IL SAPIENTE E IL DENARO
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IL SAPIENTE E IL DENARO
Sembrano L.
Da un punto di vista economico, l’invenzione del denaro va considerata una pietra miliare. Il libro di Giobbe attesta che questo stadio della civiltà è stato raggiunto molto presto nelle culture bibliche (cf. Gb 42,11).
La realtà economica
Senza denaro, il commercio si riduce al baratto, ossia allo scambio diretto di un bene con un altro, utilizzato nelle comunità primitive e ancora praticato in alcune parti del mondo. In un’economia di baratto, un individuo che possiede qualcosa da commerciare deve trovare qualcuno che la voglia e che abbia qualcosa di accettabile da offrire in cambio. In un’economia monetaria, invece, il proprietario di un bene può venderlo, ricavando del denaro con cui potrà a sua volta acquistare il bene desiderato. Le funzioni della moneta quale mezzo di scambio e misura del valore dei beni facilitano enormemente lo scambio di prodotti e servizi e la specializzazione della produzione.
La Bibbia esprime con la radice ebraica ksf, «bramare, desiderare», e in particolare con il termine kesef, «argento, denaro, salario, proprietà, prezzo d’acquisto» le molteplici funzioni della moneta.
Da un punto di vista sociologico, poi, la ricchezza è uno dei fattori di differenziazione e di stratificazione sociale. In una società, gli individui e i gruppi acquisiscono distinti ruoli e identità a partire da presupposti naturali (come il sesso, l’età, l’etnia, l’ambiente naturale), o sociali (come la religione, la lingua, la professione, la cultura). In virtù di queste differenze, gli attori sociali, siano essi individui o gruppi, acquistano significative differenze di status, di potere, di autorità, e di prestigio sociale a seconda delle attività e delle funzioni svolte, degli obiettivi perseguiti, del potere, dell’autorità, della cultura posseduti. L’accumulo di ricchezza – che da origine al capitale – sfocia nell’opulenza e nella capacità di fare investimenti[1].
L’esperienza della prosperità e dell’abbondanza non è estranea alla Bibbia, che la esprime col sostantivo ‘ošer[2], «ricchezza», cui corrisponde il predicato ‘ašir, «ricco», entrambi associati talora a beni immateriali, come la gloria (Pr 3,16), l’onore, il benessere e l’equità (Pr 8,18), la sapienza (1Re 10,23), la fortuna (Sal 49,7), l’onore (Sal 52,9; 112,3), in contrapposizione con la miseria del povero (Pr 30,8)[3].
La rilevanza semantica dei suddetti termini[4] offre un’idea dell’attenzione prestata al fenomeno della ricchezza nella letteratura sapienziale d’Israele, che – anche in questo campo – esprime realisticamente la contraddittorietà dell’esistenza, con le sue mille sfaccettature, nell’intento di dare all’uomo, per ogni situazione, un orientamento sicuro, senza forzature, traendo la propria autorevolezza dall’esperienza della vita, e facendo appello al buon senso naturale, che è in ogni persona.
I vantaggi dell’agiatezza
Per quanto riguarda la ricchezza, i sapienti d’Israele tracciano l’ideale di un’agiatezza ottenuta attraverso la laboriosità e l’ingegno, di cui è testimone la donna perfetta di Pr 31,10-31. Con le sue eccezionali capacità imprenditoriali, per nulla inferiori a quelle maschili (Pr 11,16), ella si procura da lontano le materie prime, lavora ininterrottamente dall’alba al tramonto, senza trascurare la sorveglianza del personale domestico, né gli investimenti immobiliari (Pr 31,13-18.27).
Per il ricco i beni sono una roccaforte (Pr 10,15; 18,11). Grazie ad essi, al momento opportuno potrà avere salva la vita (Pr 13,8; Sir 18,25). Attratti dai suoi beni, molti gli offriranno la loro amicizia (Pr 19,54). In un’epoca in cui la schiavitù per debiti era ancora una realtà (Lv 25,39; Pr 22,7), non faceva scandalo né l’esistenza della povertà (Pr 22,2), né la superiorità sociale del ricco, né infine il suo potere d’imposizione sui poveri (Pr 22,4). Lo ammette – con una punta d’ironia, ma senz’alcuna inibizione – il Siracide:
Se parla il ricco, tutti tacciono
ed esaltano fino alle nuvole il suo discorso;
se parla il povero, dicono: «Chi è costui?»,
e se inciampa, lo aiutano a cadere! (Sir 13,23).
Altrettanto amara è la constatazione di Qo 9,13-16. Analoghe sono altre affermazioni proverbiali:
Il povero parla con suppliche, il ricco risponde con durezza (Pr 18,23).
L’ira di un uomo cresce in base alla sua ricchezza (Sir 28,10).
Il ricco commette ingiustizia e per di più grida forte (Sir 13,3).
E poi il suo avversario dovrà fare i conti con quel male endemico, che è la corruzione (Sir 8,2b)[5].
Se il giusto Giobbe poteva permettersi di impiegare il suo tempo per «rompere la mascella al perverso» e poteva sedere tra i magistrati «come un re tra i soldati» – come ricorda lui stesso nostalgicamente in Gb 29,17.25 – è perché era tanto ricco da lavarsi i piedi nel latte, e la roccia gli versava ruscelli d’olio (cf. Gb 29,6)! Non dovendo affrontare quotidianamente i problemi della sussistenza, grazie alla sua opulenza, egli faceva parte di quella ristretta aristocrazia che poteva dedicarsi al governo cittadino. La sua opulenza era contemperata dall’impegno per la giustizia.
Nell’ottica sapienziale, che non conosce ancora la rinuncia volontaria ai propri beni per la sequela escatologica del regno di Dio (Mc 10,21), vi è già una dinamica ascensionale, che conduce al riconoscimento del primato della sapienza tra tutti gli altri beni. Pr 14,24 (citato seguendo il testo masoretico) afferma senza mezzi termini che la ricchezza è la «corona dei saggi», in contrapposizione alla stoltezza, che conduce alla miseria, e quindi la ricchezza è intesa come il degno coronamento di una vita spesa con sapienza, con costante impegno, come il frutto della fatica di una vita.
Ma la sapienza è la ricchezza migliore!
Tuttavia, Pr 8,11 – nella collezione più recente del libro – afferma già che la sapienza vale più delle perle, e nessuna cosa preziosa la eguaglia. Dal canto suo, lo pseudo-Salomone testimonia che, insieme con la Sapienza – intesa qui come una figura femminile da ricercare (sulla scia delle personificazioni letterarie di Pr 8-9) – gli sono venuti tutti i beni e che «nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile» (Sap 7,11), poiché dall’amicizia e dall’assiduità del rapporto con lei vengono all’uomo piacere, prudenza, ricchezza e fama (cf. Sap 8,18). Vale quindi la pena d’imboccare la strada della sequela della sapienza, perché saggezza e ricchezza vanno insieme, come attesta la narrazione storica relativa al re Salomone (1Re 10,14-25).
Qohelet, attento osservatore dei rapidi mutamenti in atto nella terra d’Israele all’epoca ellenistica (cf. Qo 4,13-14), è il primo a incrinare la fiducia della tradizione sapienziale nella ricchezza, sulla scorta di una riflessione attestata anche nel Salterio (cf. Sal 49,7; 62,11), e minoritariamente nei Proverbi stessi:
Chi confida nella propria ricchezza, cadrà (Pr 11,28a).
Chiedendosi perché mai l’uomo debba affaticarsi per tutta la vita ad accumulare, se non ha neppure un erede (Qo 4,8), anch’egli si cela sotto le sembianze di un Salomone non più giovane, per condannare l’amore insaziabile per il denaro (Qo 5,9) e far notare, nell’ottica di una contestazione radicale dei limiti dell’esistenza, che neppure la sapienza può costituire una salvaguardia definitiva per i propri beni (cibo e ricchezze) contro le insidie degli avvenimenti (Qo 9,11).
Agli antipodi di Qohelet per la sua indiscussa fedeltà alle tradizioni dei padri, la sapienza di «Gesù ben Sira» giunge alle stesse conclusioni, quando riconosce che all’uomo è sottratto il controllo dei propri beni, perché tutto proviene dal Signore, anche povertà e ricchezza (Sir 11,14). Non vale la pena di trascorrere notti insonni pensando a come accumulare (Sir 31,1), né accumulare a forza di privazioni per degli estranei, che faranno festa con i tuoi beni (Sir 14,4). Non ha bisogno di commento questo apoftegma del Siracide, che ha ispirato la parabola evangelica del ricco stolto (Lc 12,16-21):
C’è chi è ricco a forza di attenzione e di risparmio;
ed ecco la parte della sua ricompensa.
Mentre pensa: «Ho trovato riposo; ora mi godrò i miei beni»,
non sa quanto tempo ancora trascorrerà;
lascerà tutto ad altri e morirà (Sir 11,18-19).
Il godimento delle ricchezze non è definitivo. E il danaro è fonte di preoccupazione (Qo 5,11b; Sir 31,1). Il loro possesso non è stabile, ma variabile come il tempo, che dal mattino alla sera cambia (Sir 18,26; 11,21). Salute fisica e gioia del cuore già valgono più di tutto l’oro (Sir 30,15-16.23-25), ma, tra tutti i beni, il più desiderabile è la sapienza. Con essa, infatti, più che col danaro, viene all’uomo ogni altro bene. Ella stessa invita a saziarsi dei suoi beni (Pr 9,1-6; Sir 24,17-20). Benché sia prematuro parlare di una scelta volontaria della povertà, la sequela della sapienza costituisce sicuramente già una premessa importante della sequela per il regno.
Pietà e onestà
La ricchezza è considerata, nell’ottica della benedizione, quale ricompensa del proprio comportamento giusto e onesto; essa è buona, purché sia senza peccato (Sir 13,24). La proverbiale ricchezza di Giobbe (Gb 1,2-3) non è disgiunta dalla sua pietà, contrariamente alle insinuazioni del satana (Gb 1,8-11), che paradossalmente gli frutteranno ancor più, dopo il superamento della prova:
Dio ristabilì Giobbe nello stato di prima … accrebbe anzi del doppio quanto Giobbe aveva posseduto… Il Signore benedisse la nuova condizione di Giobbe più della prima ed egli possedette quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine (Gb 42,10.12).
La cornice narrativa di Giobbe fornisce un quadro ideale di comprensione per il detto di Pr 11,28b: il sapiente di Uz non ha mai confidato nelle sue ricchezze; per questo anche nella vecchiaia, è posto dal Signore tra quei giusti «verdeggianti come foglie». L’esemplarità del Giobbe in prosa (Gb 1-2; 42,7-17) consiste nella sua attenzione alla giustizia, che gli consente di scampare al tranello postogli dal satana e così «sfuggire alla morte», non con la sua ricchezza, ma per mezzo della sua pietà (cf. Pr 11,4), perché la ricchezza, l’onore e la vita, come il timore di Dio, doni che Giobbe possiede tutti (Gb 1,8; 2,3), sono «frutti dell’umiltà» (Pr 22,4).
Quando ormai è troppo tardi per tornare indietro, perché il giudizio incombe su di loro, dopo una vita spesa a tramare il male e la perdizione a danno del giusto, anche gli empi di Sap 5,5-11 riconoscono la sterilità del connubio tra ricchezza e disonestà, che li ha fuorviati, impedendo loro di gustare la luce della giustizia.
Eppure l’attrattiva dell’arricchimento facile e, in apparenza, senza troppi rischi, doveva esercitare un impatto molto forte sui giovani, se il maestro di Pr 1 dedica a questo tema il primo dei suoi insegnamenti, facendo sentire ai suoi allievi la voce stessa di quei delinquenti, che non temono di paragonarsi, per la loro ingordigia, alle fauci della sheol:
Vieni con noi, complottiamo per spargere sangue … inghiottiamoli vivi come gli inferi…,troveremo ogni specie di beni preziosi, riempiremo di bottino le nostre case… (Pr 1,11-13)
Ma poi mostra ai discepoli la squallida fine degli empi stolti, vittime di quella violenza, e di quella cupidigia, alle quali troppo in fretta si erano assuefatti (Pr 1,18-19). Così spavento e violenza fanno svanire la ricchezza (Sir 21,4).
Generosità
C’è chi largheggia e vede aumentare la sua ricchezza,
chi risparmia oltre misura e finisce nella miseria (Pr 11,24).
L’avarizia è la negazione della funzione economica del denaro, che viene accumulato per se stesso, e non risparmiato in vista di futuri bisogni. Una volta che esso è entrato in cassa, non ne esce più. Perciò, a ragione il Siracide si domanda:
Ma a che servono gli averi a un avaro? (Sir 14,3).
La cupidigia conduce quasi sempre all’arricchimento ingiusto, allo sfruttamento del prossimo, al guadagno disonesto. Messo alla prova, quasi nessuno è stato in grado di resistere alla tentazione dell’oro. Il danaro ha una forza d’attrazione paragonabile a quella che Qo 7,26 attribuisce ai lacci della donna, in cui il peccatore resta preso.
Come attesta categoricamente Sir 31,5-11: l’accaparramento è condannato dai sapienti d’Israele e, come nei profeti – si pensi alle violente invettive di Amos –, attira su chi se ne rende colpevole la punizione divina. Purtroppo, esso è frequente, e a pagarne le conseguenze è il giusto povero (Pr 28,15; Sap 2,10). Il dissenso tra ricchi e poveri è paragonato alla relazione tra il lupo e l’agnello, la iena e il cane, tra una caldaia metallica e una pentola di coccio, e lo sfruttamento dei poveri da parte dei ricchi agli attacchi mossi dai leoni agli onagri del deserto (Sir 13,2.17-19).
A confronto col modello di Pr 23,1-3.6-8, che si sofferma prevalentemente sull’esperienza conviviale, si deve supporre che il conferenziere «Gesù ben Sira», abituale frequentatore delle case dei potenti, sia stato talora oggetto dell’arroganza e dello scherno dei nuovi arricchiti, a giudicare dai toni così veementi e sarcastici, con i quali sfoga l’umiliazione dello sfruttamento da parte dei ricchi (Sir 13,4-7; 29,22-24). Gli fa eco, in qualche modo, Qohelet:
Tutta la fatica dell’uomo è per la bocca
e la sua brama non è mai sazia.
Quale vantaggio ha il saggio sullo stolto?
Quale il vantaggio del povero
che sa comportarsi bene di fronte ai viventi? (Qo 6,7-8).
Povertà e pigrizia
Come in epoca biblica, ancora oggi sopravvive il pregiudizio che l’indigenza sia sempre frutto di pigrizia, scarsa diligenza (Pr 12,27; 13,4; 19,24), o superficialità (Pr 26,16) e si prova fastidio quando ci s’imbatte in certi poveri, ad esempio, gli zingari, che inculcano nei bambini la mendicità (Pr 21,25; Sir 13,20), o i tossicodipendenti, che chiedono soldi per bucarsi. Certamente il sapiente condanna la povertà quando è frutto di pigrizia (Pr 6,6-11; 24,30-34; Sir 10,27; 11,11-13.17). Anzi, egli cerca d’inculcare nei suoi allievi l’orrore per la pigrizia (Pr 20,13; Sir 22,1-2; 37,11)[6].
Ma non sempre la povertà è conseguenza della pigrizia. Talora è frutto di una politica dissennata (Qo 5,7). Altre volte non si tratta di soccorrere i poveri nelle necessità pratiche, ma di rendere loro giustizia (Pr 31,9). E non è sempre possibile sapere in anticipo quali siano le cause del disagio, per potersi regolare. Perciò il ricco ha il dovere di soccorrere il povero, come faceva Giobbe quand’era in auge e in buona salute (Gb 29,12; 31,16.19), o come si comporta la donna perfetta, che apre il palmo della sua mano all’indigente (Pr 31,20). Così facendo, i ricchi ottengono benedizione dal Signore – che li colma di abbondanza (Pr 19,17; 22,9; 28,27; Sir 7,32) – ma anche da coloro che soccorrono, i quali ne celebrano le lodi, accrescendone la fama e la popolarità (Pr 31,20.31; Sir 31,10).
È ancora il Siracide che, a più riprese, raccomanda la delicatezza nel modo di donare, e l’affabilità, per non offendere la sensibilità del povero (Sir 4,1.4.8; 18,16-17; 29,9). Chi opprime il povero, offende il suo Creatore (Pr 14,31; 17,5), perché Dio è dalla sua parte (Sir 21,5). yhwh, che è imparziale, presta ascolto alla preghiera dell’oppresso (Sir 35,13). Ma l’esortazione a praticare la carità risponde anche a una preoccupazione pratica: poiché l’indifferenza sociale verso i poveri è contagiosa, chi è insensibile al grido del povero, quando si troverà nel bisogno, non otterrà risposta (cf. Pr 21,13). Né dagli uomini, né da Dio, come attesta la voce di Abramo:
Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi (Lc 16,25-26).
Lucio Sembrano
[1]T. Hembrom, «Economic Policy in the Wisdom Literature of the Old Testament», in Bible Bhashyam 22 (1996) 231-237, analizza il tema della ricchezza nei libri sapienziali. L’autore ritiene che vi sia una sostanziale coincidenza tra la mentalità contemporanea e quella dell’epoca biblica quanto alla visione dell’individualismo e del capitalismo, anche se manca nei sapienziali una concettualizzazione moderna della «politica economica».
[2] Da non confondere con «’šr – felice», scritto con aleph iniziale, con cui ha un’assonanza.
[3] Per un ampliamento della ricerca, cf. S.A. Panimolle, «Povertà», in Nuovo dizionario di teologia biblica, Paoline, Cinisello B. 1988,1202-1216; V. Liberti (ed.), Ricchezza e povertà nella Bibbia, Studio Teologico Aquilano, Ed. Dehoniane, Roma 1991; L. Mazzinghi, «I saggi e l’uso della ricchezza: il libro dei Proverbi», in Parola, Spirito e Vita 42 (2000) 83-96.
[4] La ricerca statistica lessicale è stata effettuata per mezzo di una concordanza elettronica della Bibbia ebraica. Non essendo questa disponibile per il libro del Siracide, mi sono avvalso dello studio (in ebraico moderno) di Z. Ben-Hayyim, The Book of Ben Sira. Text, Concordance and an Analysis of the Vocabulary, The Academy of the Hebrew Language and the Shrine of the Book, Jerusalem 1973; cf. pure T. Donald, «The semantic field “Rich and Poor” in Hebrew and Accadian Literature», in Oriente Antico 3(1964) 27-41.
[5] Per un approfondimento sul dovere della solidarietà, cf. J. Corley, «Social Responsibility in Proverbs and Ben Sira», in Scripture Bulletin 30 (2000) 2-14.
[6] B.J. Wright III, «The Discourses of Riches and Poverty in the Book of Ben Sira», in Society of Biblical Literature Special Papers I-II, Scholars, Atlanta 1998, 559-578. Siracide è attento alla vita reale di Gerusalemme nel III-II sec. a.C.

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