The tears of Saint Peter, by El Greco

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ICONA SGUARDO DELL’UOMO SU DIO – SGUARDO DI DIO SULL’UOMO
Icona, dal greco eicòn = immagine, è il termine tecnico usato per indicare le immagini sacre nell’arte bizantina, in special modo quella russa, designando specificamente la pittura su tavola, a differenza di quella su muro.
La funzione essenziale dell’icona, in continuità con il significato e il valore dei « segni » del mistero cristiano, è quella di portare agli occhi quello che la parola porta all’orecchio.
L’immagine è come una presenza che si propone al nostro sguardo, sia attraverso gli occhi materiali che attraverso « gli occhi del cuore », come una finestra aperta sul mistero per poter entrare in comunione con Cristo, con la Madre di Dio, con i Santi: una presenza che si fa accessibile per invitarci a realizzare nella nostra vita ciò che vediamo, dopo averlo rivissuto interiormente.
L’icona nasce e si diffonde a partire dal IV secolo, quando la Chiesa orientale era ancora unita alla Chiesa occidentale: le icone sono dunque patrimonio di tutta la cristianità.
La pittura delle icone non rappresenta solo una stupenda forma d’arte, ma è anche un modo di vivere con maggior intensità la propria fede e un aiuto per avvicinarsi alla Santità, identificandosi col soggetto dipinto (Cristo, la Vergine, i Santi). Le figure sono ritratte secondo i canoni di un antinaturalismo che nella teologia delle icone doveva servire a sottolineare la dimensione spirituale dei misteri, degli eventi e dei personaggi sacri. L’arte nell’icona è secondaria, marginale: ciò che è importante è Dio, il Mistero di Dio, che tramite quest’arte viene espresso.
La nascita delle icone si inserisce in un contesto più vasto, che risale all’uomo preistorico e che fa dell’immagine un mezzo per stabilire un contatto con la divinità e per rendere reale la presenza di ciò che vi era raffigurato.
Per la Chiesa, come viene espresso nei suoi Concili, l’icona è un « Sacramentale partecipe della sostanza divina », il che equivale a dire che è il luogo in cui Dio è presente e si può incontrare. Nel Secondo Concilio di Nicea (787) viene definita la natura e il valore delle icone con l’affermazione che il fondamento di quest’arte sta nell’Incarnazione del Figlio di Dio, è quindi possibile rappresentare Dio, in quanto ha assunto la natura umana, assimilandola in modo inscindibile a quella divina, come sottolinea san Giovanni Damasceno. Nel Concilio di Efeso l’icona è definita « tempio », cioè un luogo in cui chi è raffigurato è anche misteriosamente presente.
Nell’icona il Dio-uomo si avvicina a noi, ricordandoci che anche noi siamo icona di Dio, che quindi il nostro destino è diventare come Lui.
L’icona è quindi un « segno sacramentale ». Da principio, questa sacramentalità, molto accentuata in oriente, può essere derivata semplicemente dal contatto vivo con la liturgia celebrata, con la fede confessata e la preghiera ecclesiale e inoltre dalla sacralità del luogo in cui è celebrata l’Eucaristia. L’icona è perciò entrata a far parte dell’universo simbolico della liturgia, con il carattere evocativo di una presenza; anche se la tradizione ha sviluppato una collocazione delle icone nella casa, nell’angolo bello o angolo della preghiera, e per le strade, come ricordo e presenza del mistero celebrato che si estende alla vita e alla storia.
Tant’è che nell’arte e nella cultura bizantina il vocabolo icona – che già in questa forma ha le sue prime attestazioni nel latino tardo e medievale, e poi in italiano a partire dal Quattrocento – designa un’immagine sacra portatile, a mosaico, dipinta su legno o su tela ed eseguita a tempera, a encausto o, in seguito, anche con smalto, argento e oro. Essa è un prezioso strumento della speciale arte sacra che aiuta l’approfondimento spirituale: i suoi colori simbolici ed i suoi canoni pittorici, le stesse sue modalità di composizione ad opera di un monaco, preceduta dalla contemplazione del mistero che si vuole raffigurare, dall’ascesi e dalla preghiera, la rendono « luogo » teologico, liturgico, sacramentale, che fa entrare misteriosamente in una Presenza di fede e di amore.
Importanti centri di tradizione iconografica furono la Palestina, la Siria, l’Egitto, Bisanzio e, naturalmente, la Russia, dove la produzione delle icone divenne elemento caratteristico dell’arte e della fede fino al XVIII secolo. Le icone furono in gran numero esportate in Occidente, specie a Roma, ove divennero oggetto di culto e venerazione. L’idea – forza che sottostà alla maggior parte delle raffigurazioni iconografiche – è il mistero dell’Incarnazione, e su di esso si basa e si afferma la venerazione delle icone.
« Ciò che il Vangelo dice con la parola » – si afferma in un Concilio d’Oriente – « l’icona, immagine densa di una Presenza, lo annuncia coi colori e lo rende presente ».
Solo tramite questi mezzi: la preghiera, innanzitutto, poi la meditazione, l’ascesi, l’esercizio quotidiano di virtù quali l’obbedienza, il digiuno, l’umiltà ecc., è possibile entrare in sintonia col mondo dell’ultraterreno di cui l’icona è allo stesso tempo frutto e tramite. Infatti, se l’icona è frutto della preghiera, è innegabile che essa stessa dona frutti di preghiera a chi attraverso l’attenzione amorosa e l’apertura di cuore, si sintonizza con la Realtà di cui è veicolo.
Ricordiamo che una delle funzioni dell’icona è stata, tra l’altro, quella di catechizzare il popolo sui misteri della vita di fede tramite le immagini. Un « medium », questo delle immagini, più efficace della parola scritta che nella società medioevale sarebbe stata fruibile da pochi.
Allora le immagini, insieme alla musica sacra e alle liturgie (le azioni di popolo, celebrazioni, processioni, ecc.) divennero il modo più efficace per portare al popolo i complessi contenuti della teologia cristiana medioevale. Funzione peculiare dell’icona è quella di portare davanti agli occhi quel che la parola porta all’orecchio, perché si fissi nelle profondità del cuore.
Il suo linguaggio simbolico è perfettamente accessibile a chiunque sia aperto e disponibile ad accoglierlo.
» L’iconografia cristiana trascrive attraverso l’immagine il messaggio evangelico che la Sacra Scrittura trasmette attraverso la Parola. Immagine e Parola si illuminano a vicenda. Tutti i segni della celebrazione liturgica sono riferiti a Cristo. lo sono anche le sacre immagini della Santa Madre di Dio e dei Santi, poiché significano Cristo che in loro è glorificato.
La bellezza e il colore delle immagini sono uno stimolo per la mia preghiera. È una festa per i miei occhi, così come lo spettacolo della campagna sprona il mio cuore a rendere gloria a Dio (San Giovanni Damasceno). La contemplazione delle sante icone, unita alla meditazione della Parola di Dio e al canto degli inni liturgici, entra nell’armonia dei segni della celebrazione in modo che il mistero celebrato si imprima nella memoria del cuore e si esprima poi nella novità di vita dei fedeli » (Catechismo della Chiesa Cattolica nn. 1160 1162,1992).
» L’autentica arte cristiana è quella che, mediante la percezione sensibile, consente di intuire che il Signore è presente nella sua Chiesa, che gli avvenimenti della storia della salvezza danno senso e orientamento alla nostra vita, e che la gloria la quale ci è promessa, trasforma già la nostra esistenza » ( Giovanni Paolo II, Duodecimum Saeculum, n 11 ).
Così l’uomo, creato a immagine (icona, appunto) e somiglianza di Dio (Gn 1, 26) aspira incessantemente a contemplare l’immagine divina che porta in sé; per questo l’icona fatta dalle sue mani, ma nata nel suo cuore e nel suo spirito, non è un’opera arbitraria, ma proviene dal più profondo della sua memoria: » L’amante che arde dal desiderio della bellezza, ricevendo continuamente ciò che gli appare come un’immagine di ciò che desidera, aspira a saziarsi della figura dello stesso archetipo » (San Gregorio di Nissa, De vita Moysis).
Nella stessa opera San Gregorio di Nissa si domanda : » Come mai l’uomo, a cui tante teofanie hanno reso Dio chiaramente visibile, domanda a Dio di manifestarsi a lui, come se colui che gli si mostra continuamente non gli forse ancora apparso? « . Lo stesso Mosè, dopo aver parlato con il Signore « faccia a faccia » [Es 33,11] supplica incessantemente Dio dal profondo del suo essere: « Mostrami la tua gloria! » [Es 33, 18].
La risposta arriva ammirabile e sulla misura stessa del desiderio: » Mi sembra che sentire questo sia proprio di un’anima stimolata da una disposizione amorosa verso la bellezza essenziale, che la speranza trascina continuamente dalla bellezza che ha visto a quella che è al di là e che infiamma continuamente il suo desiderio verso quello che ancora resta nascosto per riscoprirlo incessantemente »
Poiché noi crediamo che Dio stesso si è dato un volto in Gesù, possiamo comprendere che non è possibile dissociare il divieto di rappresentare immagini nell’Antico Testamento (1) e la rappresentazione iconica di Dio nel Nuovo Testamento. Il tema dell’immagine di Dio, del suo Volto, non trova la sua luce e la sua chiave che nella venuta del Cristo. Dio ha un Volto che può mostrare nella sua benevolenza « Fa splendere il tuo volto e noi saremo salvi! » (Sl 79, 4). Questo avviene nello Spirito, che fa conoscere, riconoscere e vivere il Cristo, perché ogni essere delinea un abbozzo del volto di Cristo ed è in esso che trova la sua verità. La natura stessa della rivelazione in Gesù Cristo giustifica pienamente la nascita dell’icona, poiché la seconda persona della Trinità, incarnandosi, porta al mondo non solo la sua parola, ma anche la sua immagine.
L’icona accomuna nel suo linguaggio e nei suoi canoni, dettati dalla Chiesa, tutta l’ecumene cristiana, pur raggiungendo espressioni profondamente originali in ogni area geografica e nazionale. Oggi riproporre l’icona significa tornare alle radici della profonda unità che riconosce in Cristo il Signore del cosmo e della storia, la «chiave di volta dell’universo» e riprendere a respirare con i due polmoni della Chiesa orientale e occidentale.
(1) « Non avrai altri dei di fronte a me, non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra » (Es 20,5); « A chi mi paragonate e mi rassomigliate? A chi mi raffrontate quasi fossimo simili? » (Is, 46,5)
http://www.atriodeigentili.it/lectio/2006_07/02.htm
Lectio Divina 2006/07
a cura di Stella Morra
Azione Cattolica Diocesana
2. DA ALTROVE PROTEZIONE – SALMO 27 (26) (LECTIO)
Premessa
Il mese scorso, iniziando il percorso sulla paura, ci siamo fermati sul testo di Genesi, come descrizione della paura, movimento profondo che ci riguarda un po’ tutti. Ogni anno cerchiamo di rivolgere la nostra attenzione a tutti i tipi di testo presenti nella scrittura in modo da fare, poco per volta, l’orecchio a tutti; siccome da un po’ di tempo non ci soffermiamo sui Salmi, oggi rifletteremo sul 27, un Salmo molto conosciuto.
Il libro è composto da 150 Salmi. Nella trasmissione c’è stata un po’ di confusione sulla numerazione: dal 9 in poi ogni salmo è contrassegnato da due numeri, di cui uno tra parentesi; gli ultimi tre tornano ad avere un numero solo. Questo è successo perché, quello dei Salmi, era un libro di canti e preghiere molto usato nel mondo ebraico –tipo i nostri libretti dei canti per la Messa; proprio a causa del grande uso, alcuni Salmi si perdevano, anche solo in parte, e venivano riscritti, magari collegati uno all’altro.
I Salmi sono spesso studiati alla ricerca della loro unità, della logica che li abita. Come i nostri libretti contengono semplicemente i canti che vengono usati abitualmente e non c’è un’unità materiale di argomento, di racconto, così è per i Salmi: non c’è un’unità di argomento, di narrazione. I Salmi sono stati raggruppati dai vari studiosi in mille modi diversi, perché ognuno ha trovato un’unità di un certo tipo; in realtà l’unica vera unità sta semplicemente nel fatto che sono la preghiera di una comunità che crede e che si è data un percorso di dialogo con Dio. In questo sta una delle bellezze di questo libro; nei Salmi si trova di tutto: la disperazione, la gioia, la benedizione, le maledizioni.
Un gran numero di Salmi sono stati composti durante e dopo l’esilio, dopo il disastro che ha colpito la nazione di Israele. Tre sono i testi fondamentali prodotti durante e dopo l’esilio: Giobbe, Qoèlet e i Salmi. Faccio una presentazione, come mio solito, un po’ a cartoni animati. Il popolo di Israele si trova di fronte ad una tragedia nazionale, ad una depressione collettiva -come fatto sociale e non solo psicologico o personale-, si trova a non avere più un progetto, ha la sensazione che sia crollato tutto ciò su cui si era costituita l’unità di autocoscienza di popolo scelto da Dio, il patto, le promesse di Dio, – non dimentichiamo che il popolo di Israele si capisce come ‘popolo unito’ dall’Esodo in poi, diventa il popolo di Dio, eletto, dal momento in cui riceve la legge sul monte Sinai! – ed ora la fine del regno, la distruzione del tempio e l’esilio… cioè …non era vero niente, la scelta, le promesse, l’alleanza… Dove andranno a finire le promesse di Dio?
Di fronte a questa tragedia, nella scrittura ci sono tre tipi di reazione; quella di Giobbe è: perché? Come è possibile? Abbiamo tutti nelle orecchie il libro di Giobbe in cui lui chiama in causa Dio: è la reazione di chi, di fronte al dolore, sta in piedi e sfida il dolore. Poi c’è la reazione di Qoèlet: tutto è vanità. E’ la razione del cinismo; vuol dire: non ci credo più, è andata così, cosa ci vuoi fare? Non ho più uno slancio rispetto al progetto. La terza è quella dei Salmi, la reazione di rimanere di fronte a Dio e di chiedere conto a lui della situazione, punto per punto, di rimanere lì a fronteggiare la questione.
La cosa bella, secondo me, è che queste tre reazioni stanno tutte nella scrittura ispirata. Nel paradigma che noi abbiamo di rapportarci alla fatica e al dolore dell’esistenza, la scrittura ci offre tutte e tre queste reazioni. Si può dire: tutto è vanità; si può domandare perché, che cosa sta succedendo? e si può rimanere di fronte a Dio a contestare punto per punto la questione.
E’ molto interessante! Noi invece, in modo moralistico, saremmo tentati di dire che c’è un modo giusto di reagire al dolore, quello di non perdere la fiducia, sperare, continuare a credere… e che tutti gli altri modi sono sbagliati. Di per sé, al di là delle parole di fiducia che tornano, vanno e vengono, esattamente come nella nostra vita, -anche quando uno sta male, ha dei momenti in cui si tira un po’ su, poi perde la speranza…- non è che una parola sia vera e l’altra falsa; la questione è che le nostre parole non hanno la potenza delle parole di Dio. Non succede che, se diciamo ho fiducia, la fiducia ‘è’, come quando Dio dice ‘sia la luce’ e ‘la luce è’. Le nostre parole seguono la nostra vita e, dunque, costruiamo la fiducia in un tempo magari molto lungo, e andando su e giù, tra paura, preoccupazione, dubbio, incertezza. La cosa bella è che nella scrittura ci sono tutti questi passaggi, non ce n’è uno escluso. C’è anche il passaggio scettico di Qoèlet: niente conta niente, in fondo sono veramente deluso, tutto è vanità, tutto passa! Per dirla in termini moderni, è come dire: anche una reazione atea ha un posto nella scrittura.
La forza del desiderio
All’interno di questo discorso noi leggiamo un Salmo che fa parte di un gruppo, dal 25 al 34, costruito come una montagnola. Il Salmo 25 e il 34 sono detti salmi alfabetici -noi non lo vediamo più perché li leggiamo in traduzione. Alfabetici vuol dire che ogni versetto cominciava con una lettera dell’alfabeto, così si ricordava più facilmente. I Salmi alfabetici normalmente segnano i passaggi da una parte all’altra, da una situazione ad un’altra: c’è un Salmo alfabetico, poi un gruppo di Salmi, poi torna uno alfabetico che chiude la serie. Dunque il Salmo 25 e il 34 sono alfabetici; in mezzo c’è una unità di Salmi costruiti così: 26, 27, 28 sono di supplica -con parole moderne noi diremmo Salmi di desiderio; al centro c’è il 29, l’inno, o per noi, la crisi. L’inno spesso è usato per indicare il punto critico, il punto dove il desiderio sale e poi diventa un’altra cosa, si spezza; 30, 31, 32 sono i Salmi di riconoscimento, di ringraziamento, in cui uno riconosce il proprio desiderio trasformato in un’altra cosa. Il 33 è stato messo lì un po’ come aggiunta, è un Salmo di lode che non fa parte di questa unità.
Dicevo, una specie di monte: c’è un desiderio che dice di noi, di ciò che muove il nostro cuore, più che dire qualcosa di Dio. Quando uso la parola desiderio, questa ha il significato che le abbiamo attribuito più volte in questi anni: il desiderio è una potenza, un’energia; ciascuno di noi sa che il desiderio ci dà la forza di fare delle cose che non sapremmo fare; e i desideri veri si distinguono bene dai desideri finti, al di là delle chiacchiere -tutte le mamme che stanno sveglie la notte a causa dei loro bambini, teoricamente prima avrebbero pensato di non farcela, poi ce la fanno, normalmente. Il desiderio è un motore, un’energia, non tanto una domanda, è la forza che ci spinge ad essere e a fare ciò che di per sé non avremmo saputo o voluto fare. Il desiderio va coltivato, cresce, funziona come lievito; rispondere e fermarlo troppo presto significa ucciderlo; lasciarlo andare troppo avanti in modo ingovernato significa far crescere un rancore. Il desiderio ha una sua maturazione, c’è un punto in cui si trasforma in realtà o in un’azione del reale, perché altrimenti incancrenisce, o, se non si trasforma in realtà ma viene semplicemente stoppato, comincia a fermentare e ad un certo punto esplode.
Il Salmo 27 sta nella parte della crescita del desiderio. Noi ragioniamo normalmente al contrario, diciamo: prima del punto critico c’è la paura, poi c’è la fiducia. E la paura sarebbe sbagliata, mentre la fiducia sarebbe la parte positiva. C’è la paura perché sta arrivando una crisi, poi c’è la crisi, si mette tutto a posto, quindi ho fiducia e sono contento; la paura è sbagliata, la fiducia è giusta. Ma nella vita non funziona così. Questa è una favola. Ciò che sta prima possiamo chiamarlo paura, ma forse paura è l’altro nome di un desiderio… di che cosa? Noi abbiamo paura di qualcosa perché desideriamo qualcosa.
Se volete, il sottotitolo di questo salmo potrebbe essere: di cosa parliamo quando parliamo di paura? Parliamo di paura o di desiderio? E la fiducia che ne sortisce, non è un riconoscimento infantile del desiderio compiuto e basta, la fiducia è fidarsi del proprio desiderio, dell’energia che ti dà, della forza che ti conduce.
Salmo 27 (26)
Il Signore è mia luce e mia salvezza,
di chi avrò paura?
Il Signore è difesa della mia vita,
di chi avrò timore?
Quando mi assalgono i malvagi
per straziarmi la carne,
sono essi, avversari e nemici,
a inciampare e cadere.
Se contro di me si accampa un esercito,
il mio cuore non teme;
se contro di me divampa la battaglia,
anche allora ho fiducia.
Una cosa ho chiesto al Signore,
questa sola io cerco:
abitare nella casa del Signore
tutti i giorni della mia vita,
per gustare la dolcezza del Signore
ed ammirare il suo santuario.
Egli mi offre un luogo di rifugio
nel giorno della sventura.
Mi nasconde nel segreto della sua dimora,
mi solleva dalla rupe.
E ora rialzo la testa
sui nemici che mi circondano;
immolerò nella sua casa sacrifici d’esultanza,
inni di gioia canterò al Signore.
Ascolta, Signore, la mia voce.
Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi.
Di te ha detto il mio cuore: “Cercate il suo volto”;
il tuo volto, Signore, io cerco.
Non nascondermi il tuo volto,
non respingere con ira il tuo servo.
Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi,
non abbandonarmi, Dio della mia salvezza.
Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato,
ma il Signore mi ha raccolto.
Mostrami, Signore, la tua via,
guidami sul retto cammino
a causa dei miei nemici.
Non espormi alla brama dei miei avversari;
contro di me sono insorti falsi testimoni
che spirano violenza.
Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi.
Spera nel Signore, sii forte,
si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore.
L’inizio del Salmo dice che va tutto bene, non c’è paura, e finisce con la paura, con i nemici. Noi, che siamo un po’ moralisti, avremmo costruito il Salmo al contrario: prima i nemici, la paura, l’incoraggiamento ad andare avanti, ad essere forti e alla fine …”se contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non teme; se contro di me divampa la battaglia, anche allora ho fiducia”. L’avremmo costruito in termini volontaristici: io ho paura e se mi impegno e sono bravo, alla fine ho fiducia.
Qui è esattamente il contrario perché ciò di cui si parla per i primi cinque versetti è un desiderio, non una realtà; è l’energia che spinge verso il Signore; è ciò che in qualche modo traduce il versetto 1, la domanda che il salmista fa a se stesso: “Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò paura? Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò timore?”. Noi diremmo: si sta facendo coraggio da solo, sta dicendosi come vorrebbe sentirsi, in realtà non si sente così, e prende atto, il riconoscimento è che per ora il suo desiderio è ancora inattuabile.
La parola chiave, che svolta, è quella del versetto 7 “abbi pietà di me”. Tutti e tre i salmi del desiderio, 26, 27 e 28 hanno a metà questa stessa espressione: “abbi pietà di me”. Se sale il desiderio, sale la paura, perché bisogna essere coraggiosi per desiderare molto e perché ciascuno di noi, se sta di fronte al proprio desiderio, non si sente all’altezza del proprio desiderio. I nostri desideri sono sempre migliori di noi, hanno più fiato, più aria, più gambe; siamo noi che siamo stanchi, impauriti; per questo i desideri fanno così paura; per questo li addomestichiamo diventando adulti. Solo i bambini sono capaci di esprimere i desideri così come li sentono, e li dicono ad alta voce, e non hanno paura di essere smentiti, che il desiderio si avveri oppure no. Tutti diciamo che i bambini sono facili da distrarre. Un bambino ha un desiderio, lo esprime, se gli rispondi di no, piagnucola un po’, lo distrai con un’altra cosa; non è così banale, non è che i bambini si distraggono, è che loro sono capaci di un desiderio alla volta; desiderano una cosa, se quella non c’è ne sono dispiaciuti, ma se subentra un altro desiderio, non sono feriti dalla delusione, non portano rancore, hanno esattamente il coraggio di cominciare a desiderare un’altra cosa, di entrare dentro quell’altro desiderio e di riceverne tutta la gioia senza conservare la ferita della frustrazione del primo. Noi siamo un po’ diversi; per questo addomestichiamo i desideri. L’altro nome della paura è desiderio!
Luce, salvezza, difesa
Nel primo versetto si usano tre attributi di Dio, non nomi assoluti, bensì relativi al salmista che parla, non una descrizione filosofica di Dio, ma chi è Dio per me. Il salmista dice: “Il Signore è mia luce, mia salvezza e difesa della mia vita…” Noi conosciamo bene questo versetto perché torna spesso nelle preghiere e nella liturgia e ci sembra un versetto spirituale; in realtà è molto concreto, serio, per niente spirituale. Tutti abbiamo una grande nostalgia di infanzia, essere convinti di sapere dove stiamo andando, avere luce, avere salvezza, sentirci protetti e avere difesa per la nostra vita, sapere che nella vita che abbiamo, che è poco o tanto, ma è l’unica cosa che abbiamo, ci sia qualcuno -come dice Baricco in Oceano mare, un padre, un amore, un prete che ti accompagni fino al mare. Qualcuno che protegga e benedica la nostra vita, che le consenta di non essere ferita.
Il salmista dice: “Il Signore è mia luce, mia salvezza, difesa della mia vita”. Di questi tre nomi, quello che a me fa sempre problema è mia salvezza. Mia luce mi pare chiaro. Per una come me che si occupa di studio, “più luce”! E’ la frase di Goethe, che pare abbia pronunciato come ultima parola prima di morire, “più luce”. Mi sembra un desiderio molto chiaro, capire meglio, sapere di più, non essere così confusi, saper vedere la verità delle cose e delle persone. Difesa della mia vita lo capisco anche meglio. La mia vita, che è l’unica che ho, è così in balìa di tutto, – più uno cresce più perde il senso di onnipotenza e sa che il proprio corpo, i propri sentimenti lo tradiscono, che le cose che vengono da fuori ti tradiscono, e arriva un’altra cosa -… poter credere ancora in un principe azzurro, un cavaliere dalla brillante armatura che difenda la nostra vita … che meraviglia! Non ho più bisogno di essere io che mi occupo di tutto; se si occupa qualcun altro io sto benissimo, non ho problemi. Ciò che io capisco meno, almeno nella mia storia, è mia salvezza, perché forse non ho ancora fatto, o non sto ancora facendo, l’esperienza di essere minacciata dall’esterno, da una cosa, una persona, una situazione, una malattia che mi minacci così fortemente, e forse non ho ancora sperimentato che cosa vuol dire il desiderio di una salvezza.
“Quando mi assalgono i malvagi per straziarmi la carne, sono essi, avversari e nemici, a inciampare e cadere”.
Un bel desiderio vendicativo! Questi, che sono i cattivi, si facessero male loro, una volta!!! E non li perdono! Sono loro i cattivi, ma possano cadere!
“Se contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non teme; se contro di me divampa la battaglia, anche allora ho fiducia”.
Chi di noi non ha desiderato di essere così forte! Di avere un cuore che non trema! Di essere capace di non aver paura, di non dover combattere con la propria ansia!
“Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore ed ammirare il suo santuario”.
Nella logica in cui sto leggendo il Salmo, mi pare che diventi un po’ più chiaro: certo c’è un tema religioso, la casa di Dio, il tempio … ma in una lettura un po’ esistenziale è ovvio, tutti vorremmo una casa; perché nel nostro immaginario una casa è il luogo più sicuro che ci sia – che poi non è quasi mai vero, nella concretezza delle cose; le case spesso sono luoghi molto pericolosi o comunque faticosi, dove vivendo fianco a fianco, tutti i giorni, la fatica è notevole. In fondo però tutti rimaniamo dell’idea che, se arrivo fino a casa e chiudo la porta, poi sono al sicuro; che cosa mi potrà ancora accadere? Questa è casa!
Mi piacerebbe molto fare una ricerca su tutte le immagini di casa che ci sono nella scrittura, perché la casa è sempre molto ambivalente. Nei Vangeli, per esempio, per i discepoli, il desiderio di tornare a casa è sempre un sottile desiderio di tradimento, non essere ancora fino in fondo compromessi con quel Gesù che non ha una pietra dove poggiare il capo.
Celebreremo tra poco il Natale e nel Vangelo di Giovanni si dice che Dio ha posto la sua tenda in mezzo a noi, ha ripreso ad essere nomade, è venuto ad abitare in mezzo a noi, ma non ha messo su casa. Noi facciamo molta poesia su Abramo, essere nomadi della fede, ma poi il nostro desiderio è una casa. Possiamo chiudere le paure fuori casa, ma non possiamo chiudere fuori casa i desideri, e quindi siamo fregati.
Il salmista dice che ha chiesto solo di poter abitare nella casa del Signore, perché non è una casa qualsiasi quella che lui desidera, è la casa del Signore, la casa di colui che può!… per gustare la dolcezza del Signore, tutti i giorni della mia vita.
Poi ci sono questi due bellissimi versetti: “Egli mi offre un luogo di rifugio nel giorno della sventura. Mi nasconde nel segreto della sua dimora, mi solleva sulla rupe”.
Fa tutto e il contrario di tutto: da una parte nasconde, dall’altra mette in piena vista. Ma l’aspettativa, il desiderio che c’è è di un luogo di rifugio dove l’elezione sia totale, dove io sono colui che sta nell’intimità, quindi posso essere nascosto nel segreto o mostrato a tutto il mondo, messo in cima ad una rupe, salvaguardato, eletto, strappato via da ciò che accade a tutti. Il nostro desiderio di una casa è sempre un desiderio di elezione. E’ buffo, perché possiamo anche non aver paura di situazioni molto difficili; il problema vero è che non siamo in grado di affrontare una situazione difficile se non c’è motivo. Per un altro, per un amore, per un obiettivo, possiamo affrontare quasi qualsiasi cosa, molto più di ciò che immaginiamo di saper affrontare… Cioè: in una elezione non c’è più paura, non perché l’altro sia in grado di fare chissà che cosa, ma perché è il sentirsi eletti da qualcuno, sentirsi in una situazione che ci rende intoccabili, superiori ad ogni pericolo possibile.
Dal desiderio … la fiducia
“E ora rialzo la testa sui nemici che mi circondano; immolerò nella sua casa sacrifici d’esultanza, inni di gioia canterò al Signore”.
Fin qui era il desiderio che parlava. Questa espressione di rivincita è bellissima: ‘rialzo la testa’. In questi giorni, lavorando su questo salmo, pensavo come noi abbiamo l’abitudine di abbassare il capo nella preghiera, nella liturgia, lo consideriamo un atteggiamento pio, come se il Signore fosse nostro nemico, che ci fa abbassare la testa, come se avessimo bisogno di raccoglierci in noi, ma anche di stare chini, e di come invece il sentimento della fiducia è di colui che rialza la testa, che guarda negli occhi, che sta di fronte!
Non c’è una constatazione di fatto: fino a questo punto c’è un desiderio e qui comincia il mettere in moto questo desiderio. Il nome di questo desiderio è una paura, ma l’energia che il desiderio muove, è una fiducia. E’ come se dicesse: ok, adesso vado, adesso vado, adesso vado…! Si sta convincendo.
“Ascolta , Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi”.
Questo è il versetto decisivo. Il desiderio cresce finchè uno dice: ok, adesso vado … e c’è il punto di crisi, espresso in questa frase: Ascolta, Signore, la mia voce… abbi pietà di me! Per far diventare la paura il riconoscimento, bisogna far spazio a qualcosa che non siamo noi, deve esserci un interlocutore, uno che ascolta una voce. Dico una cosa banale: il novecento, che ha capito bene questa faccenda, cura le ansie con una terapia analitica; un analista si siede, ascolta la tua voce e in questo percorso tu un po’ alla volta… Ma questo è sempre stato chiaro: solo qualcuno di fronte a me che ascolta la mia voce, mi può consentire di far diventare i miei desideri, che stanno per esplodere, un riconoscimento del reale, un’azione nel reale, un’energia per il reale. Una paura raccontata ad un altro fa meno paura, molto semplicemente.
Qui c’è la realtà del salmista, non nel primo versetto quando dice: “Quando mi assalgono i nemici…allora ho fiducia”. Lì c’è il desiderio. Qui c’è la realtà: “Abbi pietà di me”. Qualcuno mi senta! “Rispondimi”!
Poi c’è il contraltare all’immagine della casa. “Di te ha detto il mio cuore: ‘Cercate il suo volto’; il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto…”
Sono tre versetti che sembrano una ripetizione, ma in realtà sono tre passaggi fondamentali. “Di te ha detto il mio cuore: cercate il suo volto”, cioè: ho capito, ho intuito che questo dovevo fare: cercare il tuo volto. “Il tuo volto, Signore, io cerco”: ho capito ciò che dovevo fare, l’ho fatto. Adesso tu fai la tua parte: “non nascondermi il tuo volto”!
Questi tre pezzetti sono veramente la struttura di un amore: mi ci è voluto un po’ di tempo, ho capito quello che sentivo, quello che volevo –e non volevo solo una casa, ma un volto dentro una casa – volevo questo volto, perciò mi sono messo a cercare; ora non nasconderti, dimmi di sì!
“…non respingere con ira il tuo servo. Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi, non abbandonarmi, Dio della mia salvezza. Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto”.
E’ la constatazione, il riconoscimento –siamo nella metà di discesa del salmo- il riconoscimento che, a fronte di questo desiderio, la realtà può essere molto dura: mio padre e mia madre mi hanno abbandonato! Il versetto è duro, ma profondo; come sempre la scrittura vede bene nelle cose umane, non dice nemmeno, come in altri Salmi, i miei amici, bensì mio padre e mia madre, cioè il tradimento ricevuto è il più profondo, originario, radicale che possa accadere, ma … “il Signore mi ha raccolto”. Cioè: io ho capito che ti cercavo, ti sto cercando, non nasconderti.
Il riconoscimento che faccio è che, non solo non ti nascondi, ma mi hai già raccolto. Se ho cominciato a cercarti è perché già stavo nella tua mano! Perché tu mi avevi già trovato. Se abbiamo paura è perché siamo vivi. Non si può avere paura e desiderare di non averne, se non perché, prima di avere paura, siamo vivi, fiduciosi e coraggiosi.
Questa è la grande lezione di questo Salmo. Non sapremmo di avere paura e non vorremmo smettere di averne se non fossimo più coraggiosi di quanta paura abbiamo. Così come il salmista dice al Signore: non potrei cercare il tuo volto se nel punto più duro del tradimento non sapessi che tu mi hai già raccolto, che il primato è al fatto che tu mi hai accolto nella tua casa, nella tua vita.
C’è un paradigma di fondo nella teologia cristiana che dice che la grazia originale è precedente al peccato originale. Cioè: noi siamo abituati a pensare che uno sta lì come in un territorio neutrale, se fa le opere buone e non il peccato si salva, se invece non fa le opere buone e fa dei peccati, va all’inferno. Sto un po’ banalizzando; come se la salvezza fosse da una parte; dall’altra ci fosse la via della perdizione e noi fossimo in un territorio neutro e dovessimo entrare positivamente nell’uno o nell’altro luogo. Invece il pensiero cristiano, la scrittura ci dice che non è così. Noi siamo già dentro la salvezza. Se non facciamo niente stiamo già dalla parte giusta. Dobbiamo positivamente volerne uscire per spezzare questa logica. Se stiamo lì, abbiamo già vinto. Tutto il resto, anche la comprensione delle nostre dinamiche umane, funziona sempre secondo questo principio: ogni volta che noi scopriamo, sperimentiamo un dato negativo, non è che questo poi diventa positivo perché ci raccontiamo chissà che cosa, ma ogni volta che c’è un pezzo di qualcosa che noi viviamo come negativo, dobbiamo sempre chiederci qual è il positivo che lo contiene, che viene prima di quel pezzo.
Tutti sperimentiamo la paura, ma non sapremmo che è paura se non fossimo a priori montati e costruiti già coraggiosi, perché Dio ci ha fatti bene, non come una prova di coraggio, tipo favole medievali; non ci ha creati mezzi e mezzi, un po’ buoni e un po’ cattivi, con dei desideri e delle paure, con un po’ di bontà d’animo e un po’ di malvagità, con un po’ di capacità, intelligenza, potere, desiderio e un po’ di fragilità, stupidità, confusione… e vediamo chi vince; e sta lì a guardare la storia in cui l’angelo e il diavolo dentro di noi si combattono e scommette se vincerà la parte buona o quella cattiva. Dio non è così: ci ha creati in un bene e ogni volta che noi sperimentiamo un pezzo della nostra vita che per noi ha un sapore di male dobbiamo chiederci qual è il bene originario che già contiene quel male. Noi sperimentiamo la paura perché siamo stati raccolti dal Signore, perché abbiamo memoria che la nostra vita è difesa, perché siamo coraggiosi e fiduciosi, e ogni volta che abbiamo paura dovremmo essere contenti perché significa che sta passando Dio a ricordarci il coraggio e la fiducia, e ce lo ricorda facendoci un po’ male.
Allora si capiscono bene i versetti conclusivi:
“Mostrami; Signore, la tua via, guidami sul retto cammino, a causa dei miei nemici”.
E’ chiaro, a quel punto il problema è: ditemi come si fa, qual è la strada? Mostrami dove devo andare. Non c’è più né paura né fiducia, non c’è il desiderio infantile di tutto protetto, non c’è nemmeno la paura che fa sì che uno si nasconda, c’è un adulto che cammina: “…mostrami, Signore, la tua via…”.
C’è la realtà così com’è, che non è sempre divertente: ci sono i mentitori, i falsi testimoni che ispirano violenza, ma io posso dire: “Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”. Perché c’è la vita, prima, e dunque: “Spera nel Signore, sii forte, si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore”. Si finisce con una benedizione, con un dire bene della vita, del cuore, dell’essere forti, che non ha niente a che fare con il sogno infantile dell’inizio in cui tutto è protetto e incartato, perchè non è più un desiderio, è la realtà .
E la realtà è: certo ci sono falsi testimoni, ci sono degli avversari, cioè: l’insicurezza fa parte di noi, del mondo, ma il nostro desiderio ha una benedizione, siamo nella terra dei viventi e possiamo sperare nel Signore, essere forti e avere il cuore rinfrancato.
Pensierino natalizio: mi sembra che questo testo ci potrebbe aiutare bene a vivere un Natale non troppo sotto il segno di un sogno infantile iniziale: siamo tentati di vivere il Natale con lo spirito di sentirci tutti più buoni; va bene, ma non è solo questo. Il Natale è che Dio prende carne e si mette nella stessa logica di desiderio e riconoscimento. Il figlio di Dio sulla croce dirà anche lui: “Abbi pietà di me. Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”.
Anche lui arriverà, in un crescendo di desiderio, ad una crisi molto seria e il suo riconoscimento finale sarà il riconoscimento che il Padre farà sulla sua vita per cui la sua vita diventerà un corpo glorioso e il Figlio di Dio sarà risorto
Il Natale è solo l’inizio di questa storia, cioè il Natale è che il figlio di Dio si mette dalla nostra parte, nella nostra dinamica di desiderio e di riconoscimento. E ci dice, ancora una volta se ne avessimo bisogno, con tutti i racconti e tutta la liturgia legati al Natale, che poiché Dio è dalla nostra parte, il primato della benedizione è prima di ogni paura, prima di ogni crisi, prima di ogni violenza. Non c’è niente di male che può accaderci che possa toglierci dal luogo di benedizione da terra dei viventi dove stiamo.
Fossano, 16 dicembre 2006
(testo non rivisto dallautore)
BOLLA DI INDIZIONE DEL GIUBILEO STRAORDINARIO DELLA MISERICORDIA
FRANCESCO VESCOVO DI ROMA SERVO DEI SERVI DI DIO
A QUANTI LEGGERANNO QUESTA LETTERA
GRAZIA, MISERICORDIA E PACE
1. Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre. Il mistero della fede cristiana sembra trovare in questa parola la sua sintesi. Essa è divenuta viva, visibile e ha raggiunto il suo culmine in Gesù di Nazareth. Il Padre, «ricco di misericordia» (Ef 2,4), dopo aver rivelato il suo nome a Mosè come «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6), non ha cessato di far conoscere in vari modi e in tanti momenti della storia la sua natura divina. Nella «pienezza del tempo» (Gal 4,4), quando tutto era disposto secondo il suo piano di salvezza, Egli mandò suo Figlio nato dalla Vergine Maria per rivelare a noi in modo definitivo il suo amore. Chi vede Lui vede il Padre (cfr Gv 14,9). Gesù di Nazareth con la sua parola, con i suoi gesti e con tutta la sua persona[1] rivela la misericordia di Dio.
2. Abbiamo sempre bisogno di contemplare il mistero della misericordia. È fonte di gioia, di serenità e di pace. È condizione della nostra salvezza. Misericordia: è la parola che rivela il mistero della SS. Trinità. Misericordia: è l’atto ultimo e supremo con il quale Dio ci viene incontro. Misericordia: è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita. Misericordia: è la via che unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato.
3. Ci sono momenti nei quali in modo ancora più forte siamo chiamati a tenere fisso lo sguardo sulla misericordia per diventare noi stessi segno efficace dell’agire del Padre. È per questo che ho indetto un Giubileo Straordinario della Misericordia come tempo favorevole per la Chiesa, perché renda più forte ed efficace la testimonianza dei credenti.
L’Anno Santo si aprirà l’8 dicembre 2015, solennità dell’Immacolata Concezione. Questa festa liturgica indica il modo dell’agire di Dio fin dai primordi della nostra storia. Dopo il peccato di Adamo ed Eva, Dio non ha voluto lasciare l’umanità sola e in balia del male. Per questo ha pensato e voluto Maria santa e immacolata nell’amore (cfr Ef 1,4), perché diventasse la Madre del Redentore dell’uomo. Dinanzi alla gravità del peccato, Dio risponde con la pienezza del perdono. La misericordia sarà sempre più grande di ogni peccato, e nessuno può porre un limite all’amore di Dio che perdona. Nella festa dell’Immacolata Concezione avrò la gioia di aprire la Porta Santa. Sarà in questa occasione una Porta della Misericordia, dove chiunque entrerà potrà sperimentare l’amore di Dio che consola, che perdona e dona speranza.
La domenica successiva, la Terza di Avvento, si aprirà la Porta Santa nella Cattedrale di Roma, la Basilica di San Giovanni in Laterano. Successivamente, si aprirà la Porta Santa nelle altre Basiliche Papali. Nella stessa domenica stabilisco che in ogni Chiesa particolare, nella Cattedrale che è la Chiesa Madre per tutti i fedeli, oppure nella Concattedrale o in una chiesa di speciale significato, si apra per tutto l’Anno Santo una uguale Porta della Misericordia. A scelta dell’Ordinario, essa potrà essere aperta anche nei Santuari, mete di tanti pellegrini, che in questi luoghi sacri spesso sono toccati nel cuore dalla grazia e trovano la via della conversione. Ogni Chiesa particolare, quindi, sarà direttamente coinvolta a vivere questo Anno Santo come un momento straordinario di grazia e di rinnovamento spirituale. Il Giubileo, pertanto, sarà celebrato a Roma così come nelle Chiese particolari quale segno visibile della comunione di tutta la Chiesa.
4. Ho scelto la data dell’8 dicembre perché è carica di significato per la storia recente della Chiesa. Aprirò infatti la Porta Santa nel cinquantesimo anniversario della conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II. La Chiesa sente il bisogno di mantenere vivo quell’evento. Per lei iniziava un nuovo percorso della sua storia. I Padri radunati nel Concilio avevano percepito forte, come un vero soffio dello Spirito, l’esigenza di parlare di Dio agli uomini del loro tempo in un modo più comprensibile. Abbattute le muraglie che per troppo tempo avevano rinchiuso la Chiesa in una cittadella privilegiata, era giunto il tempo di annunciare il Vangelo in modo nuovo. Una nuova tappa dell’evangelizzazione di sempre. Un nuovo impegno per tutti i cristiani per testimoniare con più entusiasmo e convinzione la loro fede. La Chiesa sentiva la responsabilità di essere nel mondo il segno vivo dell’amore del Padre.
Tornano alla mente le parole cariche di significato che san Giovanni XXIII pronunciò all’apertura del Concilio per indicare il sentiero da seguire: «Ora la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore … La Chiesa Cattolica, mentre con questo Concilio Ecumenico innalza la fiaccola della verità cattolica, vuole mostrarsi madre amorevolissima di tutti, benigna, paziente, mossa da misericordia e da bontà verso i figli da lei separati» [2]. Sullo stesso orizzonte, si poneva anche il beato Paolo VI, che si esprimeva così a conclusione del Concilio: «Vogliamo piuttosto notare come la religione del nostro Concilio sia stata principalmente la carità … L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio … Una corrente di affetto e di ammirazione si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno. Riprovati gli errori, sì; perché ciò esige la carità, non meno che la verità; ma per le persone solo richiamo, rispetto ed amore. Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal Concilio verso il mondo contemporaneo: i suoi valori sono stati non solo rispettati, ma onorati, i suoi sforzi sostenuti, le sue aspirazioni purificate e benedette … Un’altra cosa dovremo rilevare: tutta questa ricchezza dottrinale è rivolta in un’unica direzione: servire l’uomo. L’uomo, diciamo, in ogni sua condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità» [3].
Con questi sentimenti di gratitudine per quanto la Chiesa ha ricevuto e di responsabilità per il compito che ci attende, attraverseremo la Porta Santa con piena fiducia di essere accompagnati dalla forza del Signore Risorto che continua a sostenere il nostro pellegrinaggio. Lo Spirito Santo che conduce i passi dei credenti per cooperare all’opera di salvezza operata da Cristo, sia guida e sostegno del Popolo di Dio per aiutarlo a contemplare il volto della misericordia [4].
5. L’Anno giubilare si concluderà nella solennità liturgica di Gesù Cristo Signore dell’universo, il 20 novembre 2016. In quel giorno, chiudendo la Porta Santa avremo anzitutto sentimenti di gratitudine e di ringraziamento verso la SS. Trinità per averci concesso questo tempo straordinario di grazia. Affideremo la vita della Chiesa, l’umanità intera e il cosmo immenso alla Signoria di Cristo, perché effonda la sua misericordia come la rugiada del mattino per una feconda storia da costruire con l’impegno di tutti nel prossimo futuro. Come desidero che gli anni a venire siano intrisi di misericordia per andare incontro ad ogni persona portando la bontà e la tenerezza di Dio! A tutti, credenti e lontani, possa giungere il balsamo della misericordia come segno del Regno di Dio già presente in mezzo a noi.
6. «È proprio di Dio usare misericordia e specialmente in questo si manifesta la sua onnipotenza» [5]. Le parole di san Tommaso d’Aquino mostrano quanto la misericordia divina non sia affatto un segno di debolezza, ma piuttosto la qualità dell’onnipotenza di Dio. È per questo che la liturgia, in una delle collette più antiche, fa pregare dicendo: «O Dio che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono» [6]. Dio sarà per sempre nella storia dell’umanità come Colui che è presente, vicino, provvidente, santo e misericordioso.
“Paziente e misericordioso” è il binomio che ricorre spesso nell’Antico Testamento per descrivere la natura di Dio. Il suo essere misericordioso trova riscontro concreto in tante azioni della storia della salvezza dove la sua bontà prevale sulla punizione e la distruzione. I Salmi, in modo particolare, fanno emergere questa grandezza dell’agire divino: «Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia» (103,3-4). In modo ancora più esplicito, un altro Salmo attesta i segni concreti della misericordia: «Il Signore libera i prigionieri, il Signore ridona la vista ai ciechi, il Signore rialza chi è caduto, il Signore ama i giusti, il Signore protegge i forestieri, egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie dei malvagi» (146,7-9). E da ultimo, ecco altre espressioni del Salmista: «[Il Signore] risana i cuori affranti e fascia le loro ferite. … Il Signore sostiene i poveri, ma abbassa fino a terra i malvagi» (147,3.6). Insomma, la misericordia di Dio non è un’idea astratta, ma una realtà concreta con cui Egli rivela il suo amore come quello di un padre e di una madre che si commuovono fino dal profondo delle viscere per il proprio figlio. È veramente il caso di dire che è un amore “viscerale”. Proviene dall’intimo come un sentimento profondo, naturale, fatto di tenerezza e di compassione, di indulgenza e di perdono.
7. “Eterna è la sua misericordia”: è il ritornello che viene riportato ad ogni versetto del Salmo 136 mentre si narra la storia della rivelazione di Dio. In forza della misericordia, tutte le vicende dell’antico testamento sono cariche di un profondo valore salvifico. La misericordia rende la storia di Dio con Israele una storia di salvezza. Ripetere continuamente: “Eterna è la sua misericordia”, come fa il Salmo, sembra voler spezzare il cerchio dello spazio e del tempo per inserire tutto nel mistero eterno dell’amore. È come se si volesse dire che non solo nella storia, ma per l’eternità l’uomo sarà sempre sotto lo sguardo misericordioso del Padre. Non è un caso che il popolo di Israele abbia voluto inserire questo Salmo, il “Grande hallel” come viene chiamato, nelle feste liturgiche più importanti.
Prima della Passione Gesù ha pregato con questo Salmo della misericordia. Lo attesta l’evangelista Matteo quando dice che «dopo aver cantato l’inno» (26,30), Gesù con i discepoli uscirono verso il monte degli ulivi. Mentre Egli istituiva l’Eucaristia, quale memoriale perenne di Lui e della sua Pasqua, poneva simbolicamente questo atto supremo della Rivelazione alla luce della misericordia. Nello stesso orizzonte della misericordia, Gesù viveva la sua passione e morte, cosciente del grande mistero di amore che si sarebbe compiuto sulla croce. Sapere che Gesù stesso ha pregato con questo Salmo, lo rende per noi cristiani ancora più importante e ci impegna ad assumerne il ritornello nella nostra quotidiana preghiera di lode: “Eterna è la sua misericordia”.
8. Con lo sguardo fisso su Gesù e il suo volto misericordioso possiamo cogliere l’amore della SS. Trinità. La missione che Gesù ha ricevuto dal Padre è stata quella di rivelare il mistero dell’amore divino nella sua pienezza. «Dio è amore» (1 Gv 4,8.16), afferma per la prima e unica volta in tutta la Sacra Scrittura l’evangelista Giovanni. Questo amore è ormai reso visibile e tangibile in tutta la vita di Gesù. La sua persona non è altro che amore, un amore che si dona gratuitamente. Le sue relazioni con le persone che lo accostano manifestano qualcosa di unico e di irripetibile. I segni che compie, soprattutto nei confronti dei peccatori, delle persone povere, escluse, malate e sofferenti, sono all’insegna della misericordia. Tutto in Lui parla di misericordia. Nulla in Lui è privo di compassione.
Gesù, dinanzi alla moltitudine di persone che lo seguivano, vedendo che erano stanche e sfinite, smarrite e senza guida, sentì fin dal profondo del cuore una forte compassione per loro (cfr Mt 9,36). In forza di questo amore compassionevole guarì i malati che gli venivano presentati (cfr Mt 14,14), e con pochi pani e pesci sfamò grandi folle (cfr Mt 15,37). Ciò che muoveva Gesù in tutte le circostanze non era altro che la misericordia, con la quale leggeva nel cuore dei suoi interlocutori e rispondeva al loro bisogno più vero. Quando incontrò la vedova di Naim che portava il suo unico figlio al sepolcro, provò grande compassione per quel dolore immenso della madre in pianto, e le riconsegnò il figlio risuscitandolo dalla morte (cfr Lc 7,15). Dopo aver liberato l’indemoniato di Gerasa, gli affida questa missione: «Annuncia ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te» (Mc 5,19). Anche la vocazione di Matteo è inserita nell’orizzonte della misericordia. Passando dinanzi al banco delle imposte gli occhi di Gesù fissarono quelli di Matteo. Era uno sguardo carico di misericordia che perdonava i peccati di quell’uomo e, vincendo le resistenze degli altri discepoli, scelse lui, il peccatore e pubblicano, per diventare uno dei Dodici. San Beda il Venerabile, commentando questa scena del Vangelo, ha scritto che Gesù guardò Matteo con amore misericordioso e lo scelse: miserando atque eligendo[7]. Mi ha sempre impressionato questa espressione, tanto da farla diventare il mio motto.
9. Nelle parabole dedicate alla misericordia, Gesù rivela la natura di Dio come quella di un Padre che non si dà mai per vinto fino a quando non ha dissolto il peccato e vinto il rifiuto, con la compassione e la misericordia. Conosciamo queste parabole, tre in particolare: quelle della pecora smarrita e della moneta perduta, e quella del padre e i due figli (cfr Lc 15,1-32). In queste parabole, Dio viene sempre presentato come colmo di gioia, soprattutto quando perdona. In esse troviamo il nucleo del Vangelo e della nostra fede, perché la misericordia è presentata come la forza che tutto vince, che riempie il cuore di amore e che consola con il perdono.
Da un’altra parabola, inoltre, ricaviamo un insegnamento per il nostro stile di vita cristiano. Provocato dalla domanda di Pietro su quante volte fosse necessario perdonare, Gesù rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette» (Mt 18,22), e raccontò la parabola del “servo spietato”. Costui, chiamato dal padrone a restituire una grande somma, lo supplica in ginocchio e il padrone gli condona il debito. Ma subito dopo incontra un altro servo come lui che gli era debitore di pochi centesimi, il quale lo supplica in ginocchio di avere pietà, ma lui si rifiuta e lo fa imprigionare. Allora il padrone, venuto a conoscenza del fatto, si adira molto e richiamato quel servo gli dice: «Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?» (Mt 18,33). E Gesù concluse: «Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello» (Mt 18,35).
La parabola contiene un profondo insegnamento per ciascuno di noi. Gesù afferma che la misericordia non è solo l’agire del Padre, ma diventa il criterio per capire chi sono i suoi veri figli. Insomma, siamo chiamati a vivere di misericordia, perché a noi per primi è stata usata misericordia. Il perdono delle offese diventa l’espressione più evidente dell’amore misericordioso e per noi cristiani è un imperativo da cui non possiamo prescindere. Come sembra difficile tante volte perdonare! Eppure, il perdono è lo strumento posto nelle nostre fragili mani per raggiungere la serenità del cuore. Lasciar cadere il rancore, la rabbia, la violenza e la vendetta sono condizioni necessarie per vivere felici. Accogliamo quindi l’esortazione dell’apostolo: «Non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4,26). E soprattutto ascoltiamo la parola di Gesù che ha posto la misericordia come un ideale di vita e come criterio di credibilità per la nostra fede: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5,7) è la beatitudine a cui ispirarsi con particolare impegno in questo Anno Santo.
Come si nota, la misericordia nella Sacra Scrittura è la parola-chiave per indicare l’agire di Dio verso di noi. Egli non si limita ad affermare il suo amore, ma lo rende visibile e tangibile. L’amore, d’altronde, non potrebbe mai essere una parola astratta. Per sua stessa natura è vita concreta: intenzioni, atteggiamenti, comportamenti che si verificano nell’agire quotidiano. La misericordia di Dio è la sua responsabilità per noi. Lui si sente responsabile, cioè desidera il nostro bene e vuole vederci felici, colmi di gioia e sereni. È sulla stessa lunghezza d’onda che si deve orientare l’amore misericordioso dei cristiani. Come ama il Padre così amano i figli. Come è misericordioso Lui, così siamo chiamati ad essere misericordiosi noi, gli uni verso gli altri.
10. L’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia. Tutto della sua azione pastorale dovrebbe essere avvolto dalla tenerezza con cui si indirizza ai credenti; nulla del suo annuncio e della sua testimonianza verso il mondo può essere privo di misericordia. La credibilità della Chiesa passa attraverso la strada dell’amore misericordioso e compassionevole. La Chiesa «vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia»[8]. Forse per tanto tempo abbiamo dimenticato di indicare e di vivere la via della misericordia. La tentazione, da una parte, di pretendere sempre e solo la giustizia ha fatto dimenticare che questa è il primo passo, necessario e indispensabile, ma la Chiesa ha bisogno di andare oltre per raggiungere una meta più alta e più significativa. Dall’altra parte, è triste dover vedere come l’esperienza del perdono nella nostra cultura si faccia sempre più diradata. Perfino la parola stessa in alcuni momenti sembra svanire. Senza la testimonianza del perdono, tuttavia, rimane solo una vita infeconda e sterile, come se si vivesse in un deserto desolato. È giunto di nuovo per la Chiesa il tempo di farsi carico dell’annuncio gioioso del perdono. È il tempo del ritorno all’essenziale per farci carico delle debolezze e delle difficoltà dei nostri fratelli. Il perdono è una forza che risuscita a vita nuova e infonde il coraggio per guardare al futuro con speranza.
11. Non possiamo dimenticare il grande insegnamento che san Giovanni Paolo II ha offerto con la sua seconda Enciclica Dives in misericordia, che all’epoca giunse inaspettata e colse molti di sorpresa per il tema che veniva affrontato. Due espressioni in particolare desidero ricordare. Anzitutto, il santo Papa rilevava la dimenticanza del tema della misericordia nella cultura dei nostri giorni: «La mentalità contemporanea, forse più di quella dell’uomo del passato, sembra opporsi al Dio di misericordia e tende altresì ad emarginare dalla vita e a distogliere dal cuore umano l’idea stessa della misericordia. La parola e il concetto di misericordia sembrano porre a disagio l’uomo, il quale, grazie all’enorme sviluppo della scienza e della tecnica, non mai prima conosciuto nella storia, è diventato padrone ed ha soggiogato e dominato la terra (cfr Gen 1,28). Tale dominio sulla terra, inteso talvolta unilateralmente e superficialmente, sembra che non lasci spazio alla misericordia … Ed è per questo che, nell’odierna situazione della Chiesa e del mondo, molti uomini e molti ambienti guidati da un vivo senso di fede si rivolgono, direi, quasi spontaneamente alla misericordia di Dio» [9].
Inoltre, san Giovanni Paolo II così motivava l’urgenza di annunciare e testimoniare la misericordia nel mondo contemporaneo: «Essa è dettata dall’amore verso l’uomo, verso tutto ciò che è umano e che, secondo l’intuizione di gran parte dei contemporanei, è minacciato da un pericolo immenso. Il mistero di Cristo … mi obbliga a proclamare la misericordia quale amore misericordioso di Dio, rivelato nello stesso mistero di Cristo. Esso mi obbliga anche a richiamarmi a tale misericordia e ad implorarla in questa difficile, critica fase della storia della Chiesa e del mondo» [10]. Tale suo insegnamento è più che mai attuale e merita di essere ripreso in questo Anno Santo. Accogliamo nuovamente le sue parole: «La Chiesa vive una vita autentica quando professa e proclama la misericordia – il più stupendo attributo del Creatore e del Redentore – e quando accosta gli uomini alle fonti della misericordia del Salvatore di cui essa è depositaria e dispensatrice» [11].
12. La Chiesa ha la missione di annunciare la misericordia di Dio, cuore pulsante del Vangelo, che per mezzo suo deve raggiungere il cuore e la mente di ogni persona. La Sposa di Cristo fa suo il comportamento del Figlio di Dio che a tutti va incontro senza escludere nessuno. Nel nostro tempo, in cui la Chiesa è impegnata nella nuova evangelizzazione, il tema della misericordia esige di essere riproposto con nuovo entusiasmo e con una rinnovata azione pastorale. È determinante per la Chiesa e per la credibilità del suo annuncio che essa viva e testimoni in prima persona la misericordia. Il suo linguaggio e i suoi gesti devono trasmettere misericordia per penetrare nel cuore delle persone e provocarle a ritrovare la strada per ritornare al Padre.
La prima verità della Chiesa è l’amore di Cristo. Di questo amore, che giunge fino al perdono e al dono di sé, la Chiesa si fa serva e mediatrice presso gli uomini. Pertanto, dove la Chiesa è presente, là deve essere evidente la misericordia del Padre. Nelle nostre parrocchie, nelle comunità, nelle associazioni e nei movimenti, insomma, dovunque vi sono dei cristiani, chiunque deve poter trovare un’oasi di misericordia.
13. Vogliamo vivere questo Anno Giubilare alla luce della parola del Signore: Misericordiosi come il Padre. L’evangelista riporta l’insegnamento di Gesù che dice: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36). È un programma di vita tanto impegnativo quanto ricco di gioia e di pace. L’imperativo di Gesù è rivolto a quanti ascoltano la sua voce (cfr Lc 6,27). Per essere capaci di misericordia, quindi, dobbiamo in primo luogo porci in ascolto della Parola di Dio. Ciò significa recuperare il valore del silenzio per meditare la Parola che ci viene rivolta. In questo modo è possibile contemplare la misericordia di Dio e assumerlo come proprio stile di vita.
14. Il pellegrinaggio è un segno peculiare nell’Anno Santo, perché è icona del cammino che ogni persona compie nella sua esistenza. La vita è un pellegrinaggio e l’essere umano è viator, un pellegrino che percorre una strada fino alla meta agognata. Anche per raggiungere la Porta Santa a Roma e in ogni altro luogo, ognuno dovrà compiere, secondo le proprie forze, un pellegrinaggio. Esso sarà un segno del fatto che anche la misericordia è una meta da raggiungere e che richiede impegno e sacrificio. Il pellegrinaggio, quindi, sia stimolo alla conversione: attraversando la Porta Santa ci lasceremo abbracciare dalla misericordia di Dio e ci impegneremo ad essere misericordiosi con gli altri come il Padre lo è con noi.
Il Signore Gesù indica le tappe del pellegrinaggio attraverso cui è possibile raggiungere questa meta: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6,37-38). Dice anzitutto di non giudicare e di non condannare. Se non si vuole incorrere nel giudizio di Dio, nessuno può diventare giudice del proprio fratello. Gli uomini, infatti, con il loro giudizio si fermano alla superficie, mentre il Padre guarda nell’intimo. Quanto male fanno le parole quando sono mosse da sentimenti di gelosia e invidia! Parlare male del fratello in sua assenza equivale a porlo in cattiva luce, a compromettere la sua reputazione e lasciarlo in balia della chiacchiera. Non giudicare e non condannare significa, in positivo, saper cogliere ciò che di buono c’è in ogni persona e non permettere che abbia a soffrire per il nostro giudizio parziale e la nostra presunzione di sapere tutto. Ma questo non è ancora sufficiente per esprimere la misericordia. Gesù chiede anche di perdonare e di donare. Essere strumenti del perdono, perché noi per primi lo abbiamo ottenuto da Dio. Essere generosi nei confronti di tutti, sapendo che anche Dio elargisce la sua benevolenza su di noi con grande magnanimità.
Misericordiosi come il Padre, dunque, è il “motto” dell’Anno Santo. Nella misericordia abbiamo la prova di come Dio ama. Egli dà tutto se stesso, per sempre, gratuitamente, e senza nulla chiedere in cambio. Viene in nostro aiuto quando lo invochiamo. È bello che la preghiera quotidiana della Chiesa inizi con queste parole: «O Dio, vieni a salvarmi, Signore, vieni presto in mio aiuto» (Sal 70,2). L’aiuto che invochiamo è già il primo passo della misericordia di Dio verso di noi. Egli viene a salvarci dalla condizione di debolezza in cui viviamo. E il suo aiuto consiste nel farci cogliere la sua presenza e la sua vicinanza. Giorno per giorno, toccati dalla sua compassione, possiamo anche noi diventare compassionevoli verso tutti.
15. In questo Anno Santo, potremo fare l’esperienza di aprire il cuore a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali, che spesso il mondo moderno crea in maniera drammatica. Quante situazioni di precarietà e sofferenza sono presenti nel mondo di oggi! Quante ferite sono impresse nella carne di tanti che non hanno più voce perché il loro grido si è affievolito e spento a causa dell’indifferenza dei popoli ricchi. In questo Giubileo ancora di più la Chiesa sarà chiamata a curare queste ferite, a lenirle con l’olio della consolazione, fasciarle con la misericordia e curarle con la solidarietà e l’attenzione dovuta. Non cadiamo nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge. Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani, e tiriamoli a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità. Che il loro grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la barriera di indifferenza che spesso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo.
È mio vivo desiderio che il popolo cristiano rifletta durante il Giubileo sulle opere di misericordia corporale e spirituale. Sarà un modo per risvegliare la nostra coscienza spesso assopita davanti al dramma della povertà e per entrare sempre di più nel cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della misericordia divina. La predicazione di Gesù ci presenta queste opere di misericordia perché possiamo capire se viviamo o no come suoi discepoli. Riscopriamo le opere di misericordia corporale: dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, vestire gli ignudi, accogliere i forestieri, assistere gli ammalati, visitare i carcerati, seppellire i morti. E non dimentichiamo le opere di misericordia spirituale: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti.
Non possiamo sfuggire alle parole del Signore e in base ad esse saremo giudicati: se avremo dato da mangiare a chi ha fame e da bere a chi ha sete. Se avremo accolto il forestiero e vestito chi è nudo. Se avremo avuto tempo per stare con chi è malato e prigioniero (cfr Mt 25,31-45). Ugualmente, ci sarà chiesto se avremo aiutato ad uscire dal dubbio che fa cadere nella paura e che spesso è fonte di solitudine; se saremo stati capaci di vincere l’ignoranza in cui vivono milioni di persone, soprattutto i bambini privati dell’aiuto necessario per essere riscattati dalla povertà; se saremo stati vicini a chi è solo e afflitto; se avremo perdonato chi ci offende e respinto ogni forma di rancore e di odio che porta alla violenza; se avremo avuto pazienza sull’esempio di Dio che è tanto paziente con noi; se, infine, avremo affidato al Signore nella preghiera i nostri fratelli e sorelle. In ognuno di questi “più piccoli” è presente Cristo stesso. La sua carne diventa di nuovo visibile come corpo martoriato, piagato, flagellato, denutrito, in fuga… per essere da noi riconosciuto, toccato e assistito con cura. Non dimentichiamo le parole di san Giovanni della Croce: «Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore» [12].
16. Nel Vangelo di Luca troviamo un altro aspetto importante per vivere con fede il Giubileo. Racconta l’evangelista che Gesù, un sabato, ritornò a Nazaret e, come era solito fare, entrò nella Sinagoga. Lo chiamarono a leggere la Scrittura e commentarla. Il passo era quello del profeta Isaia dove sta scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di misericordia del Signore» (61,1-2). “Un anno di misericordia”: è questo quanto viene annunciato dal Signore e che noi desideriamo vivere. Questo Anno Santo porta con sé la ricchezza della missione di Gesù che risuona nelle parole del Profeta: portare una parola e un gesto di consolazione ai poveri, annunciare la liberazione a quanti sono prigionieri delle nuove schiavitù della società moderna, restituire la vista a chi non riesce più a vedere perché curvo su sé stesso, e restituire dignità a quanti ne sono stati privati. La predicazione di Gesù si rende di nuovo visibile nelle risposte di fede che la testimonianza dei cristiani è chiamata ad offrire. Ci accompagnino le parole dell’Apostolo: «Chi fa opere di misericordia, le compia con gioia» (Rm 12,8).
17. La Quaresima di questo Anno Giubilare sia vissuta più intensamente come momento forte per celebrare e sperimentare la misericordia di Dio. Quante pagine della Sacra Scrittura possono essere meditate nelle settimane della Quaresima per riscoprire il volto misericordioso del Padre! Con le parole del profeta Michea possiamo anche noi ripetere: Tu, o Signore, sei un Dio che toglie l’iniquità e perdona il peccato, che non serbi per sempre la tua ira, ma ti compiaci di usare misericordia. Tu, Signore, ritornerai a noi e avrai pietà del tuo popolo. Calpesterai le nostre colpe e getterai in fondo al mare tutti i nostri peccati (cfr 7,18-19).
Le pagine del profeta Isaia potranno essere meditate più concretamente in questo tempo di preghiera, digiuno e carità: «Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà. Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”. Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio. Ti guiderà sempre il Signore, ti sazierà in terreni aridi, rinvigorirà le tue ossa; sarai come un giardino irrigato e come una sorgente le cui acque non inaridiscono» (58,6-11).
L’iniziativa “24 ore per il Signore”, da celebrarsi nel venerdì e sabato che precedono la IV Domenica di Quaresima, è da incrementare nelle Diocesi. Tante persone si stanno riavvicinando al sacramento della Riconciliazione e tra questi molti giovani, che in tale esperienza ritrovano spesso il cammino per ritornare al Signore, per vivere un momento di intensa preghiera e riscoprire il senso della propria vita. Poniamo di nuovo al centro con convinzione il sacramento della Riconciliazione, perché permette di toccare con mano la grandezza della misericordia. Sarà per ogni penitente fonte di vera pace interiore.
Non mi stancherò mai di insistere perché i confessori siano un vero segno della misericordia del Padre. Non ci si improvvisa confessori. Lo si diventa quando, anzitutto, ci facciamo noi per primi penitenti in cerca di perdono. Non dimentichiamo mai che essere confessori significa partecipare della stessa missione di Gesù ed essere segno concreto della continuità di un amore divino che perdona e che salva. Ognuno di noi ha ricevuto il dono dello Spirito Santo per il perdono dei peccati, di questo siamo responsabili. Nessuno di noi è padrone del Sacramento, ma un fedele servitore del perdono di Dio. Ogni confessore dovrà accogliere i fedeli come il padre nella parabola del figlio prodigo: un padre che corre incontro al figlio nonostante avesse dissipato i suoi beni. I confessori sono chiamati a stringere a sé quel figlio pentito che ritorna a casa e ad esprimere la gioia per averlo ritrovato. Non si stancheranno di andare anche verso l’altro figlio rimasto fuori e incapace di gioire, per spiegargli che il suo giudizio severo è ingiusto, e non ha senso dinanzi alla misericordia del Padre che non ha confini. Non porranno domande impertinenti, ma come il padre della parabola interromperanno il discorso preparato dal figlio prodigo, perché sapranno cogliere nel cuore di ogni penitente l’invocazione di aiuto e la richiesta di perdono. Insomma, i confessori sono chiamati ad essere sempre, dovunque, in ogni situazione e nonostante tutto, il segno del primato della misericordia.
18. Nella Quaresima di questo Anno Santo ho l’intenzione di inviare i Missionari della Misericordia. Saranno un segno della sollecitudine materna della Chiesa per il Popolo di Dio, perché entri in profondità nella ricchezza di questo mistero così fondamentale per la fede. Saranno sacerdoti a cui darò l’autorità di perdonare anche i peccati che sono riservati alla Sede Apostolica, perché sia resa evidente l’ampiezza del loro mandato. Saranno, soprattutto, segno vivo di come il Padre accoglie quanti sono in ricerca del suo perdono. Saranno dei missionari della misericordia perché si faranno artefici presso tutti di un incontro carico di umanità, sorgente di liberazione, ricco di responsabilità per superare gli ostacoli e riprendere la vita nuova del Battesimo. Si lasceranno condurre nella loro missione dalle parole dell’Apostolo: «Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti» (Rm 11,32). Tutti infatti, nessuno escluso, sono chiamati a cogliere l’appello alla misericordia. I missionari vivano questa chiamata sapendo di poter fissare lo sguardo su Gesù, «sommo sacerdote misericordioso e degno di fede» (Eb 2,17).
Chiedo ai confratelli Vescovi di invitare e di accogliere questi Missionari, perché siano anzitutto predicatori convincenti della misericordia. Si organizzino nelle Diocesi delle “missioni al popolo”, in modo che questi Missionari siano annunciatori della gioia del perdono. Si chieda loro di celebrare il sacramento della Riconciliazione per il popolo, perché il tempo di grazia donato nell’Anno Giubilare permetta a tanti figli lontani di ritrovare il cammino verso la casa paterna. I Pastori, specialmente durante il tempo forte della Quaresima, siano solleciti nel richiamare i fedeli ad accostarsi «al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia» (Eb 4,16).
19. La parola del perdono possa giungere a tutti e la chiamata a sperimentare la misericordia non lasci nessuno indifferente. Il mio invito alla conversione si rivolge con ancora più insistenza verso quelle persone che si trovano lontane dalla grazia di Dio per la loro condotta di vita. Penso in modo particolare agli uomini e alle donne che appartengono a un gruppo criminale, qualunque esso sia. Per il vostro bene, vi chiedo di cambiare vita. Ve lo chiedo nel nome del Figlio di Dio che, pur combattendo il peccato, non ha mai rifiutato nessun peccatore. Non cadete nella terribile trappola di pensare che la vita dipende dal denaro e che di fronte ad esso tutto il resto diventa privo di valore e di dignità. È solo un’illusione. Non portiamo il denaro con noi nell’al di là. Il denaro non ci dà la vera felicità. La violenza usata per ammassare soldi che grondano sangue non rende potenti né immortali. Per tutti, presto o tardi, viene il giudizio di Dio a cui nessuno potrà sfuggire.
Lo stesso invito giunga anche alle persone fautrici o complici di corruzione. Questa piaga putrefatta della società è un grave peccato che grida verso il cielo, perché mina fin dalle fondamenta la vita personale e sociale. La corruzione impedisce di guardare al futuro con speranza, perché con la sua prepotenza e avidità distrugge i progetti dei deboli e schiaccia i più poveri. E’ un male che si annida nei gesti quotidiani per estendersi poi negli scandali pubblici. La corruzione è un accanimento nel peccato, che intende sostituire Dio con l’illusione del denaro come forma di potenza. È un’opera delle tenebre, sostenuta dal sospetto e dall’intrigo. Corruptio optimi pessima, diceva con ragione san Gregorio Magno, per indicare che nessuno può sentirsi immune da questa tentazione. Per debellarla dalla vita personale e sociale sono necessarie prudenza, vigilanza, lealtà, trasparenza, unite al coraggio della denuncia. Se non la si combatte apertamente, presto o tardi rende complici e distrugge l’esistenza.
Questo è il momento favorevole per cambiare vita! Questo è il tempo di lasciarsi toccare il cuore. Davanti al male commesso, anche a crimini gravi, è il momento di ascoltare il pianto delle persone innocenti depredate dei beni, della dignità, degli affetti, della stessa vita. Rimanere sulla via del male è solo fonte di illusione e di tristezza. La vera vita è ben altro. Dio non si stanca di tendere la mano. È sempre disposto ad ascoltare, e anch’io lo sono, come i miei fratelli vescovi e sacerdoti. È sufficiente solo accogliere l’invito alla conversione e sottoporsi alla giustizia, mentre la Chiesa offre la misericordia.
20. Non sarà inutile in questo contesto richiamare al rapporto tra giustizia e misericordia. Non sono due aspetti in contrasto tra di loro, ma due dimensioni di un’unica realtà che si sviluppa progressivamente fino a raggiungere il suo apice nella pienezza dell’amore. La giustizia è un concetto fondamentale per la società civile quando, normalmente, si fa riferimento a un ordine giuridico attraverso il quale si applica la legge. Per giustizia si intende anche che a ciascuno deve essere dato ciò che gli è dovuto. Nella Bibbia, molte volte si fa riferimento alla giustizia divina e a Dio come giudice. La si intende di solito come l’osservanza integrale della Legge e il comportamento di ogni buon israelita conforme ai comandamenti dati da Dio. Questa visione, tuttavia, ha portato non poche volte a cadere nel legalismo, mistificando il senso originario e oscurando il valore profondo che la giustizia possiede. Per superare la prospettiva legalista, bisognerebbe ricordare che nella Sacra Scrittura la giustizia è concepita essenzialmente come un abbandonarsi fiducioso alla volontà di Dio.
Da parte sua, Gesù parla più volte dell’importanza della fede, piuttosto che dell’osservanza della legge. È in questo senso che dobbiamo comprendere le sue parole quando, trovandosi a tavola con Matteo e altri pubblicani e peccatori, dice ai farisei che lo contestavano: «Andate e imparate che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mt 9,13). Davanti alla visione di una giustizia come mera osservanza della legge, che giudica dividendo le persone in giusti e peccatori, Gesù punta a mostrare il grande dono della misericordia che ricerca i peccatori per offrire loro il perdono e la salvezza. Si comprende perché, a causa di questa sua visione così liberatrice e fonte di rinnovamento, Gesù sia stato rifiutato dai farisei e dai dottori della legge. Questi per essere fedeli alla legge ponevano solo pesi sulle spalle delle persone, vanificando però la misericordia del Padre. Il richiamo all’osservanza della legge non può ostacolare l’attenzione per le necessità che toccano la dignità delle persone.
Il richiamo che Gesù fa al testo del profeta Osea – «voglio l’amore e non il sacrificio» (6,6) – è molto significativo in proposito. Gesù afferma che d’ora in avanti la regola di vita dei suoi discepoli dovrà essere quella che prevede il primato della misericordia, come Lui stesso testimonia condividendo il pasto con i peccatori. La misericordia, ancora una volta, viene rivelata come dimensione fondamentale della missione di Gesù. Essa è una vera sfida dinanzi ai suoi interlocutori che si fermavano al rispetto formale della legge. Gesù, invece, va oltre la legge; la sua condivisione con quelli che la legge considerava peccatori fa comprendere fin dove arriva la sua misericordia.
Anche l’apostolo Paolo ha fatto un percorso simile. Prima di incontrare Cristo sulla via di Damasco, la sua vita era dedicata a perseguire in maniera irreprensibile la giustizia della legge (cfr Fil 3,6). La conversione a Cristo lo portò a ribaltare la sua visione, a tal punto che nella Lettera ai Galati afferma: «Abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge» (2,16). La sua comprensione della giustizia cambia radicalmente. Paolo ora pone al primo posto la fede e non più la legge. Non è l’osservanza della legge che salva, ma la fede in Gesù Cristo, che con la sua morte e resurrezione porta la salvezza con la misericordia che giustifica. La giustizia di Dio diventa adesso la liberazione per quanti sono oppressi dalla schiavitù del peccato e di tutte le sue conseguenze. La giustizia di Dio è il suo perdono (cfr Sal 51,11-16).
21. La misericordia non è contraria alla giustizia ma esprime il comportamento di Dio verso il peccatore, offrendogli un’ulteriore possibilità per ravvedersi, convertirsi e credere. L’esperienza del profeta Osea ci viene in aiuto per mostrarci il superamento della giustizia nella direzione della misericordia. L’epoca di questo profeta è tra le più drammatiche della storia del popolo ebraico. Il Regno è vicino alla distruzione; il popolo non è rimasto fedele all’alleanza, si è allontanato da Dio e ha perso la fede dei Padri. Secondo una logica umana, è giusto che Dio pensi di rifiutare il popolo infedele: non ha osservato il patto stipulato e quindi merita la dovuta pena, cioè l’esilio. Le parole del profeta lo attestano: «Non ritornerà al paese d’Egitto, ma Assur sarà il suo re, perché non hanno voluto convertirsi» (Os 11,5). Eppure, dopo questa reazione che si richiama alla giustizia, il profeta modifica radicalmente il suo linguaggio e rivela il vero volto di Dio: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Èfraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira» (11,8-9). Sant’Agostino, quasi a commentare le parole del profeta dice: «È più facile che Dio trattenga l’ira più che la misericordia»[13]. È proprio così. L’ira di Dio dura un istante, mentre la sua misericordia dura in eterno.
Se Dio si fermasse alla giustizia cesserebbe di essere Dio, sarebbe come tutti gli uomini che invocano il rispetto della legge. La giustizia da sola non basta, e l’esperienza insegna che appellarsi solo ad essa rischia di distruggerla. Per questo Dio va oltre la giustizia con la misericordia e il perdono. Ciò non significa svalutare la giustizia o renderla superflua, al contrario. Chi sbaglia dovrà scontare la pena. Solo che questo non è il fine, ma l’inizio della conversione, perché si sperimenta la tenerezza del perdono. Dio non rifiuta la giustizia. Egli la ingloba e supera in un evento superiore dove si sperimenta l’amore che è a fondamento di una vera giustizia. Dobbiamo prestare molta attenzione a quanto scrive Paolo per non cadere nello stesso errore che l’Apostolo rimproverava ai Giudei suoi contemporanei: «Ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio. Ora, il termine della Legge è Cristo, perché la giustizia sia data a chiunque crede» (Rm 10,3-4). Questa giustizia di Dio è la misericordia concessa a tutti come grazia in forza della morte e risurrezione di Gesù Cristo. La Croce di Cristo, dunque, è il giudizio di Dio su tutti noi e sul mondo, perché ci offre la certezza dell’amore e della vita nuova.
22. Il Giubileo porta con sé anche il riferimento all’indulgenza. Nell’Anno Santo della Misericordia essa acquista un rilievo particolare. Il perdono di Dio per i nostri peccati non conosce confini. Nella morte e risurrezione di Gesù Cristo, Dio rende evidente questo suo amore che giunge fino a distruggere il peccato degli uomini. Lasciarsi riconciliare con Dio è possibile attraverso il mistero pasquale e la mediazione della Chiesa. Dio quindi è sempre disponibile al perdono e non si stanca mai di offrirlo in maniera sempre nuova e inaspettata. Noi tutti, tuttavia, facciamo esperienza del peccato. Sappiamo di essere chiamati alla perfezione (cfr Mt 5,48), ma sentiamo forte il peso del peccato. Mentre percepiamo la potenza della grazia che ci trasforma, sperimentiamo anche la forza del peccato che ci condiziona. Nonostante il perdono, nella nostra vita portiamo le contraddizioni che sono la conseguenza dei nostri peccati. Nel sacramento della Riconciliazione Dio perdona i peccati, che sono davvero cancellati; eppure, l’impronta negativa che i peccati hanno lasciato nei nostri comportamenti e nei nostri pensieri rimane. La misericordia di Dio però è più forte anche di questo. Essa diventa indulgenza del Padre che attraverso la Sposa di Cristo raggiunge il peccatore perdonato e lo libera da ogni residuo della conseguenza del peccato, abilitandolo ad agire con carità, a crescere nell’amore piuttosto che ricadere nel peccato.
La Chiesa vive la comunione dei Santi. Nell’Eucaristia questa comunione, che è dono di Dio, si attua come unione spirituale che lega noi credenti con i Santi e i Beati il cui numero è incalcolabile (cfr Ap 7,4). La loro santità viene in aiuto alla nostra fragilità, e così la Madre Chiesa è capace con la sua preghiera e la sua vita di venire incontro alla debolezza di alcuni con la santità di altri. Vivere dunque l’indulgenza nell’Anno Santo significa accostarsi alla misericordia del Padre con la certezza che il suo perdono si estende su tutta la vita del credente. Indulgenza è sperimentare la santità della Chiesa che partecipa a tutti i benefici della redenzione di Cristo, perché il perdono sia esteso fino alle estreme conseguenze a cui giunge l’amore di Dio. Viviamo intensamente il Giubileo chiedendo al Padre il perdono dei peccati e l’estensione della sua indulgenza misericordiosa.
23. La misericordia possiede una valenza che va oltre i confini della Chiesa. Essa ci relaziona all’Ebraismo e all’Islam, che la considerano uno degli attributi più qualificanti di Dio. Israele per primo ha ricevuto questa rivelazione, che permane nella storia come inizio di una ricchezza incommensurabile da offrire all’intera umanità. Come abbiamo visto, le pagine dell’Antico Testamento sono intrise di misericordia, perché narrano le opere che il Signore ha compiuto a favore del suo popolo nei momenti più difficili della sua storia. L’Islam, da parte sua, tra i nomi attribuiti al Creatore pone quello di Misericordioso e Clemente. Questa invocazione è spesso sulle labbra dei fedeli musulmani, che si sentono accompagnati e sostenuti dalla misericordia nella loro quotidiana debolezza. Anch’essi credono che nessuno può limitare la misericordia divina perché le sue porte sono sempre aperte.
Questo Anno Giubilare vissuto nella misericordia possa favorire l’incontro con queste religioni e con le altre nobili tradizioni religiose; ci renda più aperti al dialogo per meglio conoscerci e comprenderci; elimini ogni forma di chiusura e di disprezzo ed espella ogni forma di violenza e di discriminazione.
24. Il pensiero ora si volge alla Madre della Misericordia. La dolcezza del suo sguardo ci accompagni in questo Anno Santo, perché tutti possiamo riscoprire la gioia della tenerezza di Dio. Nessuno come Maria ha conosciuto la profondità del mistero di Dio fatto uomo. Tutto nella sua vita è stato plasmato dalla presenza della misericordia fatta carne. La Madre del Crocifisso Risorto è entrata nel santuario della misericordia divina perché ha partecipato intimamente al mistero del suo amore.
Scelta per essere la Madre del Figlio di Dio, Maria è stata da sempre preparata dall’amore del Padre per essere Arca dell’Alleanza tra Dio e gli uomini. Ha custodito nel suo cuore la divina misericordia in perfetta sintonia con il suo Figlio Gesù. Il suo canto di lode, sulla soglia della casa di Elisabetta, fu dedicato alla misericordia che si estende «di generazione in generazione» (Lc 1,50). Anche noi eravamo presenti in quelle parole profetiche della Vergine Maria. Questo ci sarà di conforto e di sostegno mentre attraverseremo la Porta Santa per sperimentare i frutti della misericordia divina.
Presso la croce, Maria insieme a Giovanni, il discepolo dell’amore, è testimone delle parole di perdono che escono dalle labbra di Gesù. Il perdono supremo offerto a chi lo ha crocifisso ci mostra fin dove può arrivare la misericordia di Dio. Maria attesta che la misericordia del Figlio di Dio non conosce confini e raggiunge tutti senza escludere nessuno. Rivolgiamo a lei la preghiera antica e sempre nuova della Salve Regina, perché non si stanchi mai di rivolgere a noi i suoi occhi misericordiosi e ci renda degni di contemplare il volto della misericordia, suo Figlio Gesù.
La nostra preghiera si estenda anche ai tanti Santi e Beati che hanno fatto della misericordia la loro missione di vita. In particolare il pensiero è rivolto alla grande apostola della misericordia, santa Faustina Kowalska. Lei, che fu chiamata ad entrare nelle profondità della divina misericordia, interceda per noi e ci ottenga di vivere e camminare sempre nel perdono di Dio e nell’incrollabile fiducia nel suo amore.
25. Un Anno Santo straordinario, dunque, per vivere nella vita di ogni giorno la misericordia che da sempre il Padre estende verso di noi. In questo Giubileo lasciamoci sorprendere da Dio. Lui non si stanca mai di spalancare la porta del suo cuore per ripetere che ci ama e vuole condividere con noi la sua vita. La Chiesa sente in maniera forte l’urgenza di annunciare la misericordia di Dio. La sua vita è autentica e credibile quando fa della misericordia il suo annuncio convinto. Essa sa che il suo primo compito, soprattutto in un momento come il nostro colmo di grandi speranze e forti contraddizioni, è quello di introdurre tutti nel grande mistero della misericordia di Dio, contemplando il volto di Cristo. La Chiesa è chiamata per prima ad essere testimone veritiera della misericordia professandola e vivendola come il centro della Rivelazione di Gesù Cristo. Dal cuore della Trinità, dall’intimo più profondo del mistero di Dio, sgorga e scorre senza sosta il grande fiume della misericordia. Questa fonte non potrà mai esaurirsi, per quanti siano quelli che vi si accostano. Ogni volta che ognuno ne avrà bisogno, potrà accedere ad essa, perché la misericordia di Dio è senza fine. Tanto è imperscrutabile la profondità del mistero che racchiude, tanto è inesauribile la ricchezza che da essa proviene.
In questo Anno Giubilare la Chiesa si faccia eco della Parola di Dio che risuona forte e convincente come una parola e un gesto di perdono, di sostegno, di aiuto, di amore. Non si stanchi mai di offrire misericordia e sia sempre paziente nel confortare e perdonare. La Chiesa si faccia voce di ogni uomo e ogni donna e ripeta con fiducia e senza sosta: «Ricordati, Signore, della tua misericordia e del tuo amore, che è da sempre» (Sal 25,6).
Dato a Roma, presso San Pietro, l’11 aprile, Vigilia della II Domenica di Pasqua o della Divina Misericordia, dell’Anno del Signore 2015, terzo di pontificato.
Franciscus
[1] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Dei Verbum, 4.
[2] Discorso di apertura del Conc. Ecum. Vat. II, Gaudet Mater Ecclesia, 11 ottobre 1962, 2-3.
[3] Allocuzione nell’ultima sessione pubblica, 7 dicembre 1965.
[4] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen Gentium, 16; Cost. past. Gaudium et spes, 15.
[5] TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q. 30, a. 4.
[6] XXVI Domenica del Tempo Ordinario. Questa colletta appare già, nell’VIII secolo, tra i testi eucologici del Sacramentario Gelasiano (1198).
[7] Cfr Om. 21: CCL 122, 149-151.
[8] Esort. ap. Evangelii gaudium, 24.
[9] N. 2.
[10] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Dives in misericordia,15.
[11] Ibid., 13.
[12] Parole di luce e di amore, 57.
[13] Enarr. in Ps. 76, 11.
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350992
MIO FRATELLO OMOSESSUALE
Come rivelano i suoi diari spirituali, il cardinale Jean Daniélou caricava su di sé i peccati dell’amatissimo suo fratello Alain, perché la sua anima fosse salvata. La lezione di vita di uno dei più grandi teologi del Novecento
di Sandro Magister
ROMA, 12 febbraio 2015 – Proprio mentre in Vaticano i cardinali riuniti in concistoro si affaticano sulla riforma della curia, poco distante, sull’altra sponda del Tevere, un cenacolo di qualificati studiosi si confronta su un tema certo più appassionante e mordente sull’oggi e sul domani della Chiesa e dell’umanità: il mistero della storia.
Per l’esattezza: il mistero della storia visto da Joseph Ratzinger e Jean Daniélou.
Patrocinate dalla Fondazione Vaticana Joseph Ratzinger-Benedetto XVI e ospitate dalla Pontificia Università della Santa Croce, le giornate di studio si aprono nel pomeriggio di oggi, 12 febbraio, e si concludono la sera del 13:
> Ratzinger e Daniélou di fronte al mistero della storia. Programma
È la seconda volta che l’università romana dell’Opus Dei getta luce su quel grande teologo, patrologo e liturgista che fu Daniélou, gesuita e cardinale, ingiustamente caduto in ombra dopo la sua morte nel 1974 nella casa di una prostituta parigina a cui egli portava segretamente aiuto.
La volta precedente è stata nel maggio del 2012 e www.chiesa ne diede conto in questo servizio:
> Per il cardinale messo al bando è finita la quarantena
Questa volta, Daniélou si ritrova accostato a Ratzinger. E a ragione. Perché entrambi sono tra i pochissimi grandi teologi cattolici del Novecento che hanno elaborato una visione della storia autenticamente biblica e cristiana: una storia non governata dal caso, né dalla necessità, ma riempita dalle « magnalia Dei », dalle grandiose azioni di Dio, una più stupefacente dell’altra. Basti leggere, per esserne conquistati, quel capolavoro che Daniélou ha espressamente dedicato al tema: « Saggio sul mistero della storia ».
Sia Ratzinger che Daniélou hanno i loro tratti originali. Il primo legge la storia nel solco della « Città di Dio » di Agostino e poi di san Bonaventura, mentre il secondo è più sensibile a quel geniale Padre della Chiesa che fu Gregorio di Nissa.
Entrambi, però, hanno anche un elemento vitale che li accomuna. « Pur essendo grandi intellettuali e uomini di università, hanno saputo spendersi, in obbedienza a Cristo, per la Chiesa e per gli ultimi », ha detto a Zenit uno dei promotori del convegno, Giulio Maspero, docente di teologia dogmatica alla Santa Croce:
> Ratzinger e Daniélou, un « eroico » servizio ecclesiale
Sullo spirito e le opere nascoste di Daniélou hanno sollevato il velo i « Carnets spirituels », i suoi diari spirituali, pubblicati vent’anni dopo la sua morte, come pure « Le chemin du labyrinthe », l’autobiografia di suo fratello Alain, omosessuale, convertito a un induismo d’impronta erotica e compagno di vita del fotografo svizzero Raymond Burnier.
Jonah Lynch, della Pontificia Università Gregoriana, altro promotore e relatore del convegno, dice in proposito:
« Nei diari sono toccanti le pagine in cui Jean Daniélou offre la propria vita per la salvezza del suo fratello omosessuale Alain, mentre a sua volta quest’ultimo, nel ‘Chemin du labyrinthe’, rende omaggio a Jean e al suo amore sincero, pur non condividendo le sue posizioni. Si vede risplendere nella vita del cardinale un approccio ‘pastorale’ e delicato, un genuino amore evangelico, che tanto va di moda adesso, ma assieme al prezzo altissimo che tale amore esige. In Jean Daniélou l’amore ai lontani non era cosmesi, ma una realtà che valeva persino il martirio ».
Dal 1943, assieme al grande studioso dell’islam Louis Massignon, Daniélou celebrò ogni mese, nella più grande discrezione, una messa per gli omosessuali, « per la loro salvezza ». Ne dà conferma la pronipote Emmanuelle de Boysson nel suo libro dedicato ai due fratelli, « Le Cardinal et l’Hindouiste ».
Ma ne scrive lo stesso fratello Alain nella sua autobiografia, di cui vale rileggere questa pagina:
« Jean fu sempre con me di una gentilezza perfetta. Per tutta la sua vita conservò un rimorso per il modo in cui la famiglia mi aveva trattato e lasciato senza sostegno. L’ha detto spesso ad amici comuni. Quando il mio amico Raymond morì, confidò a Pierre Gaxotte, nei corridoi dell’Accademia di Francia, di essere tristissimo, pensando che io ne fossi profondamente colpito.
« Essere nominato al rango di cardinale fu per Jean una liberazione. Era finalmente libero dalla costrizione gesuitica di cui aveva sicuramente sofferto. Gli ultimi anni della sua vita furono i più felici.
« La sua morte e lo scandalo da essa provocato, quando lui era diventato una delle maggiori figure della Chiesa, è stata una specie di vendetta postuma, uno di quei favori fatti dagli dei a quelli a cui vogliono bene. Se fosse morto qualche momento prima o dopo, o se avesse fatto visita a una signora del sedicesimo arrondissement col pretesto di opere di beneficenza, invece di portare i proventi dei suoi scritti teologici a una povera donna bisognosa, non ci sarebbe stato nessuno scandalo.
« Da sempre Jean si era dedicato alle persone malviste. Aveva, per un certo periodo, celebrato una messa per gli omosessuali. Cercava di aiutare i detenuti, i delinquenti, i ragazzi in difficoltà, le prostitute. Ho ammirato profondamente questa fine di vita simile a quella dei martiri, il cui profumo sale al cielo tra l’obbrobrio e i sarcasmi della folla.
« È morto come muoiono i veri santi, nell’ignominia, nei sogghigni, nel disprezzo di una società astiosa e vile. Negli ultimi anni della vita di mio fratello, abitavo vicino a Roma ed ero, nell’opinione del clero, un apostata di un certo rilievo. C’era chi ci confondeva l’uno con l’altro e alcuni critici avevano persino attribuito a mio fratello il mio libro ‘L’Érotisme divinisé’, dicendo: ‘Si sa della libertà di spirito dei gesuiti, però…’. Mio fratello provvide a dimostrare che lo scandalo non è dato dalle nostre credenze o dai nostri atti ma dall’ironia degli dei, che ridono di queste accozzaglie di regole di vita e di cosiddette ‘verità che bisogna credere’, di cui gli uomini attribuiscono a loro la paternità ».
Anche nei diari spirituali del teologo e cardinale Jean Daniélou affiora l’ansia per la salvezza dell’anima del fratello omosessuale, da lui amatissimo. Come ad esempio quando ricorda il proprio desiderio di partire missionario per la Cina:
« I motivi del mio desiderio di andare in Cina sono riconducibili allo zelo per la salvezza delle anime che è l’oggetto della mia vocazione. Una vita da gesuita è completa solo se essa partecipa alla passione di Nostro Signore nonché alla sua vita pubblica. So che da nessuna parte Nostro Signore rifiuta tale partecipazione a chi gliela chiede; ma temo di rilassarmi in questo desiderio. Nelle missioni c’è una dose quasi sicura di privazioni, di delusioni, di pericoli, forse la morte, forse il martirio. Oltre a questi motivi, so che ho una capacità di adattamento che mi aiuterebbe a farmi cinese con i cinesi; che la vita da missionario offre più occasioni di attuare le opere di misericordia corporale della vita in Francia; che considererò la mia vita come non inutile se a motivo di essa l’anima di Alain è salvata, e che non conosco la misura dell’immolazione che Dio desidera da me per questo ».
In un’altra pagina dei « Carnets spirituels », meditando sulla passione di Gesù nell’Orto degli Ulivi, arriva a voler assumere su di sé il peso dei « peccati » di Alain e di chiunque altro:
« Gesù, ho capito che non vuoi che io distingua i miei peccati dagli altri peccati del mondo, ma che io entri più profondamente nel tuo cuore e mi consideri responsabile dei peccati delle persone che vorrai: quelli di Alain, di chiunque piacerà a te. Mi fai sentire, Gesù, che devo scendere ancora più giù, prendere con me i peccati degli altri, accettare di conseguenza tutti i castighi che essi attireranno su di me dalla tua giustizia e in modo particolare il disprezzo delle persone per le quali offrirò me stesso. Accettare, anzi, desiderare di essere disonorato, anche agli occhi di quelli che amo. Accettare le grandi abiezioni, di cui non sono degno, per essere pronto almeno ad accettare le piccole. Allora, Gesù, la mia carità assomiglierà a quella con cui mi hai amato ».
E sempre in perfetta letizia:
« Vivere della fede, di cui la cosa che ho più chiara è che è incomprensibile. Essere di un umore francescano, mortificato e allegro, birichino e mistico, totalmente povero. Ammirare l’umorismo con cui il curato d’Ars trattava se stesso per sfuggire ad ogni vanità. Volgere al comico tutto il lato di vanità della mia vita ».
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Nel sinodo dello scorso ottobre la questione dell’omosessualità è stata una delle più discusse, come spiegato da questo servizio di www.chiesa, comprensivo di un intervento del professor Martin Rhonheimer, della Pontificia Università della Santa Croce, sulla posizione del magistero e della teologia morale cattolica in materia:
> Nel sinodo e dopo, porta girevole per gli omosessuali
L’arcivescovo argentino Víctor Manuel Fernández, rettore dell’Università Cattolica di Buenos Aires e amico e confidente di papa Francesco, ha così commentato l’esito della discussione sinodale sull’omosessualità, un esito che ha lasciato lui e altri « non soddisfatti per il poco che si è detto » nel documento finale:
« Probabilmente ci è mancata la volontà di dire con papa Francesco: ‘Chi siamo noi per giudicare i gay?’ ».
Per la cronaca, il prossimo 18 febbraio, mercoledì delle Ceneri, sarà in piazza San Pietro, con un gruppo di omosessuali cattolici degli Stati Uniti, Jeannine Gramick, la suora di Notre Dame che assieme al connazionale Robert Nugent, religioso salvatoriano, è stata oggetto nel 1999 di una notificazione della congregazione per la dottrina della fede – di cui Joseph Ratzinger era cardinale prefetto – che ha proibito a entrambi di fare « attività pastorale in favore delle persone omosessuali », poiché « gli errori e le ambiguità » in essi riscontrati sull’insegnamento della Chiesa cattolica in materia « non sono coerenti con un atteggiamento cristiano di vero rispetto e compassione » per quelle persone.
http://www.adveniatsantamariainarce.it/articoli-padre-augusto/la-materna-paternita-di-dio/
LA MATERNA PATERNITÀ DI DIO
Durante l’Angelus del 10 settembre 1978, Giovanni Paolo primo (Papa Luciani) affermò testualmente: Noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile: Dio è papà, più ancora è madre. Questa affermazione fece subito il giro del mondo, quasi che il Santo Padre (morto improvvisamente due settimane dopo), avesse affermato chissà quale nuova verità su Dio.
In realtà, già l’Antico Testamento raffigurava Dio con tratti femminili.
Il padre umano dona il timbro di appartenenza ad una tribù, ad un popolo, ad Israele. Le genealogie, da questo punto di vista, non vanno da noi considerate come una noiosa sfilza di nomi che parte sempre da un capostipite. In realtà esse servono ad esprimere l’appartenenza ad una famiglia o ad una tribù. Per le civiltà patriarcali, questo era un punto importantissimo. Pertanto, Dio, per rivelarsi all’uomo, utilizza la stessa forma letteraria “genealogica”. A Mosè si manifesta in questi termini: Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe (Esodo 3,6). In questo testo la parola “Dio” sta per padre, capostipite di un popolo che lui stesso ha generato: ora attraverso la creazione, ora attraverso una chiamata. Quando, per esempio Dio chiama Abramo, la chiamata non ha solo il senso del conferimento di una missione (Genesi 12, 1 e seguenti). Per Dio l’uomo non è solo una funzione o un compito da svolgere, ma è soprattutto una persona. Dio chiama Abramo e con lui, poi, tanti altri uomini, quasi a volerli invitare nella sua famiglia. In tal modo nasce il tema, così ampiamente sviluppato nelle pagine più antiche della Bibbia, del Dio dei padri.
E’ molto significativo, a questo punto, vedere, nella lingua ebraica, il Nome di Dio. Nella locuzione Dio dei Padri viene utilizzato quasi sempre il termine El Shaddaj. Normalmente, nelle traduzioni correnti, esso viene tradotto con Dio Onnipotente. Tuttavia, se si guarda alla sua area semantica, il titolo Shaddaj richiama il tema della fertilità e quindi della fecondità e del dinamismo della vita. Sembra essere la ritraduzione, in termini di fecondità e quindi femminili, del nome molto più diffuso che tutti conosciamo, ma che non può essere né scritto né pronunciato e che, convenzionalmente, esprimiamo con “Adonaj”. E’ l’Adonaj che crea e che creando soffia l’alito vitale sull’uomo, creatura ancora informe: e l’uomo divenne un essere vivente (Genesi 2,7).
Il titolo Shaddaj lo troviamo collegato con i temi della nascita, del nutrimento, della compassione misericordiosa, tutte realtà, queste, che fanno di Dio la matrice della famiglia e delle relazioni familiari.
Il testo su cui pongo in particolare l’attenzione, è quello che troviamo in Genesi 49, 22-26. E’ la benedizione che Giacobbe, ormai morente, dona al figlio Giuseppe:
Germoglio di ceppo fecondo è Giuseppe;
Germoglio di un ceppo fecondo presso una fonte,
i cui rami si stendono sul muro…
Per il Dio di tuo padre: Egli ti aiuti,
e per il Dio, l’Onnipotente (El Shaddaj): Egli ti benedica!
Con benedizioni del cielo dall’alto,
benedizioni dell’abisso nel profondo,
benedizioni delle mammelle (Shaddajm) e del grembo (Rahamìm).
Le benedizioni di tuo padre sono superiori
alle benedizioni dei monti antichi
alle attrattive dei colli perenni….
Questa immagine della fertilità paterna (e materna) di Dio, è collegata non solo con le origini delle benedizioni familiari, ma anche con quelle della creazione. La benedizione ha, nel testo, un carattere cosmico: dall’alto e dal profondo. L’acqua, vista come origine della vita, scende dall’alto come pioggia, sale dal basso come sorgente. E’ anche una benedizione che proviene dalle mammelle e dal grembo.
Mammelle: Shaddajm. Si tratta di un plurale derivato dal nome Shaddaj.
Grembo: Raham: da questo vocabolo i profeti trarranno la nozione di misericordia (Rahamim)= viscere di misericordia.
Dall’uso di questi vocaboli appare chiaramente l’immagine di Dio che è Padre, ma che ha le sembianze della madre e della fertilità. Dalle sue mammelle l’uomo succhia il nutrimento per la vita, e dal suo seno, dentro il quale, secondo il Vangelo di Giovanni, c’è anche il Figlio (Giovanni, 1, 18), nascono le benedizioni.
Quando Dio, avvolto nella nube, appare sul monte Sinai a Mosè, proclama Egli stesso il Suo Nome: Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e fedeltà…(Esodo, 34, 6). Qui, sia pure in altri termini, si auto presenta con la stessa immagine. Dio ridona la vita, o meglio, il coraggio della vita, ad un Mosè esausto, che sente su di sé tutto il peso di un fallimento, lo benedice donandogli la sua hesed, (grazia) e le sue “viscere” (rahamim).
I profeti svilupperanno questa immagine di Dio. Lo splendido capitolo 11 del profeta Osea, per esempio, è una pagina di commovente tenerezza divina. Dio è Padre, perché datore della vita (la creazione), ed è capostipite di un popolo con cui, stringendo un patto di eterna alleanza, intesse una storia di amore. La storia della salvezza, altro non è che lo svolgersi, nel tempo, di tale amore.
Al di là del suo peccato, sempre perdonato, sia pure attraverso la purificazione, il popolo di Israele diventa così il cantore della materna paternità di Dio, soprattutto nella preghiera salmica.
O Signore nostro Dio, quanto è grande il tuo nome sulla terra! (Salmo 8, 2).
Il Signore è il mio Pastore, non manco di nulla! (Salmo 23, 2).
Dio è Colui il cui volto suscita desiderio e nostalgia di conoscenza::
Il mio cuore ripete il tuo invito: “Cercate il mio Volto”: il tuo Volto, Signore, io cerco (Salmo 27, 8).
O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia! (Salmo 63, 2).
Dio è l’anelito di ogni ricerca, perché in Lui sono tutte le nostre sorgenti (Salmo 87, 7).
E’ il Dio dell’Alleanza e della verità, del quale Giobbe può dire: Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto…(Giobbe, 42,5).
Ora anche i nostri occhi lo vedono nel Figlio del suo Amore (Colossesi 1, 13), nel suo Figlio che era in principio presso di Lui e che era la luce vittoriosa sulle tenebre (Giovanni, 1, 1 e seguenti). Egli è consustanziale al Padre: Filippo, chi ha visto me ha visto il Padre! (Giovanni, 14, 9). Egli è Colui che al grido degli infermi: Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me”, risponde versando su di essi le “viscere” di misericordia e di pietà amorosa.
A questo Padre aneliamo, alla sua casa tendiamo, mentre lo amiamo con tutte le forze, con tutta la mente, con tutta la volontà. A Lui saliamo sorretti da Cristo Gesù, sospinti dal fuoco dello Spirito, sapendo già che, in virtù della redenzione operata da Figlio suo, siamo avvolti dalla sua benedizione, che è più grande dei monti altissimi e dei colli eterni.
In Gesù abbiamo l’Icona della sua tenerezza materna e della sua paternità amorosa.
Gesù è il grembo da cui nasciamo alla vita del Padre, per mezzo dello Spirito.
Gesù è la perfetta immagine delle “mammelle” del Padre: da Lui infatti, succhiamo il latte della grazia per crescere nell’amore. Come bambini appena nati desideriamo avidamente il genuino latte spirituale, grazie al quale possiamo crescere verso la salvezza, se davvero abbiamo gustato quanto è buono il Signore! (1Pietro, 2-3).
Padre, conoscerti è giustizia perfetta,
conoscere la tua potenza
è la radice della nostra immortalità!
(Sapienza 15, 3).
Facci comprendere la preziosità della vita, perché essa non è nostra, ma ci è stata donata da Te, Padre celeste. Onorarla, accoglierla, benedirla, è la lode più grande che possiamo far salire in Gesù Cristo a Te, Padre della vita.
Mi piace concludere con un aneddoto, che ho trovato fra tanti miei appunti. Non so a quale collezione corrisponda.
Un giorno Dio si stancò degli uomini.
Lo seccavano in continuazione, chiedendogli qualsiasi cosa. Allora decise di nascondersi per un po’ di tempo. Radunò tutti i suoi consiglieri e chiese loro: “Dove mi posso nascondere? Qual è il luogo migliore?”. Alcuni risposero: “Sulla cima della montagna più alta della terra”. Altri: “No, nasconditi nel fondo del mare, nessuno ti troverà”. Altri: “No, nasconditi sul lato oscuro della luna: questo è il posto migliore. Come riusciranno a trovarti là?”. Allora Dio si rivolse al suo Angelo più intelligente e lo interrogò: “Tu, dove mi consigli di nascondermi?”.
L’Angelo intelligente, sorridendo, rispose: “Nasconditi nel cuore dell’uomo: è l’unico posto dove essi non vanno…”.
Drammaticamente parlando, forse è vero! L’uomo non sa più visitare il suo cuore, non ne conosce più il linguaggio. Ma Dio è venuto ad abitare proprio lì.
Impariamo le vie del cuore per conoscere il suo Volto maternamente paterno: ci sentiremo ripetere: “Finalmente! Ti aspettavo da tanto tempo per dirti solo che ti amo di un amore infinito, tu mia creatura più bella, fatta a mia immagine e somiglianza!”.
Amen.
http://www.lachiesa.it/calendario/Detailed/20150412.shtml
OMELIA II DOMENICA DI PASQUA
padre Ermes Ronchi
CREDERE SENZA AVER VISTO
E’ la domenica di Tommaso e di una beatitudine che sento mia: Beati quelli che non hanno visto eppure credono! Le altre le ho sentite difficili, cose per pochi coraggiosi, per pochi affamati di immenso. Questa è una beatitudine per tutti, per chi fa fatica, per chi cerca a tentoni, per chi non vede, per chi ricomincia. Siamo noi quelli di cui parla Gesù, noi che non abbiamo visto epÈ pure di otto giorni in otto giorni continuiamo a radunarci nel suo nome, a distanza di millenni e a prossimità di cuore; di noi scrive Pietro: «voi lo amate pur senza averlo visto». Otto giorni dopo venne Gesù, a porte chiuse. C’è aria di paura in quella casa, paura dei Giudei, ma soprattutto paura di se stessi, di come lo avevano abbandonato, tradito, rinnegato così in fretta. Mi conforta pensare che, se anche trova chiuso, non se ne va’. Otto giorni dopo è ancora lì: l’abbandonato ritorna da quelli che sanno solo abbandonare.
Viene e sta in mezzo a loro. Non chiede di essere celebrato, adorato. Non viene per ricevere, ma per dare. È il suo stile inconfondibile. Sono due le cose che porta: la pace e lo Spirito.
Pace a voi. Non un semplice augurio o una promessa futura, ma una affermazione: la pace è a voi, vi appartiene, è già dentro di voi, è un sogno iniziato e che non si fermerà più. Io vi porto questo shalom che è pienezza di vita. Non una vita più facile, bensì più piena e appassionata, ferita e vibrante, ferita e luminosa, piagata e guaritrice. La pace adesso.
Soffiò e disse loro: ricevete lo Spirito Santo. Su quel pugno di creature, chiuse e impaurite, scende il vento delle origini, il vento che soffiava sugli abissi, che scuote le porte chiuse: ecco io vi mando!
Scende lo Spirito di Gesù, il suo segreto, il suo mistero, ciò che lo fa vivere, il suo respiro stesso: vivrete di ciò di cui vivo io. Lo ha sperimentato Paolo: non son più io che vivo, è Cristo che vive in me. Lo ha comunicato a tutti: Voi siete già stati risuscitati con Cristo (Col 3,1). Già risorti adesso, per una eternità che già mette le sue prime gemme. In quel soffio Gesù trasmette la sua forza: con lo Spirito di Dio voi farete le cose di Dio. E la prima delle cose da Dio è il perdono.
Tommaso, metti qua il tuo dito nel foro dei chiodi, stendi la mano, tocca! Le ferite del Risorto, feritoie d’amore: nel corpo del crocifisso l’amore ha scritto il suo racconto con l’alfabeto delle ferite, indelebili ormai come lo è l’amore.
Gesù che non si scandalizza dei miei dubbi, ma mi tende le sue mani. A Tommaso basta questo gesto. Non è scritto che abbia toccato. Perché Colui che ti tende la mano, che non ti giudica ma ti incoraggia, è Gesù. Non ti puoi sbagliare!