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LA RICERCA DELLA FELICITÀ È RICERCA DI DIO

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LA RICERCA DELLA FELICITÀ È RICERCA DI DIO

Il cuore umano tende a una felicità piena e illimitata e l’essere umano lavora e si sforza per conseguire questa meta della sua esistenza.
Da sempre la vita di ogni uomo è caratterizzata da questo prioritario desiderio, che è desiderio a ogni uomo: l’aspirazione alla felicità
Tuttavia, anche quando tende verso gli obiettivi che si propone nella vita non riesce a trovare questa totale pienezza. L’uomo sperimenta la finitezza di tutto quello che consegue e, per questo motivo, una perenne insoddisfazione
L’immagine più forte che Dante da nella Divina Commedia è proprio quella di un uomo in cammino nel viaggio della vita alla ricerca di se stesso e della propria felicità.
Eppure, a guardarsi attorno, sembra di assistere a un paradosso universale: da una parte l’uomo cerca la felicità e da un’altra la evita, perché non appena si accorge che è felice si rende conto che non ha più niente da fare e allora si creerà una nuova infelicità per ricominciare la ricerca della felicità.
E’ il paradosso che io chiamo della “nostalgia del compiuto”!
Blaise Pascal scrisse che l’uomo supera infinitamente l’uomo. In altre parole vive e cerca di raggiungere la felicità relativa che è possibile in questo mondo grazie anche al senso che egli è capace di dare alla sua esistenza.
La persona umana ha bisogno di ragioni per vivere, per soffrire, per integrarsi, per dare il meglio di sé al servizio degli altri … La felicità sgorga come conseguenza di aver dato il meglio di se stessi a servizio di una nobile causa.
Questa esperienza non è, evidentemente, nuova; è antica come antica è la stessa vita; ne danno testimonianza gli spiriti più nobili che sono passati per questo mondo. Sant’Agostino ad esempio: uno dei pensatori che hanno maggiormente influenzato la storia della Chiesa e dell’umanità. Il suo percorso vitale può davvero essere considerato un paradigma umano alla ricerca della felicità.
Agostino, soprattutto nel libro de le Confessioni, parla della ricerca della felicità. Visse un intenso itinerario spirituale, affettivo e professionale; da questo punto di vista oggi lo potremmo chiamare un trionfatore. Questo trionfo giunge al suo apogeo quando ottiene la cattedra di retorica a Milano e gli viene affidato l’incarico di rivolgere il panegirico all’Imperatore.
Tuttavia, racconta egli stesso, avviandosi verso il palazzo dell’imperatore, provo invidia per l’allegria di un ubriaco.
Soffermandosi, disse agli amici che lo accompagnavano che provava invidia perché vedeva in quell’uomo una allegria che egli non aveva mai provato.
Tuttavia, S. Agostino nella sua vita non si fermò mai; non cadde nel conformismo, ma continuò a cercare la risposta ai suoi interrogativi. La convinzione del fatto che la verità esiste e che l’uomo la deve ricercare lo sostenne nel suo proposito e fu confortato dalla conoscenza dei filosofi neoplatonici e soprattutto dall’incontro e dalla frequentazione con il vescovo di Milano, Sant’Ambrogio che fu il suo maestro e la sua guida spirituale fino ad avviarlo alla confessione del Dio cristiano, spirituale e creatore del mondo. Nella notte di Pasqua del 387 dopo Cristo, a Milano, il vescovo Ambrogio battezza Aurelio Agostino, l’intellettuale originario di Tagaste, che diventerà vescovo di Ippona e che influenzerà la cultura europea con il suo pensiero.
Nelle lettere di S. Paolo, Agostino trovò le chiavi per comprendere la scissione morale dell’uomo a causa del peccato, curabile solo da Cristo, il Dio fatto uomo per amore.
In questo modo Agostino percepì che la fede cristiana era capace di dare risposte a tutte le sue inquietudini, teoriche e pratiche e si abbandonò alla fede con la stessa passione con la quale aveva percorso già un lungo tratto della sua esistenza alla ricerca appassionata della felicità.
Potremmo trovare molti parallelismi tra l’epoca e la storia personale di Sant’Agostino – quando si andava sgretolando il potere dell’impero romano – e la nostra storia. Potremmo rinvenire molte somiglianze tra gli aneliti del suo cuore e i desideri dell’uomo d’oggi e di ognuno di noi. Potremmo confrontare e paragonare la sua ricerca di felicità con la nostra.
Nel suo tempo come nel nostro, non mancano coloro che disprezzano la ricerca della verità, distratti dal canto struggente di sirene che promettono felicità, ma che non possono mantenere tale promessa.
Agostino, nel cammino di ricerca della felicità, trovò l’orientamento e individuò la mèta nelle parole pregne di fede che egli ci ha tramandato: “Ci hai fatti per te, Signore; perciò il nostro cuore è inquieto finché non riposerà in te”.
E il suo cuore si riempì di quella gioia inesauribile che Agostino cantò e ora affida e consegna a noi perché anche la nostra gioia sia piena: “O eterna verità e vera carità e cara eternità! Tu sei il mio Dio, a te sospiro giorno e notte. Appena ti conobbi, tremai di amore e di terrore. Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Ed ecco che tu stavi dentro di me e io ero fuori e là ti cercavo. E io, brutto, mi avventavo sulle cose belle da te create. Eri con me ed io non ero con te. Mi hai chiamato ed ora io anelo a te!”
A quanto pare Dio c’entra proprio con la felicità dell’uomo. Egli ce ne traccia il sentiero, ce ne indica la direzione, e poi, mette degli argini a tutto ciò che può compromettere la ricerca della vera felicità.
Attenzione: noi dobbiamo essere avveduti e fidarci di Dio; se vediamo unicamente gli argini e li consideriamo più come barriere che come custodie, saremo come quegli uomini stolti ai quali viene indicata la luna, ma il cui sguardo resta bloccato a fissare il dito.
Purtroppo viviamo nell’epoca dell’emo/crazia, nella quale domina l’emozione e il sentimentalismo; il benessere può stordire per un po’, ma non ce la fa a riempire le voragini dell’animo umano. Inoltre la ricerca compulsiva della felicità porta solo a girare a vuoto su se stessi.

Fidiamoci di Dio; a Lui sta a cuore la nostra felicità.
La ricerca della felicità è ricerca di Dio.

Publié dans:meditazioni, STUDI |on 10 avril, 2015 |Pas de commentaires »

IL SAPIENTE E IL DENARO

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IL SAPIENTE E IL DENARO

Sembrano L.

Da un punto di vista economico, l’invenzione del denaro va considerata una pietra miliare. Il libro di Giobbe attesta che questo stadio della civiltà è stato raggiunto molto presto nelle culture bibliche (cf. Gb 42,11).

La realtà economica
Senza denaro, il commercio si riduce al baratto, ossia allo scambio diretto di un bene con un altro, utilizzato nelle comunità primitive e ancora praticato in alcune parti del mondo. In un’economia di baratto, un individuo che possiede qualcosa da commerciare deve trovare qualcuno che la voglia e che abbia qualcosa di accettabile da offrire in cambio. In un’economia monetaria, invece, il proprietario di un bene può venderlo, ricavando del denaro con cui potrà a sua volta acquistare il bene desiderato. Le funzioni della moneta quale mezzo di scambio e misura del valore dei beni facilitano enormemente lo scambio di prodotti e servizi e la specializzazione della produzione.
La Bibbia esprime con la radice ebraica ksf, «bramare, desiderare», e in particolare con il termine kesef, «argento, denaro, salario, proprietà, prezzo d’acquisto» le molteplici funzioni della moneta.
Da un punto di vista sociologico, poi, la ricchezza è uno dei fattori di differenziazione e di stratificazione sociale. In una società, gli individui e i gruppi acquisiscono distinti ruoli e identità a partire da presupposti naturali (come il sesso, l’età, l’etnia, l’ambiente naturale), o sociali (come la religione, la lingua, la professione, la cultura). In virtù di queste differenze, gli attori sociali, siano essi individui o gruppi, acquistano significative differenze di status, di potere, di autorità, e di prestigio sociale a seconda delle attività e delle funzioni svolte, degli obiettivi perseguiti, del potere, dell’autorità, della cultura posseduti. L’accumulo di ricchezza – che da origine al capitale – sfocia nell’opulenza e nella capacità di fare investimenti[1].
L’esperienza della prosperità e dell’abbondanza non è estranea alla Bibbia, che la esprime col sostantivo ‘ošer[2], «ricchezza», cui corrisponde il predicato ‘ašir, «ricco», entrambi associati talora a beni immateriali, come la gloria (Pr 3,16), l’onore, il benessere e l’equità (Pr 8,18), la sapienza (1Re 10,23), la fortuna (Sal 49,7), l’onore (Sal 52,9; 112,3), in contrapposizione con la miseria del povero (Pr 30,8)[3].
La rilevanza semantica dei suddetti termini[4] offre un’idea dell’attenzione prestata al fenomeno della ricchezza nella letteratura sapienziale d’Israele, che – anche in questo campo – esprime realisticamente la contraddittorietà dell’esistenza, con le sue mille sfaccettature, nell’intento di dare all’uomo, per ogni situazione, un orientamento sicuro, senza forzature, traendo la propria autorevolezza dall’esperienza della vita, e facendo appello al buon senso naturale, che è in ogni persona.

I vantaggi dell’agiatezza
Per quanto riguarda la ricchezza, i sapienti d’Israele tracciano l’ideale di un’agiatezza ottenuta attraverso la laboriosità e l’ingegno, di cui è testimone la donna perfetta di Pr 31,10-31. Con le sue eccezionali capacità imprenditoriali, per nulla inferiori a quelle maschili (Pr 11,16), ella si procura da lontano le materie prime, lavora ininterrottamente dall’alba al tramonto, senza trascurare la sorveglianza del personale domestico, né gli investimenti immobiliari (Pr 31,13-18.27).
Per il ricco i beni sono una roccaforte (Pr 10,15; 18,11). Grazie ad essi, al momento opportuno potrà avere salva la vita (Pr 13,8; Sir 18,25). Attratti dai suoi beni, molti gli offriranno la loro amicizia (Pr 19,54). In un’epoca in cui la schiavitù per debiti era ancora una realtà (Lv 25,39; Pr 22,7), non faceva scandalo né l’esistenza della povertà (Pr 22,2), né la superiorità sociale del ricco, né infine il suo potere d’imposizione sui poveri (Pr 22,4). Lo ammette – con una punta d’ironia, ma senz’alcuna inibizione – il Siracide:

Se parla il ricco, tutti tacciono
ed esaltano fino alle nuvole il suo discorso;
se parla il povero, dicono: «Chi è costui?»,
e se inciampa, lo aiutano a cadere! (Sir 13,23).

Altrettanto amara è la constatazione di Qo 9,13-16. Analoghe sono altre affermazioni proverbiali:
Il povero parla con suppliche, il ricco risponde con durezza (Pr 18,23).
L’ira di un uomo cresce in base alla sua ricchezza (Sir 28,10).
Il ricco commette ingiustizia e per di più grida forte (Sir 13,3).

E poi il suo avversario dovrà fare i conti con quel male endemico, che è la corruzione (Sir 8,2b)[5].
Se il giusto Giobbe poteva permettersi di impiegare il suo tempo per «rompere la mascella al perverso» e poteva sedere tra i magistrati «come un re tra i soldati» – come ricorda lui stesso nostalgicamente in Gb 29,17.25 – è perché era tanto ricco da lavarsi i piedi nel latte, e la roccia gli versava ruscelli d’olio (cf. Gb 29,6)! Non dovendo affrontare quotidianamente i problemi della sussistenza, grazie alla sua opulenza, egli faceva parte di quella ristretta aristocrazia che poteva dedicarsi al governo cittadino. La sua opulenza era contemperata dall’impegno per la giustizia.
Nell’ottica sapienziale, che non conosce ancora la rinuncia volontaria ai propri beni per la sequela escatologica del regno di Dio (Mc 10,21), vi è già una dinamica ascensionale, che conduce al riconoscimento del primato della sapienza tra tutti gli altri beni. Pr 14,24 (citato seguendo il testo masoretico) afferma senza mezzi termini che la ricchezza è la «corona dei saggi», in contrapposizione alla stoltezza, che conduce alla miseria, e quindi la ricchezza è intesa come il degno coronamento di una vita spesa con sapienza, con costante impegno, come il frutto della fatica di una vita.

Ma la sapienza è la ricchezza migliore!
Tuttavia, Pr 8,11 – nella collezione più recente del libro – afferma già che la sapienza vale più delle perle, e nessuna cosa preziosa la eguaglia. Dal canto suo, lo pseudo-Salomone testimonia che, insieme con la Sapienza – intesa qui come una figura femminile da ricercare (sulla scia delle personificazioni letterarie di Pr 8-9) – gli sono venuti tutti i beni e che «nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile» (Sap 7,11), poiché dall’amicizia e dall’assiduità del rapporto con lei vengono all’uomo piacere, prudenza, ricchezza e fama (cf. Sap 8,18). Vale quindi la pena d’imboccare la strada della sequela della sapienza, perché saggezza e ricchezza vanno insieme, come attesta la narrazione storica relativa al re Salomone (1Re 10,14-25).
Qohelet, attento osservatore dei rapidi mutamenti in atto nella terra d’Israele all’epoca ellenistica (cf. Qo 4,13-14), è il primo a incrinare la fiducia della tradizione sapienziale nella ricchezza, sulla scorta di una riflessione attestata anche nel Salterio (cf. Sal 49,7; 62,11), e minoritariamente nei Proverbi stessi:

Chi confida nella propria ricchezza, cadrà (Pr 11,28a).
Chiedendosi perché mai l’uomo debba affaticarsi per tutta la vita ad accumulare, se non ha neppure un erede (Qo 4,8), anch’egli si cela sotto le sembianze di un Salomone non più giovane, per condannare l’amore insaziabile per il denaro (Qo 5,9) e far notare, nell’ottica di una contestazione radicale dei limiti dell’esistenza, che neppure la sapienza può costituire una salvaguardia definitiva per i propri beni (cibo e ricchezze) contro le insidie degli avvenimenti (Qo 9,11).
Agli antipodi di Qohelet per la sua indiscussa fedeltà alle tradizioni dei padri, la sapienza di «Gesù ben Sira» giunge alle stesse conclusioni, quando riconosce che all’uomo è sottratto il controllo dei propri beni, perché tutto proviene dal Signore, anche povertà e ricchezza (Sir 11,14). Non vale la pena di trascorrere notti insonni pensando a come accumulare (Sir 31,1), né accumulare a forza di privazioni per degli estranei, che faranno festa con i tuoi beni (Sir 14,4). Non ha bisogno di commento questo apoftegma del Siracide, che ha ispirato la parabola evangelica del ricco stolto (Lc 12,16-21):

C’è chi è ricco a forza di attenzione e di risparmio;
ed ecco la parte della sua ricompensa.
Mentre pensa: «Ho trovato riposo; ora mi godrò i miei beni»,
non sa quanto tempo ancora trascorrerà;
lascerà tutto ad altri e morirà (Sir 11,18-19).

Il godimento delle ricchezze non è definitivo. E il danaro è fonte di preoccupazione (Qo 5,11b; Sir 31,1). Il loro possesso non è stabile, ma variabile come il tempo, che dal mattino alla sera cambia (Sir 18,26; 11,21). Salute fisica e gioia del cuore già valgono più di tutto l’oro (Sir 30,15-16.23-25), ma, tra tutti i beni, il più desiderabile è la sapienza. Con essa, infatti, più che col danaro, viene all’uomo ogni altro bene. Ella stessa invita a saziarsi dei suoi beni (Pr 9,1-6; Sir 24,17-20). Benché sia prematuro parlare di una scelta volontaria della povertà, la sequela della sapienza costituisce sicuramente già una premessa importante della sequela per il regno.

Pietà e onestà
La ricchezza è considerata, nell’ottica della benedizione, quale ricompensa del proprio comportamento giusto e onesto; essa è buona, purché sia senza peccato (Sir 13,24). La proverbiale ricchezza di Giobbe (Gb 1,2-3) non è disgiunta dalla sua pietà, contrariamente alle insinuazioni del satana (Gb 1,8-11), che paradossalmente gli frutteranno ancor più, dopo il superamento della prova:
Dio ristabilì Giobbe nello stato di prima … accrebbe anzi del doppio quanto Giobbe aveva posseduto… Il Signore benedisse la nuova condizione di Giobbe più della prima ed egli possedette quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine (Gb 42,10.12).
La cornice narrativa di Giobbe fornisce un quadro ideale di comprensione per il detto di Pr 11,28b: il sapiente di Uz non ha mai confidato nelle sue ricchezze; per questo anche nella vecchiaia, è posto dal Signore tra quei giusti «verdeggianti come foglie». L’esemplarità del Giobbe in prosa (Gb 1-2; 42,7-17) consiste nella sua attenzione alla giustizia, che gli consente di scampare al tranello postogli dal satana e così «sfuggire alla morte», non con la sua ricchezza, ma per mezzo della sua pietà (cf. Pr 11,4), perché la ricchezza, l’onore e la vita, come il timore di Dio, doni che Giobbe possiede tutti (Gb 1,8; 2,3), sono «frutti dell’umiltà» (Pr 22,4).
Quando ormai è troppo tardi per tornare indietro, perché il giudizio incombe su di loro, dopo una vita spesa a tramare il male e la perdizione a danno del giusto, anche gli empi di Sap 5,5-11 riconoscono la sterilità del connubio tra ricchezza e disonestà, che li ha fuorviati, impedendo loro di gustare la luce della giustizia.
Eppure l’attrattiva dell’arricchimento facile e, in apparenza, senza troppi rischi, doveva esercitare un impatto molto forte sui giovani, se il maestro di Pr 1 dedica a questo tema il primo dei suoi insegnamenti, facendo sentire ai suoi allievi la voce stessa di quei delinquenti, che non temono di paragonarsi, per la loro ingordigia, alle fauci della sheol:
Vieni con noi, complottiamo per spargere sangue … inghiottiamoli vivi come gli inferi…,troveremo ogni specie di beni preziosi, riempiremo di bottino le nostre case… (Pr 1,11-13)
Ma poi mostra ai discepoli la squallida fine degli empi stolti, vittime di quella violenza, e di quella cupidigia, alle quali troppo in fretta si erano assuefatti (Pr 1,18-19). Così spavento e violenza fanno svanire la ricchezza (Sir 21,4).

Generosità
C’è chi largheggia e vede aumentare la sua ricchezza,
chi risparmia oltre misura e finisce nella miseria (Pr 11,24).

L’avarizia è la negazione della funzione economica del denaro, che viene accumulato per se stesso, e non risparmiato in vista di futuri bisogni. Una volta che esso è entrato in cassa, non ne esce più. Perciò, a ragione il Siracide si domanda:

Ma a che servono gli averi a un avaro? (Sir 14,3).

La cupidigia conduce quasi sempre all’arricchimento ingiusto, allo sfruttamento del prossimo, al guadagno disonesto. Messo alla prova, quasi nessuno è stato in grado di resistere alla tentazione dell’oro. Il danaro ha una forza d’attrazione paragonabile a quella che Qo 7,26 attribuisce ai lacci della donna, in cui il peccatore resta preso.
Come attesta categoricamente Sir 31,5-11: l’accaparramento è condannato dai sapienti d’Israele e, come nei profeti – si pensi alle violente invettive di Amos –, attira su chi se ne rende colpevole la punizione divina. Purtroppo, esso è frequente, e a pagarne le conseguenze è il giusto povero (Pr 28,15; Sap 2,10). Il dissenso tra ricchi e poveri è paragonato alla relazione tra il lupo e l’agnello, la iena e il cane, tra una caldaia metallica e una pentola di coccio, e lo sfruttamento dei poveri da parte dei ricchi agli attacchi mossi dai leoni agli onagri del deserto (Sir 13,2.17-19).
A confronto col modello di Pr 23,1-3.6-8, che si sofferma prevalentemente sull’esperienza conviviale, si deve supporre che il conferenziere «Gesù ben Sira», abituale frequentatore delle case dei potenti, sia stato talora oggetto dell’arroganza e dello scherno dei nuovi arricchiti, a giudicare dai toni così veementi e sarcastici, con i quali sfoga l’umiliazione dello sfruttamento da parte dei ricchi (Sir 13,4-7; 29,22-24). Gli fa eco, in qualche modo, Qohelet:

Tutta la fatica dell’uomo è per la bocca
e la sua brama non è mai sazia.
Quale vantaggio ha il saggio sullo stolto?
Quale il vantaggio del povero
che sa comportarsi bene di fronte ai viventi? (Qo 6,7-8).

Povertà e pigrizia
Come in epoca biblica, ancora oggi sopravvive il pregiudizio che l’indigenza sia sempre frutto di pigrizia, scarsa diligenza (Pr 12,27; 13,4; 19,24), o superficialità (Pr 26,16) e si prova fastidio quando ci s’imbatte in certi poveri, ad esempio, gli zingari, che inculcano nei bambini la mendicità (Pr 21,25; Sir 13,20), o i tossicodipendenti, che chiedono soldi per bucarsi. Certamente il sapiente condanna la povertà quando è frutto di pigrizia (Pr 6,6-11; 24,30-34; Sir 10,27; 11,11-13.17). Anzi, egli cerca d’inculcare nei suoi allievi l’orrore per la pigrizia (Pr 20,13; Sir 22,1-2; 37,11)[6].
Ma non sempre la povertà è conseguenza della pigrizia. Talora è frutto di una politica dissennata (Qo 5,7). Altre volte non si tratta di soccorrere i poveri nelle necessità pratiche, ma di rendere loro giustizia (Pr 31,9). E non è sempre possibile sapere in anticipo quali siano le cause del disagio, per potersi regolare. Perciò il ricco ha il dovere di soccorrere il povero, come faceva Giobbe quand’era in auge e in buona salute (Gb 29,12; 31,16.19), o come si comporta la donna perfetta, che apre il palmo della sua mano all’indigente (Pr 31,20). Così facendo, i ricchi ottengono benedizione dal Signore – che li colma di abbondanza (Pr 19,17; 22,9; 28,27; Sir 7,32) – ma anche da coloro che soccorrono, i quali ne celebrano le lodi, accrescendone la fama e la popolarità (Pr 31,20.31; Sir 31,10).
È ancora il Siracide che, a più riprese, raccomanda la delicatezza nel modo di donare, e l’affabilità, per non offendere la sensibilità del povero (Sir 4,1.4.8; 18,16-17; 29,9). Chi opprime il povero, offende il suo Creatore (Pr 14,31; 17,5), perché Dio è dalla sua parte (Sir 21,5). yhwh, che è imparziale, presta ascolto alla preghiera dell’oppresso (Sir 35,13). Ma l’esortazione a praticare la carità risponde anche a una preoccupazione pratica: poiché l’indifferenza sociale verso i poveri è contagiosa, chi è insensibile al grido del povero, quando si troverà nel bisogno, non otterrà risposta (cf. Pr 21,13). Né dagli uomini, né da Dio, come attesta la voce di Abramo:
Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi (Lc 16,25-26).

Lucio Sembrano

[1]T. Hembrom, «Economic Policy in the Wisdom Literature of the Old Testament», in Bible Bhashyam 22 (1996) 231-237, analizza il tema della ricchezza nei libri sapienziali. L’autore ritiene che vi sia una sostanziale coincidenza tra la mentalità contemporanea e quella dell’epoca biblica quanto alla visione dell’individualismo e del capitalismo, anche se manca nei sapienziali una concettualizzazione moderna della «politica economica».
[2] Da non confondere con «’šr – felice», scritto con aleph iniziale, con cui ha un’assonanza.
[3] Per un ampliamento della ricerca, cf. S.A. Panimolle, «Povertà», in Nuovo dizionario di teologia biblica, Paoline, Cinisello B. 1988,1202-1216; V. Liberti (ed.), Ricchezza e povertà nella Bibbia, Studio Teologico Aquilano, Ed. Dehoniane, Roma 1991; L. Mazzinghi, «I saggi e l’uso della ricchezza: il libro dei Proverbi», in Parola, Spirito e Vita 42 (2000) 83-96.
[4] La ricerca statistica lessicale è stata effettuata per mezzo di una concordanza elettronica della Bibbia ebraica. Non essendo questa disponibile per il libro del Siracide, mi sono avvalso dello studio (in ebraico moderno) di Z. Ben-Hayyim, The Book of Ben Sira. Text, Concordance and an Analysis of the Vocabulary, The Academy of the Hebrew Language and the Shrine of the Book, Jerusalem 1973; cf. pure T. Donald, «The semantic field “Rich and Poor” in Hebrew and Accadian Literature», in Oriente Antico 3(1964) 27-41.
[5] Per un approfondimento sul dovere della solidarietà, cf. J. Corley, «Social Responsibility in Proverbs and Ben Sira», in Scripture Bulletin 30 (2000) 2-14.
[6] B.J. Wright III, «The Discourses of Riches and Poverty in the Book of Ben Sira», in Society of Biblical Literature Special Papers I-II, Scholars, Atlanta 1998, 559-578. Siracide è attento alla vita reale di Gerusalemme nel III-II sec. a.C.

 

Publié dans:BIBBIA, biblica, meditazioni bibliche |on 10 avril, 2015 |Pas de commentaires »

Basilica di San Clemente in Roma, mosaico absidale

Basilica di San Clemente in Roma, mosaico absidale dans immagini sacre San-Clemente-in-Roma-Mosaico-dellAbside

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PAPA FRANCESCO – L’ALBERO DELLA CROCE

https://w2.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2013/documents/papa-francesco-cotidie_20130914_albero-della-croce.html

PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

L’ALBERO DELLA CROCE

Sabato, 14 settembre 2013

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 211, Dom. 15/09/2013)

Storia dell’uomo e storia di Dio si intrecciano nella croce. Una storia essenzialmente di amore. È un mistero immenso, che da soli non possiamo comprendere. Come «assaggiare quel miele di aloe, quella dolcezza amara del sacrificio di Gesù?». Papa Francesco ne ha indicato il modo, questa mattina, sabato 14 settembre, festa dell’esaltazione della santa croce, durante la messa celebrata nella cappella di Santa Marta.
Commentando le letture del giorno, tratte dalla lettera ai Filippesi (2, 6-11) e dal Vangelo di Giovanni (3, 13-17), il Pontefice ha detto che è possibile comprendere «un pochino» il mistero della croce «in ginocchio, nella preghiera», ma anche con «le lacrime». Anzi sono proprio le lacrime quelle che «ci avvicinano a questo mistero». Infatti, «senza piangere», soprattutto senza «piangere nel cuore, mai capiremo questo mistero». È il «pianto del pentito, il pianto del fratello e della sorella che guarda tante miserie umane e le guarda anche in Gesù, in ginocchio e piangendo». E, soprattutto, ha evidenziato il Papa, «mai soli!». Per entrare in questo mistero che «non è un labirinto, ma gli assomiglia un po’» abbiamo sempre «bisogno della Madre, della mano della mamma». Maria, ha aggiunto, «ci faccia sentire quanto grande e quanto umile è questo mistero, quanto dolce come il miele e quanto amaro come l’aloe».
I padri della Chiesa, ha ricordato il Papa, «comparavano sempre l’albero del Paradiso a quello del peccato. L’albero che dà il frutto della scienza, del bene, del male, della conoscenza, con l’albero della croce». Il primo albero «aveva fatto tanto male», mentre l’albero della croce «ci porta alla salvezza, alla salute, perdona quel male». Questo è «il percorso della storia dell’uomo». Un cammino che permette di «trovare Gesù Cristo Redentore, che dà la sua vita per amore». Un amore che si manifesta nell’economia della salvezza, come ha ricordato il Santo Padre, secondo le parole dell’evangelista Giovanni. Dio infatti, ha detto il Pontefice, «non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di Lui». E come ci ha salvato? «con quest’albero della croce». Dall’altro albero, sono iniziati «l’autosufficienza, l’orgoglio e la superbia di volere conoscere tutto secondo la nostra mentalità, secondo i nostri criteri, anche secondo quella presunzione di essere e diventare gli unici giudici del mondo». Questa, ha detto, «è la storia dell’uomo». Sull’albero della croce, invece, c’è la storia di Dio, che «ha voluto assumere la nostra storia e camminare con noi». È proprio nella prima lettura che l’apostolo Paolo «riassume in poche parole tutta la storia di Dio: Gesù Cristo, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio di essere come Dio». Ma, ha spiegato, «svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini». Cristo, infatti, «umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e una morte di croce». È questo «il percorso della storia di Dio». E perché lo fa? Si è chiesto il vescovo di Roma. La risposta si trova nelle parole di Gesù a Nicodemo: «Dio, infatti, ha amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna». Dio, ha concluso «fa questo percorso per amore, non c’è altra spiegazione».

L’ARTE MODERNA O LA “SOFIA” DISSACRATA – Pavel Evdokimov

http://oodegr.co/italiano/tradizione_index/arte/artemodernaevd.htm

L’ARTE MODERNA O LA “SOFIA” DISSACRATA

Pavel Evdokimov

Sin dalle origini la teologia occidentale ha manifestato una certa indifferenza dogmatica verso la portata spirituale dell’arte sacra di quell’iconografia che, malgrado il lungo martirologio, è assai venerata in Oriente. Provvidenzialmente, l’arte occidentale segnò tuttavia un ritardo sul pensiero teologico e, fino al XII secolo, rimase fedele alla Tradizione comune sia all’Oriente che all’Occidente. Questa tradizione comune è pienamente viva nella magnifica arte romanica, nella meraviglia della cattedrale di Chartres, nella pittura italiana che coltiva ancora la “maniera bizantina”.
Ma a partire dal XIII secolo, Giotto, Duccio, Cimabue, introducono l’artificiosità ottica, la prospettiva, la profondità, il gioco del chiaro-scuro, il “trompe-l’oeil” (l’illusione ottica). Se l’arte diviene più raffinata, più attenta all’elemento immanente, è meno portata verso la presa diretta del trascendente[1]. Recenti studi scoprono una forte influenza dell’intellettualismo domenicano anche nella visione di Frate Angelico. Rompendo con i canoni della tradizione, l’arte non viene più integrata al mistero liturgico. Sempre più autonoma e soggettiva, abbandona la “biosfera” celeste. Gli abiti dei santi non fanno più sentire sotto le loro pieghe i “corpi spirituali” e persino gli angeli appaiono come esseri fatti di carne e di sangue. I personaggi sacri si comportano esattamente come tutti, vengono abbigliati e collocati nell’ambiente contemporaneo dell’artista. Ancora un passo avanti ed il racconto biblico, l’evento miracoloso diviene solo occasione per eseguire sapientemente un ritratto, un’anatomia, un paesaggio. Il colloquio (diretto) da spirito a spirito si affievolisce, la visione del “fuoco delle cose” fa spazio all’emozione, ai trasporti dell’anima, alla commozione. Secondo Maurice Denis, Leonardo da Vinci è il precursore dei Cristi del genere Muncancsy, Tissot, e al termine della stessa linea emozionale, verranno le immagini attuali del “Sacro Cuore”. Parimenti, quando un Crocifisso, col suo realismo voluto, colpisce il sistema nervoso, il mistero ineffabile della Croce perde la sua potenza segreta, si cancella. Quando l’arte dimentica la lingua sacra dei simboli e delle presenze e tratta plasticamente “soggetti religiosi”, essa non è più percorsa dal respiro del Trascendente.
Passata la metà del XVI secolo, i grandi artisti come il Bernini, Le Brun, Mignard, Tiepolo, si esercitano su temi cristiani in totale assenza di sentimento religioso. La così detta arte sacra che oggi si trova nelle chiese è la più sprovvista di dimensione del sacro. Ma lasciamo parlare un teologo: “Tutta la controversia sull’arte sacra che in questo momento fa rabbia in Occidente si muove su un terreno e si dibatte in una alternativa che rivelano parimenti la completa eterogeneità tra le due arti sacre di Oriente e di Occidente. Più precisamente, essa mostra sopratutto che l’arte religiosa di Occidente, qualunque sia la concezione che uno se ne sia fatta, non ha assolutamente nulla di sacro, nel senso in cui sono sacre le icone. Fondamentalmente essa è un’arte soggettiva che mira ad esprimere il sentimento religioso… Mirabilmente tutto dice che l’arte religiosa in Occidente non è incorporata nella liturgia e che non si ha più neppure la nozione che potrebbe esserlo… Attualmente, a San Vitale (Ravenna) non c’è più altare né in generale oggetti liturgici. Con ogni evidenza ci si trova, dunque, in una chiesa dove tutto attende i santi misteri. All’incirca dall’epoca gotica, nelle nostre chiese più belle come in quelle più mediocri, si può benissimo celebrare la messa tutti i giorni, vi si trova di che stimolare o fiaccare la devozione spirituale, ma nulla è diverso dal laboratorio o dal museo, nulla vi riunisce nel mistero le pitture o le sculture che occupano i muri”[2].
Con la fine del XVIII secolo, l’arte perde visibilmente il legame organico tra il contenuto e la forma e si immerge nella notte delle rotture. Certamente, l’arte rimane complessa, e per fortuna mantiene tutte le tendenze, anche se la predominanza di alcune ne modifica il volto. Noi seguiremo unicamente l’evoluzione di quella che sfocia nella pura astrazione.

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Quando il «conoscere» non è più un atteggiamento di adorazione, comunione orante, la conoscenza si separa dalla contemplazione. In cambio di un “sapere per potere” e della crescita di questo potere sulle cose di questo mondo, si rinuncia all’approfondimento dell’interiorità che va fino all’incontro con il Trascendente e in Lui con tutta la realtà fremente di vita. Allora, però, l’essere si svuota del suo contenuto essenziale, perde la sua radice celeste, si snatura, si dissacra e la coscienza non scopre il “Dasein”, l’essere là, se non per rivelarlo come “essere per la morte”, rinserrato dal nulla. Si distrugge il reale dissociandone gli elementi, suscitando discontinuità invalicabili. All’uomo non rimane che la spiritualità dell’anima, per sua natura acosmica, oppure un moralismo di volontà che gli impediscono, entrambi, il colpo trasfigurante della materia. Una filosofia esistenzialista con le sue sostanze chiuse, rette dal principio di causalità. O un pensiero esistenzialista con le sue presenze senza spessore ontologico, non possono aprirsi al dinamismo energetico delle similitudini e delle partecipazioni autenticamente divinizzanti. La liturgia cosmica non trova più cantori perché l’opacità dei corpi non è impregnata dalla luce del Tabor e la gloria non affiora più in una natura dissacrata.
L’arte subisce l’influenza dei “signori” del mondo e della propria saggezza: l’artista, votato più che mai alla solitudine, cerca una specie di “sovra-oggetto”, di “sovra-realtà”, perché per lui la semplice realtà non è più esprimibile direttamente. Eroicamente ma senza molte speranze, si sforza di trovare quel lato segreto che è stato divelto dalle cose di questo mondo. Volendo conoscere l’oggetto secolarizzato, si perde il suo mistero; ma la sola ricerca, per reazione, per disperazione, di questo mistero, fa perdere la cosa e conduce all’astrazione docetista, al gioco fantasmagorico delle ombre senza corpo.

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La rottura con il passato scaturito dal Rinascimento e la nascita dell’arte moderna possono essere datate nel 1874, con la mostra allestita presso Nadar.
Andando dall’inquietudine profonda di Cézanne all’angoscia tragica di Van Gogh, la pittura indipendente, per sua natura soggettiva, mostra un bisogno di rinnovamento che cerca di manifestare stati d’animo sempre insoddisfatti. L’impressionismo e l’espressionismo trasmettono le reazioni soggettive della retina o del sistema nervoso dell’artista. Questa è la pittura del circostanziale, dell’estemporaneo interpretato emotivamente. L’oggetto emulsionato si disperde nel plasma luminoso e cromatico. La tecnica del tocco diviso e giustapposto insegue le vibrazioni colorate della luce e cerca la sintesi nel fissare l’attimo.
Il cubismo, da parte sua, scompone l’unità vivente nei suoi elementi geometrici e ricostruisce il quadro cerebralmente, come un problema matematico. Abbandona i giochi di luce e di colore ed analizza l’oggetto come si presenta all’immaginazione, collocato in uno spazio ridotto a due dimensioni oppure, al contrario, in uno spazio pluridimensionale come l’atomo dei fisici.
Il surrealismo rende irreale questo mondo e gliene sovrappone un altro, inventato, fino ad andare a profilare un’ “aura sovra-esistenziale”.
L’arte si emancipa da ogni “canone”, da ogni regola; se “teurgica”, si lancia in potenze magiche d’incanto, in false trascendenze, veri e propri “falsi parti metafisici”. È la voga delle maschere negre, del potere inebriante della mescalina, delle imitazioni del falso simbolismo occulto, delle composizioni che si ispirano al cemento armato, all’atomo e al razzo, delle immagini plastiche della velocità pura, della scultura col filo di ferro.
L’enorme pressione dell’universo “appiccicoso e soffocante” genera la danza moderna, un movimento indiavolato che però non porta in nessun posto. Questa è la terribile libertà di ogni artista di rappresentare il mondo ad immagine della propria anima devastata, giungendo fino alla visione di una immensa latrina dove brulicano mostri disarticolati. Ovunque si avverte la discontinuità dei ritmi spezzati, sincopati, la dissoluzione delle forme e la scomparsa del contenuto preciso, del soggetto del volto, del senso delle parole in poesia o della melodia nella musica.
Per la moderna coscienza “sfaccettata”, l’oggetto non esiste nella sua forma unica ma assume molteplici aspetti. Prima di scomparire, l’oggetto si impenna in un’ultima agonia, appare attorcigliato e convulso. Insomma il contenuto delle cose e l’epidermide dei volti si decompongono, tutto viene fatto a pezzi, atomizzato, disintegrato. Percepita in questa maniera, la realtà riflette una coscienza, pure essa, lacerata e a sua volta se ne impregna. L’uomo non è più dominatore delle tendenze anarchiche della natura. Egli non le mette più in ordine con il suo spirito, ma le registra e le aggrava col suo rifiuto di intervenire. Prima, le cose interrogavano, come in attesa e l’artista rispondeva ad esse facendole vivere pienamente sotto il suo sguardo creatore, restituendo loro l’innocenza verginale, facendole ritornare “da lui”, verso il loro candore e la loro ingenuità.
L’artista moderno, prima di guardare il mondo, interroga la propria anima ed applica alle cose la propria visione “disintegrante”, si rende complice dell’antica ribellione che vuole liberarsi innanzi tutto del Senso e di ogni principio normativo. Un simile ritorno verso il caos primordiale accelera l’usura del tempo e assottiglia l’essere sino all’indigenza del nulla. La materia si dissolve perdendo i suoi contorni, viene vista nell’atomo temporale di cui è stata esclusa la durata, e dunque il fremito del viso, la familiarità dello sguardo. Ogni suo frammento comincia a vivere un’esistenza particolare. Il celebre Saturno di Goya rode la sostanza dell’uomo. Nel momento delle convulsioni della fine del MedioEvo, attraverso le brecce che si aprono, si dipartono soffi solforosi che portano il brulichio dei desideri liberati, l’eterno vagare delle voglie. Le potenze irrazionali e demoniache irrompono e corrono qua e là per il mondo. Se l’uomo di Goya è spiato dai mostri che emergono dal suo subcosciente, in Bosch, persino il cammino paradisiaco prende la forma di un lungo, interminabile tunnel oscuro a cui si ispireranno Kafka e Freud. La via à tenebrosa, opprimente, molto poco certa riguardo al suo punto di uscita. Non maggiormente rassicurante è l’uomo visto da Picasso e dalla sua “linea di crudeltà”. In quel modo probabilmente i demoni vedono forse il mondo in un’ottica occulta e fuori dall’inaccessibile immagine di Dio.
Il livellamento universale sbriciola l’Unico, l’Ideato, il Sacro e li sostituisce con la magia di un movimento turbinoso su stesso, decentrato. Non si tratta più dell’eternità ridotta a frammenti dal peccato, ma del tempo ridotto in nulla. L’inferno non somiglia forse ad un frammento del tempo soggettivo dilatato ed eternamente fisso, un sogno senza sognatore, l’ultimo rifugio dell’inesistente? L’esistenza ultramoderna non conosce né l’Avvento, né la crescita dell’essere, né la successione degli eventi, ma contiene in sé una coesistenza di frammenti, di schegge che si ricoprono l’una con l’altra senza luogo né sequenza ordinata. La durata orientata cede il posto alla simultaneità, all’istantaneità, al futurismo, e si assottiglia in una pseudo escatologia del ritorno all’elementare. Al limite un cadavere non si muove, si distende. Già Dostoevskij profetizzava che l’uomo avrebbe perso anche la sua forma esteriore se avesse perso la propria fede nell’Integrazione divina. Un tempo i grandi Maestri, prendendo a soggetto una qualsiasi particella dell’essere, davano la sensazione di avere tra le mani il mondo palpitante di vita. Adesso il mondo si restringe su immensi pannelli alla povertà di alcuni frammenti.
Osserviamo la celebre Barbara di bronzo di Jacques Lipchitz. Non ha epidermide, quello che si vede corrisponde ad un volto ma non gli somiglia affatto. Lo scultore si è immedesimato in Barbara e trasmette sensazioni interne. Trasferisce in immagine visiva l’impressione cenestesica. Il groviglio di fili, di nodi, di sporgenze e di vuoti deve rivelarci le sensazioni di Barbara che avanza verso di noi. La sua interiorità viene tradotta senza alcuna analogia con la natura consueta. È un’arte cerebrale, che non cerca un senso, o il mistero del destino, ma la funzione, il rapporto, la dipendenza. Così lo scultore Henry Moore si occupa della proiezione di una sostanza in un’altra e si chiede cosa diventa il corpo umano costruito con la pietra. Simile è anche la pittura intra-atomica o la mistica corpuscolare di Salvador Dalì o di Francis Picabia.
L’arte non figurativa, informale, astratta, col negare ogni oggetto concreto sopprime qualsiasi supporto ontologico. Non è una mela rossa ma il rosso in sé, una macchia colorata nella quale l’artista proietta un significato comprensibile a lui soltanto.
Schopenauer diceva che tutte le arti contengono una tendenza segreta verso la “musicalità”. Ebbene, tra le arti, la musica è la sola a non presentare alcuna imitazione delle forme di questo mondo. Malgrado, o forse grazie a questa assenza, Kandinskij, Malevič, Kupka, Mondrian seguono l’auspicio di Mallarmé: “prendere in prestito dalla musica le sue leggi e i suoi poteri”. Violoncellista dotato, Kandinskij chiama i suoi abbozzi “improvvisazioni” e le sue opere finite “composizioni”. Kupka disegna “Fuga in due colori” e “Cromatismo caldo”. Paul Klee, musicista e compositore, nella sua pittura cerca metamorfosi in perenni germinazioni liriche o esplosive. Mentre il musicista Scriabine parlava della “sinfonia della luce” e di suoni suscitanti associazioni di colori. Survage, Béothy, Cahn, Valensi realizzano questo sogno su pellicole cinematografiche e fanno sperimentazioni su “ritmi colorati”, Richter arriva persino a fare film astratti.
La “musica concreta” elimina la melodia, l’armonia, il contrappunto. Mentre secondo Mozart l’essenza della melodia precede la sua differenziazione in parti, la frammentazione passa alla giustapposizione delle sonorità isolate, alla discontinuità del genere di Stravinskij, infine alla vibrazione pura e al caos dei rumori liberati. È sintomatico che Boris Bilinskij, nelle sue ricerche della “continuità delle forme e dei colori senza soggetto” illustra giustamente Débussy e Ravel presso i quali appare già un mosaico musicale, un susseguirsi di pezzi senza necessità di un legame organico.
Il pittore Tchourlandsky (prima di finire la sua vita in una casa di cura) traduce con i suoi “quadri-sonate” senza soggetto la sua “sensibilità musicale del mondo”. Malevič ha sentito in lui una mistica della notte dove il mondo si ricrea come potrebbe esserlo. È la “mezzanotte” mallarmiana e la sua “goccia di nulla”. Creatore del “suprematismo”, Malevič cerca l’intensità suprema dell’“assenza”. Lo spazio liberato da ogni trama diviene un “contenitore senza dimensioni”, senza componenti spaziali, una forma a priori pura senza soggetto né oggetto. In lui la diagonale traduce l’idea del movimento nella vacuità. È una astrazione depurata all’estremo che trova il suo segno in un quadrato nero su fondo bianco. Scrive «Die Gegen standlose Welt», “Il mondo della non-rappresentazione” e parla del mondo dell’idealità pura spogliata di qualunque realtà rappresentabile. Franz Kupka, studia teologia, impara l’ebraico per leggere la Bibbia e fa il medium in sedute spiritiche. Orfista, dipinge la “Fuga in rosso e blu” e trasferisce le sue esperienze metafisiche servendosi di segni geometrici e di un’affettività astratta. Il mondo cerebrale e ideale viene opposto violentemente al mondo reale e percepito. I piani verticali respingono il peso dello spazio.
In tutti questi artisti, la pittura “non-figurativa” conosce solo proporzioni e rapporti costruttivi, una ritmica dei piani colorati pura, linee discorsive e valori plastici.
Kandinskij ha descritto questo misticismo esangue nel libro, filosoficamente assai debole, intitolato “Sullo spiritualismo nell’arte”. Mondrian, calvinista olandese, membro della “Società di Teologia”, cerca il trascendentale nello stretto rapporto delle linee che si incontrano all’angolo destro. In P. Klee si sente, più che negli altri, la sete di penetrare la sfera primordiale, il “tohû wà bohù”, l’abisso senza forma né contenuto di cui parla la Bibbia all’inizio, la potenzialità pura e ideale. Egli pensa che gli artisti eletti scendano sino a quel luogo segreto dove le potenze primordiali alimentano ogni possibile evoluzione. Per Klee, la forma attuale non è il solo mondo possibile. Si indovina la tentazione demiurgica di intuire e di immaginare un cosmo diverso da quello che Dio ha creato. Alla stessa stregua il surrealismo del tipo di André Breton, di Max Ernst, di Picabia, forza le porte dell’irrazionale con “disorientamenti sistematici” e la curiosità stimolata cerca il nocciolo segreto delle cose – “Ding an sich” – nell’astrazione delle cose stesse. Ebbene, San Gregorio di Nazanzio avverte: “Maledizione all’intelligenza che ha guardato con occhio subdolo i misteri di Dio”[3].
Per Iavlenskij, amico di Kandiskij, l’arte esprime “la nostalgia di Dio”. La diagonale di Malevič o il movimento delle linee che si intersecano all’angolo destro, si fermano davanti al quadrato, secondo Mondrian, segno geometrico ideale dell’Assoluto. Nei grandi fondatori dell’arte astratta, il desiderio di penetrare dietro il velo del mondo reale è visibilmente di natura “teosofica”, occulta. “Allo stadio superiore – scrive P. Klee – c’è il mistero”. Una nuova era della conoscenza di Dio? Può darsi, ma essa si colloca fuori dal Dio incarnato, è una conoscenza dell’ideale e astratta deità fuori dal Soggetto divino…
Più inquietanti sono le forme dell’“esistenzialismo artistico”. L’inconscio sogna lo spazio curvo e la quarta dimensione. Ma la natura potrebbe pure vendicarsi ingannando la curiosità degli uomini. L’immaginazione inebriata delle sue illimitate potenzialità introduce l’allucinazione e il delirio per giungere all’arte grezza di Dubuffet, all’arte primitiva dei malati mentali, agli “incubi mistici” di Hernandez, al bestiario di Kopac, ai “costruttori chimerici” di Giraud, al primitivismo assoluto. Ricordiamo le parole di André Gide: “l’Arte nasce da costrizioni e muore di libertà”. La violenza sessuale ossessiona pittori come Goetz e Ossorio, o scultori come Pevsner, Arp, Stahly, Etienne Martin. Accanto ai “collages” e alla scrittura automatica, l’illogismo di Max Ernst o di Dalì sposa la precisione fotografica degli oggetti con il cambiamento della loro funzione, per esempio “l’orologio liquido”. In Pollok e in tutta la scuola americana Action Painting l’automatismo della velocità ha come scopo quello di escludere la coscienza. I colori vengono gettati sulla tela senza toccarla per evitare qualsiasi intenzione, anche non cosciente.
Georges Mathieu disegna in stato di trance, su una pedana, col suono della musica concreta. Un’immensa tela – 10 x 2 – viene coperta nello spazio di un’ora. Si bucano i tubetti, ne escono fuori i colori che si proiettano, per così dire, da soli, conformi all’ambiente magico di trance. Alla fine, l’artista giace in uno stato completo di prostrazione. La spontaneità impulsiva delle viscere sfiora il caos pre-cosciente. Gli ultimi grandi pannelli di Bernard Buffet, per via di una profanazione voluta, sono i più sintomatici. Il loro unico soggetto mostra uccelli mostruosi che, con sguardo di una immobilità cadaverica, calpestano un corpo di donna, nudo. Tutti veli, anche anatomici, vengono strappati e le posture, ben studiate, giungono alla profanazione massima ed oscena del mistero dell’essere umano. Davanti a questi pannelli, con il loro odore specifico di putrefazione, viene alla memoria un passo della “Scala” di San Giovanni Climaco: “avendo visto la bellezza femminile ha pianto di gioia ed ha lodato il Creatore… Un uomo siffatto è già risuscitato prima della Resurrezione di tutti”.
Se si vuole immaginare la decorazione murale dell’inferno, oggi un certo tipo di arte risponde alla bisogna. Il biblico “Astuto”, che Lutero traduce con “colui che arriccia il naso”, ha ridotto la sua esistenza all’amara professione di burlarsi dell’essere. Lo si può fare anche in buona coscienza e gusto, da artista, in modo impercettibile per sé e per gli altri. Si tratta di una resistenza “all’immagine e somiglianza di Dio”, ancor di più, al Dio “Filantropo” che tesse con la sua luce il suo volto umano. L’arte astratta, per sua natura, non contiene nulla in sé per conoscere “la Parola che si è fatta carne”. Cosa può dire sull’Eucarestia, sulla trasfigurazione del corpo, sulla resurrezione della carne? Una luce taborica senza Cristo, la luminosità dei santi senza i santi, sono raggio prigioniero di uno specchio magico, segno infernale di non pienezza.

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Tra i vari e possibili approcci filosofici, la concezione sofiologica è quella più idonea a definire la natura dell’arte astratta. Secondo questa dottrina, il suo fondamento “ideale”, nel senso platonico del termine, si trova nella sua espressione più classica, ben più in profondità dell’aspetto fenomenale, mobile e cangiante dell’essere. Esso è costituito da principi ideali, normativi, che vengono pure chiamati i “logoi” delle cose e degli esseri. Questo mondo ideale, che esiste al di sopra della forma temporale e spaziale dell’essere a cui dà una struttura e che permea, viene chiamato Sofia (Sapienza) creata. Creata e terrena, essa è a immagine della Sofia celeste e non creata la quale, secondo l’insegnamento patristico, raccoglie le idee di Dio, il suo volere creatore sul mondo. Le due Sofie sono radicalmente separate senza possibilità di confusione. La realtà ideale, creata, ontologicamente non separabile dalle cose, condiziona e struttura l’unità concreta del mondo e lega il molteplice in cosmo.
Ogni conoscenza consiste nel risalire dalle cose empiriche allo loro struttura intelligibile ed a cogliere la loro unità. La presenza dell’ideale in una forma sensibile, la loro armonia, condizionano l’aspetto estetico dell’essere che ogni artista legge e commenta. Ebbene, grazie alla libertà del suo spirito, l’uomo può trasgredire le regole, può anche invertire i rapporti. Proprio perché la sua libertà è massima nella sfera estetica la Bellezza colpisce il cuore umano senza un necessario legame con il Bene e con la Verità.
Cercando l’infinito, l’eroe umano può fermarsi alla Sofia creata, identificarla con Dio, divinizzare la natura. Ben oltre, in questa identificazione luciferina, può anche ritenersi la fonte dell’esplosione cosmica, ritenersi l’Infinito facendo a meno di Dio.
Il lato ideale, intelligibile esiste solo per fondare e unire il mondo visibile. Fuori dalla sua “biosfera di incarnazione”, l’ideale non ha né senso, né fine, né ragione di esistere. L’arte giustamente è un sistema di espressioni, una lingua particolare i cui elementi si collegano alla Sofia e la esprimono proprio come le parole esprimono il pensiero. Contrariamente ai segni convenzionali, le espressioni artistiche offrono il loro contenuto come un messaggio segreto. Rispetto all’icona, esse si possono accostare tutt’al più ai simboli religiosi, luogo in cui il simbolico è sempre presente. In greco le parole che indicano il diavolo e il simbolo hanno la stessa radice, ma il diavolo separa ciò che il simbolo unisce. Un simbolo è il ponte che lega il visibile all’invisibile, il terrestre al celeste, l’empirico all’ideale e veicola l’uno verso l’altro.
Gli iconoclasti credevano molto correttamente ai simboli, ma a causa della loro concezione “ritrattistica” dell’arte (imitazione, copia), negavano all’icona il carattere simbolico e di conseguenza non credevano alla presenza del Modello nell’immagine. Essi non arrivavano a cogliere che accanto alla rappresentazione visibile di una realtà visibile (copia, ritratto), esiste un’arte completamente diversa, nella quale l’immagine presenta il “visibile dell’invisibile”, e che si rivela come simbolo autentico. Essi avrebbero accettato più volentieri l’arte astratta con la sua raffigurazione geometrica, per esempio la croce che non portasse il crocifisso. Ma, la somiglianza iconica contrasta radicalmente con tutto ciò che è ritratto e si collega solamente all’ipostasi (la persona) e al suo corpo celeste. Per questo motivo è impossibile l’icona di un vivente e qualsiasi ricerca di somiglianza carnale, terrestre, viene esclusa. Nell’iconosofia, l’ipostasi “inipostatizza”, rende propria, non una sostanza cosmica (tavola di legno, colore), ma la somiglianza in sé, la forma ideale, la figura celeste dell’ipostasi viene ad assumere il corpo trasfigurato rappresentato nell’icona.
Il Pleroma verso cui tutto protende attualizzerà la sintesi escatologica “del terrestre e del celeste” (I Corinti 15, 42-49). L’arte anticipa profeticamente. Attraverso l’imperfezione attuale, essa profila la perfezione, racconta il mistero dell’essere. Ma se lascia la “biosfera dell’incarnazione” cambia natura e, quando coscientemente rifiuta ogni somiglianza, s’inabissa nell’astratto.
Sappiamo che la filosofia matematica cerca il pensiero puro spogliato di qualsivoglia forma antropomorfica. La scienza affronta sempre di più nozioni che superano la capacità umana di comprensione. L’arte astratta si oppone violentemente all’arte figurativa: “Giuro alla Natura che mai più la rappresenterò” dichiara Kupka. Certamente la cosa senza contenuto sofiologico è piatta ed assurda come le tele di Fougeron e quelle del “realismo socialista”. Ma l’ideale senza la cosa è cieco ed insignificante. È come se l’arte si esercitasse su entelechie di Aristotele che avrebbero perduto il luogo della loro attualizzazione.
Dal punto di vista sofiologico è evidente che l’arte astratta (ab-trahere, tirare, estrarre dal reale) si esercita sulla Sofia dissacrata, deviata dalla sua destinazione, sconvolta nella sua stessa essenza, nel suo rapporto con il reale, fatto che la priva del suo fine e la rende indecifrabile poiché la Sofia ha perduto il suo corpo. Da quel momento, è una falsa magia dell’istante. Dei fantasmi possono sempre offrire un godimento estetico. Ossessionano le vestigia del mondo frammentato ma non offrono che un assai magro interesse. Kandiskij o Paul Klee possono toccare una grande musicalità sol perché sono dotati di genio, ma l’uomo che osserva queste opere non è mai accolto in questo mondo devastato di qualunque presenza e volto. L’occhio può ascoltare le voci del silenzio, l’assenza colorata non fa che distrarre e alla fine stancare. Si può entrare in comunione, accennare ad un gesto di tenerezza per una di quelle donne dipinte da Picasso e definite dal P. Sergio Bulgakov “cadaveri della bellezza”, si può provare desiderio di pregare davanti al quadrato di Malevič? L’arte astratta si esercita sull’arcobaleno estrapolato dal suo contesto cosmico. Si può ammirare il suo spettro solare, analizzarlo e variare all’infinito i suoi colori, ma esso non unisce più il cielo alla terra, non dice nulla di essenziale all’uomo. Ma l’arcobaleno non è un gioco di colori né un oggetto estetico; secondo la Bibbia è il grande simbolo dell’alleanza tra Dio e l’uomo. Nell’iconografia, l’arcobaleno regge il corpo di Cristo Pantocratore nel momento della sua gloriosa venuta. L’astrazione recide le vibrazioni luminose della loro fonte, dell’Oriente liturgico. Cosa può rivelare all’uomo orante che si prosterna davanti al lampo folgorante del volto divino e che dice: “Nella luce conosceremo ogni luce…”. Bello non è solo ciò che piace; più di una festa per gli occhi, esso nutre lo spirito e l’illumina.
Le esposizioni mostrano che le forme moderne non sopravvivono. Più la forma è vuota di contenuto sensato più è illimitata nelle sue combinazioni, nei suoi “come”; ma, dal momento in cui viene chiamata a dire “cosa”, a rivelare una “quiddità”, una soltanto coincide con il suo contenuto: che l’illimitato delle espressioni corrisponde al limitato dell’anima. Di contro, l’illimitato divino assume la sola ed unica espressione dell’Incarnazione: “Certo, per Tua natura, sei illimitato, Signore, ma hai voluto limitarti sotto il velo della carne”. Dio è presente nell’unico volto di Cristo, e con Lui tutto l’umano. La ieraticità dei santi, la loro immobilità iconografica quasi rigida, questa limitazione esteriore della forma svela l’illimitatezza del loro spirito. Dalla loro posizione frontale, senza alcun artifizio, il loro sguardo, ci brucia senza consumarci, come il roveto ardente.

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Nel suo valore intrinseco di simbolo, l’icona va oltre l’arte, ma anche la spiega. Noi possiamo ammirare senza riserve le opere dei grandi Maestri di ogni secolo e farne la vetta dell’Arte. Come la Bibbia si colloca al di sopra della letteratura e della poesia universali, l’Icona si discosta un po’. Salvo alcune eccezioni, l’arte “tout court” sarà formalmente sempre più perfetta dell’arte degli iconografi perché quest’ultima, giustamente, non cerca quella perfezione. Il solo eccesso nocerebbe all’icona, rischierebbe di distogliere lo sguardo interno dalla rivelazione del mistero, come una poesia eccessiva e ricercata nocerebbe alla potenza della parola biblica. La bellezza di una icona consiste in un equilibrio gerarchico estremamente esigente. Entro un certo limite e immediatamente, altro non è che un semplice disegno; al di là e secondo il genio contemplativo dell’iconografo, l’icona stessa impone e irradia l’intrinseca bellezza conforme al soggetto.
Espressiva, l’arte può esprimere contenuti diversi. Libera, può coincidere con l’icona – come una tela di Rembrandt – o allontanarsi da ogni contenuto religioso; al limite, può passare alla funzione puramente segnica o divenire soltanto oggetto estetico, arte per arte, decorazione, pesino può cambiare la sua funzione e cessare di essere arte.
La grande arte figurativa ci offre la visione trasfigurante dei Maestri, coglie la Sofia terrestre nell’armonia dei suoi due aspetti, reale e ideale, la canta e costruisce il Tempio sofianico. Ma questo, per diventare carne trasfigurata, teofanica, deve aprirsi coscientemente, con la fede e la santità dell’uomo alla luce divina, alla Saggezza non creata. La Sofia creata non è che l’ambiguo specchio della Gloria, offuscato dalla caduta, e per questo l’arte stessa rimane profondamente ambigua. Per incontrare la Bellezza faccia a faccia, per arrivare a toccare lo splendore energetico della grazia, occorre varcare le porte segrete del Tempio mediante una trascendenza, un superamento del sensibile e dell’intelligibile: è l’Icona. Non è più l’invocazione ma la Parusia, la Bellezza viene incontro al nostro spirito non per rapirlo ma per aprirlo alla vicinanza ardente del Dio personale. È la discesa della Saggezza celeste che fa della Sofia terrestre il suo ricettacolo splendente, il Roveto ardente. L’arte dell’icona non è autonoma, è inclusa nel Mistero liturgico e sfavilla di presenze sacramentali, fa propria una certa astrazione. Nella sua libertà di composizione, dispone a piacimento gli elementi di questo mondo nella sottomissione totale allo spirituale. Può rappresentare la Vergine dalle tre braccia, far camminare un martire mentre tiene la sua testa tra le mani, dare i tratti di un cane ad uno perduto in Cristo, mettere il cranio di Adamo ai piedi della Croce, personificare il cosmo sotto le sembianze di un vecchio re ed il Giordano in quelle di un peccatore, rovesciare la prospettiva e fare culminare in un solo punto tutti i tempi e tutti gli spazi. Qui la luce è più dell’oggetto, serve da materia colorante per l’icona, la rende luminescente in sé, rendendo inutile ogni sorgente luminosa, come nella Città dell’Apocalisse.
Senza poter provarlo, è evidente che l’arte astratta ha origine nell’iconografia, negli arabeschi musulmani, nel trascendentale. Cogliere questa corrispondenza iniziale, è come riaccendere la cattiva coscienza reciproca. Certo, la bellezza è stata universalmente prostituita e la contemplazione dissacrata.
L’accademismo dell’arte, così come l’accademismo della teologia e della predicazione, l’accademismo della vita cristiana hanno suscitato una giusta rivolta ed una ricerca appassionata e assai tragica del vero. Ma, ogni rivolta contiene in sé la propria trascendenza, l’inferno non esiste se non per la luce che splende nelle tenebre; la speranza del contrario, la dialettica stessa della metanoia infernale costituisce la punta avanzata del segreto soffrire. L’immensa impresa di demolizione inerente l’arte astratta è una forma di ascetismo, di purificazione, di aerazione che dobbiamo ammettere con timoroso rispetto. Risponde alla purezza dell’anima, alla nostalgia dell’innocenza perduta, al desiderio di trovare almeno un raggio o una scintilla di colore che non sia sporcata da una figura complice ed equivoca di quaggiù. Nella maggiore profondità delle aspirazioni, il rifiuto delle forme di questo mondo non è l’esigenza imperiosa del “completamente diverso”. Grida l’impossibilità di vivere da artista in un mondo ateo e chiuso, di esercitarsi sulle “nature morte” che non sono più materia di resurrezione. Per questo l’arte moderna è significativa. Ha portato la liberazione da ogni pregiudizio, ha soppresso gli ornamenti e gli accessori, ha demolito gli orrori dell’accademismo degli ultimi secoli, ha ucciso il cattivo gusto del XIX secolo e, in questo, è rinfrescante. La forma esterna viene disfatta. Ma a questo livello nessuna evoluzione è più possibile, la chiave delle corrispondenze segrete è perduta, la rottura tra il sacro trascendente divino e il religioso immanente umano diviene così radicale che non si può più semplicemente passare da un piano ad un altro. L’accesso alla forma interna, “sofianica” e uraniana, la contemplazione per trasparenza dell’invisibile nel visibile è sbarrata dall’angelo con la spada fiammeggiante. Alla luce delle ultime realizzazioni, solo il battesimo di fuoco può fare risuscitare l’arte[4].
La battuta di arresto dell’iconografia, nel suo stesso slancio, a partire dal XVII secolo, ha una schiacciante responsabilità per il destino dell’arte moderna. Con la sua “impasse”, quest’arte esprime l’attesa disperata di un miracolo. Ma, come ogni miracolo, questo è imprevedibile nella forma. Forse sarà nello sguardo virginale di un santo: in una manciata di humus, egli vedrà la traccia folgorante dello Spirito che, tanto tempo fa, da questa terra umida, scolpì il volto del primo uomo affinché accogliesse la luce dello sguardo divino.
Più che mai l’iconosofia moderna è chiamata a ritrovare la potenza creatrice degli antichi iconografi e ad uscire dall’immobilismo dell’arte dei “copisti”. Se il mondo ha perduto ogni stile quale espressione dell’universale umano e della comunione spirituale delle anime, l’immagine di Dio oggi impone il suo per interpretare alla sua luce il nostro tempo. Fedele alle sue origini, ma briciola dell’eone pentecostale, l’icona saprà chiudere il cerchio sacro sull’evangelo della Parusia e del volto umano di Dio trino? Oggi più di ieri la liturgia ci insegna che l’arte si deteriora non perché è figlia del suo tempo, ma perché è refrattaria alle sue funzioni sacerdotali: rendere l’arte teofanica, mettere l’icona, l’Angelo della Presenza, nel cuore delle speranze ingannate e sepolte. In “abito variopinto” di tutti i colori, Bellezza sofianica della Chiesa, il suo volto è umano: Donna vestita di sole, “gioia di tutte le gioie”, “colei che combatte ogni tristezza” e sfavilla di tenerezza indefettibile.

Traduzione dal Francese del prof. G. M., Palermo, agosto 2006.

I funerali di Giovanni Paolo II, foto da un aereo

I funerali di Giovanni Paolo II, foto da un aereo dans immagini

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MESSA ESEQUIALE PER IL DEFUNTO ROMANO PONTEFICE GIOVANNI PAOLO II (8 aprile 2005) OMELIA CARD. RATZINGER

http://www.vatican.va/gpII/documents/homily-card-ratzinger_20050408_it.html

MESSA ESEQUIALE PER IL DEFUNTO ROMANO PONTEFICE GIOVANNI PAOLO II (8 aprile 2005)

OMELIA DELL’EM.MO CARD. JOSEPH RATZINGER

Piazza San Pietro

Venerdì, 8 aprile 2005

« Seguimi » dice il Signore risorto a Pietro, come sua ultima parola a questo discepolo, scelto per pascere le sue pecore. « Seguimi » – questa parola lapidaria di Cristo può essere considerata la chiave per comprendere il messaggio che viene dalla vita del nostro compianto ed amato Papa Giovanni Paolo II, le cui spoglie deponiamo oggi nella terra come seme di immortalità – il cuore pieno di tristezza, ma anche di gioiosa speranza e di profonda gratitudine.
Questi sono i sentimenti del nostro animo, Fratelli e Sorelle in Cristo, presenti in Piazza S. Pietro, nelle strade adiacenti e in diversi altri luoghi della città di Roma, popolata in questi giorni da un’immensa folla silenziosa ed orante. Tutti saluto cordialmente. A nome anche del Collegio dei Cardinali desidero rivolgere il mio deferente pensiero ai Capi di Stato, di Governo e alle delegazioni dei vari Paesi. Saluto le Autorità e i Rappresentanti delle Chiese e Comunità cristiane, come pure delle diverse religioni. Saluto poi gli Arcivescovi, i Vescovi, i sacerdoti, i religiosi, le religiose e i fedeli tutti giunti da ogni Continente; in modo speciale i giovani, che Giovanni Paolo II amava definire futuro e speranza della Chiesa. Il mio saluto raggiunge, inoltre, quanti in ogni parte del mondo sono a noi uniti attraverso la radio e la televisione in questa corale partecipazione al solenne rito di commiato dall’amato Pontefice.
Seguimi – da giovane studente Karol Wojtyła era entusiasta della letteratura, del teatro, della poesia. Lavorando in una fabbrica chimica, circondato e minacciato dal terrore nazista, ha sentito la voce del Signore: Seguimi! In questo contesto molto particolare cominciò a leggere libri di filosofia e di teologia, entrò poi nel seminario clandestino creato dal Cardinale Sapieha e dopo la guerra poté completare i suoi studi nella facoltà teologica dell’Università Jaghellonica di Cracovia. Tante volte nelle sue lettere ai sacerdoti e nei suoi libri autobiografici ci ha parlato del suo sacerdozio, al quale fu ordinato il 1° novembre 1946. In questi testi interpreta il suo sacerdozio in particolare a partire da tre parole del Signore. Innanzitutto questa: « Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga » (Gv 15, 16). La seconda parola è: « Il buon pastore offre la vita per le pecore » (Gv 10, 11). E finalmente: « Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore » (Gv 15, 9). In queste tre parole vediamo tutta l’anima del nostro Santo Padre. E’ realmente andato ovunque ed instancabilmente per portare frutto, un frutto che rimane. « Alzatevi, andiamo! », è il titolo del suo penultimo libro. « Alzatevi, andiamo! » – con queste parole ci ha risvegliato da una fede stanca, dal sonno dei discepoli di ieri e di oggi. « Alzatevi, andiamo! » dice anche oggi a noi. Il Santo Padre è stato poi sacerdote fino in fondo, perché ha offerto la sua vita a Dio per le sue pecore e per l’intera famiglia umana, in una donazione quotidiana al servizio della Chiesa e soprattutto nelle difficili prove degli ultimi mesi. Così è diventato una sola cosa con Cristo, il buon pastore che ama le sue pecore. E infine « rimanete nel mio amore »: Il Papa che ha cercato l’incontro con tutti, che ha avuto una capacità di perdono e di apertura del cuore per tutti, ci dice, anche oggi, con queste parole del Signore: Dimorando nell’amore di Cristo impariamo, alla scuola di Cristo, l’arte del vero amore.
Seguimi! Nel luglio 1958 comincia per il giovane sacerdote Karol Wojtyła una nuova tappa nel cammino con il Signore e dietro il Signore. Karol si era recato come di solito con un gruppo di giovani appassionati di canoa ai laghi Masuri per una vacanza da vivere insieme. Ma portava con sé una lettera che lo invitava a presentarsi al Primate di Polonia, Cardinale Wyszyński e poteva indovinare lo scopo dell’incontro: la sua nomina a Vescovo ausiliare di Cracovia. Lasciare l’insegnamento accademico, lasciare questa stimolante comunione con i giovani, lasciare il grande agone intellettuale per conoscere ed interpretare il mistero della creatura uomo, per rendere presente nel mondo di oggi l’interpretazione cristiana del nostro essere – tutto ciò doveva apparirgli come un perdere se stesso, perdere proprio quanto era divenuto l’identità umana di questo giovane sacerdote. Seguimi – Karol Wojtyła accettò, sentendo nella chiamata della Chiesa la voce di Cristo. E si è poi reso conto di come è vera la parola del Signore: « Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece l’avrà perduta la salverà » (Lc 17, 33). Il nostro Papa – lo sappiamo tutti – non ha mai voluto salvare la propria vita, tenerla per sé; ha voluto dare se stesso senza riserve, fino all’ultimo momento, per Cristo e così anche per noi. Proprio in tal modo ha potuto sperimentare come tutto quanto aveva consegnato nelle mani del Signore è ritornato in modo nuovo: l’amore alla parola, alla poesia, alle lettere fu una parte essenziale della sua missione pastorale e ha dato nuova freschezza, nuova attualità, nuova attrazione all’annuncio del Vangelo, proprio anche quando esso è segno di contraddizione.
Seguimi! Nell’ottobre 1978 il Cardinale Wojtyła ode di nuovo la voce del Signore. Si rinnova il dialogo con Pietro riportato nel Vangelo di questa celebrazione: « Simone di Giovanni, mi ami? Pasci le mie pecorelle! » Alla domanda del Signore: Karol mi ami?, l’Arcivescovo di Cracovia rispose dal profondo del suo cuore: « Signore, tu sai tutto: Tu sai che ti amo ». L’amore di Cristo fu la forza dominante nel nostro amato Santo Padre; chi lo ha visto pregare, chi lo ha sentito predicare, lo sa. E così, grazie a questo profondo radicamento in Cristo ha potuto portare un peso, che va oltre le forze puramente umane: Essere pastore del gregge di Cristo, della sua Chiesa universale. Non è qui il momento di parlare dei singoli contenuti di questo Pontificato così ricco. Vorrei solo leggere due passi della liturgia di oggi, nei quali appaiono elementi centrali del suo annuncio. Nella prima lettura dice San Pietro – e dice il Papa con San Pietro – a noi: « In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto. Questa è la parola che egli ha inviato ai figli d’Israele, recando la buona novella della pace, per mezzo di Gesù Cristo, che è Signore di tutti » (Atti 10, 34-36). E, nella seconda lettura, San Paolo – e con San Paolo il nostro Papa defunto – ci esorta ad alta voce: « Fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete saldi nel Signore così come avete imparato, carissimi » (Fil 4, 1).
Seguimi! Insieme al mandato di pascere il suo gregge, Cristo annunciò a Pietro il suo martirio. Con questa parola conclusiva e riassuntiva del dialogo sull’amore e sul mandato di pastore universale, il Signore richiama un altro dialogo, tenuto nel contesto dell’ultima cena. Qui Gesù aveva detto: « Dove vado io voi non potete venire ». Disse Pietro: « Signore, dove vai? ». Gli rispose Gesù: « Dove io vado per ora tu non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi » (Gv 13, 33.36). Gesù dalla cena va alla croce, va alla risurrezione – entra nel mistero pasquale; Pietro ancora non lo può seguire. Adesso – dopo la risurrezione – è venuto questo momento, questo « più tardi ». Pascendo il gregge di Cristo, Pietro entra nel mistero pasquale, va verso la croce e la risurrezione. Il Signore lo dice con queste parole, « … quando eri più giovane… andavi dove volevi, ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi » (Gv 21, 18). Nel primo periodo del suo pontificato il Santo Padre, ancora giovane e pieno di forze, sotto la guida di Cristo andava fino ai confini del mondo. Ma poi sempre più è entrato nella comunione delle sofferenze di Cristo, sempre più ha compreso la verità delle parole: « Un altro ti cingerà… ». E proprio in questa comunione col Signore sofferente ha instancabilmente e con rinnovata intensità annunciato il Vangelo, il mistero dell’amore che va fino alla fine (cf Gv 13, 1).
Egli ha interpretato per noi il mistero pasquale come mistero della divina misericordia. Scrive nel suo ultimo libro: Il limite imposto al male « è in definitiva la divina misericordia » (« Memoria e identità », pag. 70). E riflettendo sull’attentato dice: « Cristo, soffrendo per tutti noi, ha conferito un nuovo senso alla sofferenza; l’ha introdotta in una nuova dimensione, in un nuovo ordine: quello dell’amore…E’ la sofferenza che brucia e consuma il male con la fiamma dell’amore e trae anche dal peccato una multiforme fioritura di bene » (pag. 199). Animato da questa visione, il Papa ha sofferto ed amato in comunione con Cristo e perciò il messaggio della sua sofferenza e del suo silenzio è stato così eloquente e fecondo.
Divina Misericordia: Il Santo Padre ha trovato il riflesso più puro della misericordia di Dio nella Madre di Dio. Lui, che aveva perso in tenera età la mamma, tanto più ha amato la Madre divina. Ha sentito le parole del Signore crocifisso come dette proprio a lui personalmente: « Ecco tua madre! ». Ed ha fatto come il discepolo prediletto: l’ha accolta nell’intimo del suo essere (eis ta idia: Gv 19, 27) – Totus tuus. E dalla madre ha imparato a conformarsi a Cristo.
Per tutti noi rimane indimenticabile come in questa ultima domenica di Pasqua della sua vita, il Santo Padre, segnato dalla sofferenza, si è affacciato ancora una volta alla finestra del Palazzo Apostolico ed un’ultima volta ha dato la benedizione « Urbi et orbi ». Possiamo essere sicuri che il nostro amato Papa sta adesso alla finestra della casa del Padre, ci vede e ci benedice. Sì, ci benedica, Santo Padre. Noi affidiamo la tua cara anima alla Madre di Dio, tua Madre, che ti ha guidato ogni giorno e ti guiderà adesso alla gloria eterna del Suo Figlio, Gesù Cristo nostro Signore. Amen. 

DIETRICH BONHOEFFER († 9 aprile 1945)

http://www.filosofico.net/bonhoeffer.htm

DIETRICH BONHOEFFER († 9 aprile 1945)

A cura di Diego Fusaro

Con l’avvento del nazismo al potere, la Chiesa protestante si adattava a convivere con esso, seguendo l’insegnamento impartito da Lutero stesso, secondo cui il vero cristiano deve essere fedele al potere temporale. Tuttavia, la vita e la personalità eroica di Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) testimoniarono l’assoluta incompatibilità fra il dettato evangelico e il torbido e fosco paganesimo del regime hitleriano. Bonhoeffer fu infatti tra i principali promotori della cosiddetta  » Chiesa confessante che rappresentò in Germania la resistenza cristiana al nazismo e, coinvolto nel fallito attentato a Hitler compiuto dal gruppo di Von Stauffenberg e Canaris, venne impiccato nel campo di concentramento di Flossenburg. La meditazione teologica di Bonhoeffer appare intimamente coerente con la sua vita in quanto, mentre s’innesta in modo conseguente sul filone barthiano e sulla nozione dell’assoluta alterità di Dio, svolge un tema lasciato da Barth in posizione secondaria: quello dell’ impegno concreto dell’uomo nella storia . In una situazione in cui tutto, nel mondo moderno, porta l’uomo a non riconoscersi più nel messaggio cristiano, la riflessione di Bonhoeffer muove dalla domanda su come sia ancora possibile professare il Vangelo. Di qui il suo sforzo, da un lato, di accettare sino in fondo l’autonomia dell’umana, la sua « maggiore età », cioè il retaggio della cultura moderna dall’illuminismo in poi e, dall’altro, di prospettare la possibilità di un cristianesimo « non religioso », che richieda di vivere il Vangelo in un mondo totalmente secolarizzato e lontano da Dio.  » Vivere in nome di Dio e di fronte a Dio senza Dio  » è la formula in cui si condensa questo tentativo di accogliere senza mezzi termini le istanze dell’umanesimo ateo e di scorgere la presenza di Dio non nella debolezza, ma nella pienezza e nella forza dell’umano. Nelle sue opere (fra le quali le più note sono certamente l’ « Etica », il capolavoro incompiuto, e la densa raccolta di lettere degli ultimi anni, pubblicata postuma nel 1951 dal titolo « Resistenza e resa ») tutto ruota intorno alla domanda di fondo: chi è Cristo oggi per noi, abitatori di un mondo che ha imparato a fare a meno dell’ipotesi Dio poiché è finalmente diventato « adulto? Oppure, detto in altri termini, come e perché volgerci ancora a Dio, quando la nostra attuale condizione è di poterne fare a benissimo a meno? Non vi è infatti alcun dubbio, per Bonhoeffer, che non vi sia più alcun bisogno di un Dio « tappabuchi » cui l’uomo ricorra per darsi sicurezza nelle sue crisi e nelle sue debolezze.  » Io vorrei parlare di Dio non ai confini ma nel centro, non nella debolezza ma nella forza, non nella morte e nella colpa ma nella vita e nella bontà dell’uomo. Giunto ai limiti, mi pare meglio tacere e lasciare irrisolto l’irrisolubile. La fede nella risurrezione non è la soluzione del problema della morte. L’aldilà di Dio non è l’aldilà delle nostre possibilità di conoscenza. La trascendenza della gnoseologia non ha nulla a che fare con la trascendenza di Dio. Egli è al di là in mezzo alla nostra vita. La chiesa non risiede là dove la capacità dell’uomo non ce la fa più, ai confini, ma in mezzo al villaggio  » (« Resistenza e resa », lettera 16.7 del 1944). Ora, questa operazione che rassicura l’uomo nelle sue incertezze era propria della religione, la quale, su questo piano, non ha più nulla da dire. E’ dunque necessario abbandonare la religione come via d’accesso a Dio; ma ciò non vuol dire abbandonare la fede , che può essere davvero ritrovata solo sganciandola dal suo rapporto religioso. Bonhoeffer procede così ad una radicale distinzione tra religione e fede . Se la religione aveva fatto leva sulla debolezza dell’uomo per convincerlo della necessità dell’ipotesi Dio, la fede ricorderà invece che Gesù Cristo ci ha chiamati alla vita e non ha inteso fondare una religione (ipotesi radicalmente opposta a quella di Nietzsche, per cui la fede cristiana ammazza la vita). Si tratta, insomma, di scoprire il nuovo (o il vero) volto di Dio in un quadro di riferimento dove la rinuncia cosciente del « Deus ex machina », che è un residuo pagano, conduce a vedere nella vicenda cristica la presenza concreta e storica di un Dio che si è abbandonato al potere degli uomini, salvandoli con la sua morte e con la sua sofferenza. E’ dunque per seguire l’esempio di Cristo che gli uomini hanno non solo il diritto ma il dovere di assumere sino in fondo la loro umanità, di realizzare in pieno quella vita che Cristo ha riscattato per loro con la morte: è per questo che un’ etica cristiana non deve respingere la vita, ma affermarla ed esserle fedele. E’ questo il tema che percorre l’ « Etica » di Bonhoeffer il quale, nel rifiutare ogni forma di morale astratta e di legalismo etico, muove (anche sulla scorta di un’operazione d’innesto del pensiero di Nietzsche sul tronco del Vangelo) a richiamare l’uomo all’amore per la vita e alla responsabilità che esso comporta. Nel suo amore per il mondo, Cristo lo riconduce al Padre, ma proprio così ne fonda la libertà e la responsabilità, chiamando l’uomo a un impegno che in ogni scelta concreta riaffermi e rinforzi l’amore per tutta la realtà. L’uomo, dunque, non può e non deve rifiutare le realtà « penultime » (o umane e naturali) in nome di quelle « ultime » (o sovrannaturali) ma, pur con l’occhio rivolte alle seconde, deve agire completamente all’interno delle prime. L’atteggiamento contrario non è che un autoinganno o menzogna, poiché è falso promettere il regno di Dio laddove non siano stati soddisfatti i bisogni primari dell’uomo, sia fisici sia morali sia sociali, e non ci si sia impegnati fino in fondo per correggere le storture del mondo. Compito dell’etica cristiana sarà allora non di distogliere l’uomo da questo impegno, ma di ricordargli che soltanto esercitandolo egli potrà aprirsi la strada verso la comprensione e la conquista delle realtà « ultime »; ma, al tempo stesso, di rammentargli che il rischio dell’agire nella storia sta nella permanente tentazione di farsi fine a se stesso, escludendo le realtà ultime e affermando semplicemente l’ideologia dell’umanesimo ateo. Insomma, per trovare Dio non è necessario espungere l’uomo, ma per trovar l’uomo non bisogna espungere Dio: lo sforzo dell’etica di Bonhoeffer sta tutto nel tentativo di affermare insieme Dio e l’uomo , e proprio per questo essa può dirsi un’ etica cristologica , il che ne rende illegittime le ricorrenti letture in chiave unilateralmente mondana e immanentistica.

Publié dans:Dietrich Bonhoeffer |on 8 avril, 2015 |Pas de commentaires »

La traversata del Mar Rosso e il canto di Myriam

La traversata del Mar Rosso e il canto di Myriam dans immagini sacre 14%20HAGGADAH%20D%20OR%20EPISODES%20DE%20LA%20PAQUE

http://www.artbible.net/1T/Exo1401_Redsea_myriampsong/pages/14%20HAGGADAH%20D%20OR%20EPISODES%20DE%20LA%20PAQUE.htm

Publié dans:immagini sacre |on 7 avril, 2015 |Pas de commentaires »

IL «SERVO DEL SIGNORE» (Is 42; 49-50; 52-53).

http://www.collevalenza.it/CeSAM/02_CeSAM_0014.htm

IL «SERVO DEL SIGNORE» (Is 42; 49-50; 52-53).

« ESSI SI VOLGERANNO A ME CHE HANNO TRAFITTO… IN QUEL GIORNO VI SARA’ UNA FONTANA ZAMPILLANTE » (Zc 12,10; 13,1)

P. Aurelio Pérez fam

All’interno del libro del profeta Isaia si distinguono chiaramente tre parti, di cui la prima (cap. 1-39) è quella propria del profeta Isaia, vissuto nell’VIII sec. a. C., e la seconda (cap. 40-55), ambientata in un quadro storico di quasi due secoli dopo, è quella che contiene i cosiddetti « canti del servo ».
L’orizzonte di consolazione, di attesa di liberazione, di speranza di rinnovamento cantato dal « secondo Isaia » durante l’esilio, è dominato dalla misteriosa figura del « servo del Signore », innocente e giusto, chiamato a radunare il popolo disperso e ad essere addirittura luce delle genti, ma attraverso una morte violenta che espia i peccati del popolo.
Chi è questo servo? Alcuni lo identificano con il popolo d’Israele, chiamato spesso « servo » del Signore (cf Is 41,8-16; 44,21-23), molti propendono a vedervi una figura storica, l’anonimo profeta che scrive (il secondo Isaia). In ogni modo sono i testi sul servo sofferente e la sua espiazione vicaria quelli che Gesù ha evocato ed ha applicato alla sua missione e passione, soprattutto in quella lectio divina che rilegge tutte le Scritture, fatta personalmente da Lui ai due discepoli di Emmaus dopo la risurrezione (Lc 24,25-32.44-46).

1. Il Signore presenta il suo Servo.

Primo canto (Is 42,1-9)
L’identità personale di questo servo viene, anzitutto, presentata solennemente dal Signore stesso, che lo qualifica come colui che Egli sostiene, il suo « eletto » in cui si compiace e in cui pone il suo Spirito, per portare il diritto alle nazioni e stabilirlo sulla terra (vv. 1.4).
Questa missione universale così grande sarà caratterizzata da uno stile di discrezione, misericordia e compassione, che non scoraggia nessuno, ma nello stesso tempo è fermo e costante nel portare a termine la missione che il Signore gli affida (vv. 2-4).
« Io, JHWH, ti ho chiamato nella giustizia e ti ho afferrato per mano, ti ho formato e ti ho stabilito alleanza di popolo e luce delle nazioni, per aprire gli occhi dei ciechi, far uscire dal carcere i prigionieri e dalla prigione gli abitatori delle tenebre » (vv. 6-7)

2. Il Servo presenta se stesso e la sua difficile missione

Secondo e terzo canto (Is 49,1-7; 50,4-9a)
Il Servo stesso presenta, di nuovo in modo solenne, la sua vocazione profetica. Ha coscienza di essere stato « chiamato » (49,1), anzi « plasmato » (49,5) dal Signore fin dal seno materno, non solo per ricondurgli Giacobbe e a Lui riunire Israele, ma anche per essere luce delle nazioni (49,6), affinché la salvezza misericordiosa del Signore arrivi alle estremità della terra e abbracci tutti.
Ma si tratta di una vocazione simile a quella di Geremia (cf Ger 1,4-10), caratterizzata da una misteriosa sofferenza, che sembra rendere inutile e destinato al fallimento lo sforzo del profeta (49,4), la cui vita verrà disprezzata e rifiutata (49,7). Ma l’opera del Signore nel suo Servo avrà, alla fine, la meglio e si manifesterà di fronte ai potenti della terra (49,7).
Continuando su questa linea, il terzo canto del Servo (50,4-9a), presenta, ancora in termini autobiografici, la sofferenza fisica e morale (v. 6), con dettagli (flagelli, insulti, sputi) che si compiranno alla lettera nella Passione di Gesù. Il Signore che chiama il suo Servo a sostenere gli sfiduciati, lo prepara a questa missione aprendogli l’orecchio alla sua volontà, e il Servo risponde con decisione (vv. 4-5), anzi rende la sua faccia dura come pietra, fiducioso nel Signore (v. 7; cf Ez 3,4-11; Lc 9,11).

3. Il Servo « schiacciato per le nostre iniquità »

Quarto canto (52,13-53,12)
La missione del Servo di JHWH conoscerà un fallimento bruciante agli occhi umani e un epilogo inatteso. Si tratta di una notizia inaudita. La persecuzione e la passione, che il Servo in persona presentava nel terzo canto, diventano una umiliante condanna a morte, in cui entra senza aprir bocca, « come agnello condotto al macello » (53,7). Martin Buber, ebreo anche lui, ha scritto che « il successo non è uno dei nomi di Dio ».
Solamente a distanza, coloro che erano stupiti di lui – «tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo» (52,14) – apriranno gli occhi e «comprenderanno ciò che mai avevano udito» (52,15). Verrà alla luce una rivelazione incredibile: il Servo «castigato, percosso da Dio e umiliato» (53,4cd), questo «uomo dei dolori» è, in realtà, il soggetto nascosto del più alto compiacimento del Signore e della sua volontà di salvezza(1). Viene sottolineato con molta insistenza che la morte ignominiosa del servo innocente, ha nel disegno misterioso del Signore, un carattere vicario: « si è caricato delle nostre sofferenze » (53,4), « è stato trafitto per i nostri delitti… per le sue piaghe noi siamo stati guariti » (53,5, cf vv. 6.8b.11d.12d).
Com’era stato all’inizio (52,13-15), così alla fine, è il Signore che dice l’ultima parola sulla sorte e sulla « buona riuscita » e il « successo » (quello secondo Dio) che avrà il Servo(2). La sua morte si rivelerà un’esplosione di vita e il Signore gli darà in premio le moltitudini (53,11-12).

ZACCARIA: Il « trafitto » e la « fontana zampillante »
Il libro del profeta Zaccaria si divide in due parti ben distinte(3). La prima parte (cap. 1-8) si occupa, come il profeta Aggeo, della ricostruzione del Tempio e della restaurazione nazionale, ma che aprono all’era messianica, in cui sarà esaltato il sacerdozio rappresentato da Giosuè (3,1-7), ma in cui la regalità sarà esercitata dal « germoglio » (3,8), che 6,12 applica a Zorobabele. I due unti (4,14) governeranno in perfetto accordo.
La seconda parte (cap. 9-14), tutta diversa per stile e orizzonte storico, è importante soprattutto per la dottrina messianica: la rinascita della casa di Davide (12), l’attesa di un Re Messia umile e pacifico (9,9-10), l’annunzio misterioso del Pastore rifiutato e valutato trenta sicli d’argento (11,12-13), e del « Trafitto » (12,10), con cui il Signore stesso si identifica, verso cui si volgeranno gli sguardi, e nel cui « giorno » sgorgherà una « fontana zampillante » che laverà il peccato e l’impurità (13,1). Dietro questo misterioso « trafitto » ci sono le figure storiche del santo re Giosia, trafitto proprio nella pianura di Meghiddo, di tutti i profeti e giusti perseguitati, ma soprattutto si staglia la profezia del Messia Gesù trafitto sulla croce, dal cui costato sgorgherà la sorgente della salvezza per tutti. Il Nuovo Testamento citerà o farà allusione a questi capitoli di Zaccaria. (cf Mt 21,4-5; 27,9; Mc 14,27; Gv 19,37).

[1] Cf F. ROSSI DE GASPERIS – A. GARFAGNA, Prendi il Libro e mangia, 3.1, p. 47.

[2] Gli esegeti ritengono che sia più o meno contemporanea della profezia del secondo Isaia anche la “storia di Giuseppe” (Gen 37,2-50,26), segnata da un abbassamento drammatico a cui segue una glorificazione inattesa, attraverso la quale diventa il salvatore dei suoi fratelli malvagi e gelosi. Si ripeta la storia di una “pietra scartata dai costruttori, divenuta testata d’angolo” nel piano di Dio.

[3] Cf LA BIBBIA DI GERUSALEMME, EDB 1992, p. 1546.

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