Archive pour avril, 2015

Madonna del Pozzo

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LA SPERANZA DEL PAPA (SULLA SPE SALVI) (2008)

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LA SPERANZA DEL PAPA (SULLA SPE SALVI)

GIOVANNA PARRAVICINI

ECUMENISMO

Maggio 2008

«La Spe salvi? Fondamentale pure per noi ortodossi, perché parla di una certezza: la vita in Cristo è piena di felicità da condividere». Parola del vicerettore dell’Accademia teologica di Mosca. Che il 25 marzo ha presentato l’enciclica accanto all’arcivescovo Paolo Pezzi. E ora spiega a Tracce perché quel documento è un passo fatto assieme
Padre Vladimir Šmalij, vicerettore dell’Accademia teologica di Mosca e segretario della Commissione teologica sinodale del Patriarcato di Mosca, il 25 marzo ha presentato al Centro Biblioteca dello Spirito, insieme all’arcivescovo Paolo Pezzi, l’enciclica Spe salvi. Una serata ricchissima, che gli abbiamo chiesto – in qualche modo – di proseguire, riprendendo e approfondendo il suo intervento alla luce dell’enciclica nel contesto della vita della Chiesa e della società in Russia.
L’enciclica Spe salvi mette a tema una virtù teologale, ma anche un bisogno profondissimo, sostanziale dell’uomo di tutti i tempi. Come lei ha sottolineato nella presentazione, il Papa cerca di unire le risposte al “perché del vivere” che dà il cristianesimo con le ricerche del mondo del senso della vita. È una grossa apertura al dialogo, e nel contempo un forte riconoscimento che la fede, l’avvenimento di Cristo è in grado di rispondere non solo alla cerchia dei fedeli, ma all’uomo come tale. Non è esattamente questo che la cultura laica di oggi contesta, cioè la pretesa della Chiesa di uscire dal ghetto, sia pure dorato, in cui è posta?
A parer mio l’enciclica tocca un tema attualissimo, cruciale, perché il tema della caduta delle speranze sembra il tratto distintivo della nostra civiltà, che, apparentemente così sazia, paga di sé, mostra in realtà a ogni passo la propria disperazione e assenza di prospettive. L’indice più significativo di questo fenomeno non è neppure l’alta percentuale di suicidi, bensì il gran numero di palliativi che la gente cerca di trovare per compensare il vuoto spirituale: la cultura di massa, il consumismo… Si cerca di tenersi su comprando, riempiendo la vita di cose. Come sacerdote, mi capita di incontrare molte persone che bussano alla Chiesa perché sono smarrite, disorientate, spesso non si rendono nemmeno conto che i problemi con cui si scontrano dipendono dal fatto che non sperano più in niente. La speranza – è molto giusto quello che rileva il Papa – è il motore dell’esistenza stessa della persona umana, non solo per il cristiano, ma per ogni persona. Per questo il dialogo con la società, con il mondo, sui fondamenti della speranza è fondamentale.
A me sembra inoltre che la speranza sia una cosa molto personale, intima. Al contrario, nel nostro mondo ciascuno cerca di compensare attraverso l’aspetto esteriore ciò che gli manca dentro, e non lascia valicare a nessuno il confine che introduce al cuore della persona, a cui invece fa appello il Papa. Mi ha colpito la delicatezza di Benedetto XVI, che non si pone come un giudice severo, non impartisce insegnamenti dall’alto, con durezza, ma propone con estrema delicatezza alla singola persona delle risposte, mostrando al tempo stesso con grande lucidità e certezza gli errori o i fraintendimenti in cui incorriamo nel modo di intendere la speranza. Ad esempio, mette in guardia da riduzioni psicologiche della speranza: la speranza è una realtà concreta, oggettiva.
In questo senso Joseph Ratzinger mette chiaramente in luce i rischi di un soggettivismo che è una tentazione costante in Occidente, penetrando anche nella coscienza dei cristiani. Anzi, il Papa richiama fortemente a un’autocritica del cristianesimo moderno, che deve tornare alle proprie radici. Che cosa significa oggi questo cammino per i cristiani, secondo lei?
Con la delicatezza e il rispetto dell’interlocutore che lo contraddistinguono, il Papa fa notare che gli stessi cristiani hanno operato una riduzione soggettivista, citando significativamente un esempio di interpretazione che nasce attraverso Lutero ma si è affermata anche nell’esegesi cattolica. Ed è interessante osservare il metodo del Papa, che si serve di questo esempio in funzione costruttiva, ecumenica, quasi invitando gli stessi protestanti a ritornare alle fonti della propria identità, a recuperare la certezza di essere stati salvati.
Quali aspetti dell’enciclica le sembrano particolarmente interessanti per la situazione russa?
A parer mio non vi sono elementi specifici riguardanti la Russia: Benedetto XVI si rivolge all’uomo in quanto tale, ai cristiani di tutte le tradizioni e ai non cristiani. I contenuti della Spe salvi forse sono particolarmente importanti per noi ortodossi in Russia, proprio per il fatto che si parla della speranza come certezza, come obiettiva caparra di vita eterna, da cui discende anche una posizione di impegno missionario: in forza della fede, e della speranza certa che essa suscita, siamo chiamati a testimoniare che la vita in Cristo è una vita piena di certezza, di felicità, che abbiamo il dovere di condividere. Mi ha colpito molto il passaggio sulla condivisione della sofferenza, che è propria dei santi. Quanti esempi di sofferenza abbiamo davanti agli occhi, che grande compito di com-passione abbiamo… noi cristiani non possiamo stare alla finestra, guardare con sufficienza alle sofferenze del mondo, accontentandoci di una salvezza individuale, egoistica.
I santi sono in primo luogo dei testimoni…
Anche qui, dobbiamo ritornare all’unica tradizione della Chiesa indivisa: sant’Atanasio dice che se qualcuno non crede alla Resurrezione, bisogna citargli l’esempio dei martiri che non hanno tenuto in nessun conto la vita, ma l’hanno data con semplicità, testimoniando con eloquenza la loro certezza nella nuova vita portata da Cristo. Anche oggi, quanti testimoni abbiamo davanti agli occhi! Non mi riferisco solo ai “santi” canonizzati, ma ai tanti che vivono la propria vocazione con letizia, testimoniando la loro certezza nelle prove quotidiane, nella prova… Penso a chi ha il coraggio di far famiglia e non ha paura di una famiglia numerosa, a tanti che vivono la malattia come un’offerta, alle persone consacrate; ho avuto la fortuna di incontrare moltissime persone che vivono la speranza in maniera oggettiva, sostanziale. Noi dobbiamo imparare a guardare, ad accorgerci del gran numero di testimoni che ci circonda, non dobbiamo vergognarci di citarli, di ricordare come la fede aiuta a vivere nella speranza le circostanze più diverse della vita.
Secondo lei, di che cosa è più carente, di che cosa ha più bisogno oggi la coscienza dei cristiani per ridestarsi?
C’è un aspetto che mi colpisce e mi piace particolarmente nella figura di papa Benedetto XVI, e cioè la sua simpatia, il suo apprezzamento della razionalità, della ragionevolezza, un aspetto che per l’appunto oggi manca sovente a noi ortodossi. Anche in Occidente non se ne comprende il senso, l’importanza, e ci sentiamo dire da occidentali che credono così di farci un elogio: «Ecco, da noi è tutto ridotto a razionalismo, non c’è spazio per sentimenti ed emozioni, mentre voi ortodossi avete la mistica». In realtà, questa pretesa «mistica» si riduce spesso alla rinuncia alla propria ragione, alla propria responsabilità, per delegare a un “padre spirituale” scelte di vita che implicano una decisione personale. No, il cristiano deve tornare a comprendere che la ragione è un dono che ci è stato fatto e un dovere che abbiamo, dobbiamo vivere e trasfigurare la vita alla sua luce. Non è un caso che nella liturgia ortodossa Cristo sia definito «luce della ragione»! Questa è una verità comune alle due tradizioni cristiane, d’Oriente e d’Occidente. L’accento su un misticismo che è in realtà rinuncia alla propria ragione è un fenomeno tipico dell’ortodossia solo in epoca tarda, mentre se prendiamo ad esempio Giovanni Damasceno con il suo aristotelismo, o i Padri cappadoci, ci troviamo davanti a un’esaltazione della ragione umana. Così pure il pensiero filosofico-religioso russo della fine del XIX-inizio del XX secolo implica un ritorno ai Padri e all’integralità della loro visione antropologica. Non stupisce che anche un ortodosso conservatore come padre Georgij Florovskij invitasse a leggere gli autori cattolici medioevali, oltre che i Padri: proprio perché lì è possibile ritrovare le stesse radici, lo stesso impeto cristiano, identico all’Est e all’Ovest, che si identifica nella trasfigurazione dell’uomo nella sua interezza, in tutti gli aspetti del suo essere, compresa la ragione, mentre gli influssi delle ideologie inducono a pensare che il cristianesimo non sia ragionevole, ma confinato alle sfere più periferiche, emotive e sentimentali, sia una cura “palliativa” di disagi esistenziali per cui, in caso di bisogno, si può far ricorso al prete come si andrebbe da uno psicoterapeuta.
La fede quindi è un cammino di conoscenza?
Certamente, come essere ragionevole non posso non prendere in considerazione la realtà, cioè prenderne coscienza e darne un giudizio morale. Se rinuncio alla ragione, per ciò stesso rinuncio anche alla mia coscienza, alla mia responsabilità e libertà adulta. Interessante che il rifiuto della ragione come fattore della personalità cristiana conduca a due estremi che si toccano: in Oriente all’infantilismo di chi demanda all’autorità spirituale ogni responsabilità, in Occidente alla pretesa autonomia di alcune sfere della persona umana. In entrambi i casi si tratta di un dualismo, di una contraddizione che è appunto irragionevole, che è anticristiana, ma anche e soprattutto disumana, perché contravviene alla caratteristica dell’essere umano che è la sua ragione. Io credo che stia qui uno dei compiti educativi fondamentali che abbiamo: insegnare alla nostra gente, ai nostri ragazzi, a essere responsabili, e la responsabilità non può sussistere che alla luce della ragione. Se la ragione non governa e giudica sentimenti ed emozioni, chi potrebbe perseverare nella propria vocazione, nella propria missione, nel compimento di un’opera?
Perché la Chiesa è sovente guardata come un luogo di divieti, di regole che tentano di imbrigliare i desideri, e non invece come il luogo della loro realizzazione?
Non è facile rispondere, ma credo che occorra anche il coraggio di riconoscere, innanzitutto, che gran parte dei desideri che la nostra società induce e coltiva si rivelano come dannosi per l’uomo. Basta guardare la pubblicità, gli stereotipi sociali che ci propinano alla televisione. Non possiamo esimerci dal domandarci, se è veramente questo ciò che il nostro cuore desidera, oppure se è quello che ci vogliono inculcare e che in ultima analisi risulta negativo, dannoso per noi. Quello che dico può sembrare amaro, impopolare, ma è una diagnosi necessaria per guarire dalla nostra malattia esistenziale: anche nel campo del desiderio non possiamo fare a meno della ragione, davanti al desiderio immediato che mi si para dinnanzi devo dare un giudizio, esaminarlo alla luce della ragione. Non è un caso, tra l’altro, che nella Spe salvi il Papa descriva Cristo come «pastore» e come «filosofo», cioè come maestro di vita sulla base della propria esperienza, del proprio esempio e dello strumento umano per eccellenza che è la ragione.
È interessante seguire la riflessione di Benedetto XVI sul superamento dell’ideologia, che costituisce un altro tema comune per l’Occidente e la Russia; si noti bene che il Papa si riferisce all’ideologia soprattutto in quanto forma di «ingegneria sociale», progressismo, e cita il marxismo semplicemente come una sua esemplificazione. Con la caduta del marxismo, l’ideologia progressista non è affatto sparita e continua a mostrarsi pericolosa per la civiltà umana; qui forse noi in Russia siamo più “vaccinati” contro determinate forme ideologiche, ma siamo inermi di fronte ad altre. Il problema, ripeto ancora una volta, oggi è il medesimo, sia pure nel variare di forme e modalità attraverso cui il fenomeno può emergere.
Spesso si indica come sfera privilegiata di dialogo tra cristiani di Chiese diverse quella sociale e caritativa, che sembra la più neutrale. Non esiste però il rischio di dissolvere la specificità del fatto cristiano, equiparandolo a una dottrina etica? Su che cosa, secondo lei, può fondarsi un reale dialogo e una reale collaborazione tra cristiani, in particolare tra cattolici e ortodossi, al fine di riproporre al mondo la vera speranza?
Monsignor Ilarion Alfeev, vescovo ortodosso russo di Vienna, ha parlato più volte della necessità per cattolici e ortodossi di unirsi per cercare e proporre insieme risposte a problemi di carattere morale, sociale e politico; ma questa discussione interconfessionale non può non accompagnarsi al dibattito più ampio, in campo sociale, sul ruolo che il cristianesimo deve rivestire all’interno della società nella sua interezza. Il Papa opera una delicata, ma netta formulazione della proposta della Chiesa di prendere in esame i problemi che dilaniano la società di oggi, invitando la società a partecipare alla discussione. Le comunità cristiane devono attivarsi soprattutto nel campo della condivisione della sofferenza, testimoniare al mondo l’alternativa che il cristianesimo costituisce alla disperazione della società attuale. Qui torna alla ribalta come fondamentale il problema dell’educazione, che può avvenire solo attraverso un incontro, attraverso una testimonianza. Non possono essere delle pure parole, dei clichè a convincere i giovani: solo dei testimoni viventi della bellezza sono convincenti. Il cristianesimo è una vita, e spetta a noi cristiani testimoniare che la speranza è ciò di cui viviamo. Il cristianesimo ha vinto il mondo come nuova vita, e non come ideologia. Una verità «performativa», e non puramente «informativa», esattamente come dice il Papa. Anche nella nostra Chiesa oggi si pone il problema della testimonianza dei laici, che per il momento non ancora fissata, codificata come nella dottrina della Chiesa cattolica, ma certamente è una questione di primaria importanza per la vita della Chiesa in futuro. Come dite voi, «laico cioè cristiano». Per la trasfigurazione del mondo.

IL MISTERO DELLA CREAZIONE NELLA VISIONE BIBLICO-CRISTIANA – PAPA GIOVANNI PAOLO II

http://disf.org/giovanni-paolo-ii-mistero-creazione

IL MISTERO DELLA CREAZIONE NELLA VISIONE BIBLICO-CRISTIANA

PAPA GIOVANNI PAOLO II

8 GENNAIO 1986

1. Il senso dell’origine. 2. Verità scientifica e verità religiosa. 3. Le domande di tutte le religioni. 4. La fede cristiana nella creazione. 5. Sulle orme della Scrittura e della Tradizione della Chiesa. 6. la prima testimonianza dell’amore di Dio.

1. Nella immancabile e necessaria riflessione l’uomo di ogni tempo è portato a fare sulla propria vita, due domande emergono con forza, quasi eco della voce stessa di Dio: “Da dove veniamo? Dove andiamo?”. Se la seconda domanda riguarda il futuro ultimo, il traguardo definitivo, la prima si riferisce all’origine del mondo o dell’uomo, ed è altrettanto fondamentale. Per questo siamo giustamente impressionati dallo straordinario interesse riservato al problema delle origini. Non si tratta soltanto di sapere quando e come materialmente è sorto il cosmo ed è comparso l’uomo, quanto piuttosto di scoprire quale senso abbia tale origine, se vi presieda il caso, il destino cieco oppure un Essere trascendente, intelligente e buono, chiamato Dio. Nel mondo infatti c’è il male e l’uomo che ne fa l’esperienza non può non chiedersi da dove esso venga e per responsabilità di chi, e se esista una speranza di liberazione. “Che cosa è l’uomo, perché te ne ricordi?”, si domanda in sintesi il Salmista, ammirato di fronte all’avvenimento della creazione (Sal 8,5).

2. La domanda sulla creazione affiora sull’animo di tutti, dell’uomo semplice e del dotto. Si può dire che la scienza moderna è nata in stretto collegamento, anche se non sempre in buona armonia, con la verità biblica della creazione. E oggi, chiariti meglio i rapporti reciproci fra verità scientifica e verità religiosa, tantissimi scienziati, pur ponendo legittimamente problemi non piccoli come quelli riguardanti l’evoluzionismo delle forme viventi, dell’uomo in particolare, o quello circa il finalismo immanente al cosmo stesso nel suo divenire, vanno assumendo un atteggiamento maggiormente partecipe e rispettoso nei confronti della fede cristiana sulla creazione. Ecco dunque un campo che si apre per un dialogo benefico fra modi di approccio alla realtà del mondo e dell’uomo riconosciuti lealmente come diversi, eppure convergenti a livello più profondo a favore dell’unico uomo, creato – come dice la Bibbia nella sua prima pagina – quale “immagine di Dio” e quindi come “dominatore” intelligente e saggio del mondo (cf. Gen 1,21-28).

3. Noi cristiani poi riconosciamo con intimo stupore, anche se con doveroso atteggiamento critico, come in tutte le religioni, da quelle più antiche ed ora scomparse, a quelle oggi presenti sul pianeta, si cerchi “una risposta ai reconditi enigmi della condizione umana… la natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il male, l’origine e lo scopo del dolore… da dove noi traiamo la nostra origine e verso dove tendiamo”. Seguendo il Concilio Vaticano II, nella sua dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, riaffermiamo che “la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni”, giacché “non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini” (“Nostra aetate”, 2). E d’altra parte è così innegabilmente grande, vivificante e originale la visione biblico-cristiana delle origini del cosmo e della storia dell’uomo in particolare – e ha avuto una così rilevante incidenza nella formazione spirituale, morale e culturale di interi popoli per oltre venti secoli che il parlarne esplicitamente, anche se sinteticamente, è un dovere a cui ogni pastore e ogni catechista non può mancare.

4. La rivelazione cristiana manifesta veramente una straordinaria ricchezza circa il mistero della creazione, segno non piccolo e ben commovente della tenerezza di Dio che proprio sui nodi più angosciosi dell’esistenza umana, e dunque sulla sua origine e sul suo futuro destino, ha voluto farsi presente con una parola continua e coerente, pur nella varietà delle espressioni culturali. Così la Bibbia si apre in assoluto con un primo, e poi con un secondo racconto della creazione, dove l’origine di tutto da Dio, delle cose, della vita, dell’uomo (Gen 1-2), si intreccia con l’altro doloroso capitolo sulla origine, questa volta dall’uomo, non senza tentazione del maligno, del peccato e del male (Gen 3). Ma ecco che Dio non abbandona le sue creature. E quindi una fiammella di speranza si accende verso un futuro di una nuova creazione liberata dal male (è il cosiddetto “Protovangelo”, Gen 3,15, cf. 9,13). Questi tre fili, l’azione creatrice e positiva di Dio, la ribellione dell’uomo e, già dalle origini, la promessa da parte di Dio di un mondo nuovo, formano il tessuto della storia della salvezza, determinando il contenuto globale della fede cristiana nella creazione.

5. Mentre nelle prossime catechesi sulla creazione sarà dato debito posto alla Scrittura, come fonte essenziale, sarà mio compito ricordare la grande tradizione della Chiesa, prima con le espressioni dei Concili e del magistero ordinario, e anche nelle appassionanti e penetranti riflessioni di tanti teologi e pensatori cristiani.

Come in un cammino costituito da tante tappe, la catechesi sulla creazione toccherà anzitutto il fatto mirabile di essa come lo confessiamo all’inizio del Credo o Simbolo apostolico: “Credo in Dio Creatore del cielo e della terra”; rifletteremo sul mistero della chiamata dal nulla di tutta la realtà creata, ammirando insieme l’onnipotenza di Dio e la sorpresa gioiosa di un mondo contingente che esiste in forza di tale onnipotenza. Potremo riconoscere che la creazione è opera amorosa della Trinità santissima ed è rivelazione della sua gloria. Il che non toglie, ma anzi afferma, la legittima autonomia delle cose create, mentre all’uomo, come a centro del cosmo, viene riservata un’attenzione intensa, nella sua realtà di “immagine di Dio”, di essere spirituale e corporale, soggetto di conoscenza e di libertà. Altre tematiche ci aiuteranno più avanti ad esplorare questo formidabile avvenimento creativo, in particolare il governo di Dio su mondo, la sua onniscienza e provvidenza, e come alla luce dell’amore fedele di Dio l’enigma del male e della sofferenza trovi la sua pacificante soluzione.

6. Dopo che Dio espresse a Giobbe la sua divina potenza creatrice (Gb 38-41), questi rispose al Signore e disse: “Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile a te… Io ti conosco per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono” (Gb 42,5). Possa la nostra riflessione sulla creazione condurci alla scoperta che, nell’atto di fondazione del mondo e dell’uomo, Dio ha seminato la prima universale testimonianza del suo amore potente, la prima profezia della storia della nostra salvezza.

Sant’Anselmo

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Publié dans:immagini sacre |on 21 avril, 2015 |Pas de commentaires »

SANT’ ANSELMO D’AOSTA VESCOVO E DOTTORE DELLA CHIESA – 21 APRILE

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SANT’ ANSELMO D’AOSTA VESCOVO E DOTTORE DELLA CHIESA

21 APRILE – MEMORIA FACOLTATIVA

AOSTA, 1033 – CANTERBURY, INGHILTERRA, 21 APRILE 1109

Nasce verso il 1033 ad Aosta da madre piemontese, entrambi nobili e ricchi. Travagliato il rapporto con la famiglia che lo invia da un parente per l’educazione. Sarà solo con i benedettini d’Aosta che Anselmo trova il suo posto: a quindici anni sente il desiderio di farsi monaco. Contrastato dai genitori decide di andarsene: dopo tre anni tra la Borgogna e la Francia centrale, va ad Avranches, in Normandia, dove si trova l’abbazia del Bec con la scuola, fondata nel 1034. Qui conosce il priore Lanfranco di Pavia che ne cura il percorso di studio. Nel 1060 Anselmo entra nel seminario benedettino del Bec, di cui diventerà priore. Qui avvierà la sua attività di ricerca teologica che lo porterà ad essere annoverato tra i maggiori teologi dell’Occidente. Nel 176 pubblica il «Monologion». Nel 1093 diventa arcivescovo di Canterbury. A causa di dissapori con il potere politico è costretto all’esilio a Roma due volte. Muore a Canterbury nel 1109. (Avvenire)

Etimologia: Anselmo = protetto da Dio, Dio gli è elmo, dal tedesco

Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Sant’Anselmo, vescovo e dottore della Chiesa, che, originario di Aosta, fu dapprima monaco nel monastero di Bec nella Normandia in Francia; divenutone abate, insegnò ai suoi confratelli a progredire sulla via della perfezione e a cercare Dio con l’intelletto della fede; promosso poi all’insigne sede di Canterbury in Inghilterra, lottò strenuamente per la libertà della Chiesa, sopportando per questo sofferenze e l’esilio.

Il celeberrimo Sant’Anselmo è una tra le più grandi glorie del Piemonte e della Valle d’Aosta, essendo nato verso il 1033 ad Aosta da madre piemontese. I suoi genitori erano nobili e ricchi: sua madre Ermemberga era una perfetta madre di famiglia, mentre suo padre Gandolfo viveva immerso nei suoi impegni secolari. Anselmo sin dalla sua infanzia sognò di poter raggiungere Dio e nella sua semplicità ipotizzava che risiedesse sulla sommità delle montagne. Già avido di sapere, fu affidato ad un parente per un’accurata educazione, ma non essendo stato compreso dal brutale maestro cadde in una terribile crisi d’ipocondria. Per guarirlo occorsero tutto il tatto e l’amorevolezza della mamma, la quale finalmente lo affidò poi ai benedettini d’Aosta. All’età di quindici anni Anselmo iniziò a sentire il desiderio di farsi monaco, ma il padre non ne volle sapere preferendo farlo erede dei suoi averi. Le attrattive del mondo e le passioni prevalsero allora sul giovane, specialmente dopo la morte della madre. Il padre, che morì poi monaco, lo prese in tale avversione che Anselmo decise di abbandonare la famiglia e la patria in compagnia di un servo.
Dopo tre anni trascorsi tra la Borgogna e la Francia centrale, Anselmo si recò ad Avranches, in Normandia, ove venne a conoscenza dell’abbazia del Bec e della sua scuola, fondata nel 1034. Vi si recò per conoscere il priore, Lanfranco di Pavia, e restare presso di lui, come tanti altri chierici attratti dalla fama del suo sapere. I progressi nello studio furono tanto sorprendenti che lo stesso Lanfranco prese a prediligerlo ed addirittura a farsi coadiuvare da lui nell’insegnamento. In tale contesto Anselmo sentì rinascere in sé il desiderio di vestire l’abito monacale. Avrebbe però altri posti dove poter sfoggiare la sua sapienza senza dover competere con il maestro Lanfranco, ma non trovando valide alternative nel 1060 entrò nel seminario benedettino del Bec. Dopo soli tre anni di regolare osservanza meritò di succedere a Lanfranco nella carica di priore e di direttore della scuola, visto che quest’ultimo era stato destinato a governare l’abbazia di Saint’Etienne-de-Caen. Nonostante il moltiplicarsi delle responsabilità, Anselmo non trascurò di dedicarsi sempre più a Dio ed allo studio, preparandosi così a risolvere le più oscure questioni rimaste sino ad allora insolute. Non bastandogli le ore diurne per approfondire le Scritture ed i Padri della Chiesa, egli soleva trascorrere parte della notte in preghiera e correggendo manoscritti. Ci si può fare un’idea del suo insegnamento leggendo gli opuscoli ed i dialoghi da lui lasciati, alcuni dei quali sono veri e propri piccoli capolavori pedagogici e dogmatici.
Sant’Anselmo fu indubbiamente un grande speculativo, ma anche un grande direttore di anime. La fama del suo monastero si sparse ovunque ed attirò un’élite avida di scienza e di perfezione religiosa. Egli se ne occupava in prima persona con cura speciale. Molte delle sue 447 lettere mostrano l’arte che possedeva per guadagnare i cuori, adattandosi all’età di ciascuno e puntando sull’affabilità dei modi. Alla morte dell’abate Herluin, il 26 agosto 1078 i confratelli all’unanimità designarono Anselmo a succedergli. L’acutezza dell’intelligenza, la straordinaria dolcezza di carattere e la santità della vita gli meritarono un immenso ascendente tanto nel monastero quanto fuori. Intraprese relazioni con il maestro Lanfranco, nominato arcivescovo di Canterbury nel 1070, e collaborò all’organizzazione di alcuni monasteri inglesi: ciò gli permise inoltre di farsi conoscere dalla nobiltà del paese ed apprezzare dalla corte di Londra.
Nel 1076 Anselmo pubblicò il “Monologion” per soddisfare il desiderio dei monaci di meditare sull’essenza divina. Questa sua prima opera si rivelò un capolavoro per la densità e lucidità di pensiero circa l’esistenza di Dio, i suoi attributi e la Trinità. Ad essa seguì il “Proslogion”, più celebre della precedente per l’assai discusso argomento che escogitò a dimostrazione dell’esistenza dell’Essere supremo, in sostituzione dei lunghi e noiosi ragionamenti che aveva esposto nel “Monologion”. “Dio è l’essere di cui non si può pensare il maggiore; il concetto di tale essere è nella nostra mente, ma tale essere deve esistere anche nella realtà, fuori della nostra mente, perché, se esistesse solo nella mente, se ne potrebbe pensare un altro maggiore, uno, cioè, che esistesse non solo nella mente, ma anche nella realtà fuori di essa”.
La fama di Anselmo si diffuse ancora di più in tutta Europa. Era talmente venerato e amato in Inghilterra che il 6 marzo 1093, in seguito alle pressioni dei vescovi, dei signori e di tutto il popolo, fu eletto dal re Guglielmo II il Rosso arcivescovo di Canterbury, sede ormai vacante dalla morte di Lanfranco avvenuta nel 1089. La sua resistenza fu tenace ma inutile ed in riferimento alle difficoltà d’intesa tra il re e il primate affermò con i vescovi ed i nobili che l’accompagnavano: “Voi volete soggiogare insieme un toro non domo e una povera pecora. Il toro trascinerà la pecora tra i rovi e la farà a pezzi senza che sia servita a nulla. La vostra gioia si muterà in tristezza. Vedrete la chiesa di Canterbury ricadere nella vedovanza vivente il suo pastore. Nessuno di voi oserà resistere dopo di me e il re vi calpesterà a piacimento”.
La situazione della Chiesa inglese era effettivamente molto triste in quel periodo a causa della simonia, della decadenza dei costumi e della violazione della libertà religiosa da parte del re. Sant’Anselmo tentò di rimediare a tutto ciò, nella scia della riforma adottata da San Gregorio VII. Non destò quindi meraviglia se, nel 1095, scoppiò tra l’autorità secolare e quella religiosa un aspro conflitto circa il riconoscimento del pontefice Urbano II. Nulla convinse l’arcivescovo a recedere dal suo proposito e, dopo molte difficoltà, nel 1097 poté recarsi a Roma per consultare il papa stesso. Questi lo ricevette con grandi manifestazioni di stima e nel 1098 lo invitò al Concilio di Bari, convocato per ricondurre all’unità della Chiesa gli aderenti allo scisma consumatosi nel 1054 tra Oriente ed Occidente. Nelle questioni discusse Sant’Anselmo apparve come il teologo dei latini, confutando vittoriosamente le obiezioni degli avversari contro la processione dello Spirito Santo da parte di entrambe la altre persone della Santissima Trinità. Nel 1099 prese ancora parte al sinodo di Roma, in cui furono ribaditi i decreti contro la simonia, il concubinato dei chierici e la reinvestitura laica. Partì poi per Lione, ove fu però costretto a trattenersi poiché il re non lo autorizzava a tornare alla sua sede. In Italia aveva completato il suo grande trattato sui “Motivi dell’Incarnazione”, mentre a Lione ne ultimò un altro “Sulla nascita verginale di Cristo e il peccato originale”.
Nel 1110 Enrico Beauclerc successe al fratello Guglielmo sul trono inglese e, desiderando avere l’arcivescovo di Canterbury tra i suoi sostenitori, lo invitò a ritornare. Il nuovo sovrano non aveva però alcuna intenzione di rinunciare a spadroneggiare sulla Chiesa, motivo per cui nel 1103 Anselmo, inflessibile nella difesa dei suoi diritti, dovette una seconda volta andare in esilio a Roma. Dopo lunghe trattative con il nuovo papa Pasquale II, il sovrano rinunciò infine all’investitura dei feudi ecclesiastici, accontentandosi solo dell’omaggio. Nel 1106 il primate poté così ritornare nella sua sede e dedicare all’intenso lavoro pastorale gli ultimi anni della sua vita. Non potendo più camminare, si faceva quotidianamente trasportare in chiesa per assistere alla Messa. Sul letto di morte provò solo il rimpianto di non aver avuto tempo sufficiente per poter chiarire il problema dell’origine dell’anima. Sant’Anselmo morì il 21 aprile 1109 a Canterbury e fu sepolto nella celebre cattedrale. Il pontefice Alessandro III nel 1163 concesse all’arcivescovo Tommaso Becket, di procedere all’“elevazione” del corpo del suo predecessore, atto che a quel tempo corrispondeva a tutti gli effetti ad un’odierna canonizzazione. Sant’Anselmo d’Aosta fu infine annoverato tra i Dottori della Chiesa da Clemente XI l’8 febbraio 1720. Il Martyrologium ROmanum ed il calendario liturgico della Chiesa universale commemorano il santo nell’anniversario della nascita al cielo. Aosta, sua città natale, ha dedicato la strada principale del centro storico alla memoria del suo figlio più celebre.

Autore: Fabio Arduino

Publié dans:Padri della Chiesa e Dottori |on 21 avril, 2015 |Pas de commentaires »

PADRE RANIERO CANTALAMESSA – LA BELLEZZA – 13 GENNAIO 2000

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PADRE RANIERO CANTALAMESSA – LA BELLEZZA –  13 GENNAIO 2000

Della bellezza si deve dire ciò che Agostino diceva del tempo: “Cos’è il tempo? Se nessuno me lo domanda, lo so; se voglio spiegarlo a chi me ne domanda ragione, non lo so più” . Io però non intendo affrontare il tema della bellezza (non sarei competente a farlo) da un punto di vista essenziale (cos’è il bello in sé, in che rapporto è con il vero e il buono), ma da un punto di vista esistenziale. Vorrei, in altre parole, riflettere con voi sulla esperienza che noi facciamo a riguardo della bellezza, a livello sia individuale che collettivo.
E anche di questa esperienza vorrei mettere in luce un aspetto ben preciso e limitato, quello che ci tocca più da vicino e che non riguarda solo la sfera estetica, ma anche quella morale. Non la bellezza, dunque, dei mari e dei tramonti, ma quella del corpo umano e specialmente del corpo della donna. È questa bellezza infatti che genera l’eros, una delle grandi forze che muovono il mondo, se non la più potente di tutte. Quella dei mari e dei tramonti non è una bellezza erotica, l’altra lo è, con tutto quello che ciò, sappiamo, comporta.
Nella misura in cui la pubblicità e lo spettacolo riflettono lo spirito, i gusti e le attese di un’epoca (e in larga misura li riflettono), questo tipo di bellezza sembra essere il valore più ricercato in questo passaggio di millennio, il grande “oggetto di culto” nelle società del benessere. L’esempio più plateale, di cui si è parlato di recente, sono i calendari di nudi. “Nudi alla meta del millennio” era intitolato l’articolo comparso negli ultimi giorni dell’anno sulla prima pagina di grande quotidiano, in cui si ironizzava su questo fenomeno che si tenta di far passare come evento artistico e culturale .
È una nuova sfida che viene posta ai credenti. Ha, il cristianesimo, qualcosa da dire sul problema della bellezza, o è condannato a ripetere le sterili messe in guardia di una certa predicazione moralistica del passato? Recentemente, su questo problema si sono udite alcune voci autorevoli. Nella sua recente “Lettera agli artisti” il papa ha detto cose profonde sulla bellezza, considerandola nel suo rapporto con l’arte e con il sacro; lo ha seguito il cardinale Martini con la lettera pastorale per l’anno 1999-2000, intitolata “Quale bellezza salverà il mondo?”.
Ma non si tratta di un problema solo pastorale, che riguarda la possibilità di annunciare il vangelo in una certa cultura ossessionata dal problema della bellezza; è un problema umano universale, dalla cui giusta soluzione dipende l’avvenire stesso della cultura e della vita sul nostro pianeta.
Sono ben note e spesso ripetute le parole che Dostoevskij pone in bocca a uno dei suoi personaggi prediletti, l’Idiota: “Il mondo sarà salvato dalla bellezza”. Ma a quella affermazione egli fa seguire subito una domanda: “Quale salvezza salverà il mondo?” . Perché, è chiaro, non ogni bellezza salverà il mondo; c’è una bellezza che può salvare il mondo e una bellezza che può perderlo. Il dramma è tutto qui.
1. Ambiguità della bellezza
Un chiaro segno della ambiguità della bellezza nella nostra esperienza umana è che, accanto alla sua esaltazione, scopriamo, nella cultura moderna, un esplicito rifiuto di essa, un vero “insulto alla bellezza”, tanto da poter parlare della morte della bellezza, come si è parlato della morte di Dio.
Siccome a esprimersi sulla bellezza, sono stati, in passato, quasi esclusivamente gli uomini, il disprezzo della bellezza si è tradotto in disprezzo della donna:
“Ma tu, o Donna, mucchio di viscere…” .
“Tu, infame alla quale son legato
come il forzato alla catena,
come il testardo giocatore al gioco,
come il beone alla bottiglia,
come la carogna ai vermi!
Maledetta, maledetta!” .
In pittura un artista, Bernard Buffet, mostra degli uccelli mostruosi che si avventano su un corpo femminile nudo, come su una carogna. Qualcuno ha definito alcune donne celebri della pittura astratta “i cadaveri della bellezza” .
È la bellezza in se stessa (non solo della donna) che viene in tal modo “demistificata” e oltraggiata. È noto l’inizio della raccolta di poesie di Rimbaud Una stagione all’inferno: “Una sera mi misi in grembo la Bellezza. E l’ho sentita amara. E l’ho ingiuriata” .
Questo insulto porta, in arte, alla provocatoria rappresentazione di oggetti quali orinatoi e cose simili, e si estende al linguaggio quando, alla parola bella, si preferisce sistematicamente, anche in opere che si pretendono letterarie, la “parolaccia”.
“Dio, scrive Evdokimov, non è il solo a rivestirsi di Bellezza, il male lo imita e rende la bellezza profondamente ambigua”. La Scrittura attribuisce la caduta di Lucifero proprio alla sua bellezza di cui si è compiaciuto, senza più riferirla al creatore (cf. Is 14, 12; Ez 28, 2 s.). “La bellezza esercita il suo fascino, converte l’anima umana al suo culto idolatra, usurpa il posto dell’Assoluto, con una strana e totale indifferenza verso il Bene e la Verità”. “Se la verità è sempre bella, la bellezza non sempre è vera”. Il carattere ambiguo della bellezza è messo in luce dalla Bibbia nella descrizione stessa del primo peccato: Eva vide che il frutto “era gradito agli occhi e desiderabile” (Gen 3,5). Era esteticamente bello .
2. La causa
Qual è la causa di questa ambiguità? Come mai siamo portati fuori strada, proprio da quella luce che dovrebbe guidarci nel nostro cammino verso la felicità? La risposta tradizionale è: il peccato. Ma stando al racconto biblico, l’ambiguità della bellezza non fu solo l’effetto del peccato, ma anche la sua causa. Eva fu sedotta proprio dalla bellezza del frutto proibito, qualunque cosa esso significhi fuori metafora. L’uomo non si staccherebbe da Dio, se non fosse attratto dalle creature. Dei due elementi costitutivi del peccato – aversio a Deo et conversio ad creaturas -, il secondo precede psicologicamente il primo.
Dunque esiste una causa più profonda, anteriore al peccato stesso. Infatti l’ambiguità della bellezza affonda le sue radici nella natura stessa composita dell’uomo, fatto di un elemento materiale e di uno immateriale, di qualcosa che lo porta verso la molteplicità e di qualcosa che tende invece all’unità. Non c’è alcun bisogno di pensare (come hanno fatto gnostici, manichei e tanti altri) che i due elementi risalgano a due “creatori” rivali, uno buono che ha creato l’anima e uno cattivo che ha creato la materia e il corpo. È lo stesso Dio che ha creato l’uno e l’altro insieme, in unità profonda, “sostanziale”. Non però in una situazione statica, cioè perché l’uomo rimanesse tranquillo in questa sua posizione intermedia, con le due forze che si controbilanciano, o si neutralizzano a vicenda. Al contrario, perché, con l’esercizio concreto della sua libertà guidata dalla parola di Dio, decidesse lui stesso in che direzione svilupparsi: se “in alto”, verso ciò che sta “sopra” di lui, o “in basso”, verso ciò che sta “sotto” di lui, se verso l’unità, o verso la molteplicità.
È proprio in questa possibilità di autodeterminazione che risiede la dignità dell’uomo ed è in essa che trova il campo di esercizio privilegiato la sua libertà. Creando l’uomo libero, scrive un filosofo del Rinascimento, è come se Dio gli dicesse:
“Ti ho posto nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi ciò che vi è in esso. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine” .
Questo spiega la lotta tra la carne e lo Spirito e quindi il carattere drammatico che caratterizza l’esistenza dell’uomo nel mondo e il suo rapporto con la bellezza. Siamo davanti a una scelta.
Nel terremoto di Assisi di due anni fa, ci fu un affresco di Cimabue nella volta della basilica superiore che andò distrutto, riducendosi in migliaia di minuscoli frammenti colorati. Ora si sta pazientemente cercando di ricomporli per ricostruire l’affresco originale. È l’immagine di quello che è avvenuto nel passaggio dalla Bellezza increata di Dio alla molteplicità delle cose belle che ci sono nel mondo e, nello stesso tempo, del compito dell’uomo che è di risalire dal frammento all’intero. La prevaricazione nei confronti della bellezza comincia quando si dimentica l’intero e ci si attacca al frammento. Quando chi ha trovato un frammento, per ritornare all’esempio di prima, anziché farlo servire per ricomporre l’affresco originale, lo trafuga, lo privatizza, o lo distrugge, danneggiando così l’intero progetto.
Quand’è che, nei confronti della bellezza, l’essere umano, secondo la terminologia di Pico della Mirandola, “degenera” e si avvilisce? Non certo quando ammira, gode, o crea cose belle, ma quando lo fa abbandonandosi ad esse; quando non fa di esse un trampolino di lancio per elevarsi, con la lode e il desiderio, alla Bellezza incorruttibile, ma si getta a capofitto in esse facendo del loro godimento momentaneo un fine a se stesso. Sant’Agostino ha descritto, a questo riguardo, la sua esperienza in cui non stentiamo a riconoscere anche la nostra:
“Tardi ti ho amato, o bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Tu eri dentro di me e io stavo fuori e ti cercavo qui, gettandomi, deforme, sopra queste forme di bellezza che sono creature tue…le quali neppure esisterebbero se non fossi tu a farle esistere” .
La bellezza creata diviene allora, per l’essere umano, la tomba, anziché il campo di esercizio, della sua libertà, perché essa, si sa, rende schiavi. È come la droga: nessuna dose appaga, una volta per tutte, il bisogno; occorrono dosi sempre nuove e sempre maggiori per produrre lo stesso effetto. Per impossessarsi e godere di questa bellezza, si fa esattamente quello che si fa per procurarsi la droga: si ruba e si uccide, o ci si uccide. Ai delitti passionali si concedono attenuanti proprio perché si riconosce che in essi il soggetto opera con una libertà assai ridotta. È vero dunque che un certo amore disordinato della bellezza “abbrutisce”, perché priva l’uomo di quello per cui è “uomo”, la ragione e la libertà.
La letteratura ci offre dei simboli famosi di queste due specie di bellezza femminile, quella che eleva e quella che porta alla rovina: la Beatrice di Dante e l’Elena di Omero. Il caso moderno più noto è quello di Marylin Monroe, che i sondaggi indicano come il mito moderno di fascino femminile più resistente nel tempo (guardandosi bene, però, dal ricordare come è finito tale mito). Anche nella Bibbia l’ambiguità della bellezza ha trovato espressioni memorabili. Da una parte, la bellezza che, nel Cantico dei cantici, due innamorati fanno a gara nel celebrare l’uno nell’altro (assunta poi come simbolo di realtà spirituali altissime); dall’altra, la bellezza di una donna che trascina David all’adulterio e al delitto (2 Sam 11,2). “La bellezza ti ha sedotto!”, dice Daniele a uno dei due anziani che volevano far morire la casta Susanna (Dan 13,56).
Dal punto di vista religioso, questo arrestarsi alla bellezza creata, è visto dalla Bibbia come l’essenza stessa dell’ idolatria in quanto con esso si mette la creatura al posto del creatore:
“Davvero stolti per natura tutti gli uomini che vivevano nell’ignoranza di Dio. e dai beni visibili non riconobbero colui che è, non riconobbero l’artefice, pur considerandone le opere… Se, stupiti per la loro bellezza, li hanno presi per dei, pensino quanto è superiore il loro Signore, perché li ha creati lo stesso autore della bellezza” (Sap 13, 1-3; cf. Rom 1, 20-23).
Questa caduta di livello dalla bellezza spirituale a quella materiale tende a ripetersi poi all’interno della stessa creatura e in particolare della donna. La rappresentazione della bellezza femminile non si concentra di solito sul volto, dove più chiaramente si manifesta l’interiorità, i sentimenti, i pensieri, in una parola l’anima della donna, ma su altre parti, sempre le solite, del corpo. È stato detto che nell’icona sacra il corpo serve da supporto al volto e il volto fa da cornice allo sguardo. Qui, esattamente il contrario: il volto è spesso un pretesto per rappresentare ciò che sta sotto di esso. Non ci sono più “Gioconde” in arte e, di questo passo, si perderà perfino la possibilità di averne in futuro.
Anche quelle “solite parti” del corpo di cui parlavo vengono rappresentate avulse dalla loro finalità naturale. Chi, guardando questo modo di rappresentare la donna, si ricorda ancora, per esempio, che le sue mammelle sono così fatte per allattare un bambino ed che è da questa loro attinenza strettissima con la vita, non da altro, che traggono la loro bellezza e il loro fascino? Cosa sa del suo corpo e dei suoi seni una top-model che non hai sentito su di essi le labbra di un bambino, ma solo flash di fotografi? Nulla di vero e di naturale; tutto diventa artificiale e venale La bellezza femminile è ridotta a sex appeal, con grave avvilimento della donna stessa che così viene ridotta a oggetto e concepita puramente in funzione dell’uomo.
3. Come Cristo ha redento la bellezza
San Paolo ha scritto:
“La creazione è stata sottomessa alla caducità non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rom 8, 19-21).
Al posto di “creazione” possiamo mettere, in questo testo, la parola “bellezza” senza alterare in alcun modo il senso dell’affermazione. “La bellezza è stata sottomessa alla caducità e attende di essere liberata”. Anche la bellezza, come tutte le cose, ha bisogno di essere redenta. Per salvare il mondo, la bellezza ha bisogno, prima, di essere essa stessa salvata. La redenzione di Cristo si estende infatti anche alla bellezza e vediamo come ciò è avvenuto.
A riguardo di Cristo colpisce il contrasto tra due affermazioni. Da una parte egli è visto come “il più bello tra i figli dell’uomo” (Sal ), come “l’irradiazione della gloria divina” (Eb 1, 3), dall’altra a lui, nella passione, vengono applicate le parole dei carmi del Servo di Jahvé: “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto…, come uno davanti al quale ci si copre la faccia” (Is 53, 2).
Come si concilia tutto ciò? Risponde la lettera agli Ebrei: “Quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo ora coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto” (Eb 2,9). Gesù ha redento la bellezza, privandosene per amore.
Per capire questo paradosso bisogna rifarsi a un principio fondamentale che Paolo formula all’inizio della prima lettera ai Corinzi:
“Poiché, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione” (1 Cor 1,21).
È quello che Lutero chiamava il redimere le cose “mediante il loro contrario” (“sub contraria specie”). Applicato alla bellezza, esso significa: poiché mediante la bellezza delle creature l’uomo non è stato capace di elevarsi alla Bellezza del creatore, Dio ha cambiato per così dire metodo e ha deciso di rivelare la sua Bellezza attraverso l’ignominia e la deformità della croce e della sofferenza. Il raggiungimento della bellezza passa anch’esso ormai attraverso il mistero pasquale di morte – risurrezione.
Il modello e la fonte di questa bellezza nuova, di redenzione, non è più la bellezza invisibile di Dio, ma quella “che rifulge sul volto di Cristo” (2 Cor 4,6); la bellezza non è più, come la definiva Platone, “lo splendore del vero”, ma è lo splendore di Cristo (anche se le due cose coincidono, essendo lui stesso la Verità).
È esistita fin dalle origini del cristianesimo una tradizione secondo cui il Dio, a immagine del quale fu creato l’uomo (Gen 1, 27), non era il Dio invisibile e incorporeo (come può l’uomo fatto di carne essere a immagine di Dio che è spirito?), ma era il Cristo Verbo incarnato e uomo futuro. Immagine vera e perfetta di Dio è Cristo (Col 1,15); noi siamo l’immagine dell’Immagine di Dio . Il grado della nostra bellezza e perfezione dipende dal grado di somiglianza con lui.
Questo è stata in ogni caso l’ideale di bellezza che ha animato per molti secoli l’arte e la spiritualità cristiana, sia dell’Oriente che dell’Occidente. La bellezza è stata sempre una componente talmente importante della visione cristiana che tutto un filone della spiritualità ortodossa ha preso il nome di “Filocalia”, amore del bello. Sant’Agostino dice che filosofia e filocalia sono più che due sorelle gemelle: sono la stessa cosa .
Dostoevskij aveva tentato di rappresentare in un suo personaggio, l’”Idiota”, l’ideale di una bellezza fatta di pura bontà e positività, senza tuttavia riuscirvi appieno e, a chi glielo faceva notare, rispose, quasi per scusarsi: “Al mondo esiste un solo essere assolutamente bello, il Cristo, ma l’apparizione di questo essere infinitamente bello è di certo un infinito miracolo” .
Gli iconografi sapevano che la luce che dovevano fissare sulla tavola non era una luce qualsiasi, ma la luce taborica, la luce che rifulse sul Tabor come anticipo della risurrezione. Sul Tabor i discepoli furono sopraffatti da un senso di bellezza ed esclamarono: “Signore, è bello per noi stare qui!” (Mc 9,5).
Cos’è che differenzia questa bellezza da ogni altra, pur trattandosi anche qui di una bellezza corporale? È che questa è una bellezza che viene dall’interno, che ha nel corpo il suo mezzo di espressione, non la sua sorgente ultima. Tra questa bellezza e quella esteriore, fatta solo di belle forme e armonia di colori, c’è la stessa differenza che tra una vetrata di cattedrale vista dall’esterno, dalla pubblica via, e la stessa vetrata vista dall’interno, con la luce che l’attraversa e la accende. Il corpo umano diventa il “sacramento” della bellezza: cioè il suo segno, il suo tramite, la sua manifestazione, la sua trasparenza, non la sua sorgente ultima. Non è uno schermo sul quale cade la luce, ma la sorgente da cui promana.
Capita a volte di vedere dei volti di contemplative che richiamano da vicino questo mistero. Nient’altro che un volto e degli occhi, spesso chini a terra, eppure l’esclamazione che si ode più spesso dalla bocca di laici che per la prima volta escono da un tale incontro è: “Che volti! Che luce! Che bellezza!”. Di esse si può dire quello che in uno dei suoi drammi Claudel dice di una fanciulla: “Gli occhi di tutti ricevono la luce, ma i suoi la donano” . Ma è soprattutto sul volto dei bambini (almeno di quelli che hanno la fortuna di crescere in un ambiente sano) che è dato cogliere questa bellezza che promana dall’innocenza e dalla limpidezza del cuore.
4. E nel frattempo?
Cristo, nel mistero pasquale, ha dunque redento la bellezza mediante il suo contrario, cioè lasciandosi spogliare di ogni bellezza. Ha proclamato che superiore allo stesso amore della bellezza è la bellezza dell’amore. Cosa significa tutto questo per noi? Che dobbiamo rinunciare in questo mondo a cercare e a godere della bellezza creata, e in primo luogo della bellezza legata al corpo umano, in attesa della trasfigurazione del nostro corpo nella risurrezione finale? No, la bellezza creata è fatta per abbellire questa vita, non la futura che avrà la sua bellezza. Solo bisogna che questa ricerca accetti di passare attraverso la croce che la redime. La croce della bellezza non è altro che l’amore con quello che esso esige in fatto di fedeltà, di rispetto dell’altro, di sacrificio, di obbedienza a Dio e al senso stesso delle cose.
Parlando a dei giovani e dei fidanzati, vorrei citare una delicata poesia di Goethe, intitolata “Trovata” (Gefunden), il cui significato credo sia trasparente. (La traduco io stesso meglio che posso, non conoscendo alcuna traduzione italiana):
Andavo nel bosco,
solingo a passeggio,
senza nulla cercare,
così almeno pensavo.
Nell’ombra intravidi
un tenero fiore,
lucente qual stella,
o ridente pupilla.
Mi accinsi a strapparlo
ma disse tremante:
“Perché recidermi
e farmi appassire?”.
Allora lo presi
con ogni radice
portandolo a casa,
in mezzo al giardino.
Qui l’ho trapiantato
in luogo tranquillo
e ad ogni stagione
germoglia e fiorisce”.
Due modi diversi di manifestare l’amore e coltivare la bellezza tra giovani!
Per tutti, fidanzati, sposi e consacrati, la redenzione della bellezza passa attraverso la mortificazione e in particolare, in questo caso, la mortificazione degli occhi.
La scelta tra la bellezza che ci eleva e ci fa liberi quella che ci rende schiavi, comincia da ciò che guardiamo. Si legge di un santo monaco che “avendo visto un giorno la bellezza femminile in tutto il suo splendore, pianse di gioia e si mise a lodare il Creatore”. Riportando questo fatto nella sua Scala del paradiso, san Giovanni Climaco commenta: “Un uomo così è già risorto prima della risurrezione di tutti”. Ma questo è un traguardo che raggiungeremo, appunto, con la risurrezione. Nel frattempo, conviene forse ricordare il proposito di Giobbe: “Avevo stretto con gli occhi un patto di non fissare neppure una vergine” (Gb 31, 1) e più ancora l’ammonimento di Cristo: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha gia commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt 5,28).
Non possiamo continuare a far ricadere sulla donna il peso delle nostre lotte o addossare ad esse la responsabilità delle nostre cadute, come si è fatto spesso in passato predicando contro “l’immodestia delle donne”, o scrivendo trattati “contro l’ornamento femminile” . Sarebbe un continuare sulla linea di Adamo, facendo ricadere la colpa su Dio stesso: “La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato” (Gen 3, 12). Oltretutto, questa via si è rivelata sempre di poca efficacia, se non addirittura controproducente. Dobbiamo affrontare noi stessi la lotta come, suppongo, da parte , devono fare anche le nostre sorelle donne.
Sant’Agostino non si è vergognato di manifestare noto il combattimento che doveva sostenere a questo riguardo, e non da giovane, ma da vescovo. Egli ricorda le innumerevoli lusinghe che gli uomini seminano, per gli occhi, in quello che producono: vesti, oggetti, pitture, sculture; loda Dio, convinto che ogni immagine bella creata dall’artista, anche se distorte nel suo fine, proviene comunque da lui che è Bellezza infinita; quindi prosegue:
“Purtroppo anch’io che so tutto questo, incespico in queste cose belle…Mi lascio prendere miserevolmente e tu, mio Dio, mi tiri fuori misericordiosamente. Qualche volta senza ch’io ne risenta, poiché vi ero incappato non del tutto volontariamente, qualche altra volta con mio dolore, perché vi ero rimasto impigliato” .
Non so cosa direbbe Agostino se vivesse oggi, dopo l’invenzione del cinema e della televisione!
Più importante però che chiudere gli occhi alla falsa bellezza è aprirli alla Bellezza vera. Contemplare, nella Parola o nell’icona, Cristo crocifisso e risorto. In lui la bellezza è stata definitivamente “liberata dalla schiavitù della corruzione”. L’Eucaristia racchiude, in questo campo, uno straordinario potere di guarigione. Lo si scopre il giorno che uno comincia ad ascoltare come rivolte personalmente a lui (e a ripetersele nel momento della lotta), le parole della consacrazione: “Prendete, mangiate, questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”.
Il segreto è anche qui lo Spirito Santo; è lui irradia sulla Chiesa la bellezza di Cristo, come ne irradia il profumo. È lo “Spirito creatore, che aleggiando continua a far passare il mondo e le cose dal caos al cosmo, dall’informe al formato, dalla bellezza materiale a quella spirituale. “Chi si unisce al Signore forma un solo Spirito con lui” (1 Cor 6, 17). La vita eterna non consisterà solo nel contemplare la Bellezza increata, ma nell’essere uniti ad essa, con una unione di cui quella terrena dei corpi è, per dirla ancora con Goethe, solo un simbolo (nur ein Gleichnis):
“Quello che passa
non è che un simbolo;
quassù si compie
l’irraggiungibile.
Qui l’ineffabile
è realtà.
L’eterno femminino
ci eleverà” .
A proposito di “eterno femminino”, il pensiero va spontaneamente a Maria, la tota pulchra, la Tutta bella, come la chiama la liturgia. Lutero ha scritto di lei: “Nessuna immagine di donna suscita nell’uomo pensieri così puri come questa vergine” .
Un modo diverso, ma importantissimo, di partecipare al mistero pasquale di redenzione della bellezza è di chinarsi su quelli che, come Cristo nella sua passione, “non hanno splendore né bellezza per attirare i nostri sguardi”. Sui poveri, i crocifissi, i derelitti di oggi. Madre Teresa di Calcutta che stringe con infinita tenerezza tra le braccia un bambino malato o un moribondo abbandonato fa parte, con tutte le sue rughe, di questa bellezza redenta e che redime.
Non sarà infatti – per rispondere alla domanda di Dostoevskij – l’amore della bellezza che salverà il mondo, ma la bellezza dell’amore.

Publié dans:Padre Cantalamessa |on 21 avril, 2015 |Pas de commentaires »

È morto l’ex Rabbino Capo di Roma Elio Toaff, vedere articolo e foto, link

È morto l'ex Rabbino Capo di Roma Elio Toaff, vedere articolo e foto, link dans † Elio Toaff Toaff-86

http://www.panorama.it/news/cronaca/e-morto-elio-toaff-ex-rabbino-capo-di-roma/

http://www.casapreghiera.it/engdoc/presentation.htm

Publié dans:† Elio Toaff |on 20 avril, 2015 |Pas de commentaires »

PAPA GIOVANNI PAOLO II – 1989 – MESSAGGIO PER LA GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

http://disf.org/giovanni-paolo-ii-giornata-mondiale-pace-1990

PACE CON DIO CREATORE, PACE CON TUTTO IL CREATO, MESSAGGIO PER LA GIORNATA MONDIALE DELLA PACE ANNO 1990, SULLA QUESTIONE ECOLOGICA

PAPA GIOVANNI PAOLO II – 8 DICEMBRE 1989

Messaggio per la giornata mondiale della pace 1990

In questo messaggio, Giovanni Paolo II riepiloga i punti fondamentali di quella che potremmo chiamare “una visione cristiana del problema ecologico”. I principali punti sottolineati sono i seguenti:

Il problema ecologico è un problema etico-morale e non può essere risolto solamente con strumenti legislativi. – Occorre evitare due opposti estremismi: quello dell’individualismo egoista ed irresponsabile e quello di un naturismo immanente dove il centro non è più l’uomo e la sua dignità trascendente, ma la natura stessa. – Il rispetto per la vita è la norma di ogni vero progresso e la premessa necessaria di ogni preoccupazione ecologica: la preoccupazione per un ambiente sicuro fonda la sua validità, e le corrispondenti misure legislative la loro esigibilità, in quanto l’ambiente è un diritto della persona. – Per la soluzione del problema ecologico è necessario un riferimento al principio di solidarietà, cioè alla responsabilità della comunità internazionale nella gestione (produzione e distribuzione) delle risorse del pianeta. – Occorre educare al rispetto della natura come valore etico ed anche teologico. – Bisogna saper riconoscere nel valore estetico del creato la partecipazione del bello come trascendentale divino; esiste un collegamento fra un’adeguata educazione estetica e la conservazione di un ambiente sano ed adeguato alla persona umana.
1. Si avverte ai nostri giorni la crescente consapevolezza che la pace mondiale sia minacciata, oltre che dalla corsa agli armamenti, dai conflitti regionali e dalle ingiustizie tuttora esistenti nei popoli e tra le nazioni, anche dalla mancanza del dovuto rispetto per la natura, dal disordinato sfruttamento delle sue risorse e dal progressivo deterioramento della qualità della vita. Tale situazione genera un senso di precarietà e di insicurezza, che a sua volta favorisce forme di egoismo collettivo, di accaparramento e di prevaricazione.
Di fronte al diffuso degrado ambientale l’umanità si rende ormai conto che non si può continuare ad usare i beni della terra come nel passato. L’opinione pubblica ed i responsabili politici ne sono preoccupati, mentre studiosi delle più diverse discipline ne esaminano le cause. Sta così formandosi una coscienza ecologica, che non deve essere mortificata, ma anzi favorita, in modo che si sviluppi e maturi trovando adeguata espressione in programmi ed iniziative concrete.

2. Non pochi valori etici, di fondamentale importanza per lo sviluppo di una società pacifica, hanno una diretta relazione con la questione ambientale. L’interdipendenza delle molte sfide, che il mondo odierno deve affrontare, conferma l’esigenza di soluzioni coordinate, basate su una coerente visione morale del mondo.
Per il cristiano una tale visione poggia sulle convinzioni religiose attinte alla Rivelazione. Ecco perché, all’inizio di questo messaggio, desidero richiamare il racconto biblico della creazione, e mi auguro che coloro i quali non condividono le nostre convinzioni di fede possano egualmente trovarvi utili spunti per una comune linea di riflessione e di impegno.

I – «E Dio vide che era cosa buona»
3. Nelle pagine della Genesi, nelle quali è consegnata la prima autorivelazione di Dio alla umanità (1-3), ricorrono come un ritornello le parole: «E Dio vide che era cosa buona». Ma quando, dopo aver creato il cielo e il mare, la terra e tutto ciò che essa contiene, Iddio crea l’uomo e la donna, l’espressione cambia notevolmente: «E Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa molto buona» (Gen 1,31). All’uomo e alla donna Dio affidò tutto il resto della creazione, ed allora come leggiamo – potè riposare «da ogni suo lavoro» (Gen 2,3).
La chiamata di Adamo ed Eva a partecipare all’attuazione del piano di Dio sulla creazione stimolava quelle capacità e quei doni che distinguono la persona umana da ogni altra creatura e, nello stesso tempo, stabiliva un ordinato rapporto tra gli uomini e l’intero creato. Fatti ad immagine e somiglianza di Dio, Adamo ed Eva avrebbero dovuto esercitare il loro dominio sulla terra (cfr. Gen 1,28) con saggezza e con amore. Essi, invece, con il loro peccato distrussero l’armonia esistente ponendosi deliberatamente contro il disegno del Creatore. Ciò portò non solo all’alienazione dell’uomo da se stesso, alla morte e al fratricidio, ma anche ad una certa ribellione della terra nei suoi confronti (cfr. Gen 3,17-19; 4,12). Tutto il creato divenne soggetto alla caducità, e da allora attende, in modo misterioso, di esser liberato per entrare nella libertà gloriosa insieme con tutti i figli di Dio (cfr. Rm 8,20-21).
4. I cristiani professano che nella morte e nella Risurrezione di Cristo si è compiuta l’opera di riconciliazione dell’umanità col Padre, a cui «piacque… riconciliare a sè tutte le cose, pacificando col sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli» (Col 1,19-20). La creazione è stata così rinnovata (cfr. Ap 21,5), e su di essa, prima sottoposta alla «schiavitù» della morte e della corruzione (cfr. Rm 8,21), si è effusa una nuova vita, mentre noi «aspettiamo nuovi cieli e una nuova terra, nei quali avrà stabile dimora la giustizia» (2Pt 3,13). Così il Padre «ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: cioè il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose» (Ef 1,9-10).
5. Queste considerazioni bibliche illuminano meglio il rapporto tra l’agire umano e l’integrità del creato. Quando si discosta dal disegno di Dio creatore, l’uomo provoca un disordine che inevitabilmente si ripercuote sul resto del creato. Se l’uomo non è in pace con Dio, la terra stessa non è in pace: «Per questo è in lutto il paese e chiunque vi abita langue, insieme con gli animali della terra e con gli uccelli del cielo; perfino i pesci del mare periranno» (Os 4,3).
L’esperienza di questa «sofferenza» della terra è comune anche a coloro che non condividono la nostra fede in Dio. Stanno, infatti, sotto gli occhi di tutti le crescenti devastazioni causate nel mondo della natura dal comportamento di uomini indifferenti alle esigenze recondite, eppure chiaramente avvertibili, dell’ordine e dell’armonia che lo reggono.
Ci si chiede, pertanto, con ansia se si possa ancora porre rimedio ai danni provocati. E’ evidente che un’idonea soluzione non può consistere semplicemente in una migliore gestione, o in un uso meno irrazionale delle risorse della terra. Pur riconoscendo l’utilità pratica di simili misure, sembra necessario risalire alle origini e affrontare nel suo insieme la profonda crisi morale, di cui il degrado ambientale è uno degli aspetti preoccupanti.

II – La crisi ecologica: un problema morale
6. Alcuni elementi della presente crisi ecologica ne rivelano in modo evidente il carattere morale. Tra essi, in primo luogo, è da annoverare l’applicazione indiscriminata dei progressi scientifici e tecnologici. Molte recenti scoperte hanno arrecato innegabili benefici all’umanità; esse, anzi, manifestano quanto sia nobile la vocazione dell’uomo a partecipare responsabilmente all’azione creatrice di Dio nel mondo. Si è, però, constatato che la applicazione di talune scoperte nell’ambito industriale ed agricolo produce, a lungo termine, effetti negativi. Ciò ha messo crudamente in rilievo come ogni intervento in un’area dell’ecosistema non possa prescindere dal considerare le sue conseguenze in altre aree e, in generale, sul benessere delle future generazioni.
Il graduale esaurimento dello strato di ozono e l’«effetto serra» hanno ormai raggiunto dimensioni critiche a causa della crescente diffusione delle industrie, delle grandi concentrazioni urbane e dei consumi energetici. Scarichi industriali, gas prodotti dalla combustione di carburanti fossili, incontrollata deforestazione, uso di alcuni tipi di diserbanti, refrigeranti e propellenti: tutto ciò – com’è noto – nuoce all’atmosfera ed all’ambiente. Ne sono derivati molteplici cambiamenti meteorologici ed atmosferici, i cui effetti vanno dai danni alla salute alla possibile futura sommersione delle terre basse.
Mentre in alcuni casi il danno forse è ormai irreversibile, in molti altri esso può ancora essere arrestato. E’ doveroso, pertanto, che l’intera comunità umana – individui, Stati ed organismi internazionali – assuma seriamente le proprie responsabilità.
7. Ma il segno più profondo e più grave delle implicazioni morali, insite nella questione ecologica, è costituito dalla mancanza di rispetto per la vita, quale si avverte in molti comportamenti inquinanti. Spesso le ragioni della produzione prevalgono sulla dignità del lavoratore e gli interessi economici vengono prima del bene delle singole persone, se non addirittura di quello di intere popolazioni. In questi casi, l’inquinamento o la distruzione riduttiva e innaturale, che talora configura un vero e proprio disprezzo dell’uomo.
Parimenti, delicati equilibri ecologici vengono sconvolti per un’incontrollata distruzione delle specie animali e vegetali o per un incauto sfruttamento delle risorse; e tutto ciò – giova ricordare – anche se compiuto nel nome del progresso e del benessere, non torna, in effetti, a vantaggio dell’umanità.
Infine, non si può non guardare con profonda inquietudine alle formidabili possibilità della ricerca biologica. Forse non è ancora in grado di misurare i turbamenti indotti in natura da una indiscriminata manipolazione genetica e dallo sviluppo sconsiderato di nuove specie di piante e forme di vita animale, per non parlare di inaccettabili interventi sulle origini della stessa vita umana. A nessuno sfugge come, in un settore così delicato, l’indifferenza o il rifiuto delle norme etiche fondamentali portino l’uomo alla soglia stessa dell’autodistruzione.
E’ il rispetto per la vita e, in primo luogo, per la dignità della persona umana la fondamentale norma ispiratrice di un sano progresso economico, industriale e scientifico.
E’ a tutti evidente la complessità del problema ecologico. Esistono, tuttavia, alcuni principi basilari che, nel rispetto della legittima autonomia e della specifica competenza di quanti sono in esso impegnati, possono indirizzare la ricerca verso idonee e durature soluzioni. Si tratta di principi essenziali per la costruzione di una società pacifica, la quale non può ignorare nè il rispetto per la vita, nè il senso dell’integrità del creato.

III – Alla ricerca di una soluzione
8. Teologia, filosofia e scienza concordano nella visione di un universo armonioso, cioè di un vero «cosmo», dotato di una sua integrità e di un suo interno e dinamico equilibrio. Questo ordine deve essere rispettato: l’umanità è chiamata ad esplorarlo, a scoprirlo con prudente cautela e a fame poi uso salvaguardando la sua integrità.
D’altra parte, la terra è essenzialmente un’eredità comune, i cui frutti devono essere a beneficio di tutti. «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e popoli», ha riaffermato il Concilio Vaticano II («Gaudium et Spes», 69). Ciò ha dirette implicazioni per il nostro problema. E’ ingiusto che pochi privilegiati continuino ad accumulare beni superflui dilapidando le risorse disponibili, quando moltitudini di persone vivono in condizioni di miseria, al livello minimo di sostentamento. Ed è ora la stessa drammatica dimensione del dissesto ecologico ad insegnarci quanto la cupidigia e l’egoismo, individuali o collettivi, siano contrari all’ordine del creato, nel quale è inscritta anche la mutua interdipendenza.
9. I concetti di ordine nell’universo e di eredità comune mettono entrambi in rilievo che è necessario un sistema di gestione delle risorse della terra meglio coordinato a livello internazionale. Le dimensioni dei problemi ambientali superano, in molti casi, i confini dei singoli Stati: la loro soluzione, dunque, non può essere trovata unicamente a livello nazionale. Recentemente sono stati registrati alcuni promettenti passi verso questa auspicata azione internazionale, ma gli strumenti e gli organismi esistenti sono ancora inadeguati allo sviluppo di un piano coordinato di intervento. Ostacoli politici, forme di nazionalismo esagerato ed interessi economici, per non ricordare che alcuni fattori, rallentano, o addirittura impediscono la cooperazione internazionale e l’adozione di efficaci iniziative a lungo termine.
L’asserita necessità di un’azione concertata a livello internazionale non comporta certo una diminuzione della responsabilità dei singoli Stati. Questi, infatti, debbono non solo dare applicazione alle norme approvate insieme con le autorità di altri Stati, ma anche favorire, al loro interno, un adeguato assetto socio-economico, con particolare attenzione ai settori più vulnerabili della società. Spetta ad ogni Stato, nell’ambito del proprio territorio, il compito di prevenire il degrado dell’atmosfera e della biosfera, controllando attentamente, tra l’altro, gli effetti delle nuove scoperte tecnologiche o scientifiche, ed offrendo ai propri cittadini la garanzia di non essere esposti ad agenti inquinanti o a rifiuti tossici. Oggi si parla sempre più insistentemente del diritto ad un ambiente sicuro, come di un diritto che dovrà rientrare in un’aggiornata carta dei diritti dell’uomo.

IV – L’urgenza di una nuova solidarietà
10. La crisi ecologica pone in evidenza l’urgente necessità morale di una nuova solidarietà, specialmente nei rapporti tra i paesi in via di sviluppo e i paesi altamente industrializzati. Gli Stati debbono mostrarsi sempre più solidali e fra loro complementari nel promuovere lo sviluppo di un ambiente naturale e sociale pacifico e salubre. Ai paesi da poco industrializzati, per esempio, non si può chiedere di applicare alle proprie industrie nascenti certe norme ambientali restrittive, se gli Stati industrializzati non le applicano per primi al loro interno. Da parte loro, i paesi in via di industrializzazione non possono moralmente ripetere gli errori compiuti da altri nel passato, continuando a danneggiare l’ambiente con prodotti inquinanti, deforestazioni eccessive o sfruttamento illimitato di risorse inesauribili. In questo stesso contesto è urgente trovare una soluzione al problema del trattamento e dello smaltimento dei rifiuti tossici.
Nessun piano, nessuna organizzazione, tuttavia, sarà in grado di operare i cambiamenti intravisti, se i responsabili delle nazioni di tutto il mondo non saranno veramente convinti della assoluta necessità di questa nuova solidarietà, che la crisi ecologica richiede e che è essenziale per la pace. Tale esigenza offrirà opportune occasioni per consolidare le pacifiche relazioni tra gli Stati.
11. Occorre anche aggiungere che non si otterrà il giusto equilibrio ecologico, se non saranno affrontate direttamente le forme strutturali di povertà esistenti nel mondo. Ad esempio, la povertà rurale e la distribuzione della terra in molti paesi hanno portato ad un’agricoltura di mera sussistenza e all’impoverimento dei terreni. Quando la terra non produce più, molti contadini si trasferiscono in altre zone, incrementando spesso il processo di deforestazione incontrollata, o si stabiliscono in centri urbani già carenti di strutture e servizi. Inoltre, alcuni paesi fortemente indebitati stanno distruggendo il loro patrimonio naturale con la conseguenza di irrimediabile squilibri ecologici, pur di ottenere nuovi prodotti di esportazione. Di fronte a tali situazioni, tuttavia, mettere sotto accusa soltanto i poveri per gli effetti ambientali negativi da essi provocati, sarebbe un modo inaccettabile di valutare le responsabilità. Occorre, piuttosto, aiutare i poveri, a cui la terra e affidata come a tutti gli altri, a superare la loro povertà, e ciò richiede una coraggiosa riforma delle strutture e nuovi schemi nei rapporti tra gli Stati e i popoli.
12. Ma c’è un’altra pericolosa minaccia che ci sovrasta: la guerra. La scienza moderna dispone già, purtroppo, della capacità di modificare l’ambiente con intenti ostili, e tale manomissione potrebbe avere a lunga scadenza effetti imprevedibili e ancora più gravi. Nonostante che accordi internazionali proibiscano la guerra chimica, batteriologica e biologica, sta di fatto che nei laboratori continua la ricerca per lo sviluppo di nuove armi offensive, capaci di alterare gli equilibri naturali.
Oggi qualsiasi forma di guerra su scala mondiale causerebbe incalcolabili danni ecologici. Ma anche le guerre locali o regionali, per limitate che siano, non solo distruggono le vite umane e le strutture della società, ma danneggiano la terra, rovinando i raccolti e la vegetazione e avvelenando i terreni e le acque. I sopravvissuti alla guerra si trovano nella necessità di iniziare una nuova vita in condizioni naturali molto difficili, che creano a loro volta situazioni di grave disagio sociale, con conseguenze negative anche di ordine ambientale.
13. La società odierna non troverà soluzione al problema ecologico, se non rivedrà seriamente il suo stile di vita. In molte parti del mondo essa è incline all’edonismo e al consumismo e resta indifferente ai danni che ne derivano. Come ho già osservato, la gravità della situazione ecologica rivela quanto sia profonda la crisi morale dell’uomo. Se manca il senso del valore della persona e della vita umana, ci si disinteressa degli altri e della terra. L’austerità, la temperanza, la autodisciplina e lo spirito di sacrificio devono informare la vita di ogni giorno affinché non si sia costretti da parte di tutti a subire le conseguenze negative della noncuranza dei pochi.
C’è dunque l’urgente bisogno di educare alla responsabilità ecologica: responsabilità verso gli altri; responsabilità verso l’ambiente. E un’educazione che non può essere basata semplicemente sul sentimento o su un indefinito velleitarismo. Il suo fine non può essere nè ideologico nè politico, e la sua impostazione non può poggiare sul rifiuto del mondo moderno o sul vago desiderio di un ritorno al «paradiso perduto». La vera educazione alla responsabilità comporta un’autentica conversione nel modo di pensare e nel comportamento. Al riguardo, le Chiese e le altre istituzioni religiose, gli organismi governativi, anzi tutti i componenti della società hanno un preciso ruolo da svolgere. Prima educatrice, comunque, rimane la famiglia, nella quale il fanciullo impara a rispettare il prossimo e ad amare la natura.
14. Non si può trascurare, infine, il valore estetico del creato. Il contatto con la natura è di per sè profondamente rigeneratore come la contemplazione del suo splendore dona pace e serenità. La Bibbia parla spesso della bontà e della bellezza della creazione, chiamata a dar gloria a Dio (cfr. ex gr., Gen 1,4 ss; Sal 8,2; 104[103],1ss; Sap 13,3-5; Sir 39,16.33; 43,1.9).
Forse più difficile, ma non meno intensa, può essere la contemplazione delle opere dell’ingegno umano. Anche le città possono avere una loro particolare bellezza, che deve spingere le persone a tutelare l’ambiente circostante. Una buona pianificazione urbana è un aspetto importante della protezione ambientale, e il rispetto per le caratteristiche morfologiche della terra e un indispensabile requisito per ogni insediamento ecologicamente corretto. Non va trascurata, insomma, la relazione che c’è tra un’adeguata educazione estetica e il mantenimento di un ambiente sano.

V – La questione ecologica: una responsabilità di tutti
15. Oggi la questione ecologica ha assunto tali dimensioni da coinvolgere la responsabilità di tutti. I vari aspetti di essa, che ho illustrato, indicano la necessità di sforzi concordati, al fine di stabilire i rispettivi doveri ed impegni dei singoli, dei popoli, degli Stati e della comunità internazionale. Ciò non solo va di pari passo con i tentativi di costruire la vera pace, ma oggettivamente li conferma e li rafforza. Inserendo la questione ecologica nel più vasto contesto della causa della pace nella società umana, ci si rende meglio conto di quanto sia importante prestare attenzione a ciò che la terra e l’atmosfera ci rivelano: nell’universo esiste un ordine che deve essere rispettato; la persona umana, dotata della possibilità di libera scelta, ha una grave responsabilità per la conservazione di questo ordine, anche in vista del benessere delle generazioni future. La crisi ecologica – ripeto ancora – è un problema morale.
Anche gli uomini e le donne che non hanno particolari convinzioni religiose, per il senso delle proprie responsabilità nei confronti del bene comune, riconoscono il loro dovere di contribuire al risanamento dell’ambiente. A maggior ragione, coloro che credono in Dio creatore e, quindi, sono convinti che nel mondo esiste un ordine ben definito e finalizzato devono sentirsi chiamati ad occuparsi del problema. I cristiani, in particolare, avvertono che i loro compiti all’interno del creato, i loro doveri nei confronti della natura e del Creatore sono parte della loro fede. Essi, pertanto, sono consapevoli del vasto campo di cooperazione ecumenica ed interreligiosa che si apre dinanzi a loro.
16. A conclusione di questo messaggio, desidero rivolgermi direttamente ai miei fratelli e alle mie sorelle della Chiesa cattolica per ricordar loro l’importante obbligo di prendersi cura di tutto il creato. L’impegno del credente per un ambiente sano nasce direttamente dalla sua fede in Dio creatore, dalla valutazione degli effetti del peccato originale e dei peccati personali e dalla certezza di essere stato redento da Cristo. Il rispetto per la vita e per la dignità della persona umana include anche il rispetto e la cura del creato, che è chiamato ad unirsi all’uomo per glorificare Dio (cfr. Sal 148[147] et Sal 96[95]).
San Francesco d’Assisi, che nel 1979 ho proclamato celeste patrono dei cultori dell’ecologia (cfr. «Inter Sanctos»: AAS 71 [1979], 1509s), offre ai cristiani l’esempio dell’autentico e pieno rispetto per l’integrità del creato. Amico dei poveri, amato dalle creature di Dio, egli invitò tutti – animali, piante, forze naturali, anche fratello sole e sorella luna – ad onorare e lodare il Signore. Dal Poverello di Assisi ci viene la testimonianza che, essendo in pace con Dio, possiamo meglio dedicarci a costruire la pace con tutto il creato, la quale è inseparabile dalla pace tra i popoli.
Auspico che la sua ispirazione ci aiuti a conservare sempre vivo il senso della «fraternità» con tutte le cose create buone e belle da Dio onnipotente, e ci ricordi il grave dovere di rispettarle e custodirle con cura, nel quadro della più vasta e più alta fraternità umana.

Dal Vaticano, 8 dicembre dell’anno 1989.

MARTIN BUBER – LA REALIZZAZIONE DEL REGNO DI DIO

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=126303

MARTIN BUBER, – LA REALIZZAZIONE DEL REGNO DI DIO

Con « Nessuno può servire due signori » non intese che si potesse servire Dio e Roma. Intendeva che ribellione e rivoluzione sono inutili e sono condannate a consumarsi in se stesse finché non sia nata dal rinnovamento dell’anima una nuova vera forma di convivenza umana.

Il regno di Dio è la ventura società, in cui tutti coloro che hanno fame e sete di giustizia saranno sazi, e che può scaturire non dalla sola grazia divina, ma unicamente dalla sua cooperazione con la volontà umana e dalla misteriosa unione di ambedue. Gesù, per quanto possa in altri punti distaccarsi dalla dottrina tradizionale, vuole, come i profeti d’Israele, non abolire ma compiere la società; egli non vuole fuggire come gli esseni dalla comunità laica, bensì costruire in verità la Comunità vera, spirituale.
Dio vuole essere realizzato nel mondo e nel consorzio laico mediante la loro fiamme a purificazione e la loro perfezione rappresentativa; il mondo è la casa devastata, che deve esser preparata per lo spirito; prima che ciò sia accaduto, lo spirito non ha dove posare il capo: questa sapienza d’abisso è il più profondo ebraismo di Gesù. E nondimeno ci è stata tramandata una parola di lui che sembra esserne il contrasto. È la parola con cui egli risponde a chi gli domanda se si deve dare all’imperatore il tributo: «Date all’imperatore quello che è dell’imperatore, e a Dio quello ch’è di Dio». Qui pare espressa una separazione fra mondo e spirito, fra la realtà corrotta e gigantesca, di cui bisogna accettare l’esistenza, e la pura idealità, per la quale noi siamo redenti; a quella devesi pagare il tributo della vita esterna, a questa appartiene il cuore.
Ma questa separazione è solo apparente. Gesù aveva dinanzi a sé non più uno Stato che si poteva tentare di fondere nella sua totalità, guardando negli occhi il suo dominatore come faceva il profeta di fronte al re di Giuda o d’Israele, non uno Stato che si poteva colpire e vincere con l’idea; era Roma, era il nudo Stato che non conosceva e non riconosceva nulla al di fuori di sé, che neppure gli dei tollerava se non come custodi della sua potenza e della sua legge, quando non preferiva di alzare alla dignità di Dio perfino il suo imperatore; era l’unione coattiva che aveva sostituito ogni associazione naturale; era la violenza legalizzata, il sacrilegio sanzionato, il meccanismo che aveva messo la maschera dell’organico, l’organizzazione con la maschera dello spirito. Di fronte a questa macchina massiccia stava la volontà ebraica di realizzazione, la volontà della vera collettività risuscitata con nuova forza e grandezza, in una triplice forma: col ritirarsi in disparte e col salvare la legge affinché la missione divina che era racchiusa in essa fosse preservata per tempi migliori. [...]
[Gesù] che pronunciò la parola: «Nessuno può servire due signori» non intese che si potesse servire Dio e Roma. Intendeva che ribellione e rivoluzione sono inutili e sono condannate a consumarsi in se stesse finché non sia nata dal rinnovamento dell’anima una nuova vera forma di convivenza umana, che, acquistando sempre più vigore, sia destinata a sconquassare la vecchia compagine obbrobriosa.
Un’altra delle sue parole «Non fate opposizione al male!» significa: opponetevi al male facendo il bene, non colpite il regno del male, ma unitevi subito per il regno del bene; allora verrà il tempo in cui il male non potrà più opporsi a voi, non perché voi lo abbiate vinto, ma perché lo avete redento. Gesù voleva costruire sull’ebraismo il tempio della vera collettività alla cui sola vista le mura del regno di violenza sarebbero dovute crollare.
Ma non così egli fu compreso dalle generazioni seguenti. Una interpretazione enormemente erronea della sua dottrina riempie due millenni della storia spirituale dell’Occidente. La concezione ebraica del mondo unito, vinto dal turbamento e dal disordine, ma che può essere redento da questi suoi mali grazie alla volontà umana che lotta; la concezione secondo cui la volontà umana si eleva in questo processo fino a quella divina, e l’immagine si compie, e si concreta in verità l’eterna nascita di Dio: questa vera concezione ebraica viene sostituita dall’idea di un dissidio di principio insormontabile fra volontà umana e grazia divina.
La volontà decaduta, è vero, ma capace – grazie al mistero della conversione – di forza salvatrice illimitata, e vocata ad un’opera salvatrice illimitata, si trasforma in volontà onninamente cattiva e incapace di sollevarsi con le proprie forze; non essa, in tutta la sua contraddizione e in tutte le sue possibilità, è la via verso Dio, bensì tale è la fede e l’aspettativa nel contatto della grazia. Il male non più «guscio» che deve essere forato, bensì una potenza elementare a cui il bene sta di fronte come un grande avversario. Lo Stato non è più la condensazione della traviata volontà sociale, e perciò penetrabile e redimi bile dalla giusta volontà; ma esso è, come per Agostino, il regno dei dannati in eterno, da cui gli eletti debbono perciò separarsi in eterno; oppure, come per Tommaso, un gradino ed una scuola preliminare della vera collettività, che è una collettività ecclesiastica.
La vera collettività ha da realizzarsi non più nella vita perfetta degli uomini con gli uomini, nella laicità chiarificata, ma nella Chiesa; essa è per principio divisa, come collettività dello spirito, dal consorzio del mondo; come collettività della grazia, da quello della natura. Anche il protestantesimo ha accettato questa divisione; anche per esso la vita è scissa in due regni, quello delle opere e quello della fede; esso vuole l’esistenza della Chiesa accanto allo Stato, non la fusione di ambedue in una unità più alta, quella della vera collettività. Solo nella mistica continuano la loro vita il sentimento dell’esistenza indivisa, l’idea della relatività del male e dell’assolutezza dell’anima umana; ma ad esso manca l’elemento dell’attività nell’assoluto, la tendenza della realizzazione della vita indivisa nel mondo umano, nel mondo della convivenza.
Così i popoli dell’Occidente, accogliendo con la dottrina di Gesù la dottrina ebraica, non ne hanno presa la sostanza; la tendenza alla realizzazione non è penetrata nelle basi spirituali della vita dei popoli. È vero che la loro fiamma divampava sempre nuovamente nella passione delle comunità eretiche e dei settari che volevano iniziare il regno di Dio; ma essa si spense sempre nell’aria che respirano i popoli, nell’atmosfera del compromesso con il dualismo. È l’atmosfera in cui è immerso ancora il nostro tempo, l’atmosfera del dualismo della verità e della realtà, dell’idea e del fatto, della morale e della politica; è l’atmosfera in cui il cristianesimo ha dato per tanto tempo all’imperatore romano quello che era «dell’imperatore», finché non ebbe più nulla da rifiutargli; in cui il cristianesimo per tanto tempo non si è opposto al male, finché fu costretto a riconoscere, quando tentò di resistere ai suoi eccessi più frenetici, che era diventato impotente a qualunque resistenza.
Ma non dimentichiamo che è stato pure un ebreo, un ebreo rappresentativo, colui per la cui opera si produsse questa rifrazione dell’ebraismo nella sua trasmissione ai popoli. Per comprendere giustamente questo violento dominatore dello spirito, bisogna ricercare in lui l’elementare psiche dell’ebreo, dalla quale sorge sempre di nuovo la tendenza alla realizzazione. Questa psiche primordiale ha per centro il sentimento elementare di quel dissidio interno che è proprio, in qualche misura, di tutti gli uomini, ma che gli ebrei però posseggono con una particolare forza, e della volontà di superarlo mediante la realizzazione dell’unità. Saulo, uomo di Tarso, ha espresso questo immanente dissidio in modo talmente rigido e preciso, come nessun altro uomo, nelle fati di che parole che sono un’introduzione all’aeon cristiano: «Poiché non riconosco quello che compio; non quello che voglio io faccio, sì faccio quello che odio».
Ma questa coscienza terribile e paradossale non è per lui quella che fu una volta per l’ebreo e dovrà diventarlo di nuovo: una spinta sovrumana a tentare un assalto che sembra impossibile, a perforare il guscio e, nell’unificazione della propria volontà, realizzare quella divina; essa non è per lui il terreno vacillante su cui può unicamente appoggiarsi la scala che barcolla su ogni terreno fermo, la scala celeste; essa è per lui bensì una rinuncia titanica.
Quest’uomo fa la somma di tutta la delusione immensa che ha prodotto nell’ebraismo fino ai suoi giorni la tendenza alla realizzazione; accanto al calcolo razionale egli fa il calcolo umano e dichiara che non possiamo compiere nulla, nulla da noi stessi, ma unicamente per mezzo della grazia di Dio; oppure ciò che significa per lui lo stesso, facendoci credenti e seguaci di colui in cui è stata visibilmente la grazia, di quell’uno che, come è detto, «non conobbe verun peccato».
Il fatto che allora non si conosceva, come sembra, nulla di preciso dei primi trent’anni di vita di Gesù; che anche la leggenda reca i segni del tempo delle sue lotte e dei suoi superamenti solo per il simbolo della triplice tentazione; questa armonia concretatasi apparentemente senza un precedente dissidio ha agevolato a Paolo la sua ideologia. Egli trasmette la dottrina di Gesù ai popoli dopo averla trasformata alla luce di questa ideologia, porge loro il dolce veleno di una fede che deve sdegnare le opere, dispensare il credente dalla realizzazione e stabilire nel mondo il dualismo. È l’età di Paolo: le cui convulsioni mortali, noi, che viviamo oggi, riguardiamo con occhi di stupore.
Link utili:
http://www.jesuschrist.it
(L’autore) I filosofi e Cristo – autore: Martin Buber

Day 1 From chaos to light

Day 1 From chaos to light dans immagini sacre 15%20LIVRE%20D%20HEURE%20FRANCISCAIN%20JOUR%20UN

http://www.artbible.net/1T/Gen0101_1Chaos_light/pages/15%20LIVRE%20D%20HEURE%20FRANCISCAIN%20JOUR%20UN.htm

Publié dans:immagini sacre |on 18 avril, 2015 |Pas de commentaires »
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