Archive pour avril, 2015

IL MISTERO DEL TEMPO (GIUBILEO DEL 2000)

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(GIUBILEO DEL 2000)

LA CATECHESI DEL SANTO PADRE

IL MISTERO DEL TEMPO

Michael McDermott

Un Giubileo ha certamente a che fare con le cifre ed il tempo, ed in special modo il Grande Giubileo che coincide con la nascita di nostro Signore. Giustamente la Tertio Millennio Adveniente dedica il suo secondo capitolo ad una meditazione sul tempo. Giacchè il tempo è un mistero. In un certo senso esso rappresenta la realtà più ovvia e superficiale. Tutti lo misurano con ogni genere di orologi e programmano gli incontri in funzione di esso. Eppure, che accadrebbe se tutti gli orologi smettessero di funzionare?
Si fermerebbe il tempo? Gli orologi evidentemente non ci danno il tempo si limitano a misurarlo quale è. Aristotele definì il tempo «il numero del movimento secondo il prima e il poi». Ma la nostra epoca post-Einsteiniana ha conosciuto la relatività del tempo. Il moto può essere calcolato in misura diversa da prospettive diverse entro un universo in movimento. Non esiste un punto fisso fuori dell’universo dal quale il tempo possa essere misurato universalmente né può essere fornito uno standard oggettivo.
Cos’è dunque il tempo. Nella sua famosa meditazione nelle Confessioni Agostino decise che il tempo «è un’estensione dell’anima» a successione di stati psichici tramite la memoria e l’anticipazione. Ma questa risposta è soltanto parziale in quanto l’anima tesa a misurare è essa stessa avvolta dal tempo. La misurazione implica un inizio ed una fine. Se il tempo va oltre l’uomo, come può essere misurato? Il tempo sembra piuttosto misurare l’uomo.
Cos’è dunque il tempo? Come osservò Agostino, il passato non esiste più ed il futuro non esiste ancora. Il presente è fuggevole ed alla stregua di un punto di fuga di un paradosso Zenoniano può essere suddiviso all’infinito. Nel momento in cui lo misuriamo esso è già passato. L’espressione latina, Tempus fugit, coglie bene il paradosso, giacchè il verbo riflette al contempo presente e passato: nello stesso momento «il tempo fugge» ed «il tempo è fuggito».
Da dove proviene e dove fugge il tempo ? Poiché l’uomo non controlla né il suo inizio né la sua fine, egli non può rispondere a questa domanda. In un linguaggio più filosofico il tempo è radicato nella potenza della materia e la materia è inintellegibile all’uomo. Ragion per cui la questione del tempo riflette la questione dell’esistenza umana. Perché passa la scena di questo mondo. ( I Cor. 7,31)
Come può l’uomo gestire il tempo, un tempo che fornisce la «sostanza» della propria esistenza terrena e tuttavia minaccia la sua stessa esistenza? Le religioni naturali tentarono di legare il tempo alla ciclicità delle stagioni, immaginando questi eventi come riflessi di eventi celesti. Ma l’eterno ritorno debilita l’azione dell’uomo e svuota il tempo del suo significato. Le religioni più elevate e speculative riconoscono che la salvezza può consistere solo nella fuga dal ciclo della reincarnazione, dal tempo e da ogni limitazione verso la beatitudine di una conoscenza illimitata o verso il suo equivalente, la mancanza di conoscenza. Ma tale visione distrugge definitivamente il significato di questo mondo e di tutto ciò che accade in esso.
L’uomo è preso in una trappola: egli deve vivere bene nel mondo senza attribuire ad esso alcun significato. La rivelazione giudaico-cristiana contraddice ogni saggezza meramente umana proclamando che il tempo ha un inizio ed una fine e ciò che accade nel tempo ha un significato eterno. Dio dà al tempo un inizio ed una fine e poiché Dio è amore non vi può essere alcuna opposizione finale tra Infinito e finito, l’eternità ed il tempo, Dio e l’uomo. Dio ha creato il tempo affinché la libera creazione potesse tornare a Lui. La creazione non è avvenuta perché un Dio amorevole l’ha posta in essere, e tuttavia ciò non implica una diminuzione o limitazione di Dio giacché viene dal nulla ( ex nihilo). La creazione esiste in se stessa sebbene sia interamente riconducibile a Dio. Il Tempo quindi diventa il luogo d’incontro fra Dio e l’uomo, il luogo di libertà quando l’amore risponde all’Amore. La vera struttura della libertà implica la congiunzione tra Infinito e finito, Assoluto e relativo. Se l’uomo fosse incapace di incontrare l’Assoluto egli non avrebbe alcuna ragione ultima per qualsiasi scelta. Qualunque ragione addotta potrebbe essere relativizzata e la scelta diventerebbe arbitraria. Parimenti, neppure un immediato incontro con l’Assoluto priverebbe l’uomo della libertà di scelta. Poiché non vi sarebbe alcuna distanza, la libertà umana di scelta sarebbe sopraffatta, come nella visione beatifica dalla necessità di scegliere il Bene Supremo. Solo nella congiunzione tra Assoluto e finito la libertà umana è resa possibile. Il finito fornisce la distanza che garantisce che quella scelta non è obbligata mentre l’Assoluto motiva la scelta stessa.
In ciò si riflette l’intera struttura sacramentale del cattolicesimo per cui il Dio infinito si rende presente in una forma finita che richiede un risposta d’amore totale e dalla risposta dell’uomo dipendono la sua eterna salvezza o la sua dannazione. Questa struttura sacramentale era presente nella creazione di Adamo ed Eva che furono creati ad immagine di Dio che è Amore. Nel loro amore matrimoniale, un sacramento della creazione, Dio era presente come suo fondamento, forza e obiettivo. Il loro amore manifestava e rifletteva l’amore che è Dio. Sfortunatamente il peccato è entrato nel mondo. Quando Adamo proclamò Eva carne dalla mia carne o osso dalle mie ossa dopo il peccato non vollero assumersi la responsabilità dei loro atti, ma l’attribuirono ad altri ; e così la loro unità risultò distrutta (Gen. 2,23 ; 3,11-13). Avendo distrutto l’immagine divina dell’amore, gli uomini non sarebbero più stati capaci di trovare Dio in un mondo di peccato. Non vi sarebbe alcuna ragione per amare, né per cercare l’Assoluto. Il mondo sarebbe senza senso e l’uomo potrebbe assolutizzare il finito o disperare in tutti i sensi.
Sebbene l’uomo abbia respinto l’amore, l’Amore non ha respinto l’uomo. Già nel cacciare l’uomo dal Paradiso, notava S.Ireneo, Dio mostrò la Sua misericordia, sostituendo alle pungenti foglie di fico che ricoprivano le nudità di Adamo ed Eva indumenti di pelle. Con Abramo i ripetuti interventi divini diventarono storia pubblica poiché Egli formò un popolo particolare Suo proprio in previsione della incarnazione del proprio Figlio. Poiché Gesù è l’incarnazione dell’Amore, gli uomini dovevano possedere qualche conoscenza di ciò che era stato loro offerto come il più grande dei misteri. Il Vecchio Testamento preparò il Nuovo, istruendo gli uomini all’amore fedele di Dio e all’umano peccato, alla necessità di un Salvatore per vincere la durezza del cuore. Il Tempo è visto quindi come una preparazione a Cristo. Come ha scritto il Papa, «il Tempo è in effetti rappresentato dal fatto autentico che Dio, nella Incarnazione, si è calato nella storia umana» (TMA 9). In Gesù l’Assoluto ed il finito sono riuniti nella stessa persona in modo indissolubile. Dio offre Se stesso all’uomo, rinnovando l’immagine di Dio e facendola riflettere pienamente e sacramentalmente l’amore di Dio. Il mistero dell’amore è reso più manifesto e l’incarnazione dell’Amore consente all’uomo di incontrare Dio nel modo più chiaro possibile in un mondo di peccato. Proprio perché l’umanità di Gesù è pienamente umana essendo legata alla persona divina, il Tempo resta finito. Esso non è assolutizzato bensì salvato. E’ diventato in pienezza il luogo d’incontro delle libertà divine ed umane. Poiché l’Assoluto è penetrato nel tempo, Eschaton è giunto Il Tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino ;convertitevi e credete al Vangelo .(Mc 1,15)
Come rivelazione divina Gesù non può essere superato. Poiché non vi è nessuno più grande di Dio. Egli chiama gli uomini ad una assoluta adesione, per seguirlo anche fino alla morte. La libertà degli uomini deve essere realizzata congiungendosi personalmente a Gesù nella libertà e formando così il Suo Corpo, la Chiesa. L’obiettivo è stato raggiunto, il luogo della promessa e dell’amore realizzati.
Essa è inoltre il luogo della crescita nella pienezza, verso una più grande pienezza. Il «già» della presenza di Dio non distrugge ma potenzia il «non ancora» della risposta della libertà umana. Nella chiamata di Gesù all’apostolato che comporta il sacrificio e la relativizzazione del mondo intero (Mc 8,34-38) l’onnipotenza di Dio si è manifestata non per distruggere la libertà dell’uomo bensì per realizzarla.
L’«indicativo» dell’amore di Dio realizzato storicamente nella croce di Gesù e nella Resurrezione è il fondamento dell’«imperativo» dell’apostolato. L’amore di Dio ha fatto di tutto per liberarci dall’egoismo ma la nostra risposta dipende anche da noi. Così il Tempo conserva il suo significato per il cristiano. Non più una preparazione per Cristo, ma una vita ricolma di pienezza. E’ la sovrabbondanza dell’Amore incarnato, una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo (Lc. 6,38). Da questa sovrabbondanza scaturisce la missione cristiana, l’evangelizzazione. L’amore cristiano è naturalmente espansivo e Dio chiama tutti gli uomini ad esso. Talvolta i non credenti sono chiamati a diventare cristiani ed i cristiani sono sfidati a diventare ancor più se stessi, e ad identificarsi sempre più in Cristo, pienezza dell’Amore, pienezza del Tempo, l’Alfae l’Omega (Apoc. 1,8 ; 21,6), unendosi alla Chiesa, il suo Corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose per realizzare il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra. (Eph.1,10-23) Cristo è la misura ultima che contiene tutto il tempo e lo riporta a Dio.

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Christ at Emmaus by Rembrandt, 1648, Louvre.

 Christ at Emmaus by Rembrandt, 1648, Louvre. dans immagini sacre Rembrandt_Harmensz._van_Rijn_023 » />

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CREDO LA RESURREZIONE DELLA CARNE E LA VITA ETERNA, ENZO BIANCHI

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CREDO LA RESURREZIONE DELLA CARNE E LA VITA ETERNA

ENZO BIANCHI

Introduzione
Nell’itinerario sulla fede cristiana che state percorrendo, secondo la professione del “Credo”, gli articoli finali dichiarano: “Credo la resurrezione della carne, la vita eterna” (Simbolo apostolico); “Aspetto la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà” (Simbolo niceno-costantinopolitano).
Prima di entrare in medias res, permettetemi di fare una precisazione sul verbo “credere”, a cui tengo particolarmente. Credere è l’espressione tipica di tutta la fede biblica, da Abramo, il primo credente, il credente per eccellenza, fino al Nuovo Testamento, fino a noi: credere ci costituisce in un rapporto preciso con Dio. In ebraico “credere” è espresso con alcuni verbi, e il più ricorrente è aman, da cui viene la notissima parola amen: aman significa aderire, mettere fiducia, avere fiducia. Quando proclamiamo la fede cristiana e diciamo “Credo”, diciamo che abbiamo fiducia, non che “pensiamo che…”: non è fede cristiana il pensare che Dio esiste, ma il mettere la fiducia in Dio, nel Padre e nel Figlio e nello Spirito santo. Per questo, significativamente, non si dice: “Credo nel diavolo” o “nell’inferno”, perché sono realtà in cui non possiamo mettere fiducia. Del male facciamo esperienza, non c’è bisogno di crederlo…
Fatta questa doverosa precisazione, veniamo a riflettere sulle due espressioni conclusive del Credo, secondo la versione del Simbolo apostolico.
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1. CREDO LA RESURREZIONE DELLA CARNE

ENZO BIANCHI

Sembra che la resurrezione della carne, la resurrezione dei nostri corpi, sia la “cosa” più strana che la fede cristiana chiede di credere. Non a caso, dalle analisi sociologiche condotte sulla fede dei cattolici italiani risulta che, se la maggior parte della popolazione crede in Dio, neanche il 20% crede nella resurrezione della carne. Occorrerebbe domandarsi che qualità cristiana ha questa fede, che in verità sembra piuttosto una certa credenza in un Dio, in un essere superiore, credenza neppure degna di essere classificata come teista.
Quando poi si ascoltano i pensieri dei cristiani sull’al di là, sovente si resta imbarazzati. Spesso parlano di reincarnazione (espressione sconosciuta fino a un secolo fa e introdotta con il fenomeno dello spiritismo), come se questo fosse il vero desiderio che li abita: vivere altre vite, altre esperienze. È questo un modo per rimuovere la verità della morte, oppure è un sogno di immortalità? Questi cristiani che spesso pensano la reincarnazione come una credenza religiosa orientale non sanno, tra l’altro, che nell’induismo e nel buddhismo la reincarnazione significa una condanna, perché la salvezza si attua proprio attraverso una lunga disciplina durante la vita, uscendo dal ciclo delle reincarnazioni che rappresentano sempre un fallimento! Questi cristiani si ispirano forse alla migrazione delle anime, concepita da Platone all’interno di un’ideologia dualista secondo cui l’essere umano sarebbe composto di un elemento mortale, l’anima, e di uno corruttibile, il corpo?
Certamente i novissimi, le realtà ultime, cioè morte, giudizio, inferno e paradiso, non sono molto presenti nella predicazione e nella catechesi, e per questo si fa urgente la riproposizione di questi temi essenziali per la fede cristiana, anche per impedire derive spiritualiste e devote, che rispondono alle curiosità e non agli autentici bisogni di fede dei cristiani. La fede nella resurrezione della carne è il cuore della fede cristiana, perché indissolubilmente legata alla fede nella resurrezione di Gesù Cristo. Già l’Apostolo Paolo, di fronte alle difficoltà mostrate a questo riguardo dai primi cristiani provenienti dal mondo greco, asseriva con forza: “Se i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede … Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini” (1Cor 15,16-17.19).
Di fronte a questa fede dei cristiani, la critica di chi non crede può anche essere feroce: il credere alla resurrezione sarebbe soltanto un artifizio per negare la realtà della morte; sarebbe soprattutto, per gli spiriti deboli, un modo di raggiungere nell’al di là ciò che non hanno saputo essere nell’al di qua; sarebbe una preoccupazione egocentrica, una non accettazione del fatto che nel mondo tutto nasce, cresce e muore. Oppure sarebbe una forma di rassegnazione, una via per evadere dal duro mestiere di vivere, mettendo la speranza solo nell’al di là… Queste critiche dovrebbero essere prese sul serio, dovrebbero stimolarci a un esame approfondito della nostra fede e del modo in cui la presentiamo. Perché sovente la nostra attuale non-fede nelle verità cristiane essenziali dipende anche dal modo in cui per secoli sono state presentate: a volte dando a Dio un volto perverso, a volte immaginando una giustizia di Dio secondo i nostri sentimenti, a volte finendo per disprezzare questo mondo, la vita terrestre, e generando nel cuore dei credenti paura e angoscia, invece che fiducia e franchezza.
Per reagire a tale situazione, cerchiamo innanzitutto di metterci in ascolto del messaggio consegnatoci dalle sante Scritture riguardo alla resurrezione della carne. Nella Bibbia sempre si insiste sul fatto che la vita è un dono di Dio, perché Dio è colui che l’ha creata e il solo che può disporne: l’essere umano non è padrone della propria vita, perché la riceve come grazia e benedizione, compito e vocazione. E la vita dell’umano è sempre alleanza con Dio, ma in solidarietà con gli altri e con la terra, affidata alla comune responsabilità degli umani. Una vita beata e lunga, “sazia di giorni” (cf. Gen 25,8; 35,29, ecc.), è da un lato il desiderio umano, dall’altro la promessa di Dio per chi vive nella giustizia e nella pace (cf. Sal 128). Una vita senza qualità, o meglio una convivenza senza qualità, vale a dire senza un cammino di umanizzazione, non ha senso, è ingiustificabile, non corrisponde alla volontà di Dio. Eppure salute e malattia, benessere e angoscia, pienezza di vita e vecchiaia e morte, sono realtà che attendono tutti sotto il sole…
Davanti al male, alla sofferenza e alla morte il credente dell’Antico Testamento patisce il dramma di chi sente che la morte è un’ingiustizia, che la morte attende tutti ma è sofferenza, che la morte è dolorosa perché è la fine delle relazioni, dei legami. Anche del legame dell’alleanza con Dio? È difficile affermare con chiarezza ed evidenza la fede dei figli di Israele a proposito dell’al di là, della vita oltre la morte. Gesù interpreta che la fede di Mosè era già fede nel “Dio dei viventi e non dei morti” (cf. Mc 12,27 e par.; Es 3,6), e il Nuovo Testamento fa risalire la fede nella resurrezione dei morti addirittura ad Abramo, il quale “pensava che Dio è capace di far risorgere anche dai morti” (Eb 11,19). Lettura mitica che amplifica la fede dei nostri padri o testimonianza di una profondità di fede implicita, che noi non riusciamo a leggere con chiarezza?
In ogni caso, nella fede di Israele uomini come Enoch, che “camminò con Dio, poi scomparve perché Dio l’aveva preso” (Gen 5,24), Mosè, del quale non si conosceva la tomba (cf. Dt 34,6), Elia, che era salito al cielo in un carro fuoco (cf. 2Re 2,11), erano pensati viventi presso Dio, dunque uomini per i quali Dio aveva vinto la morte. Se questa consapevolezza faceva parte della fede, allora si poteva sperare e credere che il Signore, sempre fedele verso il credente lungo tutta la sua vita, non poteva non essere fedele quando il credente incontrava la morte (cf. Sal 16,10; 30,3-4). E così verso il II secolo a.C. emerse la fede nella resurrezione dalla morte, dunque resurrezione della carne: i santi, i martiri messi a morte a causa della loro fedeltà al Signore, risorgeranno per una vita eterna (cf. 2Mc 7,9). Questa fede, derisa dai sadducei, assunta dai farisei e dagli esseni, sarà anche la speranza di Gesù, e i vangeli ce ne danno una solida testimonianza. Gesù annuncia che Abramo, Isacco e Giacobbe sono viventi in Dio (cf. Lc 20,38), e al ladro crocifisso con lui promette: “Oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43). Sì, nella morte avviene un passaggio da questo mondo alla vita in Dio, vita in cui accadrà una trasfigurazione come quella già avvenuta nel corpo stesso di Gesù, quando “il suo volto risplendette come il sole” (Mt 17,2), e così alla fine del mondo “i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro” (Mt 13,43).
Ma il fondamento della fede cristiana, più che nelle parole di Gesù, sta nella storia, nell’evento in cui il Padre ha definitivamente e in modo manifesto “costituito Signore e Cristo quel Gesù che era stato condannato e crocifisso” (cf. At 2,36). Seppellito nella tomba la vigilia di Pasqua, il 7 aprile del 30 d.C., Gesù è stato richiamato alla vita eterna da Dio e la tomba in cui era stato deposto risultò vuota per le donne e i discepoli che andarono a visitarla. Quell’evento della resurrezione non fu la rianimazione di un corpo cadaverico, non fu un ritorno alla vita fisica, ma fu un evento in cui Dio attraverso la potenza dello Spirito santo vinse la morte e trasfigurò il corpo mortale di Gesù in un corpo vivente per l’eternità. Gesù oltrepassò la barriera della morte, il suo corpo morì realmente ma non fu soggetto alla corruzione (cf. At 13,34-37), perché “si alzò”, “si svegliò” di tra i morti ed entrò nella vita eterna.
È significativo che, nelle diverse manifestazioni del Risorto ai discepoli, questi fanno fatica a riconoscere Gesù: un giardiniere (cf. Gv 20,11-18)? Un pescatore (cf. Gv 21,1-14)? Uno spirito (cf. Lc 24,36-43)? Un viandante (cf. Lc 24,13-35)? La presenza di Gesù risorto non era più quella abituale che i discepoli avevano conosciuto… Ma alla fine i discepoli nonostante i loro dubbi giungono a riconoscerlo vivente, sentono il loro cuore che brucia mentre spiega le Scritture (cf. Lc 24,32), lo riconoscono mentre spezza il pane (cf. Lc 24,30-31; 35), lo chiamano quando si sentono da lui chiamati per nome (cf. Gv 20,16). È Gesù, è sempre Gesù il figlio di Maria, quel Gesù il cui corpo i discepoli hanno visto e palpato (cf. 1Gv 1,1), eppure è un Gesù che ormai è in Dio, glorificato quale Signore e Dio (cf. Gv 20,28). Il crocifisso che non solo aveva un corpo umano, ma era un corpo umano, una psiche umana, ora è interamente in Dio trasfigurato e glorificato. “Non era possibile che la morte tenesse Gesù in suo potere” (At 2,24) – come afferma Pietro il giorno di Pentecoste –, perché egli aveva vissuto fino all’estremo l’amore (cf. Gv 13,1), e questo suo amore – “Dio è amore” (1Gv 4,8.16) – ha vinto la morte, si è mostrato più forte della morte, più tenace degli inferi (cf. Ct 8,6).
Va proclamato con forza: la resurrezione di Gesù non significa che la sua causa continua, che il suo insegnamento non muore, che il suo messaggio è vivente, bensì che lui, la sua intera persona umana morta in croce e sepolta, è stata resuscitata da Dio a vita gloriosa ed eterna. È questo evento pasquale che rivela e annuncia anche la resurrezione della carne come evento che attende l’umanità di tutti i tempi, di tutte le latitudini e di tutte le genti. Sappiamo che già nel Nuovo Testamento, alle origini della chiesa, la fede nella resurrezione della carne è stata contestata: i cristiani di Corinto faticano ad accettare questo annuncio – ci testimonia Poalo (cf. 1Cor 15) – e sempre l’Apostolo o un suo discepolo deve mettere in guardia da chi, come Imeneo e Fileto, sosteneva che la resurrezione è già avvenuta con il battesimo ed è solo un fatto spirituale (cf. 2Tm 2,16-18). Incredibile umanamente questo evento universale, eppure è al centro della speranza cristiana: i corpi dissolti nella terra, ridotti allo stato di germi, potranno risorgere? Questa carne che è carne di peccato, questo corpo che ha, anzi è una pesantezza sulla quale il nostro spirito eccede, potrà risorgere? Sì, proclama la fede cristiana, con la sua ottica di benedizione e di approvazione divina del corpo, della materia. Il nostro Dio ha voluto farsi uomo, la Parola di Dio è diventata sárx, carne, ha abitato tra di noi (cf. Gv 1,14), e ormai la nostra umanità fragile e mortale è trasfigurata per l’eternità.
Il linguaggio umano è insufficiente, mancante, ma ormai non si può più pensare Dio senza cogliere la nostra umanità risorta e glorificata in lui. Qui dobbiamo accettare di fare silenzio, di non trovare le parole adatte, di metterci una mano davanti alla bocca e non dire di più. Come risorgeremo? Che corpo avremo (cf. 1Cor 15,35)? La parola di Gesù ci deve bastare: alla fine dei tempi, quando egli verrà nella sua gloria (cf. Mc 13.26 e par.; Mt 25,31), la sua potenza trasfigurerà i nostri corpi mortali in corpi gloriosi (cf. Fil 3,21) e noi saremo sempre con il Signore, nella vita eterna (cf. 1Ts 4,17). Nulla di ciò che ha costituito la nostra vita, la nostra persona, andrà perduto. Siamo carne nel mondo della vita animale terrestre, siamo corpo come vite individuali: resurrezione della carne indica lo stesso evento nel quale ciò che è corruttibile si rivestirà di incorruttibilità e ciò che è mortale di immortalità (cf. 1Cor 15,51-53). E non possiamo dimenticare che la fede nella resurrezione della carne, oltre a costituire una speranza di vittoria sulla morte, cambia il nostro vivere oggi nel mondo: perché il corpo è il luogo di salvezza per ciascuno di noi, perché il corpo dell’altro è chiamato alla vita eterna, perché il corpo è il luogo del nostro rapporto con l’altro, con Dio e con il mondo. Non è senza significato nella fede nella comunione con Dio né nell’ordine etico della relazione con gli altri: la salvezza è nel corpo, cammino dell’uomo verso di Dio, cammino di Dio verso l’uomo.
Io sono convinto che per ridestare e rinnovare la fede dei cristiani nella resurrezione della carne basterebbe che questi comprendessero meglio la liturgia dei morti: il cero pasquale acceso che fa segno alla presenza del Risorto, “il primogenito di quelli che risorgono dai morti” (Col 1,18); l’incensazione del corpo del morto, vera proclamazione e celebrazione del tempio terrestre dello Spirito santo (cf. 1Cor 6,19) e pegno della futura resurrezione; l’aspersione con l’acqua battesimale che attesta una “vita nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,3) ma destinata alla gloria eterna. Sì, il desiderio di Giobbe è fede per noi cristiani: “Questa mia carne vedrà il Salvatore” (cf. Gb 19,26-27).

2. Credo la vita eterna
Proprio perché c’è la resurrezione della carne, noi crediamo che questo è per la vita eterna. “Vita eterna” è un’espressione che si contrappone alla nostra esperienza di vita che finisce con la morte. Ma, se siamo realisti, è un’espressione che non sappiamo neppure bene misurare, che supera le nostre parole e la nostra comprensione…
Innanzitutto, va detto che Gesù Cristo è la vita eterna perché, se è lui il Risorto vivente, se è lui che ha vinto la morte, chi può separarci dal suo amore (cf. Rm 8,35)? Se lui si fa sentire accanto a me, se posso dire che io e lui viviamo insieme (cf. 1Ts 5,10), se lui mi ama, mi consola e mi ispira ogni giorno, potrà abbandonarmi al di là della morte? Impossibile! Cristo è fedele e, se ora è accanto a me, lo sarà anche nella morte, e al di là della morte sarà pronto ad abbracciarmi perché io sia sempre con lui e con i suoi e miei amici. È così che la vita eterna può essere non solo una speranza, ma può anche essere desiderata, pur nella consapevolezza del dover attraversare le acque oscure della morte, acque che – secondo il grande Origene – possono essere espiazione dei peccati.
Di vita eterna ci ha parlato Gesù, per indicare quella vita salvata dal peccato e dalla morte che Dio donerà al discepolo che segue fedelmente il suo Maestro e Signore Gesù Cristo. La vita eterna è ciò che si può ottenere osservando i comandamenti, cioè facendo la volontà di Dio, amando dunque Dio al di sopra di tutto e con tutto il proprio essere (cf. Dt 6,5; Mc 12,30 e par.); la vita eterna è l’eredità che Dio dà ai suoi eletti, ai credenti in suo Figlio Gesù Cristo; la vita eterna è lo zampillare dell’acqua viva che Gesù fa sgorgare dal cuore del discepolo (cf. Gv 4,14); la vita eterna è il dono fatto dal Padre a chi muore avendo operato il bene. E tuttavia la vita eterna è sì una realtà che fiorisce e sboccia dopo la morte fisica, ma è una vita già innestata nel credente qui e ora, a partire da quell’immersione nelle acque del battesimo in cui si depone la vita dell’uomo vecchio e si risale dall’acqua rivestiti di Cristo (cf. Gal 3,27) e dotati della capacità di vivere la vita eterna. Per questo sta scritto: “Chi ama il fratello passa dalla morte alla vita” (cf. 1Gv 3,14). Chi aderisce a Gesù, ascolta la sua parola e vive di essa, mangia la sua carne e beve il suo sangue, e lo segue ovunque vada (cf. Ap 14,4), ha in sé la vita eterna come un seme che crescerà e darà il suo frutto nel Regno. E così si compie la parola di Gesù: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3).
Per esprimere e raccontare la vita eterna, le sante Scritture ricorrono al linguaggio simbolico, un linguaggio aperto, evocativo e allusivo, un linguaggio rispettoso del mistero, dell’alterità e della santità di Dio. È un linguaggio iconico, dunque poetico, e non dimentichiamo che solo la creatività poetica può osare dire Dio e cercare di evocare il suo Regno. Ecco perché, per raccontare la vita eterna, si è imposta soprattutto un’immagine biblica, simbolo della beatitudine eterna: il paradiso (parola di origine persiana che significa “giardino”: Ne 2,8; Qo 2,5; Ct 4,13). Gesù sulla croce, al ladrone crocifisso con lui che lo prega, dichiara solennemente: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43), ovvero “oggi tu sarai con me, accanto a me, insieme a me, e dunque sarai anche tu in Dio, in quel pardes, in quel giardino dove si vive la vita eterna”. Nell’in-principio creazionale Dio ha piantato per l’uomo “un giardino in Eden” (gan be-‘eden: Gen 2,8) come luogo della comunione tra sé e l’uomo stesso, l’adam, luogo teologico posto agli inizi della storia ma che profetizza la fine della storia. I profeti, soprattutto Ezechiele e il deutero-Isaia, hanno poi fornito alla speranza escatologica delle immagini, dei simboli, quasi ad aprire un varco che chiede ai lettori una lettura teleologica, aperta sulle realtà finali, sicché i padri della chiesa hanno potuto scrivere: “Dio creò l’uomo e lo pose nel paradiso, cioè in Cristo”. Sì, Cristo è il paradiso, è il luogo u-topico, senza luogo, della comunione piena e priva di ombre con Dio. Il paradiso è la nostra patria, la nostra vocazione, il dono che ci attende. Per questo dicono ancora i padri della chiesa, in particolare quelli orientali: “L’uomo è un essere che ha ricevuto la vocazione di diventare Dio”.
Per narrare questa verità, questa speranza indicibile, la Bibbia ricorre a immagini diverse che indicano la vita piena (shalom), la gioia (beatitudine), la vita eterna (per sempre) e di conseguenza la convivialità (comunione) e la luce (non più le tenebre del peccato). Sono immagini che si riferiscono ai bisogni umani della sfera affettiva, sessuale, sociale e politica: il cibo, l’amore, l’incontro sessuale, l’amicizia, la convivenza pacifica, l’assenza di pianto e di lutto. Sono le promesse del Dio vivente, del Dio fedele all’alleanza, “che non mente” (Dt 32,4), che è “amante della vita” (Sap 11,26), del “Dio misericordioso e compassionevole” (Es 34,6, ecc.). Sono immagini tanto semplici quanto universalmente umane, umanissime: il banchetto con cibi e vini squisiti (cf. Is 25,6; Mt 22,1-10); le nozze, che sono sempre comunione profonda di tutto l’essere (cf. Ap 17,7-9; 21,2); la pace tra i popoli e la scomparsa della guerra (cf. Is 2,4; 9,6); la concordia tra gli animali e tra gli uomini e le bestie feroci (cf. Is 11,6-8). Si ricorre anche a dimensioni ludiche, come il giocare del lattante con il serpente velenoso (cf. Is 11,8), la danza, la festa della nuova creazione, in cui i cieli nuovi e la terra nuova innalzano la lode a Dio (cf. Is 65,17; 66,22; Ap 21,1). È una lode cosmica in cui tutte le creature esprimono il loro “amen”, il loro “sì” a Dio, è un ringraziamento per il compimento dell’opera divina…
Come annunciare questa realtà della vita eterna, del paradiso? L’Apocalisse di Giovanni, al termine delle sante Scritture, tenta a più riprese questa profezia: un banchetto di nozze per l’Agnello sgozzato ma risorto e ora in piedi e vittorioso; attorno a lui tutti i salvati impegnati in una liturgia, in una danza, in una pericoresi, vera circolazione di amore, l’amore del Padre amante, del Figlio amato, dello Spirito amore. Dio è la dimora dell’umanità, il Regno è la dimora del cosmo e la festa è trasfigurazione di tutti e di tutto in Cristo, con Cristo e per Cristo, uomo e Dio. Questa comunione è comunione tra Dio e ogni volto, comunione personalissima, ed è comunione tra umani: Dio “sarà Uno” (cf. Zc 14,9) e una in Dio sarà l’umanità redenta.
Di fronte a queste immagini bibliche della vita eterna, in ogni epoca si è cercata una rappresentazione dei beati, del paradiso, sovente contrapposta a quella dei dannati, dell’inferno. Nelle chiese medioevali, dove dominava il Pantocratore, il Veniente glorioso, si potevano vedere alla sua destra i beati e alla sua sinistra i dannati. Era un ammonimento per quanti vedevano questa raffigurazione, un richiamo alla realtà del giudizio universale che un giorno sarà manifestato ma che si decide già oggi nella nostra vita. Domani, in quel giorno escatologico, il giorno del Signore, si udrà: “Venite, benedetti…”, ma tutto è già deciso nella nostra vita; lo decidiamo quando vediamo un affamato, uno straniero, un malato, un povero (cf. Mt 25,31-46). Dall’atteggiamento che assumiamo ora e qui decidiamo se a noi saranno rivolte le parole: “Venite, benedetti…” (Mt 25,34), oppure: “Andate via, maledetti…” (Mt 25,41). Decidiamo se saremo nell’amore della comunione con Dio o fuori di quella comunione, cioè in una situazione di morte. È in ogni nostro oggi che Dio dice a ciascuno di noi: “Oggi io pongo davanti a te la vita e il bene, la morte e il male … Scegli dunque la vita!” (Dt 30,15.19).

Conclusione
Al termine di queste tracce di riflessione sulla resurrezione della carne e sulla vita eterna oso pensare al Giudizio universale di Michelangelo nella Cappella Sistina: i beati sono tutti in festa, spesso abbracciati tra di loro, nell’atto di baciarsi, guardando ognuno il volto dell’altro, in cui si vede il volto di Cristo. Ispirato da questa immagine, concludo citando uno stupendo e antichissimo canto liturgico previsto dalla liturgia ortodossa per la notte pasquale:

O danza mistica! O festa dello Spirito!
O Pasqua divina che scende dal cielo sulla terra
e dalla terra sale di nuovo al cielo!
O festa nuova e universale,
assemblea cosmica!
Per tutti gioia, onore, cibo, delizia:
per mezzo tuo sono state dissipate le tenebre della morte,
la vita viene estesa a tutti,
le porte dei cieli sono state spalancate.
Dio si è mostrato uomo
e l’uomo è stato fatto Dio.

Entrate tutti nella gioia del Signore nostro;
primi e ultimi, ricevete la ricompensa;
ricchi e poveri, danzate insieme;
temperanti e spensierati, onorate questo giorno:
abbiate o no digiunato,
rallegratevi oggi!
Nessuno pianga la sua miseria:
il Regno è aperto a tutti!

Publié dans:CREDO, Enzo Bianchi |on 17 avril, 2015 |Pas de commentaires »

19 APRILE 2015 | 3A DOMENICA DI PASQUA – ANNO B | OMELIA

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/02-annoB/14-15/Omelie/7-Pasqua/3a-Domenica-di-Pasqua-B-2015/10-03a-Domenica-B-2015-UD.htm

19 APRILE 2015 | 3A DOMENICA DI PASQUA – ANNO B | OMELIA

Per cominciare
Gli evangelisti sono unanimi nel presentare la risurrezione di Gesù come un fatto inaspettato, che sorprende prima le donne e poi gli stessi apostoli. Gesù li costringe con la sua presenza reale e umanissima a ritrovare la fede in lui e li conferma nella missione di essere suoi testimoni.

La parola di Dio
Atti 3,13-15.17-19. Pietro, agganciandosi alla fede di ogni ebreo, si riferisce al Dio « di Abramo, di Isacco e di Giacobbe » per testimoniare la messianicità di Gesù. Pietro è schietto e coraggioso, ma anche un vero pastore, che si rivela disponibile al perdono e alla comprensione e invita quelli che hanno condannato a morte Gesù a cambiare orientamento di vita.
1ª Giovanni 2,1-5a. Giovanni parla anche lui di misericordia e di perdono, ma invita alla fedeltà: chi ha conosciuto Dio lo deve dimostrare con l’osservanza dei comandamenti.
Luca 24,35-48. Luca colloca tutti gli incontri con Gesù risorto nel giorno di Pasqua. Questa è l’apparizione al collegio degli apostoli, che sono « sconvolti e pieni di paura ». Guidati dalle parole di Gesù, essi passano dal dubbio alla gioia e alla fede esplicita.

Riflettere…
o In questa domenica viene proposto un altro racconto pasquale. Dopo le apparizioni per così dire private del Risorto, c’è questo terzo atto del dramma pasquale, quello decisivo: l’apparizione al collegio degli apostoli. Gesù si presenta loro con il suo corpo fisico, reale e dà agli apostoli la missione di evangelizzare il mondo.
o Il brano riporta decisamente nel clima di quella giornata straordinaria che è la Pasqua di Gesù. Due discepoli abbandonano sfiduciati Gerusalemme. Gli undici apostoli si ritrovano insieme pieni di paura e parlano di quello che sta capitando. Che cosa rimane della loro esperienza apostolica? Di quella piccola comunità che per alcuni anni si era costruita attorno a Gesù? Quegli uomini non erano preparati alla sconfitta del messia. Sono sconvolti e amareggiati, non comprendono più nulla. Fu forse questo lo stato d’animo di Giuda, che ha lentamente preparato il tradimento, non comprendendo il significato della tragedia che si stava tramando attorno a Gesù.
o Gesù non li abbandona proprio ora. Ha tante volte parlato di perdono, di amore disinteressato, di fiducia misericordiosa in chi ha sbagliato e ora ne dà l’esempio.
o La Pasqua è il vertice della rivelazione dell’amore misericordioso di Dio. Gesù, che per amore dell’uomo non è stato risparmiato, e che « nella sua passione e nel supplizio della croce non ha trovato misericordia umana », con la risurrezione si rivela come « la fonte inesauribile della misericordia », « l’incarnazione definitiva della misericordia » (cf Dives in misericordia, n. 8).
o Gesù accetta la sfida di Tommaso e degli apostoli che non vogliono o non riescono ad aprirsi alla fede: « Toccatemi, datemi da mangiare… », e spiega loro il senso delle scritture.
o Gesù ricompone tutto: reintegra nella loro posizione gli apostoli e li conferma nel compito di annunciare l’esperienza evangelica. Con grande pazienza, ma anche con una chiarezza a cui gli apostoli non erano del tutto abituati prima della Pasqua, Gesù svela il senso di ciò che ha vissuto e in quale esperienza sconvolgente gli apostoli sono stati coinvolti. Spiega loro le scritture, le profezie. È una vera catechesi esplicita, un completamento della sua opera, in modo che quelli che erano chiamati ad annunciare il vangelo fossero pienamente consapevoli del senso della storia e del piano di salvezza di Dio sul mondo.
o Gli apostoli, di fronte a Gesù, passano per i sentimenti più opposti: sono prima sconvolti e pieni di paura, credono di vedere un fantasma; poi si rivelano stupiti e non riescono a credere di avere di fronte realmente l’uomo che è stato crocifisso. Gesù mostra allora le sue ferite ed essi vengono presi da una gioia profonda.
o Sulla croce Gesù ha gridato: « Tutto è compiuto ». In realtà la sua missione ha un seguito in quest’opera di ricupero degli apostoli.
o La testimonianza più convincente dell’avvenuta trasformazione la offre Pietro (1ª lettura), che vediamo così convinto e coraggioso, profondamente cambiato. Accusa apertamente gli ebrei e li invita alla penitenza, alla conversione, al cambiamento del cuore. Premesse indispensabili per aprirsi a Gesù.

Attualizzare
* In un solo capitolo (il 24) Luca riassume, come fanno Matteo e Marco, tutte delle apparizioni del risorto. È curioso che gli evangelisti diano tanto spazio alla passione e alla morte di Gesù e così poco alle apparizioni del Risorto. Probabilmente le sofferenze di Gesù erano rimaste molto impresse nel loro animo, lasciando in loro non pochi sensi di colpa, mentre gli episodi della Risurrezione per così dire li hanno vissuti in prima persona ed erano oggetto della loro quotidiana testimonianza.
* Le donne corrono al sepolcro con gli aromi per completare la sepoltura, ma vedono la tomba aperta, la pietra rotolata, entrano e non trovano il corpo di Gesù. Due uomini in vesti splendenti dicono loro: « Perché cercate tra i morti colui che è vivo? ». Corrono dagli apostoli. Luca non parla di donne piene di paura che non dicono nulla a nessuno, come fa Marco. Matteo racconta che le donne erano spaventate, ma piene di gioia. Luca scrive che le donne corrono immediatamente a dirlo a Pietro e agli apostoli. Pietro ? come racconta anche Giovanni ? corre al sepolcro, guarda dentro e resta pieno di stupore.
* Il brano comincia con i discepoli di Emmaus che ritornano a Gerusalemme e raccontano agli apostoli di aver incontrato Gesù. Dicono che si è presentato a loro come un viandante e si è manifestato « nello spezzare il pane ». Il loro racconto si accompagna a quello delle donne. È mentre gli apostoli parlano stupiti di queste cose che Gesù si presenta a loro.
* Siamo colpiti da come i fatti della risurrezione vengono vissuti e raccontati e anche come li accolgono gli apostoli e le donne. Nell’insieme, essi non credono, sono pieni di dubbi e hanno paura. Gesù si presenta loro nelle sembianze di un ortolano, di un viandante, viene scambiato per un fantasma, si presenta loro mentre pescano e non viene riconosciuto. Ecco, Gesù dopo la risurrezione appare trasfigurato, ma non ancora glorioso. Si presenta ancora in forma pienamente umana, chiede a loro qualcosa da mangiare, si lascia toccare le mani e il costato da Tommaso.
* Questi sono elementi importanti per coloro che dicono che la risurrezione di Gesù è frutto di suggestione collettiva degli apostoli e delle donne. Com’è possibile che persone che erano entrate profondamente in crisi, pieni di paura e di dubbi, abbiano potuto inventare il fatto che Gesù si è ripresentato vivo?
aGesù più volte aveva parlato della sua passione, morte e risurrezione, ma sempre ? leggiamo nel vangelo ? gli apostoli non capivano che cosa volesse dire « risuscitare dai morti ». Questa volta lui si presenta vivo e li costringe ad arrendersi all’evidenza. Beninteso non si tratta di « apparizioni », come si potrebbe pensare, ma realmente di un « ripresentarsi vivo ».
* Ad apostoli dubbiosi e paurosi, Gesù riaffida la missione di essere suoi testimoni nel mondo. La missione di essere testimoni della risurrezione di Gesù rimane una costante nella chiesa di ogni tempo. È una missione semplice e nello stesso tempo più coinvolgente di ogni altra. Perché non si tratta tanto di trasmettere notizie o cose scritte, quanto di presentare se stessi come presenza viva, un’esperienza personale vissuta. « Quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono… di ciò diamo testimonianza e lo annunciamo anche a voi » (1Gv 1,1-3). Testimoniare vuol dire raccontare ciò da cui siamo stati afferrati e convinti, ciò che anima le nostre convinzioni e le nostre scelte.
* « Diventare testimoni: non tanto per convincere, quanto per essere segno. Infatti essere testimoni non è fare propaganda o fare qualcosa di misterioso: È vivere in modo tale che la propria vita sia inspiegabile, se Dio non esiste » (card. Suhard).
* Ogni cristiano che sia approdato seriamente alla fede, potrebbe raccontare che all’origine del suo incontro con Cristo c’è stato un testimone che gli ha trasmesso un modello di vita che lo ha spinto alla conversione, dei gesti di amore e di accoglienza che gli hanno fatto capire la verità che porta con sé la proposta cristiana.
* Diventare testimoni è un impegno che coinvolge tutti, sacerdoti, consacrati e laici. Anzi, sono proprio i laici che possono offrire la testimonianza più convincente e credibile. Si tratta per essi di passare da una testimonianza piuttosto passiva e da un atteggiamento di dipendenza, a quello di essere testimoni personali e creativi. Sapendo che ogni discepolo di Gesù deve sentire in forma personale il compito di portare a termine la missione di Gesù. La Pasqua rimane vana se non c’è chi la spieghi e la renda operante, suscitando la fede con la parola e la testimonianza.
* Infine ricordiamo che Gesù si è presentato vivo di domenica e in un contesto eucaristico. Non si tratta di vere e proprie celebrazioni, ma c’è l’essenziale di ciò che sarebbero diventate le nostre assemblee domenicali: c’è Gesù risorto; spiega le Scritture agli apostoli sfiduciati, paurosi e increduli; mangia con loro, anzi offre loro il suo corpo, testimone del sangue versato. È così che nasce la chiesa: dalla presenza di Gesù, dal ritrovarsi insieme, dallo spezzare il pane, dalla testimonianza dell’amore misericordioso predicato e vissuto.

Montava sulla sedia e faceva la predica
San Giovanni Calabria, nato in una famiglia poverissima, con il padre sempre ammalato e inabile al lavoro, prima di diventare prete lavorò per qualche anno in una cartoleria. Nel 1889 ha 16 anni. Il suo padrone Felice Quarena era in fondo un brav’uomo, ma s’era preso il brutto vizio d’infilare in ogni conversazione delle terribili bestemmie, infiorandole di espressioni volgari. Giovanni in un primo tempo arrossiva e rimaneva intimidito e mortificato, ma in seguito si fece coraggioso, e tutto vibrante e rosso in volto montava su una sedia e faceva con solennità un bel predicozzo al suo padrone, dandogli in bella maniera dello sboccato e del miscredente.

È la Pasqua del Signore!
« Cerchiamo di essere simili a Cristo, dal momento che Cristo si è fatto simile a noi: diventiamo Dio per mezzo di lui, dato che lui si è fatto uomo per noi. Egli ha preso su di sé quello che c’era di più basso per donarci quello che c’è di migliore. Si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà, ha preso forma di servo, perché noi ottenessimo la libertà. È stato tentato perché noi superassimo le prove, è stato disprezzato perché noi avessimo la gloria. È morto perché noi avessimo la vita, è salito al cielo per attirare a sé quelli che giacevano a terra, caduti nel peccato » (san Gregorio Nazianzeno).

Fonte autorizzata : Umberto DE VANNA

Oggi è il compleanno di Papa Benedetto, 88 anni, auguri caro Papa e caro Padre!

Oggi è il compleanno di Papa Benedetto, 88 anni, auguri caro Papa e caro Padre! dans immagini del Papa Benedict+XVI+Pope+John+Paul+II+Pope+John+XXIII+0C8aU_Lil3Ul

Pope Emeritus Benedict XVI arrives at the Canonisation Mass in which John Paul II and John XXIII are to be declared saints on April 27, 2014 in Vatican City, Vatican.

http://www.zimbio.com/pictures/dqDCRNQ5bbV/Pope+John+Paul+II+Pope+John+XXIII+Declared/0C8aU_Lil3U/Benedict+XVI

Publié dans:immagini del Papa |on 16 avril, 2015 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI UDIENZA 19 OTTOBRE 2011: L’AMORE DI DIO È PER SEMPRE

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=128173

L’AMORE DI DIO È PER SEMPRE

L’immagine del Mar Rosso « diviso » in due, sembra evocare l’idea del mare come un grande mostro che viene tagliato in due pezzi e così reso inoffensivo. La potenza del Signore vince la pericolosità delle forze della natura e di quelle militari messe in campo dagli uomini...

UDIENZA GENERALE DI BENEDETTO XVI DI MERCOLEDÌ 19 OTTOBRE 2011

Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei meditare con voi un Salmo che riassume tutta la storia della salvezza di cui l’Antico Testamento ci dà testimonianza. Si tratta di un grande inno di lode che celebra il Signore nelle molteplici, ripetute manifestazioni della sua bontà lungo la storia degli uomini; è il Salmo 136 – o 135 secondo la tradizione greco-latina.
Solenne preghiera di rendimento di grazie, conosciuto come il « Grande Hallel », questo Salmo è tradizionalmente cantato alla fine della cena pasquale ebraica ed è stato probabilmente pregato anche da Gesù nell’ultima Pasqua celebrata con i discepoli; ad esso sembra infatti alludere l’annotazione degli Evangelisti: «Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi» (cfr Mt 26,30; Mc 14,26). L’orizzonte della lode illumina così la difficile strada del Golgota. Tutto il Salmo 136 si snoda in forma litanica, scandito dalla ripetizione antifonale «perché il suo amore è per sempre». Lungo il componimento, vengono enumerati i molti prodigi di Dio nella storia degli uomini e i suoi continui interventi in favore del suo popolo; e ad ogni proclamazione dell’azione salvifica del Signore risponde l’antifona con la motivazione fondamentale della lode: l’amore eterno di Dio, un amore che, secondo il termine ebraico utilizzato, implica fedeltà, misericordia, bontà, grazia, tenerezza. È questo il motivo unificante di tutto il Salmo, ripetuto in forma sempre uguale, mentre cambiano le sue manifestazioni puntuali e paradigmatiche: la creazione, la liberazione dell’esodo, il dono della terra, l’aiuto provvidente e costante del Signore nei confronti del suo popolo e di ogni creatura.
Dopo un triplice invito al rendimento di grazie al Dio sovrano (vv. 1-3), si celebra il Signore come Colui che compie «grandi meraviglie» (v. 4), la prima delle quali è la creazione: il cielo, la terra, gli astri (vv. 5-9). Il mondo creato non è un semplice scenario su cui si inserisce l’agire salvifico di Dio, ma è l’inizio stesso di quell’agire meraviglioso. Con la creazione, il Signore si manifesta in tutta la sua bontà e bellezza, si compromette con la vita, rivelando una volontà di bene da cui scaturisce ogni altro agire di salvezza. E nel nostro Salmo, riecheggiando il primo capitolo della Genesi, il mondo creato è sintetizzato nei suoi elementi principali, insistendo in particolare sugli astri, il sole, la luna, le stelle, creature magnifiche che governano il giorno e la notte. Non si parla qui della creazione dell’essere umano, ma egli è sempre presente; il sole e la luna sono per lui – per l’uomo – per scandire il tempo dell’uomo, mettendolo in relazione con il Creatore soprattutto attraverso l’indicazione dei tempi liturgici.
Ed è proprio la festa di Pasqua che viene evocata subito dopo, quando, passando al manifestarsi di Dio nella storia, si inizia conil grande evento della liberazione dalla schiavitù egiziana, dell’esodo, tracciato nei suoi elementi più significativi: la liberazione dall’Egitto con la piaga dei primogeniti egiziani, l’uscita dall’Egitto, il passaggio del Mar Rosso, il cammino nel deserto fino all’entrata nella terra promessa (vv. 10-20). Siamo nel momento originario della storia di Israele. Dio è intervenuto potentemente per portare il suo popolo alla libertà; attraverso Mosè, suo inviato, si è imposto al faraone rivelandosi in tutta la sua grandezza ed, infine, ha piegato la resistenza degli Egiziani con il terribile flagello della morte dei primogeniti. Così Israele può lasciare il Paese della schiavitù, con l’oro dei suoi oppressori (cfr Es 12,35-36), «a mano alzata» (Es 14,8), nel segno esultante della vittoria. Anche al Mar Rosso il Signore agisce con misericordiosa potenza. Davanti ad un Israele spaventato alla vista degli Egiziani che lo inseguono, tanto da rimpiangere di aver lasciato l’Egitto (cfr Es 14,10-12), Dio, come dice il nostro Salmo, «divise il Mar Rosso in due parti […] in mezzo fece passare Israele […] vi travolse il faraone e il suo esercito» (vv. 13-15). L’immagine del Mar Rosso « diviso » in due, sembra evocare l’idea del mare come un grande mostro che viene tagliato in due pezzi e così reso inoffensivo. La potenza del Signore vince la pericolosità delle forze della natura e di quelle militari messe in campo dagli uomini: il mare, che sembrava sbarrare la strada al popolo di Dio, lascia passare Israele all’asciutto e poi si richiude sugli Egiziani travolgendoli. «La mano potente e il braccio teso» del Signore (cfr Deut 5,15; 7,19; 26,8) si mostrano così in tutta la loro forza salvifica: l’ingiusto oppressore è stato vinto, inghiottito dalle acque, mentre il popolo di Dio « passa in mezzo » per continuare il suo cammino verso la libertà.
A questo cammino fa ora riferimento il nostro Salmo ricordando con una frase brevissima il lungo peregrinare di Israele verso la terra promessa: «Guidò il suo popolo nel deserto, perché il suo amore è per sempre» (v. 16). Queste poche parole racchiudono un’esperienza di quarant’anni, un tempo decisivo per Israele che lasciandosi guidare dal Signore impara a vivere di fede, nell’obbedienza e nella docilità alla legge di Dio. Sono anni difficili, segnati dalla durezza della vita nel deserto, ma anche anni felici, di confidenza nel Signore, di fiducia filiale; è il tempo della « giovinezza », come lo definisce il profeta Geremia parlando a Israele, a nome del Signore, con espressioni piene di tenerezza e di nostalgia: «Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in terra non seminata» (Ger 2,2). Il Signore, come il pastore del Salmo 23 che abbiamo contemplato in una catechesi, per quarant’anni ha guidato il suo popolo, lo ha educato e amato, conducendolo fino alla terra promessa, vincendo anche le resistenze e l’ostilità di popoli nemici che volevano ostacolarne il cammino di salvezza (cfr vv. 17-20).
Nello snodarsi delle «grandi meraviglie» che il nostro Salmo enumera, si giunge così al momento del dono conclusivo, nel compiersi della promessa divina fatta ai Padri: «Diede in eredità la loro terra, perché il suo amore è per sempre; in eredità a Israele suo servo, perché il suo amore è per sempre» (vv. 21-22). Nella celebrazione dell’amore eterno del Signore, si fa ora memoria del dono della terra, un dono che il popolo deve ricevere senza mai impossessarsene, vivendo continuamente in un atteggiamento di accoglienza riconoscente e grata. Israele riceve il territorio in cui abitare come « eredità », un termine che designa in modo generico il possesso di un bene ricevuto da un altro, un diritto di proprietà che, in modo specifico, fa riferimento al patrimonio paterno. Una delle prerogative di Dio è di « donare »; e ora, alla fine del cammino dell’esodo, Israele, destinatario del dono, come un figlio, entra nel Paese della promessa realizzata. È finito il tempo del vagabondaggio, sotto le tende, in una vita segnata dalla precarietà. Ora è iniziato il tempo felice della stabilità, della gioia di costruire le case, di piantare le vigne, di vivere nella sicurezza (cfr Dt 8,7-13). Ma è anche il tempo della tentazione idolatrica, della contaminazione con i pagani, dell’autosufficienza che fa dimenticare l’Origine del dono. Perciò il Salmista menziona l’umiliazione e i nemici, una realtà di morte in cui il Signore, ancora una volta, si rivela come Salvatore: «Nella nostra umiliazione si è ricordato di noi, perché il suo amore è per sempre; ci ha liberati dai nostri avversari, perché il suo amore è per sempre» (vv. 23-24).
A questo punto nasce la domanda: come possiamo fare di questo Salmo una preghiera nostra, come possiamo appropriarci, per la nostra preghiera, di questo Salmo? Importante è la cornice del Salmo, all’inizio e alla fine: è la creazione. Ritorneremo su questo punto: la creazione come il grande dono di Dio del quale viviamo, nel quale Lui si rivela nella sua bontà e grandezza. Quindi, tener presente la creazione come dono di Dio è un punto comune per noi tutti. Poi segue la storia della salvezza. Naturalmente noi possiamo dire: questa liberazione dall’Egitto, il tempo del deserto, l’entrata nella Terra Santa e poi gli altri problemi, sono molto lontani da noi, non sono la nostra storia. Ma dobbiamo stare attenti alla struttura fondamentale di questa preghiera. La struttura fondamentale è che Israele si ricorda della bontà del Signore. In questa storia ci sono tante valli oscure, ci sono tanti passaggi di difficoltà e di morte, ma Israele si ricorda che Dio era buono e può sopravvivere in questa valle oscura, in questa valle della morte, perché si ricorda. Ha la memoria della bontà del Signore, della sua potenza; la sua misericordia vale in eterno. E questo è importante anche per noi: avere una memoria della bontà del Signore. La memoria diventa forza della speranza. La memoria ci dice: Dio c’è, Dio è buono, eterna è la sua misericordia. E così la memoria apre, anche nell’oscurità di un giorno, di un tempo, la strada verso il futuro: è luce e stella che ci guida. Anche noi abbiamo una memoria del bene, dell’amore misericordioso, eterno di Dio. La storia di Israele è già una memoria anche per noi, come Dio si è mostrato, si è creato un suo popolo. Poi Dio si è fatto uomo, uno di noi: è vissuto con noi, ha sofferto con noi, è morto per noi. Rimane con noi nel Sacramento e nella Parola. E’ una storia, una memoria della bontà di Dio che ci assicura la sua bontà: il suo amore è eterno. E poi anche in questi duemila anni della storia della Chiesa c’è sempre, di nuovo, la bontà del Signore. Dopo il periodo oscuro della persecuzione nazista e comunista, Dio ci ha liberati, ha mostrato che è buono, che ha forza, che la sua misericordia vale per sempre. E, come nella storia comune, collettiva, è presente questa memoria della bontà di Dio, ci aiuta, ci diventa stella della speranza, così anche ognuno ha la sua storia personale di salvezza, e dobbiamo realmente far tesoro di questa storia, avere sempre presente la memoria delle grandi cose che ha fatto anche nella mia vita, per avere fiducia: la sua misericordia è eterna. E se oggi sono nella notte oscura, domani Egli mi libera perché la sua misericordia è eterna.
Ritorniamo al Salmo, perché, alla fine, ritorna alla creazione. Il Signore – così dice – «dà il cibo a ogni vivente, perché il suo amore è per sempre» (v. 25). La preghiera del Salmo si conclude con un invito alla lode: «Rendete grazie al Dio del cielo, perché il suo amore è per sempre». Il Signore è Padre buono e provvidente, che dà l’eredità ai propri figli ed elargisce a tutti il cibo per vivere. Il Dio che ha creato i cieli e la terra e le grandi luci celesti, che entra nella storia degli uomini per portare alla salvezza tutti i suoi figli è il Dio che colma l’universo con la sua presenza di bene prendendosi cura della vita e donando pane. L’invisibile potenza del Creatore e Signore cantata nel Salmo si rivela nella piccola visibilità del pane che ci dà, con il quale ci fa vivere. E così questo pane quotidiano simboleggia e sintetizza l’amore di Dio come Padre, e ci apre al compimento neotestamentario, a quel « pane di vita », l’Eucaristia, che ci accompagna nella nostra esistenza di credenti, anticipando la gioia definitiva del banchetto messianico nel Cielo.
Fratelli e sorelle, la lode benedicente del Salmo 136 ci ha fatto ripercorrere le tappe più importanti della storia della salvezza, fino a giungere al mistero pasquale, in cui l’azione salvifica di Dio arriva al suo culmine. Con gioia riconoscente celebriamo dunque il Creatore, Salvatore e Padre fedele, che «ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Nella pienezza dei tempi, il Figlio di Dio si fa uomo per dare la vita, per la salvezza di ciascuno di noi, e si dona come pane nel mistero eucaristico per farci entrare nella sua alleanza che ci rende figli. A tanto giunge la bontà misericordiosa di Dio e la sublimità del suo « amore per sempre ».
Voglio perciò concludere questa catechesi facendo mie le parole che San Giovanni scrive nella sua Prima Lettera e che dovremmo sempre tenere presenti nella nostra preghiera: «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente» (1Gv 3,1). Grazie.

IL MARE (studi biblici)

http://www.paoline.it/Conoscere-la-Bibbia/articoloRubrica_arb1988.aspx

IL MARE

[FILIPPA CASTRONOVO]

La distesa di grandi acque, nella Bibbia, è spesso sinonimo di caos o di pericolo, ma è anche il luogo dove si manifesta la signorìa di Dio come Creatore e Salvatore del suo popolo
Il mare, jam in ebraico, tradotto anche con “grandi acque”, “diluvio” sia nella Bibbia come anche nelle antiche culture del vicino Oriente è simbolo del caos primordiale, della morte, del nulla e del male, luogo popolato da mostri. Questi antichi popoli concepivano la terra come una piattaforma sulla quale si stendeva la volta celeste. Sotto la piattaforma terreste ribollivano le acque oceaniche che si accanivano contro le colonne che reggevano la terra.
Ne derivava un equilibrio instabile che, secondo la Bibbia, solo Dio creatore dominava. Egli, infatti, creò il cielo, la terra e il mare quando “divise” le acque marine e la terraferma. Dio disse: «Le acque che sono sotto il cielo si raccolgono in un solo luogo e appaia l’asciutto. E così avvenne. Dio chiamò l’asciutto terra e la massa delle acque mare» (Gen 1,9-10). Tra mare e terra Dio pone un limite: «Quando stabiliva al mare i suoi confini sicché le sue acque non oltrepassassero la spiaggia io ero con lui» (cfr. Prov 8,29-30).
Diversi libri biblici esprimono il mare, quale personificazione del male, come luogo popolato da mostri da nomi impressionanti: Leviatan, «serpente tortuoso, guizzante, drago marino» simile a un enorme coccodrillo (Is 41); Rahab, altro cetaceo mostruoso, Behemot, simile all’ippopotamo (Gb 40,15-24); la Bestia marina dell’Apocalisse (13,1-2) che sale dall’Abisso per distruggere la terra (17,8). Dio domina le forze distruttive del male: «È lui che comanda alle acque del mare, dichiara il profeta Amos (5,8) e le spande sulla terra». «Il Signore degli eserciti solleva il mare e ne fa mugghiare le onde» (Ger 31,35). La potenza divina si dispiega dominando il mare.
Nell’esodo d’Israele dall’Egitto, Dio, attraverso Mosè, impone al mare di bloccarsi come muraglia (Es 14,22), scatenandolo come arma del suo giudizio sugli egiziani: «Al soffio della tua ira si accumularono le acque, si alzarono le onde come un argine, si rappresero gli abissi in fondo al mare. Soffiasti col tuo alito: il mare li coprì, sprofondarono come piombo in acque profonde» (Es 15,8.10). Il fluttuare delle onde del mare nel libro dei Proverbi è paragonato all’andamento dell’ubriaco: «Sarai come chi giace in mezzo al mare, come chi siede sull’albero maestro» (23,24).
Il potere di Dio di dominare il mare nel Nuovo Testamento è esercitato da Gesù. Nel sedare la tempesta si rivela il Signore che tratta il mare alla pari di un essere diabolico, dominandolo: «Sgridò il vento e disse al mare: Taci, calmati! Furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: Chi è costui al quale anche il vento e il mare obbediscono?» (Mc 4,35-41). Nei racconti evangelici, Gesù oltre a sedare la tempesta cammina sulle acque del mare e anche a Pietro permette di camminare verso di lui sulle acque (Mt 14,22-26; Mc 6,45-52; Lc 8,22-25; Gv 6, 16-21).
Nella Gerusalemme celeste, raffigurata dal libro dell’ Apocalisse, la Gerusalemme celeste, il mare simbolo del male scomparirà definitivamente: «Vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più» (Ap 21,1).

Da sapere che:
I salmi cantano la potenza di Dio che domina il mare. Dio fa camminare il popolo sull’asciutto: «Il mare vide e si ritrasse indietro. Che hai tu, mare, per fuggire?» (Sal 114, 3.5); salva Davide dai nemici: «Stese la mano dall’alto, mi afferrò, mi sollevò dalle grandi acque mi portò al largo, mi liberò perché mi vuol bene» (Sal 18, 17. 20).
Il profeta Giona, inghiottito dal mostro marino, canta a Dio la sua angoscia mortale: «Mi hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare, tutti flutti e le onde sono passate sopra di me. Le acque mi hanno sommerso fino alla gola, l’abisso mi ha avvolto, l’alga si è avvinta al mio capo» (2,4.6). Il suo permanere tre giorni e tre notti nel mare richiama Gesù che rimase tre giorni nel sepolcro (Lc 11,29-30)
L’apostolo Paolo narra di «aver fatto naufragio tre volte e di aver trascorso un giorno e una notte in balia delle onde» (2 Cor 11,25), ma Dio ogni volta lo ha liberato. Gli Atti degli Apostoli narrano il naufragio di Paolo nell’isola di Malta come entrare e uscire dalla morte per opera di Dio (At 37,39-44).
La riflessione cristiana vede che come dalle acque del Mar Rosso uscì un popolo salvato dalla morte così dalle acque del battesimo, nasce il popolo di Dio salvato per mezzo della morte e risurrezione di Cristo.

Publié dans:biblica, BIBLICA: STUDI |on 16 avril, 2015 |Pas de commentaires »

Partenza degli israeliti, by David Roberts, 1829

Partenza degli israeliti, by David Roberts, 1829 dans immagini sacre David_Roberts-IsraelitesLeavingEgypt_1828

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Publié dans:immagini sacre |on 15 avril, 2015 |Pas de commentaires »

SCRITTI SPIRITUALI SUL SENSO DELLA VITA – INTRODUZIONE EDITH STEIN

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SCRITTI SPIRITUALI SUL SENSO DELLA VITA – INTRODUZIONE

EDITH STEIN – LA MISTICA DELLA CROCE

«Vengo per pregare con voi», ha detto il Papa ad Auschwitz, «con tutta la Polonia e tutta l’Europa» Vengo «ad inginocchiarmi su questo Golgota del mondo contemporaneo, su queste tombe, in gran parte senza nome.

Nel giugno 1979, Giovanni Paolo II si recò in pellegrinaggio nella sua patria polacca. Ad Auschwitz, ricordò in particolare coloro che, come Edith Stein e Massimiliano Kolbe, furono vittime di uno spietato odio razziale. L’ebrea Edith Stein, i cui antenati erano immigrati in Polonia, e il sacerdote polacco Kolbe dimostrarono, in quanto cristiani, che anche di fronte all’orrore dello sterminio si può irradiare luce ed amore fraterno.
«Vengo per pregare con voi», ha detto il Papa ad Auschwitz, «con tutta la Polonia e tutta l’Europa» Vengo «ad inginocchiarmi su questo Golgota del mondo contemporaneo, su queste tombe, in gran parte senza nome. Questo è un luogo in cui vogliamo considerare fratelli ogni popolo ed ogni uomo. E se c’è stata amarezza nelle mie parole, cari fratelli e sorelle, esse sono state pronunciate non per accusare, ma per ricordare. Parlo infatti pensando a coloro che sono morti – ai quattro milioni di vittime cadute su questo campo enorme -, parlo a nome di tutti coloro i cui diritti vengono ignorati e violati. Parlo perché mi obbliga, ci obbliga a farlo, la verità» (Oss. Rom., 7 giugno 1979).

La seguente scelta di testi, tratti da scritti e lettere della filosofa e carmelitana Edith Stein, vuole mostrare a quali grandezze è chiamato l’uomo. Edith Stein proveniva da una famiglia ebraica. La religiosità della madre fu rispettata, ma non imitata dai figli, fin dal tempo degli studi, la ricerca della verità fu decisiva per Edith Stein. Verità non solo come conoscenza teoretica, ma come radicale atteggiamento di fondo, che informa tutta la vita. Fino a 21 anni, Edith Stein credette dì poter trovare la verità al di fuori della religione. Ricorderà il momento a partire dal quale decise consapevolmente di non pregare più. Cercò la verità nella psicologia e nella filosofia. Da studentessa, si impegnò per la parità della donna e si interessò di politica. Presto però riconobbe che il sapere porta alla responsabilità, che le regole morali devono plasmare la vita individuale per divenire fondamento costitutivo di un popolo e della sua struttura statale.
Edith Stein era una persona spiritualmente vivace e sensibile, pronta ad aiutare con generosità chi le chiedesse aiuto. Nella cerchia dei parenti e degli amici, era considerata già negli anni di studio particolarmente degna di fiducia per il suo carattere saldo e discreto. L’incontro con i filosofi Edmund Husserl, Max Scheler, Adolf Reinach, Hedwig ConradMartius le fece conoscere il mondo cristiano. Husserl era evangelico, Scheler si converti al cattolicesimo, Reinach e Conrad-Martius al credo evangelico. Edith Stein conobbe la fede cristiana dapprima attraverso il contatto con le persone e solo in seguito attraverso le letture e
lo studio. Esperienza travolgente fu per lei scoprire che la fede in Gesù Cristo crea vincoli di familiarità e di amicizia tra persone prima estranee e dona ai credenti una forza di amare e una conoscenza di sé che Edith Stein non aveva mai sperimentato.
Nel corso della sua ricerca della verità, dal 1916 cominciò in Edith Stein un travaglio inferiore che la portò poco per volta ad accettare la croce di Cristo. La morte di un suo caro amico le aveva fatto provare con improvvisa consapevolezza la forza della croce. Ma sarebbe stato necessario un lungo conflitto interiore per poter accettare l’esistenza di un Dio personale che ama. Leggendo i suoi studi di fenomenologia negli annali husserliani, troviamo indizi del fatto che Edith’ Stein intendesse il suo cammino verso Cristo come un itinerario «mistico». Ella analizza infatti come nella profonda disperazione esistenziale un uomo sia incapace di prendere delle decisioni, e descrive l’esperienza risanatrice e consolante di «una pace trascendentale che si spande nell’anima», e che si può identificare solo con Dio. La lettura dell’autobiografia della spagnola Teresa d’Avila, Dottore della Chiesa, fu per lei una conferma della propria esperienza personale.
Edith Stein si convertì al cattolicesimo nel 1922 con il desiderio di entrare nell’Ordine di Teresa d’Avila. La sua conversione non tardò a crearle difficoltà in famiglia, dove nessuno riusciva a capire la sua scelta; tutto ciò la indusse a vivere i successivi dieci anni della sua vita lavorando. Come insegnante e docente a Speyer, come conferenziera sui problemi di una moderna educazione femminile e come assistente universitaria a Mùnster, Edith Stein, cristiana impegnata professionalmente, cercò di unire in una fruttuosa sintesi il rapporto profondo con Dio e l’impegno gravoso che esigeva la sua attività. Aiutò molti a vedere in modo nuovo la propria vita e a vivere seguendo l’esempio di Cristo.
Fin da quando Hitler prese il potere, Edith Stein, allora a Mùnster, capì quale destino sarebbe stato riservato all’ebraismo europeo. Assistette agli assalti degli studenti aizzati contro gli ebrei dall’influsso del nazionalsocialismo. Queste esperienze acuirono in lei la coscienza di dover fare qualcosa per il suo popolo. Sperò in un’enciclica del Papa sulla questione ebraica. Non essendosi avverato questo suo desiderio, cercò ancora quale fosse il suo compito specifico, quello a cui si sentiva chiamata. L’improvviso esonero dall’incarico nella primavera del 1933, che dovette accettare insieme con molti suoi concittadini ebrei, le aprì ad un tratto una nuova strada. Rifiutò una proposta di lavoro in Sudamerica, come pure la possibilità di continuare tranquillamente il suo lavoro scientifico a Mùnster in attesa di tempi migliori. Il 4 ottobre 1933, entrò nel Carmelo di Colonia.
Come ebrea e come cristiana, Edith Stein si sentiva chiamata a rappresentare il suo popolo davanti a Dio, intercedendo per esso con la preghiera e il sacrificio. Pensava di poterlo fare nel modo migliore nel Carmelo. Entrare nel Carmelo significava per lei imparare a rinunciare a sé come Gesù, partecipare alla sua opera di redenzione. Vedeva la discriminazione di cui era vittima il suo popolo ebraico come una partecipazione alla croce-di Cristo. La persecuzione degli ebrei era per Edith Stein la persecuzione dell’umanità di Gesù. Seguendo l’esempio di Cristo, vedeva la possibilità di vincere il male con il bene. Vincere il male non significava per lei fuggire la sofferenza, ma prenderla su di sé nella forza della croce, in segno di solidarietà con gli altri e per gli altri.
L’incomprensione della sua famiglia ebrea, che vedeva la sua entrata in un monastero di clausura come fuga dalla realtà, come infedeltà nei confronti dei perseguitati, faceva parte dell’esperienza di dolore di Edith Stein. Ma non riuscì a distoglierla dalla sua strada. Dopo nove anni di vita religiosa nel Carmelo di Colonia e di Echt in Olanda, le fu chiesto ciò che fino a quel momento aveva vissuto segretamente: il sacrificio per i fratelli come testimonianza in nome di Gesù Cristo.
Il 2 agosto 1942, Edith Stein e sua sorella Rosa Stein furono arrestate ad Echt dalla Gestapo e condotte nel campo di concentramento di Amersfoort. Il 7 agosto 1942, fu deportata nel campo di sterminio di Auschwitz in Polonia con innumerevoli altri detenuti ebrei. In base a tutte le testimonianze finora raccolte, morì il 9 agosto 1942, uccisa nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau.
Ancora oggi sono valide le parole di Reinhold Schneider, morto nel 1958: «In Edith Stein è riposta una grande speranza, una promessa per il suo popolo – e per il nostro popolo: che questa figura impareggiabile entri veramente nella nostra vita, ci renda chiaro ciò che lei aveva compreso, e la grandezza e l’atrocità del suo sacrificio commuova entrambi i popoli»

(L’autore) Edith STEIN, LA MISTICA DELLA CROCE – autore: Edith Stein

Publié dans:EDITH STEIN, spiritualità  |on 15 avril, 2015 |Pas de commentaires »

IL PASSAGGIO DI CRISTO NELLA REGIONE DELLA MORTE HA TRASFORMATO IL MORIRE DI TUTTI – di Gianfranco Ravasi

http://paroledivita.myblog.it/2010/04/12/quando-arriva-il-giorno-dell-incontro-il-passaggio-di-cristo/

QUANDO ARRIVA IL GIORNO DELL’INCONTRO.

IL PASSAGGIO DI CRISTO NELLA REGIONE DELLA MORTE HA TRASFORMATO IL MORIRE DI TUTTI

Posted on 12 aprile 2010

di Gianfranco Ravasi

“Fratello, se vieni a visitare la mia tomba, non devi piangere. Non è giusto addolorarsi per l’unione con Dio. Dopo la mia morte non cercare la mia tomba sulla terra: la mia tomba è nel cuore di coloro che amano”. Più di una volta ho sostato anch’io a Konya, in Turchia, sotto la grandiosa cupola verde ove è collocato il cenotafio di Gialal ed-Din Rumi, il grande poeta mistico musulmano del XIII secolo. Accanto si leggono appunto le parole che ho citato e che egli aveva dettato per la sua epigrafe. Esse ci svelano una delle tante coincidenze spirituali tra le grandi religioni nella loro anima autentica. Un’antica preghiera musulmana invoca: “Dio mio, concedimi di morire nel desiderio di incontrarti. Concedimi di prepararmi al giorno dell’Incontro”.
La morte, dunque, non come estuario che sfocia sul nulla, ma come l’Incontro per eccellenza con Dio nella casa del suo regno. Come dice Rumi, la nostra vera tomba non è nel sepolcro, ma nel cuore di coloro che amano, cioè quelli che hanno amore e fede dentro di sé, e quindi custodiscono una scintilla o un germe di eternità. E l’eternità è l’orizzonte a cui siamo destinati dopo la morte. Certo, ben diversi sono i sentimenti dominanti ai nostri giorni. Li esprimeva suggestivamente il cantautore Francesco Guccini nella sua Canzone di notte n.2: “Ognuno vive dentro ai suoi egoismi / vestiti di sofismi, / e ognuno costruisce il suo sistema / di piccoli rancori irrazionali, / di cosmi personali / scordando che poi infine tutti avremo / due metri di terreno”. Già Cristo aveva considerato questa visione minimalista della vita nella parabola del ricco insensato che accumula senza posa per piombare in una morte sulla quale echeggia una voce terribile: “Quello che hai preparato di chi sarà?” (Luca, 12, 20).

Sulla scia della celebrazione pasquale che si distende in questi giorni, riproponiamo un tema che è nel cuore di ogni creatura, nonostante lo sforzo di esorcizzarlo, quello del morire, ma lo faremo da un’angolatura teologica, anzi cristologica. Se stiamo ai Vangeli, Gesù incontra direttamente tre cadaveri: quelli della figlia di Giairo (Marco, 5, 35-43), del figlio di una vedova del villaggio galilaico di Nain (Luca, 7, 11-17) e dell’amico Lazzaro (Giovanni, 11). Davanti alla morte anche Cristo soffre, la percepisce come un dramma; lui stesso, sentendola incombere su di sé, è travolto dall’angustia. Annota Marco: nel Getsemani, Gesù “cominciò a sentire paura e angoscia. Disse a Pietro, Giovanni e Giacomo: La mia anima è triste fino alla morte” (14, 33-34). E la sua implorazione è quella di ogni uomo che supplica di essere liberato dallo spettro della fine: “Abba’, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice!”; e l’evangelista ricorda: “pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora” (14, 35-36).
Quando, alla fine, la morte gli piomba addosso, essa ha i contorni di una vera e propria tragedia. La sofferenza fisica lo attanaglia brutalmente, gli amici lo lasciano solo e, su tutto, incombe il silenzio del Padre: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Anzi, per Marco e Matteo, quella di Gesù è quasi una brutta morte: “Gesù, lanciando un forte grido, spirò… Gesù gridò di nuovo a gran voce ed emise lo spirito” (Marco, 15, 37; Matteo, 27, 50). Cristo rivela, in questo momento estremo, l’Incarnazione nella sua verità più lacerante: il Figlio di Dio, morendo, diventa veramente nostro fratello, perché la carta d’identità fondamentale di ogni figlio di Adamo reca sempre la data della morte, assente nella carta d’identità di Dio.
Eppure, anche in quell’istante e nei successivi, quando è un cadavere nelle mani ora crudeli dei soldati, ora pietose degli amici, Gesù non cessa di essere il Figlio di Dio. Ecco, allora, la radicale lettura cristiana della morte. Già appariva in quei tre incontri che sfociavano non su una risurrezione definitiva: la figlia di Giairo, il figlio della vedova e Lazzaro hanno, infatti, dovuto successivamente morire. Tuttavia, Cristo, facendo rivivere costoro temporaneamente, illustrava in maniera reale ed efficace il destino ultimo dell’umanità, la risurrezione, ossia la vita per sempre in Dio, il Vivente. La stessa redazione evangelica di quei miracoli di risurrezione tiene in filigrana quella di Cristo così da trasformarli in “segni” pasquali (esplicito è, al riguardo, Giovanni con la vicenda di Lazzaro). Questa luce avvolge in pienezza il morire di Cristo. Infatti, l’evangelista Luca all’abbandono del Padre, descritto da Matteo e Marco, sostituisce l’abbandono di Gesù al Padre: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito! Detto questo, spirò” (23, 46). E Giovanni, come è noto, presenta la morte in croce non più come il nadir dell’umanità di Gesù, bensì come lo zenit epifanico della sua divinità: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono” (8, 28) e non c’è bisogno di ricordare che “Io Sono” è l’autodefinizione divina del Sinai (Esodo, 3, 14).
Da un lato, Cristo col peso reale della sua umanità non minimizza né elide lo scandalo del morire, la sua dimensione di oscurità, il suo bagliore cupo di dolore. D’altro lato, però, la sua divinità, attraversando la regione tenebrosa della morte, la irradia con la luce della sua eternità. Il Venerdì Santo della crocifissione e il Sabato Santo della sepoltura, segni decisivi dell’Incarnazione, si aprono alla Domenica di Pasqua, che è – per usare una famosa frase del profeta Zaccaria – “un unico giorno, non avrà più né dì né notte, ma verso sera risplenderà di nuovo la luce” (14, 7), evidente metafora dell’eternità. Come scriveva suggestivamente in Resistenza e resa, il diario della sua “passione” nel lager nazista, Dietrich Bonhoeffer, “venire a capo del morire non significa ancora venire a capo della morte (…) Non è dall’ars moriendi, ma è dalla risurrezione di Cristo che può spirare nel mondo presente un nuovo vento purificatore”.
Un vento che san Paolo ha sentito soffiare così fortemente da farlo diventare non solo l’asse della sua cristologia, fin dal suo primo scritto che professa la “morte per noi” del Figlio di Dio (1 Tessalonicesi, 5, 10), ma anche dell’antropologia cristiana. Infatti, il passaggio reale di Cristo nella regione della morte trasforma il morire di tutti: egli “è morto per tutti, perché quelli che vivono (…) vivano per colui che è morto e risorto per loro” (2 Corinzi, 5, 15). In questa prospettiva la morte di Gesù è la liberazione della nostra prima e seconda morte, per usare il linguaggio dell’Apocalisse. Infatti, da un lato, “se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più (…) Egli morì una volta per tutte, ora vive e vive per Dio” (Romani, 6, 8-10). Egli, dunque, feconda il grembo della morte con la sua divina “rugiada luminosa”, volendo ricorrere a un’immagine isaiana (26, 19) e ci fa risorgere non a vita transitoria ma alla vita eterna di Dio.
D’altro lato, però, egli ci libera anche dalla “seconda morte, lo stagno di fuoco” (Apocalisse, 20, 14), ossia dalla morte spirituale del peccato: “Cristo morì per i nostri peccati (…) Voi consideratevi morti al peccato, e viventi per Dio, in Cristo Gesù” (1 Corinzi, 15, 3; Romani, 6, 11). Oltre alla risurrezione dalla morte fisica, Cristo ci dona la giustificazione che libera dalla morte spirituale. Potente e fin audace è la frase della Seconda Lettera ai Corinzi: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (5, 21). Proprio per questo duplice effetto, l’evento pasquale – come si diceva – è capitale sia nella cristologia sia nell’antropologia cristiana. Paolo è, al riguardo, esplicito nella sua celebre asserzione: “Se Cristo non è risorto, vuota è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede” (1 Corinzi, 15, 14). Naturalmente la riflessione teologica paolina è molto più complessa, ma il cuore del suo pensiero batte proprio nella morte-risurrezione di Cristo come principio e sorgente della nostra morte-risurrezione integrale (fisica e morale) e il battesimo ne è l’efficace rappresentazione “sacramentale”.
Un’ultima nota attorno al tema della morte di Cristo. Quell’evento è certamente un’umiliazione estrema per un Dio. San Paolo, nel celebre inno incastonato nella Lettera ai Filippesi, parla di una “kenosi” (ekènosen), un termine che indica uno svuotamento: “pur essendo nella condizione di Dio…, svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo…, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (2, 6-8). Ora, questa scelta di solidarietà nei confronti dell’umanità è espressione di amore. È così che nel Nuovo Testamento la croce di Cristo diventa un segno d’amore. Chi non ricorda l’emozionante avvio del racconto della passione di Gesù secondo Giovanni: “Sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (13, 1)?
Anzi, in quella donazione suprema si può intravedere l’amore del Padre: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (3, 16). È un atto di amore libero e genuino, come osserva Paolo: “A stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Romani, 5, 7-8). A questo punto scatta una lezione per il fedele, è la via dell’imitazione da seguire.
Il filosofo danese dell’Ottocento Soeren Kierkegaard, nel suo Esercizio del cristianesimo, scriveva: “Che differenza c’è tra un ammiratore e un imitatore? L’imitatore è, ossia vuole essere chi egli ammira; l’ammiratore, invece, loda l’altro ma rimane personalmente fuori”. Ebbene, san Giovanni, nella sua Prima Lettera, di fronte alla morte di Cristo per amore (il “dare la vita per la persona che si ama”, come aveva detto lo stesso Gesù) ci invita non tanto all’ammirazione ma all’imitazione: “In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che Cristo ha dato la sua vita per noi. Allora, anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (3, 16).

(L’Osservatore Romano – 12-13 aprile 2010)

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI, Cardinali |on 15 avril, 2015 |Pas de commentaires »
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