un popolo, nel quale i suoi figli dispersi si raccogliessero nell’unità».5 Gesù intende a sua volta radunare il popolo eletto, le “dodici tribù” d’Israele, volendo portare a compimento il progetto avviato nell’Antico Testamento, ma interrotto a causa dell’infedeltà verso Dio, che comportò la rottura dell’unità nazionale subito dopo il regno di Salomone. Gesù, raccogliendo i Dodici, esprime la volontà messianica di instaurare l’Israele degli ultimi tempi, che doveva inaugurare il Regno di Dio.6
Gesù, del resto, non poteva non avvalersi di una “comunità” per la predicazione del Regno, se è vero che stabilì il perno della sua predicazione nella legge dell’amore (cf Mt 22,34-40 par.). Se il Regno annunciato da Gesù vive della logica dell’amore, è chiaro che progredirà attraverso relazioni interpersonali, ossia attraverso una forma comunitaria. La crescita del Regno nel puro ambito della coscienza individuale non avrebbe creato quei rapporti interpersonali che la legge della carità esige: se ciò che viene accolto nella coscienza deve rispondere alle esigenze della carità, necessita di traduzioni in gesti e parole, incontri e relazioni. Trova qui la sua basilare ragion d’essere la Chiesa, che «esiste per la comunicazione dell’annuncio del Regno con la parola e per porsi nella storia come un segno vivente del Regno, attraverso la sua vita comunitaria dominata dal Signore Gesù ed attraverso il servizio di carità che in nome del Regno essa rende al mondo».7 I Dodici rimangono “individui” – e infatti Gesù li lascia liberi di aderire o meno alla sua sequela – ma sono inseriti vitalmente in quella “comunità” che è la preformazione della Chiesa, inaugurata nel mistero pasquale.

Sacramenti, Parola, Carità: segni costitutivi della Chiesa
La Pasqua di Gesù, mistero di morte, risurrezione e dono dello Spirito, si trasmette alla Chiesa non nella forma di semplice “ricordo” di un avvenimento passato, ma nella forma di “memoriale”, ossia di un avvenimento che si rende continuamente presente attraverso dei segni. Sono la Parola, i Sacramenti e la Carità i tre grandi segni, consegnati da Gesù agli apostoli, attorno ai quali si intesse quella rete di relazioni che si chiama “Chiesa”. Gesù ha dato agli apostoli i compiti di annunciare e testimoniare a tutte le genti il Vangelo (cf Mt 28,19; Mc 16,15; At 1,8), celebrare la cena eucaristica (cf Mt 26,26-29 e par.; 1Cor 11,23-26), battezzare (cf Mt 28,19), perdonare i peccati (cf Mt 16,19; 18,18; Gv 20,22-23), insegnare i suoi comandamenti (cf Mt 28,20) che si riassumono nel servizio (cf Gv 13,14-15) e nella carità vicendevole (cf Gv 13,34-35).
L’annuncio del Vangelo, la celebrazione dei sacramenti e la testimonianza della carità esigono un intreccio di relazioni; attorno a questi tre segni si crea quell’attività e quella vita che costituiscono la natura stessa della Chiesa. Essa esiste per ricevere e comunicare la “vita buona” del Vangelo, per accogliere e donare la grazia di Dio nei sacramenti e per instaurare nel mondo lo stile della carità. Ecco perché la “fede”, che comprende tutte queste dimensioni, è atto personale e comunitario assieme: personale, in quanto richiede il libero assenso dell’intelligenza e della volontà e non può essere un atto forzato, istintivo o irrazionale, altrimenti non sarebbe “umano”; comunitario, in quanto richiede il coinvolgimento di altri, crea dei “legami”: l’annuncio del Vangelo richiede almeno un predicatore e un ascoltatore, i sacramenti almeno un ministro e un beneficiario, la carità almeno due persone che si pongono in relazione tra di loro nello stile di Dio, che “è amore” (1Gv 4,8.16). Per questo Gesù ha detto: «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20) e l’apostolo Giovanni ha potuto esprimere alla prima persona plurale, in modo mirabile, la dinamica ecclesiale della trasmissione della fede: «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1Gv 1,3).

1 BENEDETTO XVI, Lettera apostolica Porta fidei, 11 ottobre 2011, n. 10.
2 S. ZAMAGNI, «A proposito delle radici dell’identità europea. Una prospettiva economica di sguardo», in A. OLMI (ed.), L’eredità dell’Occidente. Cristianesimo, Europa, Nuovi mondi, Nerbini, Loreto 2010, 99.
3 Cf S. AGOSTINO, Confessioni, I,1,1.
4 CF G. BARBAGLIO-G. COLOMBO, «Creazione», in G. BARBAGLIO e S. DIANICH (edd.), Nuovo Dizionario di Teologia, Paoline, Roma 1977, 188-189.
5 CONCILIO VATICANO II, Ad Gentes, n. 2.
6 Cf J. HOFFMANN, «La Chiesa e la sua origine», in M. FALCHETTI (ed.), Iniziazione alla pratica della teologia, III, Dogmatica II, Queriniana, Brescia 1986, 55-146.
7 S. DIANICH, La Chiesa mistero di comunione, Marietti, Torino 1987, 30.

Resurrezione, le donne al sepolcro

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http://www.artbible.net/3JC/-Mat-28,01_Women_Resurrection_Femmes/2nd_16th_Siecle/slides/10%20ENLUMINURE%20EVANGELIAIRE%20OTTON%20III%20B.html

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GERUSALEMME, DOVE LA PASQUA SI « RESPIRA » – (« Avvenire », 8/4/’08)

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GERUSALEMME, DOVE LA PASQUA SI « RESPIRA »

Veduta di Gerusalemme, città santa e incrocio di culture…

Gennaro Matino

(« Avvenire », 8/4/’08)

Essere a Gerusalemme in questi giorni è « respirare » Pasqua, farla passare attraverso le proprie narici e lasciarsi « inebriare » dal « grido » dell’assurdo: «Cristo è davvero risorto». Un grido che coinvolge, che arriva allo stomaco, e commuove come l’amore innocente che « spacca » la banalità del vivere. Essere qui è « respirare » la pace, non quella che il mondo ancora non conosce, ma quella che arriva dentro, che fa rinascere l’uomo dall’Alto e lo apre a nuovi orizzonti. La « Basilica della Resurrezione » è un « crocevia » di popoli, pianto di genti e gioia incontenibile di sorprese. Il marmo dell’unzione, subito all’ingresso del « tempio », è unto misto di olio profumato e lacrime, tenute nascoste da tempo, ora libere di essere versate, senza « pudore ». Poco importa del rumore « estraneo », non si avverte fastidio per i passi del « passeggero » distratto arrivato qui da turista, per pura curiosità, non distraggono i « flash » delle « fotocamere », veloce contatto con una pietra che resta con il solo sapore del marmo. Chi è qui per sfondare il « muro » dell’apparenza, chi è qui per rimuovere la pietra e « oltrepassare » la barriera del « terzo giorno » è troppo teso e coinvolto per non abbracciare la luce di Pasqua, nemmeno sente il rumore dei passi senza memoria. Qui, proprio in questo « sepolcro », il Figlio dell’uomo ha sconfitto la morte, quella definitiva, ma non ancora quella che i figli degli uomini si portano dentro. Essere a Gerusalemme in questi giorni è anche essere protagonisti di un tempo che ancora non riesce a lasciarsi coinvolgere dal « grido » della vita, della pace, la stessa pace che il Risorto annuncia ai discepoli prigionieri nel « cenacolo ». Non puoi non farti domande di senso quando partecipi alla « memoria » del popolo eletto, pregando a quel « muro » che racconta « vestigia » passate e ricorda il tempio distrutto mentre i giovani, ormai adulti per quella comunità, leggono la « Torah ». Non puoi non farti provocare dall’altro « muro », diverso da quello del pianto, ma comunque bagnato di lacrime, eretto per dividere il destino di due popoli. Qui, o altrove, il « muro » innalzato dall’odio insensato, da menzogne passate per verità, è sempre lo stesso, uguale in qualunque frontiera che mette uomo contro uomo, fratello contro fratello. Testimone occasionale, alla barriera di uno dei tanti « check-point », ho visto il pianto di chi in casa propria si sente « prigioniero ». Un padre, israeliano, tre bambini per mano, cercava di tornare a casa da Betlemme, ma il varco non era quello giusto, da lì passano solo le auto e l’altro varco era già stato chiuso.
«Devo tornare a casa, mia moglie è in pena». «Da qui non si passa». Una risposta secca, « metallica » come il rumore delle armi, che non lascia spazio al dialogo, alla pietà, alla compassione. La voce dell’uomo, a guardia di quel confine contro natura, non aveva più nulla di umano. «Da qui non si passa». Faccia a faccia, l’ebreo e l’ebreo, il padre e la guardia. L’uno col volto segnato dalla sofferenza, l’altro, senza espressione, col fucile puntato. Grida, urla, « spintoni », tre creature impaurite e il loro pianto dirotto. Ripensavo al « sepolcro » vuoto, ma l’immagine che ora tornava alla mia mente era quella di Cristo nell’ »Orto degli Ulivi », sentivo la sua angoscia, la sua paura, la stessa che ora provavano quei bambini, « avvinghiati » alle gambe del padre, ancora troppo piccoli per bere quel « calice » amaro. Quanto lontana mi sembrava Gerusalemme, quanta distanza aveva provocato quel pianto di bambini, che ora evocava in me il pianto di Maria ai piedi della Croce. Quante madri ancora dovranno piangere i loro figli. Quanto lontana mi sembrava, adesso, la « Basilica della Resurrezione », eppure ero ancora a Gerusalemme.

 

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GETSEMANI, NELL’ORTO DELL’AGONIA

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GETSEMANI, NELL’ORTO DELL’AGONIA

di padre Rosario Pierri ofm | marzo-aprile 2010

La basilica dell’Agonia, presso il Getsemani, opera dell’architetto italiano Antonio Barluzzi.
Nella semioscurità la luce illumina il tabernacolo. L’attenzione si concentra ben presto sulla nuda pietra antistante l’altare, cinta da una ghirlanda in ferro battuto e argento. La poca luce, l’ombra soffusa ci riporta alla potenza delle tenebre che avvolsero Gesù di Nazaret in quell’ora. Due grandi mosaici nelle navate laterali (trasposizione in tessere di due grandi tele di Mario Barberis) rappresentano con grande drammaticità gli eventi che si svolsero in questo luogo: «il bacio del traditore» e l’«Ego sum» (Io sono) di Gesù agli «sgherri che cadono a terra».
Siamo nella basilica dell’Agonia al Getsemani, uno dei luoghi più significativi di Gerusalemme, sul pendio del Monte degli Ulivi, a oriente della valle del Cedron. Come prologo alla Passione l’evangelista Giovanni pone l’incomparabile preghiera che Gesù rivolge al Padre: «Padre, è giunta l’ora, glorifica il tuo Figlio, perché il Figlio glorifichi te» (Gv 17,1). Tutta la preghiera è essenzialmente un atto rivelativo dell’amore del Padre verso il Figlio e del Figlio verso il Padre e del loro amore verso gli uomini. Terminata la preghiera, l’evangelista scrive: «Gesù andò con i suoi discepoli di là dal torrente Cedron, dove c’era un giardino nel quale entrò con i suoi discepoli» (Gv 18,1). È proprio da questo luogo che inizia la Passione di Gesù.
I luoghi del Monte connessi alla Passione sono tre: la grotta del tradimento, il giardino degli ulivi e la basilica dell’agonia, l’uno vicino all’altro ma distinti. L’uso religioso dell’attuale grotta è testimoniato dai tanti graffiti lasciati sulle pareti dai pellegrini. La relazione del luogo con la memoria dell’agonia di Gesù si deve a un’iscrizione in latino che si trova, guardando l’altare, sulla parete vicina a sinistra: «Hic rex (san)ctus s(u)davit sanguinem… Sepe morabatur Dominus Christus… Mi Pater, si vis, transfer calicem istum a me – « Qui Cristo re sudò sangue… Spesso Cristo Signore vi dimorava… Padre mio, se vuoi, allontana questo calice da me». (Francesco Quaresmi).
La familiarità di Gesù con un luogo di riferimento del Monte degli Ulivi è attestata da Luca 21, 37: «Durante il giorno insegnava nel tempio, la notte usciva e passava la notte sul monte detto degli ulivi». Lo stesso evangelista racconta che, dopo la cena al Sion, Gesù «andò, come al solito, al Monte degli Ulivi, e anche i discepoli lo seguirono» (22,39). Quel luogo doveva essere un punto di ritrovo anche per i discepoli, visto che Giovanni scrive: «Anche Giuda, che lo tradiva, conosceva quel luogo, perché Gesú si era spesso riunito là con i suoi discepoli» (18,2). «Di solito» e «spesso», dunque, Gesù se ne andava in un luogo del Monte, dove si riunivano anche i discepoli.
Il nome Getsemani corrisponde all’aramaico gat semãnê che significa «pressoio per olio». All’interno della grotta vi si trova anche una cisterna e in una nicchia, secondo l’archeologo francescano padre Virgilio Corbo, che studiò il luogo, venivano depositate le travi che sostenevano i pesi per schiacciare le olive.
La tradizione del luogo è molto antica, come dimostra la testimonianza di Eusebio di Cesarea che, nel suo Onomastico (295 d.C.) dei luoghi biblici, descrive il Getsemani come il luogo «dove Cristo si recò a pregare prima della sua Passione. Si trova nei pressi del Monte degli Ulivi, e tuttora vi accorrono i fedeli per pregarvi». Girolamo, riprendendo nel 390 circa il testo di Eusebio, ricorda che, ai suoi tempi, sul luogo si trovava una chiesa: «Nunc ecclesia desuper aedificata est».
La notizia è confermata dalla pellegrina Egeria (400 ca. d.C.), a cui si deve la prima testimonianza della liturgia che celebrava la memoria del luogo: «Quando incomincia il canto del gallo si discende dall’Imbomon (Ascensione) cantando inni e si giunge a quel medesimo luogo dove il Signore pregò, come è scritto nel Vangelo: « Si allontanò quanto un tiro di pietra e si mise a pregare et cetera ». In quel luogo vi è una chiesa elegante (In eo enim loco ecclesia est elegans). Il Vescovo vi entra con tutto il popolo, si dice un’orazione adatta al luogo e al giorno; si dice anche un inno adatto e viene letto quel brano del Vangelo dove (Gesù) disse ai suoi discepoli: « Vigilate, per non entrare in tentazione ». Si legge il brano per intero e si fa di nuovo un’orazione».
La chiesa bizantina fu molto probabilmente costruita tra l’inizio del regno di Teodosio (379-393) e la fine dell’episcopato di Cirillo di Gerusalemme (348-386), quindi, in base alle testimonianze di Girolamo e di Egeria, tra il 379 e il 388. Sono gli Annali di Eutichio, patriarca di Alessandria, che riferiscono dell’edificazione della chiesa di «Gismanie». Dalla medesima fonte apprendiamo che la prima chiesa ad essere distrutta dai persiani nel 614 fu proprio la chiesa del Getsemani, i mosaici scoperti, infatti, portano tracce di incendio. Negli Annali si legge che la chiesa rimase in rovina fino al decimo secolo. Nel 1102 Sevulfo ricorda l’esistenza di un oratorio sul luogo dove il Signore pregò. Un decennio più tardi (1112) vi sorgeva la chiesa del Salvatore, che, con l’arrivo del Saladino (1187) conobbe lo stesso destino di quella bizantina. Da quei giorni i pellegrini parleranno della chiesa del Salvatore solo per ricordarne le rovine («Vicende storiche della chiesa dell’Agonia al Getsemani», in La Terra Santa 1921 n. 2, 24-25).
La tradizione associa il giardino degli ulivi alla preghiera di Gesù. Dopo la celebrazione della cena pasquale, l’annuncio del tradimento di un discepolo e la predizione del rinnegamento di Pietro, una volta giunti al luogo del Monte, Gesù «disse loro: « Pregate, per non entrare in tentazione ». Poi si allontanò da loro circa un tiro di sasso e, inginocchiatosi, pregava: « Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà ». Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo. In preda all’agonia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra. E, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza. E disse loro: « Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione »» (Lc 22, 40-46).
Il pellegrino Teodosio (circa 530 d.C.) annota: «Là c’è la valle di Giosafat, dove Giuda tradì il Signore… Là il Signore lavò i piedi ai discepoli e fece la cena… Ora molte persone vengono qui e mangiano con devozione i loro cibi… e accendono lumi là dove il Signore lavò i piedi agli apostoli, perché quello è il luogo della grotta».
Al tradimento fa riferimento qualche decennio più tardi l’Anonimo piacentino (570 d.C.): «Scendendo dal Monte Oliveto nella valle del Getsemani, nel luogo dove il Signore fu tradito…».
Già qualche secolo prima (333 d.C.), tuttavia, il pellegrino anonimo di Bordeaux parla della roccia del tradimento, probabilmente riferendosi allo stesso luogo dei due precedenti pellegrini: «Andando da Gerusalemme… per salire sul Monte Oliveto c’è la valle che si chiama di Giosafat. Sul lato sinistro… c’è anche la roccia dove Giuda Iscariota tradì Cristo». Seguiamo ancora l’evangelista Luca: «Mentre (Gesù) parlava ancora, ecco una folla; e colui che si chiamava Giuda, uno dei dodici, la precedeva, e si avvicinò a Gesú per baciarlo. Ma Gesù gli disse: « Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo? » » (22,47-48).
La denominazione «orto o giardino degli ulivi» dipende senz’altro dal fatto che il luogo è compreso nell’area del Monte degli Ulivi, anche se, alla fine del 1300 in quel piccolo recinto oggi conosciuto con quel nome, non c’erano olivi. Testimonianze del diciassettesimo secolo parlano di sette-otto piante di olivo, segno che il luogo collegato alla memoria non era esteso ed era ben delimitato.
L’acquisto dell’area del Getsemani, che comprende anche quella parte antistante il santuario al di là della strada nella valle del Cedron, fu un’operazione lunga e complessa, sintetizzabile in 29 date che vanno dal 9 novembre 1661 al marzo del 1905, quando per 57 mila franchi, gli armeni cedettero ai frati il terreno a sud dell’Orto. Nel novembre del 1661 «la S. Custodia comprò per mezzo dei suoi dragomanni 14 chirati (il chirato è la ventiquattresima parte di una proprietà – ndr) e cinque sesti di chirato dell’Orto del Getsemani dai villani di Siloe». Interessante sapere che, dopo l’acquisto di un altro chirato e mezzo (dell’Orto) il 5 febbraio 1662, nonostante la mancanza di qualche documento legale di proprietà per un altro chirato e due terzi, «tutto l’Orto del Getsemani era in possesso dei Francescani, e ne sborsavano annualmente una certa tassa al legato pio della scuola di Salahie, prevedendo i Religiosi che altri acquistassero il terreno limitrofo». Altri diciotto chirati «immediatamente a mezzogiorno dell’Orto» passarono nelle mani della Custodia il 2 maggio 1681, dove «dopo due secoli, fu trovato il vero luogo dell’Agonia di Gesù, ove ora sorge l’attuale Basilica» («I faticosi e progressivi acquisti per il sacro Orto di Getsemani e dintorni fatti dalla Custodia di Terra Santa», La Terra Santa 1924 n. 5, 147-148).
La Custodia di Terra Santa, nel 1924, diede mandato all’architetto Antonio Barluzzi (1884 – 1960) di costruirvi una chiesa (vedi box a p. 52). In un primo tempo Barluzzi pensò di erigerla su quanto rimaneva del periodo crociato, intendendone rispettare i resti e le dimensioni. Di quella chiesa rimanevano le tre absidi costruite su tre rocce, che sono i tre luoghi dove la tradizione vuole che Gesù si sia inginocchiato. Su quella centrale era stato elevato l’altare.
Nel corso dei lavori vennero alla luce le rovine di una chiesa bizantina che si rivelò essere la chiesa d’epoca teodosiana. La qualità dei materiali impiegati e la fattura dei ritrovamenti, tra cui un capitello e parti dei mosaici del pavimento, rivelarono quanto fosse davvero «elegante» la chiesa visitata da Egeria.
La grande scala d’accesso al santuario fu però terminata solo nel maggio del 1959, così come la sistemazione del muro perimetrale prospiciente alla strada.
La Custodia potè effettuare i lavori, dopo aver trovato un accordo con le autorità amministrative del tempo. Nel corso del 1958 il municipio eseguì i lavori di sistemazione della strada, a cui la Custodia contribuì cedendo parte dell’Orto della valle del Cedron e versando «una notevole contribuzione pecuniaria» («Il Getsemani dopo gli ultimi restauri», La Terra Santa, agosto – settembre 1959, p. 241).

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Buona Pasqua a tutti

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Resurrezione, Chiesa Ortodossa Greca

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PAPA FRANCESCO: QUANDO DIO PIANGE (meditazione Sanctae Marthae, 2014)

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2014/documents/papa-francesco-cotidie_20140204_quando-dio-piange.html

PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

QUANDO DIO PIANGE

Martedì, 4 febbraio 2014

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIV, n.028, Merc. 05/02/2014)

Ogni buon padre «ha bisogno del figlio: lo aspetta, lo cerca, la ama, lo perdona, lo vuole vicino a sé, tanto vicino come la gallina vuole i suoi pulcini». Lo ha detto Papa Francesco all’omelia della messa celebrata martedì mattina, 4 febbraio, nella cappella della Casa Santa Marta.
Nel commentare le letture della liturgia il Pontefice ha infatti affrontato il tema della paternità, ricollegandolo alle due figure principali descritte nel vangelo di Marco (5, 21-43) e nel secondo libro di Samuele (18, 9-10.14.24-25.30; 19, 1-4): ovvero Giàiro, uno dei capi della sinagoga al tempo di Gesù, «che va a chiedere la salute per sua figlia», e Davide, «che soffre per la guerra che suo figlio gli stava facendo». Due vicende che, secondo il vescovo di Roma, mostrano come ogni padre abbia «un’unzione che viene dal figlio: non può capire se stesso senza il figlio».
Soffermandosi dapprima sul re d’Israele, il Papa ha ricordato che nonostante il figlio Assalonne fosse diventato suo nemico, Davide «aspettava notizie della guerra. Era seduto tra le due porte del palazzo e guardava». E sebbene tutti fossero sicuri che attendesse «notizie di una bella vittoria», in realtà «aspettava un’altra cosa: aspettava il figlio. Gli interessava il figlio. Era re, era a capo del Paese, ma» soprattutto «era padre». E così, «quando è arrivata la notizia della fine del suo figlio», Davide «fu scosso da un tremito, salì al piano di sopra della porta e pianse: “Figlio mio Assalonne! Figlio mio, figlio mio Assalonne! Fossi morto io invece di te, Assalonne, figlio mio, figlio mio!”».
Questo — ha commentato Papa Francesco — «è il cuore di un padre, che non rinnega mai suo figlio», anche se «è un brigante o un nemico», e piange per lui. In proposito il Pontefice ha fatto notare come nella Bibbia, Davide pianga due volte per i figli: in questa circostanza e in quella in cui stava per morire il figlio dell’adulterio: «Anche quella volta ha fatto digiuno e penitenza per salvare la vita del figlio», perché «era padre».
Ritornando poi alla descrizione del brano biblico, il vescovo di Roma ha messo in luce un altro elemento della scena: il silenzio. «I soldati sono tornati dalla battaglia in città in silenzio» — ha fatto notare — mentre quando Davide era giovane, al suo rientro in città dopo aver ucciso il Filisteo, tutte le donne erano uscite dalle case per «lodarlo, in festa; perché così rientravano i soldati dopo una vittoria». Invece, in occasione della morte di Assalonne, «la vittoria è stata nascosta, perché il re piangeva»; infatti «più che re e vincitore» Davide era soprattutto «un padre addolorato».
Quanto al personaggio evangelico, il capo della sinagoga, Papa Francesco ha evidenziato come si trattasse di una «persona importante», che però «davanti alla malattia della figlia» non ha vergogna di gettarsi ai piedi di Gesù e di implorarlo: «La mia figlioletta sta morendo, vieni a imporle le mani perché sia salvata e viva!». Quest’uomo non riflette sulle conseguenze del suo gesto. Non si ferma a pensare che se Cristo «invece di un profeta fosse uno stregone», rischierebbe una figuraccia. Essendo «padre — ha detto il Pontefice — non pensa: rischia, si butta e chiede». E anche in questa scena, quando i protagonisti entrano in casa trovano pianti e grida. «C’erano persone che urlavano forte perché era il loro lavoro: lavoravano così, andando a piangere nelle case dei defunti». Ma il loro «non era il pianto di un padre».
Ecco allora il collegamento tra le due figure di padri. Per loro la priorità sono i figli. E ciò «fa pensare alla prima cosa che diciamo di Dio nel Credo: “Credo in Dio padre”. Fa pensare alla paternità di Dio. Dio è così con noi». Qualcuno potrebbe osservare: «Ma padre, Dio non piange!». Obiezione alla quale il Papa ha risposto: «Ma come no! Ricordiamo Gesù quando ha pianto guardando Gerusalemme: “Gerusalemme, Gerusalemme, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli!”, come la gallina raduna i suoi pulcini sotto le ali». Dunque «Dio piange; Gesù ha pianto per noi». E in quel pianto c’è la rappresentazione del pianto del padre, «che ci vuole tutti con sé nei momenti difficili».
Il Pontefice ha anche ricordato che nella Bibbia ci sono almeno «due momenti brutti in cui il padre risponde» al pianto del figlio. Il primo è l’episodio di Isacco che viene condotto da Abramo sul morte per essere offerto in olocausto: egli si accorge «che portavano il legno e il fuoco, ma non la pecorella per il sacrificio». Perciò «aveva angoscia nel cuore. E cosa dice? “Padre”. E subito la risposta: “Eccomi figlio”». Il secondo è quello di «Gesù nell’Orto degli Ulivi, con quell’angoscia nel cuore: “Padre, se è possibile allontana da me questo calice”. E gli angeli sono venuti a dargli forza. Così è il nostro Dio: è padre».
Non solo: l’immagine di Davide che aspetta notizie seduto fra le due porte del palazzo fa venire in mente la parabola del capitolo 15 del vangelo di Luca, quella del padre che aspettava il figlio prodigo, «andatosene con tutti i soldi, con tutta l’eredità. Come sappiamo che lo aspettava?» si è domandato Papa Francesco. Perché — è la riposta che ci danno le scritture — «lo ha visto da lontano. E perché tutti i giorni saliva ad aspettare» che il figlio tornasse. In quel padre misericordioso, infatti, c’è «il nostro Dio», che «è padre». Da qui l’auspicio che la paternità fisica dei padri di famiglia e la paternità spirituale dei consacrati, dei sacerdoti, dei vescovi, siano sempre come quelle dei due protagonisti delle letture: «due uomini, che sono padri».
In conclusione il Pontefice ha invitato a meditare su queste due «icone» — Davide che piange e il capo della sinagoga che si getta davanti a Gesù senza vergogna, senza timore di rendersi ridicolo, perché «in gioco c’erano i loro figli» — e ha chiesto ai fedeli di rinnovare la professione di fede, dicendo «Credo in Dio Padre» e domandando allo Spirito Santo di insegnarci a dire «Abba, Padre». Perché, ha concluso, «è una grazia poter dire a Dio: Padre, con il cuore».

TRE MEDITAZIONI SUL SABATO SANTO DI JOSEPH RATZINGER

http://www.30giorni.it/articoli_id_10246_l1.htm

TRE MEDITAZIONI SUL SABATO SANTO DI JOSEPH RATZINGER

L’ANGOSCIA DI UNA ASSENZA. MEDITAZIONI SUL SABATO SANTO

In queste pagine, miniature tratte dall’evangeliario dell’inizio del XIII secolo conservato nell’abbazia benedettina di Groß Sankt Martin a Colonia: la deposizione.
In queste pagine, miniature tratte dall’evangeliario dell’inizio del XIII secolo conservato nell’abbazia benedettina di Groß Sankt Martin a Colonia: la deposizione.

PRIMA MEDITAZIONE
Con sempre maggior insistenza si sente parlare nel nostro tempo della morte di Dio. Per la prima volta, in Jean Paul, si tratta solo di un sogno da incubo: Gesù morto annuncia ai morti, dal tetto del mondo, che nel suo viaggio nell’aldilà non ha trovato nulla, né cielo, né Dio misericordioso, ma solo il nulla infinito, il silenzio del vuoto spalancato. Si tratta ancora di un sogno orribile che viene messo da parte, gemendo nel risveglio, come un sogno appunto, anche se non si riuscirà mai a cancellare l’angoscia subita, che stava sempre in agguato, cupa, nel fondo dell’anima. Un secolo dopo, in Nietzsche, è una serietà mortale che si esprime in un grido stridulo di terrore: «Dio è morto! Dio rimane morto! E noi lo abbiamo ucciso!». Cinquant’anni dopo, se ne parla con distacco accademico e ci si prepara a una “teologia dopo la morte di Dio”, ci si guarda intorno per vedere come poter continuare e si incoraggiano gli uomini a prepararsi a prendere il posto di Dio. Il mistero terribile del Sabato santo, il suo abisso di silenzio, ha acquistato quindi nel nostro tempo una realtà schiacciante. Giacché questo è il Sabato santo: giorno del nascondimento di Dio, giorno di quel paradosso inaudito che noi esprimiamo nel Credo con le parole «disceso agli inferi», disceso dentro il mistero della morte. Il Venerdì santo potevamo ancora guardare il trafitto. Il Sabato santo è vuoto, la pesante pietra del sepolcro nuovo copre il defunto, tutto è passato, la fede sembra essere definitivamente smascherata come fanatismo. Nessun Dio ha salvato questo Gesù che si atteggiava a Figlio suo. Si può essere tranquilli: i prudenti che prima avevano un po’ titubato nel loro intimo se forse potesse essere diverso, hanno avuto invece ragione.
Sabato santo: giorno della sepoltura di Dio; non è questo in maniera impressionante il nostro giorno? Non comincia il nostro secolo a essere un grande Sabato santo, giorno dell’assenza di Dio, nel quale anche i discepoli hanno un vuoto agghiacciante nel cuore che si allarga sempre di più, e per questo motivo si preparano pieni di vergogna e angoscia al ritorno a casa e si avviano cupi e distrutti nella loro disperazione verso Emmaus, non accorgendosi affatto che colui che era creduto morto è in mezzo a loro?
Dio è morto e noi lo abbiamo ucciso: ci siamo propriamente accorti che questa frase è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana e che noi spesso nelle nostre viae crucis abbiamo ripetuto qualcosa di simile senza accorgerci della gravità tremenda di quanto dicevamo? Noi lo abbiamo ucciso, rinchiudendolo nel guscio stantio dei pensieri abitudinari, esiliandolo in una forma di pietà senza contenuto di realtà e perduta nel giro di frasi fatte o di preziosità archeologiche; noi lo abbiamo ucciso attraverso l’ambiguità della nostra vita che ha steso un velo di oscurità anche su di lui: infatti che cosa avrebbe potuto rendere più problematico in questo mondo Dio se non la problematicità della fede e dell’amore dei suoi credenti?
L’oscurità divina di questo giorno, di questo secolo che diventa in misura sempre maggiore un Sabato santo, parla alla nostra coscienza. Anche noi abbiamo a che fare con essa. Ma nonostante tutto essa ha in sé qualcosa di consolante. La morte di Dio in Gesù Cristo è nello stesso tempo espressione della sua radicale solidarietà con noi. Il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più chiaro di una speranza che non ha confini. E ancora una cosa: solo attraverso il fallimento del Venerdì santo, solo attraverso il silenzio di morte del Sabato santo, i discepoli poterono essere portati alla comprensione di ciò che era veramente Gesù e di ciò che il suo messaggio stava a significare in realtà. Dio doveva morire per essi perché potesse realmente vivere in essi. L’immagine che si erano formata di Dio, nella quale avevano tentato di costringerlo, doveva essere distrutta perché essi attraverso le macerie della casa diroccata potessero vedere il cielo, lui stesso, che rimane sempre l’infinitamente più grande. Noi abbiamo bisogno del silenzio di Dio per sperimentare nuovamente l’abisso della sua grandezza e l’abisso del nostro nulla che verrebbe a spalancarsi se non ci fosse lui.
C’è una scena nel Vangelo che anticipa in maniera straordinaria il silenzio del Sabato santo e appare quindi ancora una volta come il ritratto del nostro momento storico. Cristo dorme in una barca che, sbattuta dalla tempesta, sta per affondare. Il profeta Elia aveva una volta irriso i preti di Baal, che inutilmente invocavano a gran voce il loro dio perché volesse far discendere il fuoco sul sacrificio, esortandoli a gridare più forte, caso mai il loro dio stesse a dormire. Ma Dio non dorme realmente? Lo scherno del profeta non tocca alla fin fine anche i credenti del Dio di Israele che viaggiano con lui in una barca che sta per affondare? Dio sta a dormire mentre le sue cose stanno per affondare, non è questa l’esperienza della nostra vita? La Chiesa, la fe­de, non assomigliano a una piccola barca che sta per affondare, che lotta inutilmente contro le onde e il vento, mentre Dio è assente? I discepoli gridano nella disperazione estrema e scuotono il Signore per svegliarlo, ma egli si mostra meravigliato e rimprovera la loro poca fede. Ma è diversamente per noi? Quando la tempesta sarà passata, ci accorgeremo di quanto la nostra poca fede fosse carica di stoltezza. E tuttavia, o Signore, non possiamo fare a meno di scuotere te, Dio che stai in silenzio e dormi, e gridarti: svegliati, non vedi che affondiamo? Destati, non lasciar durare in eterno l’oscurità del Sabato santo, lascia cadere un raggio di Pasqua anche sui nostri giorni, accompàgnati a noi quando ci avviamo disperati verso Emmaus perché il nostro cuore possa accendersi alla tua vicinanza. Tu che hai guidato in maniera nascosta le vie di Israele per essere finalmente uomo con gli uomini, non ci lasciare nel buio, non permettere che la tua parola si perda nel gran sciupio di parole di questi tempi. Signore, dacci il tuo aiuto, perché senza di te affonderemo. Amen.

La crocifissione
SECONDA MEDITAZIONE
Il nascondimento di Dio in questo mondo costituisce il vero mistero del Sabato santo, mistero accennato già nelle parole enigmatiche secondo cui Gesù è «disceso all’inferno». Nello stesso tempo l’esperienza del nostro tempo ci ha offerto un approccio completamente nuovo al Sabato santo, giacché il nascondimento di Dio nel mondo che gli appartiene e che dovrebbe con mille lingue annunciare il suo nome, l’esperienza dell’impotenza di Dio che è tuttavia l’onnipotente – questa è l’esperienza e la miseria del nostro tempo.
Ma anche se il Sabato santo in tal modo ci si è avvicinato profondamente, anche se noi comprendiamo il Dio del Sabato santo più della manifestazione potente di Dio in mezzo ai tuoni e ai lampi, di cui parla il Vecchio Testamento, rimane tuttavia insoluta la questione di sapere che cosa si intende veramente quando si dice in maniera misteriosa che Gesù «è disceso all’inferno». Diciamolo con tutta chiarezza: nessuno è in grado di spiegarlo veramente. Né diventa più chiaro dicendo che qui inferno è una cattiva traduzione della parola ebraica shêol, che sta a indicare semplicemente tutto il regno dei morti, e quindi la formula vorrebbe originariamente dire soltanto che Gesù è disceso nella profondità della morte, è realmente morto e ha partecipato all’abisso del nostro destino di morte. Infatti sorge allora la domanda: che cos’è realmente la morte e che cosa accade effettivamente quando si scende nella profondità della morte? Dobbiamo qui porre attenzione al fatto che la morte non è più la stessa cosa dopo che Cristo l’ha subita, dopo che egli l’ha accettata e penetrata, così come la vita, l’essere umano, non sono più la stessa cosa dopo che in Cristo la natura umana poté ve­nire a contatto, e di fatto venne, con l’essere proprio di Dio. Prima la morte era soltanto morte, separazione dal paese dei viventi e, anche se con diversa profondità, qualcosa come “inferno”, lato notturno dell’esistere, buio impenetrabile. Adesso però la morte è anche vita e quando noi oltrepassiamo la glaciale solitudine della soglia della morte, ci incontriamo sempre nuovamente con colui che è la vita, che è voluto divenire il compagno della nostra solitudine ultima e che, nella solitudine mortale della sua angoscia nell’orto degli ulivi e del suo grido sulla croce «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», è divenuto partecipe delle nostre solitudini. Se un bambino si dovesse avventurare da solo nella notte buia attraverso un bosco, avrebbe paura anche se gli si dimostrasse centinaia di volte che non c’è alcun pericolo. Egli non ha paura di qualcosa di determinato, a cui si può dare un nome, ma nel buio sperimenta l’insicurezza, la condizione di orfano, il carattere sinistro dell’esistenza in sé. Solo una voce umana potrebbe consolarlo; solo la mano di una persona cara potrebbe cacciare via come un brutto sogno l’angoscia. C’è un’angoscia – quella vera, annidata nella profondità delle nostre solitudini – che non può essere superata mediante la ragione, ma solo con la presenza di una persona che ci ama. Quest’angoscia infatti non ha un oggetto a cui si possa dare un nome, ma è solo l’espressione terribile della nostra solitudine ultima. Chi non ha sentito la sensazione spaventosa di questa condizione di abbandono? Chi non avvertirebbe il miracolo santo e consolatore suscitato in questi frangenti da una parola di affetto? Laddove però si ha una solitudine tale che non può essere più raggiunta dalla parola trasformatrice dell’amore, allora noi parliamo di inferno. E noi sappiamo che non pochi uomini del nostro tempo, apparentemente così ottimistico, sono dell’avviso che ogni incontro rimane in superficie, che nessun uomo ha accesso all’ultima e vera profondità dell’altro e che quindi nel fondo ultimo di ogni esistenza giace la disperazione, anzi l’inferno. Jean-Paul Sartre ha espresso questo poeticamente in un suo dramma e nello stesso tempo ha esposto il nucleo della sua dottrina sull’uomo. Una cosa è certa: c’è una notte nel cui buio abbandono non penetra alcuna parola di conforto, una porta che noi dobbiamo oltrepassare in solitudine assoluta: la porta della morte. Tutta l’angoscia di questo mondo è in ultima analisi l’angoscia provocata da questa solitudine. Per questo motivo nel Vecchio Testamento il termine per indicare il regno dei morti era identico a quello con cui si indicava l’inferno: shêol. La morte infatti è solitudine assoluta. Ma quella solitudine che non può essere più illuminata dall’amore, che è talmente profonda che l’amore non può più accedere a essa, è l’inferno.
«Disceso all’inferno»: questa confessione del Sabato santo sta a significare che Cristo ha oltrepassato la porta della solitudine, che è disceso nel fondo irraggiungibile e insuperabile della nostra condizione di solitudine. Questo sta a significare però che anche nella notte estrema nella quale non penetra alcuna parola, nella quale noi tutti siamo come bambini cacciati via, piangenti, si dà una voce che ci chiama, una mano che ci prende e ci conduce. La solitudine insuperabile dell’uomo è stata superata dal momento che Egli si è trovato in essa. L’inferno è stato vinto dal momento in cui l’amore è anche entrato nella regione della morte e la terra di nessuno della solitudine è stata abitata da lui. Nella sua profondità l’uomo non vive di pane, ma nell’autenticità del suo essere egli vive per il fatto che è amato e gli è permesso di amare. A partire dal momento in cui nello spazio della morte si dà la presenza dell’amore, allora nella morte penetra la vita: ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata – prega la Chiesa nella liturgia funebre.
Nessuno può misurare in ultima analisi la portata di queste parole: «disceso all’inferno». Ma se una volta ci è dato di avvicinarci all’ora della nostra solitudine ultima, ci sarà permesso di comprendere qualcosa della grande chiarezza di questo mistero buio. Nella certa speranza che in quell’ora di estrema solitudine non saremo soli, possiamo già adesso presagire qualcosa di quello che avverrà. E in mezzo alla nostra protesta contro il buio della morte di Dio cominciamo a diventare grati per la luce che viene a noi proprio da questo buio.

La sepoltura
TERZA MEDITAZIONE
Nel breviario romano la liturgia del triduo sacro è strutturata con una cura particolare; la Chiesa nella sua preghiera vuole per così dire trasferirci nella realtà della passione del Signore e, al di là delle parole, nel centro spirituale di ciò che è accaduto. Se si volesse tentare di contrassegnare in poche battute la liturgia orante del Sabato santo, allora bisognerebbe soprattutto parlare dell’effetto di pace profonda che traspira da essa. Cristo è penetrato nel nascondimento (Verborgenheit), ma nello stesso tempo, proprio nel cuore del buio impenetrabile, egli è penetrato nella sicurezza (Geborgenheit), anzi egli è diventato la sicurezza ultima. Ormai è diventata vera la parola ardita del salmista: e anche se mi volessi nascondere nell’inferno, anche là sei tu. E quanto più si percorre questa liturgia, tanto più si scorgono brillare in essa, come un’aurora del mattino, le prime luci della Pasqua. Se il Venerdì santo ci pone davanti agli occhi la figura sfigurata del trafitto, la liturgia del Sabato santo si rifà piuttosto all’immagine della croce cara alla Chiesa antica: alla croce circondata da raggi luminosi, segno, allo stesso modo, della morte e della risurrezione.
Il Sabato santo ci rimanda così a un aspetto della pietà cristiana che forse è stato smarrito nel corso dei tempi. Quando noi nella preghiera guardiamo alla croce, vediamo spesso in essa soltanto un segno della passione storica del Signore sul Golgota. L’origine della devozione alla croce è però diversa: i cristiani pregavano rivolti a Oriente per esprimere la loro speranza che Cristo, il sole vero, sarebbe sorto sulla storia, per esprimere quindi la loro fede nel ritorno del Signore. La croce è in un primo tempo legata strettamente con questo orientamento della preghiera, essa viene rappresentata per così dire come un’insegna che il re inalbererà nella sua venuta; nell’immagine della croce la punta avanzata del corteo è già arrivata in mezzo a coloro che pregano. Per il cristianesimo antico la croce è quindi soprattutto segno della speranza. Essa non implica tanto un riferimento al Signore passato, quanto al Signore che sta per venire. Certo era impossibile sottrarsi alla necessità intrinseca che, con il passare del tempo, lo sguardo si rivolgesse anche all’evento accaduto: contro ogni fuga nello spirituale, contro ogni misconoscimento dell’incarnazione di Dio, occorreva che fosse difesa la prodigalità inimmaginabile dell’amore di Dio che, per amore della misera creatura umana, è diventato egli stesso un uomo, e quale uomo! Occorreva difendere la santa stoltezza dell’amore di Dio che non ha scelto di pronunciare una parola di potenza, ma di percorrere la via dell’impotenza per mettere alla gogna il nostro sogno di potenza e vincerlo dall’interno.
Ma così non abbiamo dimenticato un po’ troppo la connessione tra croce e speranza, l’unità tra l’Oriente e la direzione della croce, tra passato e futuro esistente nel cristianesimo? Lo spirito della speranza che alita sulle preghiere del Sabato santo dovrebbe nuovamente penetrare tutto il nostro essere cristiani. Il cristianesimo non è soltanto una religione del passato, ma, in misura non minore, del futuro; la sua fede è nello stesso tempo speranza, giacché Cristo non è soltanto il morto e il risorto ma anche colui che sta per venire.
O Signore, illumina le nostre anime con questo mistero della speranza perché riconosciamo la luce che è irraggiata dalla tua croce, concedici che come cristiani procediamo protesi al futuro, incontro al giorno della tua venuta.
Amen.

La resurrezione
PREGHIERA
Signore Gesù Cristo, nell’oscurità della morte Tu hai fatto luce; nell’abisso della solitudine più profonda abita ormai per sempre la protezione potente del Tuo amore; in mezzo al Tuo nascondimento possiamo ormai cantare l’alleluia dei salvati. Concedici l’umile semplicità della fede, che non si lascia fuorviare quando Tu ci chiami nelle ore del buio, dell’abbandono, quando tutto sembra apparire problematico; concedici, in questo tempo nel quale attorno a Te si combatte una lotta mortale, luce sufficiente per non perderti; luce sufficiente perché noi possiamo darne a quanti ne hanno ancora più bisogno. Fai brillare il mistero della Tua gioia pasquale, come aurora del mattino, nei nostri giorni; concedici di poter essere veramente uomini pasquali in mezzo al Sabato santo della storia. Concedici che attraverso i giorni luminosi e oscuri di questo tempo possiamo sempre con animo lieto trovarci in cammino verso la Tua gloria futura.
Amen.

The Three Marys at the Tomb by Peter von Cornelius, c. 1820

The Three Marys at the Tomb by Peter von Cornelius, c. 1820 dans immagini sacre Peter_von_Cornelius_-_The_Three_Marys_at_the_Tomb_-_WGA05274

http://www.catholicvote.org/the-culture-of-life-is-a-culture-of-motherhood/

Publié dans:immagini sacre |on 3 avril, 2015 |Pas de commentaires »

OMELIA DI S.E.R. CARD. ANGELO SCOLA, ARCIVESCOVO DI MILANO (2013, RITO AMBROSIANO)

http://kairosterzomillennio.blogspot.it/2013/03/scola-caffarra-omelie-di-pasqua-2013.html

(L’Omelia è del Card. scola, quindi le letture sono quelle del rito Ambrosiano, Scola è stato il mio Rettore quando studiavo alla Lateranense)

Arcidiocesi di Milano

Domenica di Pasqua nella Risurrezione del Signore
At 1,1-8a; Sal 117; 1Cor 15,3-10a; Gv 20,11-18

Duomo di Milano, 31 marzo 2013

OMELIA DI S.E.R. CARD. ANGELO SCOLA, ARCIVESCOVO DI MILANO

1. Dalle tenebre del Venerdì Santo e dalla discesa agli inferi del Sabato Santo, la liturgia della Chiesa, attraverso la solenne Veglia pasquale, ci ha condotto a questo radioso mattino di Risurrezione del Signore.
Oggettivamente parlando la Pasqua è il giorno definitivo della storia dell’umanità. Un giorno segnato da un inaudito paradosso. La Chiesa, infatti, ci parla – lo ascolteremo nel Prefazio – di una morte beata: «Con una morte veramente beata vince per sempre la loro morte» (Prefazio). Come può la morte essere beata? Non siamo qui messi di fronte all’assurdo più radicale che la ragione non può sopportare se vuol continuare a dirsi tale? Può l’uomo di oggi, consapevole delle strabilianti scoperte della bioingegneria, delle neuroscienze, della microfisica dare credito ad un simile annuncio? Può reggere questo annuncio di fronte alla assillante richiesta di prove ben documentate propria della sensibilità dei nostri contemporanei? Disincantati fin da bambini di fronte a tutto ciò che non è empiricamente verificabile, possiamo ragionevolmente aderire e prendere parte alla gioia dell’Alleluia Pasquale?
Sì, se si mantiene alla ragione tutta la sua ampiezza. In questo caso, come molti scienziati credenti testimoniano, si scopre che mai la scienza rigorosa è nemica della fede autentica. Anche per l’uomo post-moderno, che giustamente si affida alle scienze e alle sofisticate tecnologie per scoprire come è fatta la realtà, la morte singolare di Cristo è veramente beata.
Cerchiamo di comprenderlo meglio.
La singolare morte di Cristo è beata anzitutto perché il Signore Gesù è il protagonista della Sua morte. Egli, in definitiva, non l’ha subìta, ma l’ha scelta, l’ha misteriosamente voluta, in obbedienza al Padre. E lo ha fatto proprio per poter riscattare, dal di dentro e dal profondo, la nostra comune morte, ogni morte umana. Sulla croce Cristo sale liberamente. Così sulla croce morte e libertà si identificano. Giustamente la Chiesa chiama Gesù Risorto «la nostra vittima pasquale». Donando totalmente se stesso per espiare i nostri peccati (vittima) Egli ci fa passare dalla morte alla vita (pasqua).
In secondo luogo il mistero della libertà di Cristo che si consegna alla morte per noi ha svelato definitivamente agli uomini la verità dell’amore, consentendo alla nostra libertà di attingere il suo più alto livello: l’essere per l’altro, per il suo bene.
Gesù che ama in questo modo può dire – ne ha il diritto – ad ogni uomo e ad ogni donna, qualunque sia la situazione in cui versa: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?» (Vangelo, Gv 20,15).
Solo Gesù che ha fatto della morte fonte di beatitudine può asciugare le lacrime che, inevitabilmente, scolpiscono il volto degli uomini. Solo Lui può abbracciare l’uomo offrendosi come definitiva compagnia per la sua vita.

2. Domandiamoci allora, carissimi: qual è la strada per credere ed imparare a vivere, anche nel nostro tempo, di questa morte beata? Che prove ci dà il Risorto? San Luca, nella Lettura degli Atti, così si esprime, senza possibilità di equivoci: «Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove» (Lettura, At 1,3). L’Apostolo Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi, identifica queste prove con la testimonianza dei primi: «Apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta (…) Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve a me» (Epistola, 1Cor 15,5-8).
Il modo di agire di Dio è sempre lo stesso: Egli non vuole sopraffare i Suoi figli risparmiando loro la strada del coinvolgimento personale, il cammino della libertà, la via dell’amore. L’Epistola ci dice che il Risorto appare e parla a precisi testimoni. La prova ultima della Sua attuale presenza tra noi sono questi testimoni. Il Signore ha voluto aver bisogno degli uomini affinché il Suo Spirito potesse garantire il suo essere contemporaneo a tutti i tempi e luoghi.
Per incontrare Gesù Risorto non c’è altra strada che la testimonianza: non ci sono scorciatoie che ci esimano dal fare spazio, per grazia e fede, al testimone. È questa la responsabilità fondamentale del cristiano intrisa di abbandono e di amore.

3. Partecipando alla certezza dei testimoni, non solo noi riconosciamo il Risorto, ma conosciamo pienamente noi stessi. Paolo lo dice nel versetto finale dell’Epistola che abbiamo ascoltato dopo essersi riferito al dono immeritato dell’apparizione del Risorto, a lui che è stato persecutore della Chiesa: «Per grazia di Dio sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana» (Epistola, 1Cor 15,10). Nel conoscere Cristo Risorto, Paolo si ri-conosce.
La luce della Pasqua ci offre chiarezza sulla nostra identità: noi siamo, per la misericordia del Padre e solo per essa, figli redenti. Questa è la speranza che non muore: dinanzi al Crocifisso risorto veramente possiamo dire: Ave Crux, spes unica!

4. Dalla morte beata e dall’essere testimoni scaturisce un compito pieno di gioia nei confronti di ogni fratello uomo.
«Và dai miei fratelli» (Vangelo, Gv 20,17). Le parole del Risorto a Maria di Màgdala attraversano i duemila anni di storia che ci separano da quel santo mattino per raggiungere, come in una lunga catena anello dopo anello, ciascuno di noi, qui ed ora. «Va’ dai miei fratelli»: è impressionante rendersi conto, ancora una volta, che il Risorto chiama gli apostoli, e in essi tutti gli uomini, miei fratelli. Egli, infatti, ha abbattuto ogni muro di discordia e di separazione e, nella Pasqua, ha radunato, per il dono dello Spirito, un popolo di figli a gloria di Suo Padre. Non ci sono più bastioni da difendere, solo strade da percorrere incontro agli uomini.
Raggiunti dai testimoni del Risorto, siamo chiamati ad essere anche noi testimoni della Sua presenza nel mondo attraverso la nostra umanità cambiata. Questa è l’unica nostra ricchezza e l’orizzonte totale della nostra esistenza. Non a caso il Concilio Vaticano II insegna che «tutto ciò che di bene il popolo di Dio può offrire all’umana famiglia, nel tempo del suo pellegrinaggio terreno, scaturisce dal fatto che la Chiesa è “l’universale sacramento della salvezza” che svela e insieme realizza il mistero dell’amore di Dio verso l’uomo» (Gaudium et spes 45). Un popolo di uomini e donne redenti, tesi ad edificare un mondo dal volto umano perché sorretti dalla certezza dell’eternità, questa è la Chiesa per il mondo.

5. Domandiamo con insistenza a Gesù Risorto la grazia di essere Suoi testimoni in forza della Sua misericordia che «serba i nostri cuori da ogni mondana tristezza» (All’inizio dell’Assemblea liturgica) e fa fiorire per tutti la speranza. Amen.

 

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