Archive pour avril, 2015

DALLE «OMELIE SUI VANGELI» DI SAN GREGORIO MAGNO, PAPA (tema del Buon Pastore)

http://www.maranatha.it/Ore/pas/pas4/letDOMpage.htm

DOMENICA 26 APRILE, UFFICIO DELLE LETTURE – SECONDA LETTURA

DALLE «OMELIE SUI VANGELI» DI SAN GREGORIO MAGNO, PAPA
(Om. 14, 3-6; PL 76, 1129-1130)

Cristo, buon pastore
«Io sono il buon Pastore; conosco le mie pecore», cioè le amo, «e le mie pecore conoscono me» (Gv 10, 14). Come a dire apertamente: corrispondono all’amore di chi le ama. La conoscenza precede sempre l’amore della verità.
Domandatevi, fratelli carissimi, se siete pecore del Signore, se lo conoscete, se conoscete il lume della verità. Parlo non solo della conoscenza della fede, ma anche di quella dell’amore; non del solo credere, ma anche dell’operare. L’evangelista Giovanni, infatti, spiega: «Chi dice: Conosco Dio, e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo» (1 Gv 2, 4).
Perciò in questo stesso passo il Signore subito soggiunge: «Come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e offro la vita per le pecore«(Gv 10, 15). Come se dicesse esplicitamente: da questo risulta che io conosco il Padre e sono conosciuto dal Padre, perché offro la mia vita per le mie pecore; cioè io dimostro in quale misura amo il Padre dall’amore con cui muoio per le pecore.
Di queste pecore di nuovo dice: Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna (cfr. Gv 10, 14-16). Di esse aveva detto poco prima: «Se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10, 9). Entrerà cioè nella fede, uscirà dalla fede alla visione, dall’atto di credere alla contemplazione, e troverà i pascoli nel banchetto eterno.
Le sue pecore troveranno i pascoli, perché chiunque lo segue con cuore semplice viene nutrito con un alimento eternamente fresco. Quali sono i pascoli di queste pecore, se non gli intimi gaudi del paradiso, ch’è eterna primavera? Infatti pascolo degli eletti è la presenza del volto di Dio, e mentre lo si contempla senza paura di perderlo, l’anima si sazia senza fine del cibo della vita.
Cerchiamo, quindi, fratelli carissimi, questi pascoli, nei quali possiamo gioire in compagnia di tanti concittadini. La stessa gioia di coloro che sono felici ci attiri. Ravviviamo, fratelli, il nostro spirito. S’infervori la fede in ciò che ha creduto. I nostri desideri s’infiammino per i beni superni. In tal modo amare sarà già un camminare.
Nessuna contrarietà ci distolga dalla gioia della festa interiore, perché se qualcuno desidera raggiungere la mèta stabilita, nessuna asperità del cammino varrà a trattenerlo. Nessuna prosperità ci seduca con le sue lusinghe, perché sciocco è quel viaggiatore che durante il suo percorso si ferma a guardare i bei prati e dimentica di andare là dove aveva intenzione di arrivare.

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI, 2009 (sul tema della Sapienza)

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2009/documents/hf_ben-xvi_hom_20091217_vespri-universitari.html

(propongo questa lettura – anche è tema natalizio – perché parla della « Sapienza »)

CELEBRAZIONE DEI VESPRI CON LA PARTECIPAZIONE DEGLI UNIVERSITARI ROMANI

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana

Giovedì, 17 dicembre 2009

Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato,
illustri Signori e Signore,
cari fratelli e sorelle!

Quale sapienza nasce a Betlemme? Questa domanda vorrei porre a me e a voi in questo tradizionale incontro pre-natalizio con il mondo universitario romano. Oggi, invece della Santa Messa, celebriamo i Vespri, e la felice coincidenza con l’inizio della novena di Natale ci farà cantare tra poco la prima delle Antifone dette Maggiori:

« O Sapienza, che esci dalla bocca dell’Altissimo,
ti estendi ai confini del mondo,
e tutto disponi con soavità e con forza:
vieni, insegnaci la via della saggezza » (Liturgia delle Ore, Vespri del 17 dicembre).

Questa stupenda invocazione è rivolta alla « Sapienza », figura centrale nei libri dei Proverbi, della Sapienza e del Siracide che da essa sono detti appunto « sapienziali » e nei quali la tradizione cristiana scorge una prefigurazione del Cristo. Tale invocazione diventa davvero stimolante e, anzi, provocante, quando ci poniamo di fronte al Presepe, cioè al paradosso di una Sapienza che, uscita « dalla bocca dell’altissimo », giace avvolta in fasce dentro una mangiatoia (cfr Lc 2,7.12.16).
Possiamo già anticipare la risposta alla domanda iniziale: quella che nasce a Betlemme è la Sapienza di Dio. San Paolo, scrivendo ai Corinzi, usa questa espressione: « la sapienza di Dio, che è nel mistero » (1 Cor 2,7), cioè in un disegno divino, che è rimasto a lungo nascosto e che Dio stesso ha rivelato nella storia della salvezza. Nella pienezza dei tempi, questa Sapienza ha assunto un volto umano, il volto di Gesù, il quale – come recita il Simbolo apostolico – « fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto, discese agli inferi, il terzo giorno risuscitò da morte, salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente, di là verrà a giudicare i vivi e i morti ». Il paradosso cristiano consiste proprio nell’identificazione della Sapienza divina, cioè il Logos eterno, con l’uomo Gesù di Nazaret e con la sua storia. Non c’è soluzione a questo paradosso se non nella parola « Amore », che in questo caso va scritta naturalmente con la « A » maiuscola, trattandosi di un Amore che supera infinitamente le dimensioni umane e storiche. Dunque, la Sapienza che questa sera invochiamo è il Figlio di Dio, la seconda persona della Santissima Trinità; è il Verbo, che, come leggiamo nel Prologo di Giovanni, « era in principio presso Dio », anzi, « era Dio », che con il Padre e lo Spirito Santo ha creato tutte le cose e che « si è fatto carne » per rivelarci quel Dio che nessuno può vedere (cfr Gv 1,2-3.14.18).
Cari amici, un professore cristiano, o un giovane studente cristiano, porta dentro di sé l’amore appassionato per questa Sapienza! Legge tutto alla sua luce; ne coglie le tracce nelle particelle elementari e nei versi dei poeti; nei codici giuridici e negli avvenimenti della storia; nelle opere artistiche e nelle espressioni matematiche. Senza di Lei niente è stato fatto di tutto ciò che esiste (cfr Gv 1,3) e dunque in ogni realtà creata se ne può intravedere un riflesso, evidentemente secondo gradi e modalità differenti. Tutto ciò che viene recepito dall’intelligenza umana può esserlo perché, in qualche modo e misura, partecipa della Sapienza creatrice. Qui, in ultima analisi, sta anche la possibilità stessa dello studio, della ricerca, del dialogo scientifico in ogni campo del sapere.
A questo punto non posso evitare una riflessione forse un po’ scomoda ma utile per noi che siamo qui e che apparteniamo per lo più all’ambiente accademico. Domandiamoci: chi c’era – la notte di Natale – alla grotta di Betlemme? Chi ha accolto la Sapienza quando è nata? Chi è accorso per vederla, l’ha riconosciuta e adorata? Non dottori della legge, scribi o sapienti. C’erano Maria e Giuseppe, e poi i pastori. Che significa questo? Gesù un giorno dirà: « Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza » (Mt 11,26): hai rivelato il tuo mistero ai piccoli (cfr Mt 11,25). Ma allora non serve studiare? O addirittura è nocivo, controproducente per conoscere la verità? La storia di duemila anni di cristianesimo esclude quest’ultima ipotesi, e ci suggerisce quella giusta: si tratta di studiare, di approfondire le conoscenze mantenendo un animo da « piccoli », uno spirito umile e semplice, come quello di Maria, la « Sede della Sapienza ». Quante volte abbiamo avuto paura di avvicinarci alla Grotta di Betlemme perché preoccupati che ciò fosse di ostacolo alla nostra criticità e alla nostra « modernità »! Invece, in quella Grotta, ciascuno di noi può scoprire la verità su Dio e quella sull’uomo. In quel Bambino, nato dalla Vergine, esse si sono incontrate: l’anelito dell’uomo alla vita eterna ha intenerito il cuore di Dio, che non si è vergognato di assumere la condizione umana.
Cari amici, aiutare gli altri a scoprire il vero volto di Dio è la prima forma di carità, che per voi assume la qualifica di carità intellettuale. Ho appreso con piacere che il cammino di quest’anno della pastorale universitaria diocesana avrà per tema: « Eucaristia e carità intellettuale ». Una scelta impegnativa ma appropriata. Infatti, in ogni Celebrazione eucaristica Dio viene nella storia in Gesù Cristo, nella sua Parola e nel suo Corpo, donandoci quella carità che ci permette di servire l’uomo nella sua concreta esistenza. Il progetto « Una cultura per la città », poi, offre una promettente proposta di presenza cristiana nell’ambito culturale. Mentre auspico che sia fruttuoso tale vostro itinerario, non posso non invitare tutti gli Atenei ad essere luoghi di formazione di autentici operatori della carità intellettuale. Da essi dipende largamente il futuro della società, soprattutto nell’elaborazione di una nuova sintesi umanistica e di una nuova capacità progettuale (cfr Enc. Caritas in veritate, 21). Incoraggio tutti i responsabili delle istituzioni accademiche a proseguire insieme, collaborando alla costruzione di comunità in cui tutti i giovani possano formarsi ad essere uomini maturi e responsabili per realizzare la « civiltà dell’amore ».
Al termine di questa Celebrazione, la delegazione universitaria australiana consegnerà a quella africana l’icona di Maria Sedes Sapientiae. Affidiamo alla Vergine Santa tutti gli universitari del continente africano e l’impegno di cooperazione che in questi mesi, dopo il Sinodo Speciale per l’Africa, si va sviluppando tra gli Atenei di Roma e quelli africani. Rinnovo il mio incoraggiamento a questa nuova prospettiva di cooperazione ed auguro che da essa possano nascere e crescere progetti culturali capaci di promuovere un vero sviluppo integrale dell’uomo. Possa, cari amici, il prossimo Natale portare gioia e speranza a voi, alle vostre famiglie e a tutto l’ambiente universitario, a Roma e nel mondo intero. 

San Marco ed il leone, Marco fu simboleggiato…

 San Marco ed il leone, Marco fu simboleggiato... dans immagini sacre m+St+Mark+and+his+lion+at+the+beginning+of+the+Gospel+excerpts,+Add+MS+34294,+f.+10v+Sforza+Hours+British+Library+c+1490

MARCO fu simboleggiato nel leone, perché il suo Vangelo comincia con la predicazione di Giovanni
Battista nel deserto, dove c’erano anche bestie selvatiche;

http://bjws.blogspot.it/2013/12/saint-mark-founder-of-christianity-in.html

Publié dans:immagini sacre |on 25 avril, 2015 |Pas de commentaires »

S. MARCO EVANGELISTA (I secolo) – 25 APRILE

http://www.paginecattoliche.it/modules.php?name=News&file=article&sid=548

S. MARCO EVANGELISTA (I secolo) – 25 APRILE

S. Marco fu il cooperatore di S. Paolo e l’ausiliare di S. Pietro nella predicazione del Vangelo. Nel Nuovo Testamento ora è chiamato col nome ebraico di Giovanni, ora col nome latino di Marco, ora Giovanni Marco. I migliori interpreti della Scrittura ritengono che si tratti sempre della medesima persona, non essendo raro il caso di ebrei aventi due nomi, come l’apostolo dei gentili che si chiamava Saulo e Paolo.

Non sappiamo nulla della sua infanzia trascorsa forse a Cipro insieme con il cugino Barnaba (Col. 4,10), di stirpe levitica. Gli Atti degli Apostoli parlano per la prima volta di lui in occasione della miracolosa liberazione di Simon Pietro dal carcere. Rientrato in se stesso, l’apostolo « dopo aver riflettuto, si recò in casa di Maria, madre di Giovanni, soprannominato Marco, dove molti erano radunati e stavano pregando » (12,12). In quella casa alcuni hanno voluto ravvisare il Cenacolo. Molti hanno identificato Marco con quel ragazzo che, « avvolto il corpo nudo in un fine indumento di lino », seguiva Gesù nella notte del tradimento. Per sfuggire all’arresto, abbandonò l’indumento in mano agli sgherri appena lo afferrarono (Me. 14, 5ls). Non è improbabile che a Gerusalemme, dove abitava, abbia assistito a qualche discorso o a qualche miracolo operato da Gesù a conferma della sua dottrina. Ippolito romano afferma in Philosophumena (VII, 30, 1) che Marco sarebbe stato « dalle dita monche ». Siccome S. Pietro nella prima lettera che scrisse da Babilonia, cioè Roma, ai cristiani dell’Asia settentrionale chiama « Marco, figlio mio » (5,13), si ritiene che lo abbia battezzato personalmente, dopo la Pentecoste.
L’evangelista debuttò nella vita apostolica sotto gli auspici di suo cugino Barnaba e di Paolo, i quali lo condussero con sé ad Antiochia dopo che ebbero consegnato agli anziani di Gerusalemme la colletta che avevano portato (Atti, XII, 25). Data la sua giovane età, non fu adibito subito nel ministero della predicazione. Egli fu piuttosto responsabile dei servizi logistici, esterni, del loro apostolato. Nel loro primo viaggio missionario lo presero con sé. Attesta S. Luca: « Quando poi furono a Salamina (Cipro) cominciarono a diffondere la parola di Dio nelle sinagoghe dei Giudei e avevano per cooperatore Giovanni » (Atti, 13, 5). Il coraggio di costui però venne ben presto meno di fronte alle persecuzioni degli ebrei e alle estenuanti fatiche del viaggio a piedi. Infatti, « partiti per mare da Pafo, Paolo e compagni giunsero a Perge in Panfilia, ma Giovanni si distaccò da loro e se ne tornò a Gerusalemme » (Ivi, 13,13). Nel 52, al momento del secondo viaggio missionario, Marco era di nuovo ad Antiochia. Barnaba avrebbe desiderato averlo in sua compagnia, « ma Paolo giudicò più conveniente di non riprendere con sé colui che in Panfilia si era separato da loro rifiutandosi di proseguire con essi nell’impresa. Ne derivò tale dissenso, che si separarono l’uno dall’altro: Barnaba prese con sé Marco e s’imbarcò alla volta di Cipro, Paolo, invece, si scelse Sila… e percorse la Siria e la Cilicia consolidando quelle Chiese » (Ivi, 15, 37-41).
A partire da questo momento gli Atti degli Apostoli non ci parlano più di Marco. E’ certo tuttavia che Paolo dimenticò presto i dissensi di Antiochia. Verso il 61 o 62, durante la sua prima prigionia romana, troviamo difatti Marco di nuovo in sua compagnia. Ai Colossesi scrisse in quel tempo l’apostolo: « Vi saluta Aristarco, il mio compagno di prigione, e Marco, il cugino di Barnaba (intorno al quale avete ricevuto ordini; qualora venisse da voi, ricevetelo), e Gesù detto il Giusto, i quali sono della circoncisione; fra questi sono i soli miei collaboratori per il regno di Dio, in quanto mi sono stati di consolazione » (4, 10s). Un anno o due più tardi, Marco attendeva all’evangelizzazione dei romani con S. Pietro. L’apostolo, nella lettera scritta agli abitanti dell’Asia del nord, ai suoi saluti unì anche quelli del « suo figlio, Marco » (1 Pt. 5,13). Questa è una dimostrazione evidente che l’attività di lui in Oriente era stata molteplice e vasta dopo il suo ritorno da Cipro verso il 50. Dovette ritornarvi prima della persecuzione scatenata da Nerone nel 64, dopo l’incendio di Roma. Nel 66, durante la sua seconda prigionia romana, Paolo scrisse difatti a Timoteo, residente ad Efeso: « Affrettati a venire da me al più presto… Solo Luca è con me. Prendi Marco e conducilo con te, perché mi è utile per il ministero » (2 Tim. 4, 9-11).
Antiche tradizioni abbastanza attendibili asseriscono che, negli anni successivi al martirio dei Principi degli Apostoli, S. Marco abbia evangelizzato l’Egitto, vi abbia fondato la chiesa di Alessandria di cui sarebbe stato il primo vescovo. Non ci è noto il tempo e il genere della sua morte. Mercanti veneti nell’828 trafugarono le reliquie dell’evangelista, in onore del quale, l’anno successivo, a Venezia, fu costruita una basilica in seguito ampliata e rivestita di mosaici. Il principe saraceno di Alessandria, per poter costruire un grande palazzo, aveva deciso di abbattere un gruppo di edifici tra i quali si trovava quello che conservava il corpo del santo. Per evitarne la profanazione, il monaco Staurazio e il prete Teodoro, s’accordarono con i mercanti Buono da Malamocchio e Rufino di Torcello i quali deposero i resti di S. Marco in una cesta e li ricoprirono di carni suine per eludere il controllo dei doganieri maomettani.
Tutti gli studiosi ammettono concordi che il secondo vangelo, il più breve di tutti, fu scritto da S. Marco, il quale, come fu l’ausiliare di S, Pietro nella predicazione in Asia e a Roma, così ne fu pure l’interprete e il portavoce autorizzato. Nel suo Vangelo, perciò, non ci ha trasmesso altro che la catechesi del primo papa, tale e quale egli la predicava ai primi cristiani. Difatti Papia, vescovo di Gerapoli all’inizio del II secolo, dice espressamente, riportando le affermazioni di un certo presbitero Giovanni: « Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse esattamente, ma senza ordine quando si ricordò delle cose o pronunziate o operate dal Signore. Egli infatti né udì il Signore, né lo seguì, ma più tardi, come ho detto, seguì Pietro, il Quale faceva le istruzioni secondo le necessità, senza voler fare un coordinamento dei detti del Signore; cosicché Marco non ha colpa se scrisse alcune cose come ricordava. Ad un solo punto fece attenzione, a non tralasciare nulla di quanto aveva udito e a non mentire » (in Eusebio, Hist. Eccl., III, 39, 15).
Marco scrisse il suo Vangelo a Roma, tra il 55 e il 62, in seguito alle istanze di molti cristiani, convertiti dal paganesimo, per dimostrare che Gesù è vero Dio con una vivace descrizione dei miracoli da lui operati.

Sac. Guido Pettinati SSP,

 

Publié dans:Santi Evangelisti |on 25 avril, 2015 |Pas de commentaires »

Gesù Cristo Buon Pastore

Gesù Cristo Buon Pastore dans immagini sacre pastor_bonus

http://sibcatholic.ru/2009/12/21/upodobimsya-pastuxam/

Publié dans:immagini sacre |on 24 avril, 2015 |Pas de commentaires »

VOLTO DI CRISTO, VOLTO DI BUON PASTORE (7° PUNTATA)

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=1108

VOLTO DI CRISTO, VOLTO DI BUON PASTORE (7° PUNTATA)

Facciamo oggetto della nostra gioiosa contemplazione un tratto del volto di Gesù Cristo che tocca molto da vicino chi, in un modo o nell’altro, s’impegna nell’azione di salvezza dispiegata dalla Chiesa: il suo è un volto di Pastore.

Dio Pastore nell’Antico Testamento
Negli scritti veterotestamentari la metafora del pastore adoperata per parlare di Dio risponde ad un’esperienza vissuta da Israele sin dagli inizi della sua storia. I suoi capostipiti, come si sa, furono dei pastori seminomadi che si aggiravano nella cosiddetta “mezzaluna fertile” spostandosi spesso con i loro greggi da una regione all’altra. Essi sapevano bene cosa significasse prendersi cura delle loro pecore, portarle al pascolo e alle acque a cui dissetarsi, difenderle dai pericoli. La loro vita errabonda aveva una delle sue principali ragioni nel bisogno di trovare pasti abbondanti con cui nutrirle.
Si capisce così come gli ebrei abbiano usato con naturalezza la similitudine del pastore per riferirsi al loro Dio, e in particolare per indicare il rapporto reciproco vissuto con Lui. Lo si può vedere in un’infinità di testi di ogni tipo: storici, profetici, sapienziali. Ne spigoliamo solo tre molto significativi, tra i tanti. Due sono salmodici, un terzo profetico.
Il Salmo 94, il grande invitatorio con cui si apriva la preghiera liturgica, esprime in modo molto denso la profonda convinzione del popolo della Bibbia circa la funzione svolta da JHWH nei suoi confronti. Ad un certo punto il salmista esclama: “Noi, tuo popolo e gregge del tuo pascolo, ti renderemo grazie per sempre; di età in età proclameremo la tua lode”. La certezza di essere guidato con amore e perfino con tenerezza come popolo dal suo Dio, traspare da molti altri testi simili (per esempio Sal 78,13; 79,2; 99,3; ecc.). Israele lo sa bene perché ne ha fatto l’esperienza: è Lui che lo ha strappato dalla schiavitù di Egitto e lo ha portato per mano in mezzo alle difficoltà, difendendolo da ogni pericolo. Il profeta Amos descrive con accenti di spiccata tenerezza tale intervento divino: “Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio […]. Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano […]. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare” (Os 11,1-4). È un pastore che ha dei tratti perfino materni. Per tutto questo Israele sente il bisogno di proclamare la sua lode “di età in età”.
Nel Sal 22, conosciuto precisamente come “il Salmo del Pastore”, la prospettiva non è già collettiva, come nel precedente, bensì personale. È il pio israelita che esprime in esso la sua totale fiducia in Colui che veglia costantemente su di lui, difendendolo, guidandolo, nutrendolo. La sua preghiera raggiunge dei livelli poetici notevoli: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome. Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza. Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici; cospargi di olio il mio capo. Il mio calice trabocca”. In poche battute disegna un’immagine meravigliosa del Dio Pastore che accompagna la sua esistenza in questo mondo.
Tra i tanti scritti profetici merita di esserne ricordato uno, di particolare incisività. È quello, appartenente al “libro della consolazione” del profeta Isaia, in cui la metafora fa riferimento ad un’esperienza non raramente vissuta dai pastori in Israele: “Ecco, il Signore Dio viene con potenza, con il braccio egli detiene il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e i suoi trofei lo precedono. Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri” (Is 40,11). La scena a cui accenna il testo è molto più viva di quanto dicano a primo acchito le parole della sua traduzione. Descrive infatti un pastore pieno di sollecitudine e di tenerezza che, mentre va conducendo il suo gregge, si ritrova a dover fermarsi perché una pecora partorisce un agnellino. Con delicata finezza egli prende il neonato e lo colloca sul suo seno, mentre costringe tutto il gregge a muoversi con un passo più lento che permetta alla pecora madre di potersi rifare dalle fatiche del parto. L’immagine, piena di soavità e persino di dolcezza, esprime bene ciò che il Profeta vuole dire sull’atteggiamento di JHWH verso il suo popolo.

Gesù pastore
I vangeli attestano che la metafora del pastore fu usata anche da Gesù stesso.
Vi si trova, anzitutto, la parabola, da lui raccontata per giustificare il suo modo di comportarsi con i peccatori (Lc 15,1), di quel pastore che va in cerca della pecorella smarrita e, trovatala, la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta” (Lc 15,2-6). Un pastore che poi, nella seconda parabola della serie, trova l’equivalente metaforico nella donna che ricerca con instancabile premura la moneta persa, e fa festa con le amiche e le vicine quando la ritrova (Lc 15,8-10) e, nella terza, nel padre premuroso che attende instancabilmente il figlio sbandato, e organizza anche lui una grande festa quando egli ritorna (Lc 15,12-24). Indubbiamente in tutte e tre le parabole è raffigurato Dio, quel Dio buono e sollecito che Gesù rende presente con il suo modo di comportarsi con i peccatori e gli esclusi.
Nel vangelo di Giovanni si ritrova poi il lungo discorso del buon pastore, pronunciato da Gesù dopo la guarigione del cieco dalla nascita e gli ulteriori sviluppi (Gv 10,1-18). La figura del pastore vero, di quello cioè che vive con coerenza la sua identità, è abbozzata facendo leva sul suo netto contrasto con il mercenario, colui “al quale le pecore non appartengono” e a cui “non gli importa delle pecore”. Il pastore vero si prende cura invece della sue pecore, le “chiama una per una”, “cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce”. Ma soprattutto egli, a differenza del mercenario, “offre la vita per le pecore”. Nel momento più alto del discorso, Gesù dichiara con solennità: “Io sono il buon pastore” (Gv 10,14); e con non minore solennità afferma: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10), mettendo così in luce il senso ultimo della sua presenza nel mondo.
La metafora del pastore è utilizzata ancora altre volte da alcuni scritti del Nuovo Testamento per parlare di lui (Eb 13,20; 1Pt 2,25; 5.4; Ap 7,17), confermando così la lunga tradizione della fede ebraico-cristiana.

I tratti di Gesù pastore
Ripercorrendo i vangeli non è difficile individuare i principali tratti che formano l’identikit del pastore che è Gesù.
Anzitutto, egli dimostra di avere un cuore di pastore, ricolmo di una sola preoccupazione: “Che abbiano la vita in abbondanza” (Gv 10,10). È infatti tale preoccupazione quella che, come si è già avuto occasione di rilevare più di una volta, occupa il centro più intimo del suo essere fino a diventare il suo “tesoro”. È il fuoco che gli brucia nel petto e che lo spinge a parlare e ad agire in un determinato modo. Se, come egli stesso ebbe a dire, “l’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore” (Lc 6,45), è indubbiamente dal suo cuore che egli traeva fuori la sua illimitata dedizione a Dio e agli uomini, e tra essi particolarmente ai più deboli e bisognosi.
Il suo cuore, lo si può dire con fondamento, era interamente modellato su quello del Dio Pastore che era già stato abbozzato nell’Antico Testamento, e che egli rivelò in pienezza nel corso della sua vicenda. Non era, quindi, un cuore duro e insensibile, ripiegato su se stesso, né un cuore guidato dalla “simmetria” di una giustizia che ama chi lo ama e aborrisce chi non lo ama, ma viceversa un cuore tenero ed estremamente sensibile, totalmente aperto verso gli altri, e segnato da quella “asimmetria” tipica dell’amore gratuito di alterità. Si potrebbe vederne un simbolo estremamente eloquente nel cuore trafitto, e perciò aperto e in qualche modo svuotato – “uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua” (Gv 19,34) – che egli si trovò ad avere sulla croce. La solennità con cui l’evangelista lo enuncia – “Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera e egli sa che dice il vero” (Gv 19,35) – sembra confermare l’importanza del simbolo.
Dal suo cuore di pastore sgorgano poi il suo sguardo, le sue reazioni, e soprattutto il suo agire di pastore.
Esistono indubbiamente molti tipi di sguardi umani. Ci sono sguardi di curiosità, di malignità, di avidità, di benevolenza, di comprensione, di simpatia… Ognuno di essi coglie nelle persone e nelle cose dei risvolti che gli altri non afferrano. I vangeli accennano più di una volta allo sguardo di Gesù (Mt 19,26; Mc 3,34; 10,23; Lc 19,5; Gv 1,42; ecc.). È uno sguardo molto caratteristico. Lo sguardo di un pastore precisamente. Prendiamo solo in considerazione, a modo di esempio, due testi evangelici che lo mettono in chiara luce.
Il primo è quello che accenna allo sguardo con cui egli guarda le folle: “Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore” (Mt 9,36). Si sa chi componeva queste folle: erano i poveri e semplici che andavano dietro a lui attendendo che Dio, tramite la sua azione, desse soluzione ai molti problemi che rendevano difficile e persino infelice la loro vita (Mt 8,1; 8,18; 9,8.19; 12,23; 13,12; ecc.). Gesù li guarda e “ne sente compassione”. Non è cieco o indifferente alla loro condizione. Fosse stato un aristocratico o uno stoico li avrebbe guardati o con un senso superiorità e perfino di disprezzo, o con distaccata indifferenza; invece, egli si lascia commuovere visceralmente dalla loro situazione. Li vede, appunto, “come pecore senza pastore”, alla mercé di lupi che minacciano la loro vita, e quindi bisognosi di accoglienza, comprensione e aiuto. E a tale visione corrisponde la sua fattiva reazione.
Il secondo testo è quello che rende noto un dettaglio del processo che lo portò alla condanna e alla morte: “Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: ‘Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte’. E, uscito, pianse amaramente” (Lc 22,61-62). Si può intravedere l’intensità di quello sguardo, proveniente da uno che sta andando alla morte, rivolto a uno dei suoi più intimi amici che l’ha appena tradito: non è certamente uno sguardo di condanna, ma di amore comprensivo e accogliente. Gli effetti si vedono subito: Pietro, toccato nel più vivo, si scioglie in lacrime di pentimento.
Oltre a guardare con occhi di pastore, Gesù reagisce anche pastoralmente davanti alle persone e alle situazioni in cui esse si trovano. Emblematica è, da questo punto di vista, la sua maniera di comportarsi nel suo incontro con la vedova di Naim: “Quando fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato al sepolcro un morto, figlio unico di madre vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore ne ebbe compassione e le disse: Non piangere!” (Lc 7,12-13). Questo suo modo di comportarsi è espresso dall’evangelista con lo stesso termine – “si sentì toccato nelle viscere” – con cui reagì alla vista delle folle. Anche qui allo sguardo segue il coinvolgimento intimo, intenso, che lo fa vibrare con lo stesso dolore della persona sofferente. E, quasi come un sospiro, gli esce dal petto l’invito: “Non piangere!”.
Ma il suo sguardo e la sua reazione pastorali non sono meramente emozionali, sboccano anzi in un’azione concreta ed efficace. Nel caso delle folle, egli risponde ai loro bisogni prima spartendo loro il pane della sua parola e poi moltiplicando per loro il pane materiale (Mc 5,34-43); in quello della vedova di Naim, accompagna l’invito rivolto alla madre di non piangere con la restituzione del figlio richiamato alla vita (Lc 7,14-15). Nella stessa linea si potrebbero vedere tanti altri suoi interventi rivolti a restituire salute ai malati e ai posseduti da spiriti cattivi, perdono ai peccatori, amicizia agli esclusi, dignità ai disprezzati…
Ma soprattutto la sua morte è veramente la morte di un pastore che, desideroso della vita e della felicità delle sue pecore, non esita a “dare la vita” per esse (Gv 10,11.15.17).

Articolo tratto da: NOTE DI PASTORALE GIOVANILE. Proposte per la maturazione umana e cristiana dei ragazzi e dei giovani, a cura del Centro Salesiano Pastorale Giovanile – Roma.
(Teologo Borèl) Novembre 2003 – autore: Luis A. Gallo

26 APRILE 2015 | 4A DOMENICA DI PASQUA – ANNO B | OMELIA

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26 APRILE 2015 | 4A DOMENICA DI PASQUA – ANNO B | OMELIA

4A DOMENICA DI PASQUA – 2015

Per cominciare
Nella quarta domenica di Pasqua ogni anno ci viene proposta la figura del buon pastore. Gesù presenta se stesso come modello di amore personale e di dedizione senza misura. In particolare Gesù è modello di ogni apostolo chiamato ad annunciare il vangelo. Per questo oggi la chiesa vuole che si preghi per le vocazioni, specialmente per la vocazione al sacerdozio e alla vita consacrata.

La parola di Dio
Atti 4,8-12. Pietro indica nella persona di Gesù, crocifisso e risorto, la nostra salvezza. Questo dice ai capi del popolo e agli anziani, che gli chiedono come ha potuto risanare uno storpio che era tale fin dalla nascita. È Gesù che lo ha guarito, spiega Pietro, quel Gesù che voi avete scartato e che è invece la pietra angolare della vera religiosità.
1 Giovanni 3,1-2. Siamo figli di Dio, lo siamo realmente, dice l’apostolo Giovanni. Chi non crede fa fatica a riconoscerlo, ma quello che siamo un giorno si manifesterà perfettamente.
Giovanni 10,11-18. In una delle immagini più efficaci del nuovo testamento, Gesù dichiara di essere « il buon pastore ». Un pastore che conosce, ama le sue pecore, le difende fino a dare la vita per esse.

Riflettere…
o L’immagine del buon pastore – come anche di quella del pastore mercenario che non si cura delle sue pecore – era ben nota in Israele. Il profeta Ezechiele ne parla in termini espliciti, dando la voce a Dio: « Guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza. Per colpa del pastore si sono disperse e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate. Vanno errando le mie pecore su tutti i monti e su ogni colle elevato, le mie pecore si disperdono su tutto il territorio del paese e nessuno va in cerca di loro e se ne cura » (34,2-6).
Queste espressioni sono confermate dallo stesso Gesù, che in modo esplicito – proprio nei versetti che precedono il brano di vangelo che viene proposto oggi – denuncia e accusa i falsi pastori d’Israele: « In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati… » (Gv 10,7-9).
o Gesù, quando evangelizza, e in modo speciale quando parla di se stesso, molto spesso ricorre a esempi tratti dalla vita. Dice: « Io sono la porta » (Gv 10,7); « Io sono la vite » (Gv 15,1); « Io sono il pane… » (Gv 6,35); « Io sono la strada… » (Gv 14,6). Al capitolo 10 di Giovanni c’è questo suo lungo intervento, in cui si presenta come « pastore »: « Io sono il buon pastore… », dice Gesù.
o L’aggettivo greco che accompagna il sostantivo pastore è « kalòs » (bello) e significa in questo caso: bravo, accorto, zelante, perfetto, in contrapposizione al pastore mercenario, che non si cura delle pecore e di fronte al pericolo si dà alla fuga, abbandonandole al loro destino. E questo appunto perché « è mercenario e non gl’importa nulla delle pecore » (Gv 10,13).
o Gesù, dichiarandosi buon pastore, rivela se stesso nella propria identità messianica. È lui il messia lungamente atteso. Ezechiele, proprio mentre accusa i cattivi pastori, esorta il suo popolo a mettersi in attesa di questo buon pastore: « Susciterò per loro un pastore che le pascerà… », dice il Signore: « Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore ». E prima ancora: « Ecco, io stesso cercherò le mie pecore… Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia » (Ez 34,11.15-16). Esattamente ciò che Gesù dice di se stesso.
o Gesù afferma poi nel brano evangelico, riferendosi al mistero della sua passione, morte e risurrezione, di essere pronto a dare volentieri la sua vita, ma anche di avere il potere di riprenderla di nuovo: « Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo » (Gv 10,18).
o Dice Gesù di avere un rapporto speciale con le sue pecore, di avere verso di loro un atteggiamento di conoscenza reciproca, intima, amichevole. Non si tratta quindi di animali, perché con loro si può avere solo un rapporto di tipo istintivo e vitale, non razionale.
o Gesù inoltre, uscendo ancora dalla similitudine e riferendosi ai suoi progetti missionari di evangelizzazione universale, afferma di avere un amore che si estende anche ad « altre » pecore, che per ora non fanno ancora parte del suo ovile: « Ascolteranno la mia voce », dice Gesù, « e diventeranno un solo gregge, un solo pastore » (Gv 10,16).
o Nella prima lettura, Pietro proclama, dopo aver ridato la salute allo storpio, che in Gesù buon pastore – che ha dato la sua vita per noi ed è risorto – è riposta tutta la nostra salvezza. Una salvezza che non è qualcosa di materiale, anche se la chiesa lungo i secoli e sin dall’inizio ha fatto esperienza anche di questi fenomeni straordinari che sono i miracoli, ma è l’essere « figli di Dio », come dice Giovanni nella seconda lettura; e il nostro destino è qualcosa di inatteso e di grande perché è lo stesso di Gesù.

Attualizzare
* L’immagine del buon pastore è stata sempre molto popolare nella chiesa, in ogni tempo, sin dalle origini. La chiesa dei primi secoli ha presentato Gesù così, come un giovane pastore che tiene sulle spalle una pecora.
* L’immagine è stata cara sin dall’inizio, perché Gesù, pietra angolare del nuovo edificio spirituale, che è la comunità cristiana nata dalla risurrezione, intendeva proporre questo modello di pastore buono a chi si sarebbe occupato di questo nuovo popolo con compiti di animazione. Lo aveva detto chiaramente nel corso della vita pubblica agli apostoli: « Voi sapete che i governanti delle nazioni dóminano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti » (Mt 20,25-28).
* Nel brano del vangelo Gesù ripete un paio di volte l’espressione le « mie » pecore. Nel caso del pastore, si sa che la frequentazione quotidiana con questi animali miti generava sempre un rapporto intimo con ciascuno di loro. I pastori le chiamavano per nome ed essi venivano riconosciuti dalla voce o da un fischio.
* Gesù si richiama a questo comportamento per indicare il rapporto intimo e personale che vuole avere con ciascuno di noi: egli ci chiama per nome, ci conosce uno per uno, ha cura per ciascuno di noi.
* Quanto al riferimento ai pastori mercenari, la storia è costellata di persone che hanno esercitato il potere con prepotenza, non curandosi dei diritti più elementari delle persone e della giustizia, facendo uso della violenza psicologica e fisica per conservare la propria autorità. È un esame di coscienza che non può non riguardare ancora oggi chiunque abbia un compito di governo nella società e nella chiesa, nella scuola e all’interno della stessa famiglia.
* L’autorità è sempre servizio, è responsabilità di animazione che deve favorire la crescita nella libertà di ogni persona. Una libertà alla quale spesso sono le persone stesse a rinunciare, quando si lasciano condizionare e si mettono al seguito del personaggio di turno, sia esso un politico affermato o un divo affascinante dello spettacolo o dello sport. Pur sapendo che i loro obiettivi sono il successo economico o politico e non sempre la felicità e il benessere delle persone.
* L’autorità di Gesù è invece quella del « buon pastore » del suo gregge. L’espressione a volte lascia qualcuno un po’ perplesso, perché a nessuno fa piacere far parte di un gregge, o identificarsi con una pecora. Ma con questo paragone Gesù intende al contrario proprio sottolineare il rapporto particolare che c’è tra il buon pastore e il suo gregge. Il pastore, dice Gesù, se è un « bel pastore », è zelante, si prende cura delle pecore, dà la vita per affermare i loro diritti, le difende, le conduce su prati rigogliosi e le rende libere.
* Gli apostoli, seppure a fatica, hanno imparato a identificarsi con Gesù buon pastore, soprattutto dopo la risurrezione e la Pentecoste. Essi si sono messi a servizio del gregge, cioè della nuova comunità che stava nascendo, la chiesa. Pietro, Paolo e gli altri non c’è dubbio che sono stati dei veri pastori dediti alla loro missione tra il popolo, pastori umili e zelanti, entusiasti, seminatori di libertà, senza fermarsi di fronte alle difficoltà, nemmeno delle prove più terribili e della stessa morte.
* È questa la funzione di ogni pastore nella comunità, ed è per questo che oggi la chiesa dedica la giornata alla preghiera per le vocazioni sacerdotali e religiose. La funzione del prete nella comunità è quella del buon pastore. « Togliete un prete da una parrocchia e ben presto adoreranno gli animali », pare abbia detto il santo curato d’Ars.
aOgni anno le chiese locali ordinano alcuni nuovi sacerdoti, ma il numero è sempre più insufficiente. Quando un parroco si ritira per motivi di età, difficilmente si trova chi lo possa sostituire. Ci sono oggi parroci impegnati contemporaneamente in due o più parrocchie. Crescono di numero le comunità che non trovano più un sacerdote di riferimento.
* Preghiamo perché ci siano dei giovani che sentano il desiderio di mettersi totalmente nelle mani di Dio, a servizio della chiesa 24 ore su 24. L’evangelizzazione non può facilmente realizzarsi senza questo ricambio degli animatori nella comunità che sono i sacerdoti, i diaconi e le suore. San Giovanni Bosco diceva che due ragazzi su tre avrebbero la stoffa per seguire la vocazione sacerdotale o religiosa.
* Ma, come dicevamo, Gesù buon pastore è modello di ogni persona, di ogni cristiano che si trova in posizione di autorità o svolge un ruolo educativo: genitori, insegnanti, uomini politici. Gesù diventa un modello per tutti, specie delle mamme, che vengono festeggiate ogni anno nella seconda domenica di maggio.
* Si dice spesso che alle spalle di una nuova vocazione c’è sempre una santa mamma, ed è vero, così come di ogni vita riuscita. Anche il clima che si respira in una famiglia, trova nella mamma la sua sorgente. Ricordando che anche mamme si diventa per vocazione, preghiamo oggi anche per loro: siano felici, onorate e amate sempre, anche quando diventano anziane o malate. Una mamma che viveva in una casa di riposo, diceva amaramente: « Ho cinque figli, ma oggi che è la festa della mamma, nemmeno uno di loro si è fatto vivo ».

Pasci le « mie » pecore
« Come Cristo è pastore, non è pastore anche Pietro? Ma certo, anche Pietro è pastore, e anche altri pastori sono tali senza alcun dubbio. Infatti, se non è pastore, come si può dire: « Pasci le mie pecore? ». Pur tuttavia, il vero pastore è colui che pasce le pecore di sua proprietà. Non fu detto perciò a Pietro: « Pasci le tue pecore », ma « le mie ». Quindi Pietro è pastore non per sé, ma nella persona del pastore. Se infatti volesse pascere le pecore come proprie, diventerebbero subito capri quelli del suo pascolo » (sant’Agostino).

Il buon pastore san Massiminliano Kolbe
Nel mese di maggio 1941 padre Massimiliano Kolbe, un francescano polacco, fu arrestato dalle SS e portato nel campo di prigionia di Auschwitz. Immatricolato con il numero 16670. Alla fine del mese di luglio dello stesso anno un uomo del block di Kolbe era riuscito a fuggire dal campo: per rappresaglia i tedeschi selezionarono dieci persone della stessa baracca per farle morire nel bunker della fame. Quando uno dei dieci condannati, Francesco Gajowniczek, scoppiò in lacrime dicendo di avere una famiglia a casa che lo aspettava, Kolbe uscì dalle file dei prigionieri e si offrì di morire al suo posto. In modo del tutto inaspettato, lo scambio venne concesso. Dopo due settimane, passate senza acqua né cibo nel bunker, visto che quattro dei dieci condannati, tra cui Kolbe, erano ancora vivi, furono uccisi il 14 agosto 1941 con una iniezione di acido fenico e il loro corpo venne poi cremato. Una volta, profeticamente, Massimiliano aveva detto: « Vorrei essere come polvere per viaggiare con il vento e raggiungere ogni parte del mondo e predicare la buona novella ».

Si cerca un uomo…
Si cerca per la Chiesa un uomo senza paura del domani, senza paura dell’oggi, senza complessi del passato.
Si cerca per la Chiesa un uomo, che non abbia paura di cambiare, che non cambi per cambiare, che non parli per parlare.
Si cerca per la Chiesa un uomo capace di vivere insieme agli altri, di lavorare insieme, di piangere insieme, di ridere insieme, di amare insieme, di sognare insieme.
Si cerca per la Chiesa un uomo capace di perdere senza sentirsi distrutto, di mettersi in dubbio senza perdere la fede, di portare la pace dove c’è inquietudine e l’inquietudine dove c’è pace.
Si cerca per la Chiesa un uomo che abbia nostalgia di Dio, che abbia nostalgia della Chiesa,
nostalgia della gente, nostalgia della povertà di Gesù, nostalgia dell’obbedienza di Gesù.
Si cerca per la Chiesa un uomo che non confonda la preghiera con le parole dette d’abitudine, la spiritualità col sentimentalismo, la chiamata con l’interesse, il servizio con la sistemazione.
Si cerca per la Chiesa un uomo capace di morire per lei, ma ancora di più capace di vivere per la Chiesa, un uomo capace di diventare ministro di Cristo, profeta di Dio, un uomo che parli con la sua vita.
Si cerca per la Chiesa un uomo (don Primo Mazzolari).

Fonte autorizzata : Umberto DE VANNA:

Mystical supper

Mystical supper dans immagini sacre mystical_supper
https://icdacanadasection.wordpress.com/discover/meeting-jesus/

Publié dans:immagini sacre |on 23 avril, 2015 |Pas de commentaires »

L’ALTRO VOLTO DI GIBRAN

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_roncalli2.htm

LETTERATURA

L’autore di origine libanese non fu solo un noto poeta.
Esce ora un saggio sulla sua produzione pittorica casta e visionaria.

L’ALTRO VOLTO DI GIBRAN

Marco Roncalli

(« Avvenire », 25/8/’07)

La meta è lassù, sul monte, in un vecchio monastero nella roccia trasformato in museo e pronto a svelarsi dopo gli ultimi tornanti, lasciata alle spalle la Gola di Kadisha, dove tra vigne e uliveti riposano per sempre i primi patriarchi maroniti. La meta è un villaggio libanese dai tetti rossi chiamato Bsherri, nel nord del Paese. Adesso però non è traguardo per turisti: poco lontani, da giorni, continuano i combattimenti tra esercito regolare e miliziani del gruppo ultra-radicale palestinese « Fatah al-Islam », asserragliati nei campi profughi, novanta chilometri a nord di Beirut. Negli intervalli tra una guerra e l’altra i « tour operator » più gettonati proponevano in un solo giorno la visita alla Città vecchia di Tripoli – con le sue moschee e « madrasse » – e l’escursione a Bsherri, nella regione dei Cedri cantati dal « Salmo 104″ (oggi un po’ « spelacchiata »). Qui infatti si trova la chiesa rupestre del convento di Mar Sarkis, con la tomba semplicissima del nostro personaggio, e non lontana, la piccola e modesta casa che lo vide nascere. « Alfa » e « omega » della vita di quest’uomo stanno lì, sullo stesso fazzoletto di terra, dove al convento-museo e alla casa natale tocca la custodia dei suoi scritti e dei suoi quadri . Parliamo di un mistico creatore di formule visionarie, e, al contempo, di uno scrittore i cui libri passano di mano in mano, generazione dopo generazione. Già, chi non conosce titoli come « Il profeta » o « Le ali spezzate », « Gesù il figlio dell’uomo » o « Gli dei della terra »? Sì, parliamo di Khalil Gibran, – o meglio di Gubran Halil Gubran – libanese d’origine e statunitense d’adozione, uno capace di armonizzare le influenze più disparate: dal Vangelo a Nietzsche, dal Corano agli artisti rivoluzionari di Parigi e New York, da Dante alle « Upanishad », da Avicenna a Beethoven, dai « Preraffaelliti » a Blake. E capace d’influenzare con questi densi miscugli larga parte della cultura degli Anni ’50 e ’60 che l’ha venerato come un veggente straordinario per la sua visione del mondo. Affidata oltre che ai suoi scritti a tanti dipinti, questi però meno noti (in Italia ne finirono in mostra alcuni nel 1977 quando ci fu la canonizzazione del monaco libanese maronita Charbel). Ad offrirci un saggio del Gibran pittore (che frequentò l’«Académie des Beaux-Arts» di Parigi e le cui tele Auguste Rodin paragonò alle opere visionarie di William Blake) è Francesco Medici, tra i maggiori studiosi italiani di questo autore che più volte ne ha demolito lo stereotipo del «maestro spirituale», descrivendoci invece la sua «normalità», la sua «indole fragile e solitaria», le due anime: orientale e occidentale, spirituale e mondana. Ora ci propone « Venti disegni » (Edizioni « Giuseppe Laterza », 156 pp., 30 euro), riproposta di « Twenty Drawings », l’unico libro d’arte pubblicato in vita dell’Autore, apparso a New York nel 1919. La versione italiana è una sorta di « book in book », fedele all’originale, ma arricchita di nuovi testi. Quello introduttivo di Medici, la prefazione di un altro noto gibranista Edoardo Scognamiglio, frate conventuale minore e docente di teologia dogmatica, la postfazione di Curzia Ferrari, scrittrice e studiosa d’arte. Cuore dell’opera, con i suggestivi acquerelli « gibraniani » realizzati tra il 1916 e il 1919 e raffiguranti figure umane nude venate di spiritualità e senza « eros » (era Gibran a spiegare «Voglio rappresentare la Vita. E la Vita è nuda. La gente deve « reimparare » la castità del nudo»), due rari scritti dell’autore con testo arabo originale a fronte: una canzone (peraltro cantata da Fayrouz, celebre cantante mediorientale) e un racconto giovanile (dagli impressionanti toni « nietzschiani »). Per Medici, inserire Gibran, sia come pittore che come scrittore, nel vortice « new-age », esoterismo, è errato. «Vicino all’Islam e alle grandi religioni d’Oriente – per certi versi anche allo Zarathustra nietzschiano – spiega – , Gibran nacque in una famiglia di fede maronita (cristiana di rito orientale). Sviluppò da adulto un personale credo, da molti definito gibranismo». Un bel « sincretismo », insomma. «Sosteneva che l’uomo più religioso è quello che non pratica alcuna religione e si definiva un praticante della « Religione della Vita »», continua Medici, che aggiunge: «Resta tuttavia Gesù, per Gibran, il sommo « Maestro di Luce », mito ineguagliabile di bellezza spirituale e di indomita fierezza». Già. Solo un mito. Il mito di uno scrittore-pittore libanese, pronto a confidare a un amico che gli chiedeva perchè avesse scritto « Gesù, il Figlio dell’Uomo »: «Sono stanco di sentire la gente parlare di Lui come di una gentile signora con la barba». Un Gesù lontano da quello autentico del cristianesimo? Conclude Medici: «Il suo Gesù è incarnazione dell’Uomo Perfetto (concetto caro ai « sufi », i mistici islamici), colui cioè che ha conseguito lo stato più elevato di prossimità a Dio, e insieme prova certa dell’assoluta presenza di Dio all’uomo».

LA PRESENZA DI DIO NEL SUO POPOLO : «ABITERÒ IN MEZZO A LORO…»

http://www.indaco-torino.net/gens/06_05_04.htm

LA PRESENZA DI DIO NEL SUO POPOLO – PROSPETTIVE DI TEOLOGIA BIBLICA

«ABITERÒ IN MEZZO A LORO…»

L’autore è professore di Antico Testamento e decano della Facoltà di teologia cattolica all’Università di Augsburg. Il presente contributo mette a fuoco come il Primo Testamento parla del “prendere dimora di Dio fra gli uomini”. L’articolo segnala poi le ripercussioni storiche di questa nozione veterotestamentaria sia nel discorso postbiblico-giudaico della “Shekhinah” che negli scritti del Nuovo Testamento sulla presenza di Cristo in mezzo ai suoi.
Era un tempo di crisi. Ciò che per secoli aveva fornito appoggi e orientamenti era venuto meno. Mancavano prospettive. Le grandi speranze erano crollate. E nessuno sapeva in che modo si potesse continuare. Il paese era devastato, occupato dai nemici. Il tempio, il luogo della presenza di Dio, giaceva in macerie. Parte della popolazione era stata deportata, viveva in esilio, lontano dalla propria patria. Era subentrato il caos sulla gente di quel tempo. Sembrava che Dio avesse nascosto il suo volto.

1. L’anelito di Dio: l’uomo vivente
Alcuni teologi, di cui non conosciamo i nomi, posero gli uomini del loro tempo davanti a un’alternativa: o ci fissiamo sul negativo, sul caos, e allora questa confusione insanabile continuerà a condizionare la nostra vita. Oppure diamo un’opportunità a Dio e in questo modo anche in mezzo ai deserti crescono gli spazi della speranza, spazi di vita. Perché – questa è l’esperienza degli autori biblici – Dio desidera abitare presso gli uomini. Dio vuole prendere abitazione, impiantare la sua tenda in mezzo al caos umano1.
Scoprire nel caos il sì di Dio
A quell’epoca – nel tempo del cosiddetto esilio babilonese – fu scritto il primo grande testo della Bibbia, Gn 1, 1-2, 4a. Secondo questo “racconto della creazione” Dio realizza – dal caos invivibile (Gn 1, 2) e con l’azione della sua parola potente e generatrice di vita – uno spazio adatto alla vita. Ad ogni creatura, ad ogni essere vivente viene assegnato il proprio ambiente vitale (Gn 1, 3-31). La creazione dell’uomo e della donna rappresenta un vertice del racconto della creazione (Gn 1, 26-31). Dio decide dentro di sé: «Facciamo l’uomo». Si tratta di una presa di posizione consapevole e ponderata per l’uomo. Dio vuole l’uomo! Indipendentemente da come l’uomo sia arrivato ad essere tale da un punto di vista evoluzionistico, vale per lui: tu sei voluto da Dio. Sulla tua vita c’è un grande SÌ. È il SÌ di Dio – fin dal principio.
Allo stesso tempo l’essere umano fa parte della creazione. Voluto e amato da Dio, l’uomo condivide il suo destino con l’intera creazione. Insieme ad essa egli è rinviato a Dio e dipende da Dio.

L’uomo – immagine di Dio
«Facciamo l’uomo: sia simile a noi, sia la nostra immagine». Nell’antico Oriente, nel mondo dal quale proviene la Bibbia, i governanti erano considerati spesso immagini delle rispettive divinità, come ad esempio i re dell’Assiria e di Babilonia o i faraoni egiziani. Ritenevano inoltre che una parte dello splendore e della gloria divini fossero riversati su di loro. Ciò che attorno a Israele veniva considerato vero solamente per i grandi e potenti vale – secondo la testimonianza biblica – per tutti gli uomini. Ogni essere umano, forte o debole, sano o malato, uomo o donna, piccolo o grande: ogni essere umano reca in sé una dignità regale. Lo splendore della luce divina è sopra di lui. Ogni essere umano è chiamato ad essere portatore e diffusore di tale luce.
Si ricordi pure un’altra tradizione del mondo biblico. Spesso i Re che governavano un grande regno, facevano collocare immagini di sé nelle varie province del loro regno. In questo modo intendevano affermare: in questa immagine – una statua o un bassorilievo – sono presente io. L’immagine rappresentava il sovrano, lo rendeva “presente”.
Applicato all’affermazione che l’uomo è immagine di Dio, ciò significa: nell’essere umano Dio si rende presente ed opera in un modo speciale nella sua creazione. Attraverso di lui Dio vuole essere presente nel mondo. L’uomo è, per così dire, la presenza di Dio nella creazione, il luogo in cui Dio e la creazione possono rendersi presenti in modo particolare l’uno all’altra.

L’immagine tradita
La vocazione ad essere immagine di Dio comprende anche una speciale responsabilità. Per questo motivo l’uomo è incaricato di “dominare” – un’espressione di non facile comprensione, a volte malintesa e abusata. “Dominio” non significa arbitrio e sottomissione né esercizio di potere ad ogni costo o sfruttamento irrispettoso delle risorse disponibili, sia in natura che nell’umanità. Al contrario! “Dominare”, nell’antico Oriente, è un’espressione dalle connotazioni assai positive. Il “dominatore” è al contempo il pastore. Spetta a lui difendere la pace, preservare e dar forma all’ambiente vitale, imporre il diritto e la giustizia, perché sia possibile una vera convivenza. Secondo il racconto biblico della creazione l’uomo non può concepire tale incarico in modo autosufficiente o arbitrario. È un compito che gli è stato affidato da Dio stesso. E perciò deve compierlo anche con responsabilità di fronte a Dio e secondo le sue intenzioni. L’uomo agisce in quanto immagine di Dio, se segue le indicazioni divine, se si orienta secondo la volontà di Dio. La potente ed efficace parola di Dio, che l’ha chiamato in essere, deve anche farsi spazio nella sua vita, rinnovarlo e indicargli il cammino.
Ma com’è in realtà il mondo dell’uomo? La Bibbia accosta al racconto della creazione il racconto del diluvio universale: l’uomo tradisce la sua chiamata ad essere immagine di Dio. Esercita violenza – il contrario di “dominio” – e così scatena il caos, che si esplicita nell’immagine cosmica del diluvio. Questa è, spesso, la realtà dell’uomo. I due grandi racconti della creazione e del diluvio universale non rappresentano un “prima” e un “dopo”; mostrano bensì il mondo, così com’è stato pensato da Dio (l’uomo a sua immagine) e così come viene ripetutamente ridotto dall’uomo (l’immagine tradita). All’immagine “reale” del mondo – il diluvio come esperienza del caos: “Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra” (Gen 6, 5) – viene contrapposta l’immagine ideale del mondo voluto da Dio: «E Dio vide che tutto quel che aveva fatto era davvero molto buono» ovvero «molto bello»2. In questo mondo contraddittorio, che da una parte viene scosso dalla distruzione e dal caos, ma che al contempo è realizzato in modo tale da poter accogliere la presenza trasformatrice e rinnovatrice di Dio, vive Israele, vive la Chiesa.
Ma se la vocazione di ogni uomo è già quella di esprimere la presenza di Dio in questo mondo contraddittorio, per quale fine dunque esiste Israele? E perché è necessaria una Chiesa, la quale, secondo gli scritti neotestamentari, traccia il profilo della propria autocomprensione proprio riagganciandosi ai testi veterotestamentari? Perché la Bibbia parla ancora di un “popolo eletto”, se ogni essere umano nella creazione è chiamato ad essere “presenza di Dio”?

2. La tenda di Dio tra gli uomini
Torniamo al primo racconto biblico. Il settimo giorno Dio riposa – un’affermazione significativa. Il settimo giorno è il giorno del compimento e della pienezza di vita (Gn 2, 1-4a). Il riposo di Dio è segno del compimento. Ma espressamente si parla soltanto del riposo di Dio, non del riposo dell’uomo. Presso Dio e in Dio la creazione è compiuta. Ma come giunge questa pienezza agli esseri umani e nel loro mondo? La descrizione di questo settimo giorno in Gn 2, 1-4a, attraverso l’utilizzo di parole-chiave, si spinge ben al di là del racconto della creazione e rinvia al racconto sinaitico di Es 19-403.
Portatori della luce divina
Dopo gli avvenimenti della liberazione dal potere del faraone (Es 1-15), passando attraverso il deserto (Es 15-18), il popolo di Israele raggiunge il Sinai (Es 19ss). Per sei giorni – come si legge in Es 24, 15ss – il monte è coperto dalla nuvola. Non succede nulla. La nuvola è segno della presenza di Dio. Dio appare come l’indisponibile e l’inavvicinabile. Il settimo giorno invece Mosé sale sul monte ed “entra” nella nuvola. Sperimenta il Dio presente. Lo splendore di Dio si mostra all’intero popolo. Israele può prendere parte al compimento e alla gloria di Dio. Questo settimo giorno è per l’appunto il giorno nel quale, secondo Gn 2, 1-4, il mondo è compiuto in Dio.
«Mosé salì dunque sul monte. La nube coprì la cima del monte e il Signore si manifestò sul Sinai in tutta la sua gloria. Essa appariva agli occhi di tutto il popolo come un fuoco divorante. La nube coprì il monte per sei giorni; al settimo il Signore dal mezzo della nube chiamò Mosé, e Mosè entrò nella nube e salì sulla cima. Egli rimase là quaranta giorni e quaranta notti» (Es 24, 15-18).
Ciò significa che in Israele si manifesta – e così diventa visibile nel mondo – qualcosa della pienezza e dello splendore di Dio. La magnificenza di Dio, il suo sabato deve incendiare Israele «come fuoco che consuma» e attraverso Israele deve raggiungere e toccare il mondo. Nel Nuovo Testamento ciò corrisponde al messaggio del discorso della montagna: «Siete la luce del mondo… Una città costruita sopra una montagna non può rimanere nascosta» (Mt 5, 14-16).
Per quale motivo e per quale fine allora esistono Israele e la Chiesa? In un mondo sperimentato come conflittuale e lacerato, attraverso il popolo eletto da Dio deve diventare “visibile” qualcosa dell’integrale pienezza creata da Dio e che lui intende realizzare. Israele viene scelto, perché Dio vuole rendere visibile nel mondo lo splendore della pienezza. Grazie a questa luce viene sempre di nuovo in rilievo la dignità e la grandezza dell’uomo come immagine di Dio. Per questo motivo a Israele e alla Chiesa spetta in modo speciale il compito di proteggere la dignità riconosciuta da Dio all’essere umano e di metterla sempre di nuovo “in luce”.

Una casa di pietre vive
Cosa avviene sulla montagna? Mosè guarda il Santuario celeste, la dimora di Dio in cielo. Perché vede la dimora celeste? Deve costruire quel Santuario sulla terra.
Es 25, 1.8-9: «Il Signore disse a Mosè: “Gli Israeliti mi consacreranno un luogo particolare, così io abiterò in mezzo a loro. Farete la tenda e gli oggetti di culto uguali al modello che io ti mostrerò”».
Dio desidera abitare sulla terra, così come abita in cielo. Israele stesso deve essere il suo santuario, una casa di pietre vive. Dio vuole essere presente nel suo popolo Israele e attraverso di esso nel mondo. Per questo quindi esiste Israele, il popolo eletto, e per questo esiste anche la Chiesa: affinché Dio abiti in mezzo a loro e gli sia possibile comunicare qualcosa della pienezza che è presso di lui.
La presenza trasformante di Dio
Ci soffermeremo ora sulla tenda sacra, sulla “tenda dell’incontro”, e sulla forza trasformante della presenza divina.
«In quel luogo mi incontrerò con gli israeliti, ed esso sarà consacrato dalla mia presenza gloriosa. La tenda dell’incontro e l’altare saranno consacrati a me. Anche Aronne e i suoi figli saranno consacrati a me per servirmi come sacerdoti. Abiterò in mezzo agli Israeliti e sarò il loro Dio. Riconosceranno che io, il Signore, il loro Dio, li ho fatti uscire dall’Egitto per poter abitare in mezzo a loro. Io, il Signore, sono il loro Dio (Es 29, 43-46).
La presenza di Dio in mezzo al suo popolo non conduce soltanto ad una percezione nuova di Dio da parte di Israele. In questo incontro Israele stesso viene rinnovato e santificato. La presenza di Dio fa vedere a Israele in una luce nuova anche la propria storia e gliela fa capire come un cammino con Dio. Il cammino di Dio con il suo popolo è orientato a questo obiettivo: preparare a Dio una dimora.
La ragione d’essere di Israele risiede quindi in questo: essere, se così si può dire, “contenitore” della presenza di Dio nel mondo. Israele, con tutti i suoi limiti, rende possibile che Dio faccia irradiare il suo splendore nel mondo. La forza trasformante della presenza di Dio diviene così messaggio per il mondo.

Tendere l’orecchio
al ritmo di vita di Dio
Del completamento della creazione (Gn 2, 1-4a) fa parte il completamento del santuario (Es 40, 33). Non soltanto la storia della salvezza di Israele, bensì anche l’intera storia della creazione tende a questo: preparare d Dio una dimora, attraverso Israele. Dove Dio è presente, la realtà della creazione e quella della salvezza si incontrano rinviando l’una all’altra.
«Così Mosè terminò tutti i lavori. Allora la nube coprì la tenda dell’incontro e la presenza gloriosa del Signore riempì l’abitazione. Mosè non poté più entrare nella tenda dell’incontro perché su di essa c’era la nube e la presenza gloriosa del Signore riempiva l’abitazione» (Es 40, 33b-35).
Il grande compito di Israele nel mondo e per il mondo consiste quindi nell’affinare l’attenzione alla realtà divina e nel custodire il santo che gli è affidato. Tale opera di custodia della presenza di Dio non può ovviamente essere realizzata esclusivamente nel giorno del sabato e nella celebrazione sacra. Questo impegno abbraccia tutta la vita, il giorno del sabato e la quotidianità. Anche la vita quotidiana con i suoi ritmi dev’essere intrisa di questa presenza divina. Nelle parole del testo biblico: «A ogni tappa, quando la nube si alzava dall’Abitazione, gli Israeliti levavano l’accampamento. Se però la nube non si alzava, essi non partivano e attendevano che la nube si fosse alzata» (Es 40, 36-37).
Il compito principale di Israele lungo il cammino attraverso il deserto verso la Terra Promessa della pienezza consiste dunque in primo luogo nell’essere attento alla presenza divina. I tempi per riposare e per essere attivi, i tempi per riflettere e per ricominciare sono determinati a partire dalla presenza di Dio. La presenza di Dio forgia il ritmo vitale del popolo di Dio. Questo “ante omnia” di un amore vigilante per la presenza di Dio è costitutivo per il cammino di Israele attraverso i tempi e rimane costitutivo anche per il cammino della Chiesa3.

3. Ebrei e cristiani: testimoniare
insieme il Dio vivente
Che Dio voglia prendere dimora fra gli uomini è illustrato dall’Antico Testamento in molteplici modi. Non soltanto i racconti dei Patriarchi della Genesi o i testi citati sopra del Libro dell’Esodo, anche i Salmi (cf Sl 23; 46) e gli Scritti profetici si occupano di questo argomento. Così ad esempio il profeta Ezechiele, nel suo annuncio di salvezza, traccia immagini che preannunciano una vita futura e non più perdibile nella presenza di Dio: «… Stabilirò il mio santuario in mezzo a loro per sempre. Abiterò con loro: essi saranno il mio popolo, io sarò il loro Dio. Quando avrò messo il mio santuario in mezzo a loro per sempre, allora le nazioni riconosceranno che io sono il Signore e che ho consacrato Israele al mio servizio» (Ez 37, 26-28).
Questo messaggio biblico-veterotestamentario sul “prendere dimora” di Dio nel suo popolo ha avuto un influsso decisivo, nel suo doppio seguito storico, sia sull’ebraismo che sul cristianesimo. Entrambe le religioni sorelle testimoniano, benché in modi diversi, il Dio vivente che in quanto trascendente si prende cura del mondo e non lo lascia in balia degli eventi.

La teologia giudaica postbiblica
della Shekhinah
Nella tradizione ebraica, in epoca post-biblica, il messaggio della dimora di Dio tra gli uomini si ripercuote nell’insegnamento della Shekhinah. Quando i Romani, nel 70 d.C. distrussero il secondo Tempio (luogo della presenza di Dio) e quando il popolo di JHWH fu costretto ad affrontare grosse difficoltà, la teologia della Shekhinah – sorta durante il periodo dell’esilio e dopo l’esilio – venne ulteriormente approfondita nella riflessione rabbinica e venne sviluppata narrativamente in numerosi racconti sotto forma di parabola. Si trattava di dare conforto e motivazione a rimanere fedeli alla comunione con Dio. Questa teologia riflessiva e narrativa serviva ad Israele quale rassicurazione di sé e del proprio cammino con Dio, per vivere saldi nella comunione con Dio specialmente nelle notti della fede5.
Nonostante le differenze evidenti, si rilevano anche forti legami tra la concezione biblica del “dimorare di Dio fra gli uomini”, il discorso postbiblico-ebraico della Shekhinah e il messaggio del Nuovo Testamento sulla presenza del Signore risorto fra i suoi (cf Mt 18, 20; 28, 20).

Il messaggio del Nuovo Testamento
L’idea veterotestamentaria del dimorare di Dio presso il suo popolo ha trovato espressione anche nel Nuovo Testamento. Accanto alle affermazioni fondamentali del Vangelo di Matteo5, ciò diviene manifesto soprattutto attraverso il Vangelo di Giovanni, il cui prologo interpreta l’incarnazione del Logos divino sullo sfondo del messaggio veterotestamentario del dimorare di Dio fra gli uomini: «E il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi» ovvero: «e venne a porre la sua tenda in mezzo a noi» (Gv 1, 14). Nelle parole di Gesù, nelle sue opere e nel suo patire, il Padre stesso è all’opera. A chi corrisponde all’amore di Gesù, vive la sua parola e le rimane fedele, Gesù promette: «… il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23). Il vivere secondo la Parola fa sì che chi segue Gesù diventi tempio vivo, nel quale Dio stesso prende dimora.
Anche Paolo – facendo riferimento a Lv 26, 1 – in 2Cor 6, 16 sottolinea che la comunità dei credenti in Cristo è «Tempio del Dio vivente». La parola di Cristo abita in mezzo alla comunità dei credenti (Col 3, 17). Ciò vale nella stessa misura dei singoli credenti, che si aprono al mistero di Dio nella fede. In loro abita lo spirito di Dio (Rm 8, 9.11; 1Cor 3, 16; 2Tit 1, 14); Cristo stesso abita nel loro cuore (Ef 3, 17).
Il libro dell’Apocalisse infine ci presenta la promessa veterotestamentaria come il traguardo delle vie di Dio: «Ecco l’abitazione di Dio fra gli uomini; essi saranno suo popolo ed egli sarà “Dio con loro”. Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi. La morte non ci sarà più. Non ci sarà più né lutto né pianto né dolore» (Ap 21, 3-4).
Questa immagine di una salvezza non più perdibile in un futuro realizzato da Dio non toglie però la responsabilità di fronte al presente. Al contrario! La salvezza futura deve agire sulla vita presente e modellarla. Essa chiede di cercare e di mettere in atto già fin da qui ed ora vie e forme di vita nelle quali si prepari una dimora al Dio vivente nel quotidiano. E, come afferma un detto ebraico: Dio prende dimora dove lo si fa entrare.
Israele e la Chiesa sono sollecitati a testimoniare insieme, pur in modi diversi, che Dio vuole abitare in questo mondo ed essere presente agli uomini. Così può farsi strada nel mondo una speranza che non inganna e che sostiene.

Franz Sedlmeier
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1) È presumibilmente al tempo dell’esilio in Babilonia, nel 6° sec. prima di Cristo, che nasce la teologia della Shekhinah, quale teologia narrativa che parla dell’abitare di Dio presso il suo Popolo, nonostante il fatto che i fedeli di JHWH nell’esilio sperimentino in maniera drammatica la perdizione e la lontananza da Dio.
2) La parola ebraica “buono” può significare anche “bello” e si riferisce pertanto alla beatitudine che Dio prova al cospetto del suo operato.
3) Questo “ante omnia” muove l’autore della Prima Lettera di Pietro quando chiede alle prime comunità: «Soprattutto conservate tra voi una grande carità» (1Pt 4, 8). Tale sfondo biblico spiega la nota iniziale con cui si aprono gli Statuti generali del Movimento dei focolari e che formula in queste parole la “premessa di ogni altra regola”: «La mutua e continua carità, che rende possibile l’unità e porta la presenza di Gesù nella collettività, è per le persone che fanno parte dell’Opera di Maria la base della loro vita in ogni suo aspetto: è la norma delle norme, la premessa di ogni altra regola».
4) Per la genesi e il significato della teologia della Shekhinah cf tra l’altro Hanspeter Ernst, Die Schehkina in rabbinischen Gleichnissen, Judaica et Christiana 14, Frankfurt 1994.
5) Cf più ampiamente il contributo di Gérard Rossé in questo numero di “Gen’s”, pp. 156-163.

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