Archive pour mars, 2015

L’ANZIANO NELLA BIBBIA

http://www.unionecatechisti.it/Catechesi/Esper/PPast/Anziani/Anz06.htm

L’ANZIANO NELLA BIBBIA

( A cura di Mons. Lino Baracco e don Alberto Chiadò )

Per la Bibbia, la vecchiaia e la morte compaiono sulla scena dell’umanità con il primo uomo.
Afferma la Genesi che « l’intera vita di Adamo fu di novecentotrenta anni, poi morì » ( Gen 5,5 ).
La storia di Dio con il suo popolo è inaugurata proprio da una coppia di persone anziane: Sara la sterile e Abramo carico di anni non si aspetta nulla dall’avvenire ( Gen 11,29s ).
In tutta la S. Scrittura l’anzianità merita grande rispetto: nel libro del profeta Daniele, Dio stesso è chiamato il « Vegliardo » ( Dn 7,9-22 ).
Il termine ebraico che definisce la persona anziana e che all’origine indica « colui che porta la barba », fa riferimento sia al vecchio che all’anziano, con una concezione e un ruolo diversificati.
I vecchi hanno visto i loro anni moltiplicarsi, sono riconoscibili dai capelli bianchi o grigi e meritano onore ( Lv 19,32; Pr 20,29 ).
Gli anziani svolgono un ruolo fondamentale nella società israelitica e devono prendere decisioni importanti nella vita politica e sociale; il Deuteronomio attribuisce loro una funzione giuridica di primo piano ( Dt 19 ).
Però non tutti gli « anziani » sono « vecchi », anche se più che quarantenni e viceversa la nozione di anzianità, anzi della vecchiaia, oscilla tra i cinquanta e i settant’anni: Le donne anziane forse erano più numerose.
I mezzi di sussistenza delle persone da 60 anni in poi dovevano essere molto scarsi.
Vediamo ora alcune immagini emblematiche dell’anzianità nell’Antico Testamento, da cui emerge che la vecchiaia è dono di Dio, non idealizzando un’età carica di acciacchi e affanni, e considerando che l’anzianità riserva molte sorprese in bene e in male.
Infine ricorderemo i compiti sociali e i carismi propri dell’età anziana.

1. La vecchiaia come dono di Dio
Per vivere in modo positivo la vecchiaia, si deve innanzi tutto accettare il fatto che si è vecchi.
Tuttavia occorre avere coscienza che essa è spesso carica di problemi, paure, sofferenze – non ultima la prossimità della morte.
La vecchiaia è corona del giusto ( Pr 10,27 ).
« I giusti nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno vegeti e rigogliosi » ( Sal 92,15 ), come Abramo e gli altri patriarchi amici di Dio.
Il giusto muore « sazio di giorni » ( Gen 25,8 ) cosciente che la sua vita è stata piena ( Sir 44,14-15 ).
Un esempio è Tobia morto a 112 anni: Aveva 62 anni quando divenne cieco: dopo la sua guarigione visse nella felicità, praticò l’elemosina e continuò sempre a benedire Dio e a celebrare la sua grandezza ( Tb 14,2 ).
La stessa morte è vissuta nella benedizione riconoscente, attorniata dai figli e nipoti a cui si dà esempio anche nel morire ( vedi Giacobbe, Gen 49 ).
La morte è vissuta anche come sereno martirio, piuttosto che accettare l’idolatria, lasciando così nobile esempio ai giovani ( vedi Eleazaro in 2 Mac 6,23-28: « …preferendo una morte gloriosa a una vita ignominiosa »).
Quell’incamminarsi deciso verso la morte dà la misura della statura morale dell’anziano, un esempio per i giovani che cercano modelli che incarnino i valori e le convinzioni, prima ancora di proclamarli.

2. Il disincanto
Sembra essere la prima, insostituibile medicina contro ogni precoce invecchiamento.
Il vecchio Giacobbe dichiara al Faraone; « Gli anni del mio pellegrinaggio sono 130.
Pochi e infelici sono stati gli anni della mia vita, e non hanno raggiunto il numero degli anni dei miei padri, al tempo della loro vita nomade. » ( Gen 47,8-9 ).
Il Sal 32,3-4 descrive con realismo il decadimento biologico: « Sono diventato arido come un coccio, si sono consumate le mie ossa, svanito il mio vigore come da arsura estiva ».
Il libro di Giobbe, pone un problema teologico: si domanda se Dio sia giusto, dal momento che molti malvagi vivono una vecchiaia sana e felice, e invece molti giusti si trascinano in una vecchiaia squallida e triste oppure sono colti nel pieno vigore da una morte immatura.
Il volto veramente oscuro della vecchiaia emerge da una cupa e suggestiva rappresentazione metaforica che ne dà il Qo 12,1-8 (Qohelet significa « il predicatore »).
« Ricordati del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza, prima che vengano i giorni tristi e giungano gli anni di cui dovrai dire:
« Non ci provo alcun gusto », prima che si oscuri il sole, la luce, la luna e le stelle (facoltà celebrali) e ritornino le nubi dopo la pioggia;
quando tremeranno i custodi della casa (le braccia) e si curveranno i gagliardi (le gambe) e cesseranno di lavorare le donne che macinano, perché rimaste in poche (i denti) e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre (gli occhi) e si chiuderanno le porte sulla strada (le orecchie);
quando si abbasserà il rumore della mola (la voce) e si attenuerà il cinguettio degli uccelli (sonno leggero) e si affievoliranno tutti i toni del canto (la sordità);
quando si avrà paura delle alture (difficoltà a salire) e degli spauracchi della strada (la difficoltà a camminare);
quando fiorirà il mandorlo (la canizie) e la locusta si trascinerà a stento (il corpo diventa pesante) e il cappero non avrà più effetto (perdita di capacità sessuale).
L’uomo se ne va nella dimora eterna e i piagnoni si aggirano per la strada; prima che si rompa il cordone d’argento e la lucerna d’oro si infranga e si rompa l’anfora alla fonte e la carrucola cada nel pozzo e ritorni la polvere alla terra, come era prima, e lo spirito torni a Dio che lo ha dato.
Vanità delle vanità, dice Qohelet e tutto è vanità ».
Anche i salmi sovente esprimono, in ambito sapienziale, i profondi interrogativi di una vita chiamata all’esistenza e alla gioia da un Dio che poi permette il disfacimento totale della sua creatura.
« Ripenso ai giorni passati, ricordo gli anni lontani…
È forse cessato per sempre il suo amore, è finita la sua promessa per sempre?
Può Dio aver dimenticato la misericordia, aver chiuso nell’ira il suo cuore ? » ( Sal 77 ).
Gli increduli provocano: « Dov’è il tuo Dio ? » ( Sal 42,4 ); oppure il lamento esce dal profondo del cuore: « Perché mi hai abbandonato? » ( Sal 22,2 ).
L’esegesi contemporanea risalta un’interpretazione del messaggio di Qohelet che mette in luce l’eloquenza del silenzio della parola di Dio: Dio parla anche quando tace.

La brevità della vita.
Ma il disincanto degli anziani di fronte ai più tristi eventi della vita nella Bibbia deve sgorgare da una riflessione matura come quella del Sal 90 che è una meditazione sulla brevità della esistenza umana, indebolita dalle sventure e minacciata dalla morte:
« Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua ira, finiamo i nostri anni come un soffio.
Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica e dolore; passano presto e noi ci dileguiamo ». ( Sal 90 )
Tra le considerazioni da farsi, viene spontaneo pensare ai lunghi tratti di tempo che le persone anziane hanno a loro disposizione e che spesso non sanno come utilizzare.
Solo chi ha imparato a ritagliarsi spazi adeguati alla solitudine e per il silenzio non proverà tedio, se gli capiterà di passare ore e ore da solo. Il rimedio, secondo la Bibbia, è la meditazione, letture distensive e istruttive, audizione di musica, dialoghi e visita a persone amiche; viaggi e pellegrinaggi per aggiornarsi culturalmente e per dilatare gli spazi della carità.
Il rimedio infine, può essere la preghiera che concentra le energie e le fa convergere verso Dio, rasserena l’animo, lo innalza verso l’alto, lo apre verso i fratelli.

Bibbia è il manuale della preghiera per eccellenza!
3. Le sorprese
La vecchiaia può essere anche l’età delle sorprese: Dio ama rivelarsi in modo sempre nuovo e imprevedibile; talvolta sceglie proprio persone anziane, per farci capire che dinanzi a Lui tutte le stagioni della vita umana sono significative e preziose.
a) A non poche persone anziane – donne e uomini – Dio ha voluto donare un figlio.
Tra tutte le coppie di cui parla la Bibbia ricordiamo Abramo e Sara ( Gen 15 ), Zaccaria e Anna ( Lc 1 ).
Solo Dio può procurare tale gioia a una persona anziana, perché il servizio alla vita è possibile a ogni stagione dell’esistenza.
b) Agli occhi di Dio, le stagioni della vita umana, pur distinguendosi, non si contrappongono, né si annullano.
In un passo della Sap 4,7-16 il saggio identifica la longevità con la maturità spirituale: « il giusto, anche se muore prematuramente, troverà riposo.
Vecchiaia veneranda non è la longevità, ma sta nella sapienza ».
Nella Bibbia ebraica la vita è inseparabile dalla « qualità della vita »: la vita è e resta dono di Dio, benedizione di Dio, che non annulla le perdite, ma arricchisce e fornisce la possibilità di crescere spiritualmente.
c) Purtroppo gli anziani talvolta diventano l’emblema della malvagità, della dissolutezza, dell’empietà.
Questo compare nella storia di Susanna ( Dn 13 ) e nella vicenda della donna adultera, nel Nuovo Testamento ( Gv 8,1-11 ).
Figure squallide di anziani che rattristano l’animo, sono pure i cosiddetti « amici » di Giobbe che si alternano nell’accusarlo.

4. Il carisma
Quale apporto possono e devono dare alla comunità sia civile che religiosa gli anziani, tenendo conto anche del ricco contributo che ci proviene dalla Bibbia.
a) Anzitutto « rileggere » la propria vita con quel supplemento di saggezza che essi hanno acquisito col volgere degli anni.
Vedi il Sal 73: il giusto capisce che, nonostante le sue sofferenze o difficoltà, ha una sorte migliore dell’empio che in terra ha goduto di tanta prosperità.
Questa posizione di particolare dignità comporta per tutti l’obbligo di rendere onore all’anziano e alla sua sapienza: « Alzati davanti a chi ha i capelli bianchi, onora la persona dell’anziano e temi il tuo Dio. Io sono il Signore ». ( Lv 19,92 )
L’apostolo Paolo prescrive a Timoteo: « Non riprendere duramente un uomo anziano, ma esortalo come fosse tuo padre; i più giovani come fratelli; le donne anziane come madri e le più giovani come sorelle, in tutta purezza » ( 1 Tm 5,1-2 )
L’onore da rendere all’anziano è strettamente connesso al quarto comandamento: « Onora tuo padre e tua madre ».

b) Poi il prezioso servizio di « consigliare ».
Si legge in Sir 25: « Come si addice la sapienza dei vecchi, il discernimento e il consiglio alle persone eminenti ».
L’anziano ha anche l’importante ruolo di trasmettere la Rivelazione di Dio alle giovani generazioni; egli è la tradizione vivente della storia sacra.
Nell’Esodo, il più giovane della famiglia deve alzarsi e chiedere al più anziano la memoria dell’evento costitutivo del popolo ebraico, la Pasqua ( Es 12 ).
Anche il Sal 44,2: « O Dio, noi udimmo con le nostre orecchie i nostri padri ci hanno raccontato l’opera da Te compiuta nei loro giorni ». Vedi anche Sal 92.
Possiamo dedurre dai testi esaminati quanto sia importante nella Bibbia il rapporto tra anziani e le giovani generazioni, a diversi livelli, ma con prospettive sostanzialmente identiche.
A livello genetico la continuità della vita dell’anziano nel giovane assicura il futuro, la sopravvivenza personale del padre nel figlio e la perpetuità della famiglia.
Noi occidentali usiamo il cognome, cioè il nome della famiglia, della razza, dell’etnia…, gli orientali indicano il riferimento immediato al proprio genitore: Isacco figlio di Abramo.
A livello carismatico la benedizione di Dio per sé e per gli altri, di cui è portatore il padre anziano, passando nel figlio, permette alla storia di Dio con il popolo eletto di essere storia di salvezza per tutta l’umanità.
A livello etico l’anziano che si propone come modello al giovane, assicura la continuità dell’identità più profonda di un popolo, quella culturale, religiosa e morale.
Questo se la generazione nuova ha dei punti di riferimento etici nelle generazioni che la precedono.
c) Agli anziani compete anche un certo modo di pregare, trasformando i loro anni in un cantico di lode e di ringraziamento a Dio, datore di ogni bene e sorgente di ogni dono.

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PAPA FRANCESCO – LA FAMIGLIA – 6. I NONNI (I)

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2015/documents/papa-francesco_20150304_udienza-generale.html

(Papa Francesco nella catechesi di ieri cita una visita di Papa Benedetto ad una comunità di anziani, metto il link: 
http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2012/november/documents/hf_ben-xvi_spe_20121112_viva-anziani.html )

PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 4 marzo 2015

LA FAMIGLIA – 6. I NONNI (I)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno.

La catechesi di oggi e quella di mercoledì prossimo sono dedicate agli anziani, che, nell’ambito della famiglia, sono i nonni, gli zii. Oggi riflettiamo sulla problematica condizione attuale degli anziani, e la prossima volta, cioè il prossimo mercoledì, più in positivo, sulla vocazione contenuta in questa età della vita.
Grazie ai progressi della medicina la vita si è allungata: ma la società non si è “allargata” alla vita! Il numero degli anziani si è moltiplicato, ma le nostre società non si sono organizzate abbastanza per fare posto a loro, con giusto rispetto e concreta considerazione per la loro fragilità e la loro dignità. Finché siamo giovani, siamo indotti a ignorare la vecchiaia, come se fosse una malattia da tenere lontana; quando poi diventiamo anziani, specialmente se siamo poveri, se siamo malati soli, sperimentiamo le lacune di una società programmata sull’efficienza, che conseguentemente ignora gli anziani. E gli anziani sono una ricchezza, non si possono ignorare.
Benedetto XVI, visitando una casa per anziani, usò parole chiare e profetiche, diceva così: «La qualità di una società, vorrei dire di una civiltà, si giudica anche da come gli anziani sono trattati e dal posto loro riservato nel vivere comune» (12 novembre 2012). E’ vero, l’attenzione agli anziani fa la differenza di una civiltà. In una civiltà c’è attenzione all’anziano? C’è posto per l’anziano? Questa civiltà andrà avanti se saprà rispettare la saggezza, la sapienza degli anziani. In una civiltà in cui non c’è posto per gli anziani o sono scartati perché creano problemi, questa società porta con sé il virus della morte.
In Occidente, gli studiosi presentano il secolo attuale come il secolo dell’invecchiamento: i figli diminuiscono, i vecchi aumentano. Questo sbilanciamento ci interpella, anzi, è una grande sfida per la società contemporanea. Eppure una cultura del profitto insiste nel far apparire i vecchi come un peso, una “zavorra”. Non solo non producono, pensa questa cultura, ma sono un onere: insomma, qual è il risultato di pensare così? Vanno scartati. E’ brutto vedere gli anziani scartati, è una cosa brutta, è peccato! Non si osa dirlo apertamente, ma lo si fa! C’è qualcosa di vile in questa assuefazione alla cultura dello scarto. Ma noi siamo abituati a scartare gente. Vogliamo rimuovere la nostra accresciuta paura della debolezza e della vulnerabilità; ma così facendo aumentiamo negli anziani l’angoscia di essere mal sopportati e abbandonati.
Già nel mio ministero a Buenos Aires ho toccato con mano questa realtà con i suoi problemi: «Gli anziani sono abbandonati, e non solo nella precarietà materiale. Sono abbandonati nella egoistica incapacità di accettare i loro limiti che riflettono i nostri limiti, nelle numerose difficoltà che oggi debbono superare per sopravvivere in una civiltà che non permette loro di partecipare, di dire la propria, né di essere referenti secondo il modello consumistico del “soltanto i giovani possono essere utili e possono godere”. Questi anziani dovrebbero invece essere, per tutta la società, la riserva sapienziale del nostro popolo. Gli anziani sono la riserva sapienziale del nostro popolo! Con quanta facilità si mette a dormire la coscienza quando non c’è amore!» (Solo l’amore ci può salvare, Città del Vaticano 2013, p. 83). E così succede. Io ricordo, quando visitavo le case di riposo, parlavo con ognuno e tante volte ho sentito questo: “Come sta lei? E i suoi figli? – Bene, bene – Quanti ne ha? – Tanti. – E vengono a visitarla? – Sì, sì, sempre, sì, vengono. – Quando sono venuti l’ultima volta?”. Ricordo un’anziana che mi diceva: “Mah, per Natale”. Eravamo in agosto! Otto mesi senza essere visitati dai figli, otto mesi abbandonata! Questo si chiama peccato mortale, capito? Una volta da bambino, la nonna ci raccontava una storia di un nonno anziano che nel mangiare si sporcava perché non poteva portare bene il cucchiaio con la minestra alla bocca. E il figlio, ossia il papà della famiglia, aveva deciso di spostarlo dalla tavola comune e ha fatto un tavolino in cucina, dove non si vedeva, perché mangiasse da solo. E così non avrebbe fatto una brutta figura quando venivano gli amici a pranzo o a cena. Pochi giorni dopo, arrivò a casa e trovò il suo figlio più piccolo che giocava con il legno e il martello e i chiodi, faceva qualcosa lì, disse: “Ma cosa fai? – Faccio un tavolo, papà. – Un tavolo, perché? – Per averlo quando tu diventi anziano, così tu puoi mangiare lì”. I bambini hanno più coscienza di noi!
Nella tradizione della Chiesa vi è un bagaglio di sapienza che ha sempre sostenuto una cultura di vicinanza agli anziani, una disposizione all’accompagnamento affettuoso e solidale in questa parte finale della vita. Tale tradizione è radicata nella Sacra Scrittura, come attestano ad esempio queste espressioni del Libro del Siracide: «Non trascurare i discorsi dei vecchi, perché anch’essi hanno imparato dai loro padri; da loro imparerai il discernimento e come rispondere nel momento del bisogno» (Sir 8,9).
La Chiesa non può e non vuole conformarsi ad una mentalità di insofferenza, e tanto meno di indifferenza e di disprezzo, nei confronti della vecchiaia. Dobbiamo risvegliare il senso collettivo di gratitudine, di apprezzamento, di ospitalità, che facciano sentire l’anziano parte viva della sua comunità.
Gli anziani sono uomini e donne, padri e madri che sono stati prima di noi sulla nostra stessa strada, nella nostra stessa casa, nella nostra quotidiana battaglia per una vita degna. Sono uomini e donne dai quali abbiamo ricevuto molto. L’anziano non è un alieno. L’anziano siamo noi: fra poco, fra molto, inevitabilmente comunque, anche se non ci pensiamo. E se noi non impariamo a trattare bene gli anziani, così tratteranno a noi.
Fragili siamo un po’ tutti, i vecchi. Alcuni, però, sono particolarmente deboli, molti sono soli, e segnati dalla malattia. Alcuni dipendono da cure indispensabili e dall’attenzione degli altri. Faremo per questo un passo indietro?, li abbandoneremo al loro destino? Una società senza prossimità, dove la gratuità e l’affetto senza contropartita – anche fra estranei – vanno scomparendo, è una società perversa. La Chiesa, fedele alla Parola di Dio, non può tollerare queste degenerazioni. Una comunità cristiana in cui prossimità e gratuità non fossero più considerate indispensabili, perderebbe con esse la sua anima. Dove non c’è onore per gli anziani, non c’è futuro per i giovani.

Gesù grida a Dio nel dolore!

Gesù grida a Dio nel dolore! dans immagini sacre Gospel-Sacrifice

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SALMO 6 – SUPPLICA DI UN UOMO GRAVEMENTE AMMALATO

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SALMO 6 – SUPPLICA DI UN UOMO GRAVEMENTE AMMALATO

[1] Al maestro del coro. Per strumenti a corda. Sull’ottava. Salmo. Di Davide

[2] Signore, non punirmi nel tuo sdegno, non castigarmi nel tuo furore.
[3] Pietà di me, Signore: vengo meno; risanami, Signore: tremano le mie ossa.
[4] L’anima mia è tutta sconvolta, ma tu, Signore, fino a quando…?
[5] Volgiti, Signore, a liberarmi,
salvami per la tua misericordia.
[6] Nessuno tra i morti ti ricorda.
Chi negli inferi canta le tue lodi?
[7] Sono stremato dai lungi lamenti,
ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio,
irroro di lacrime il mio letto.
[8] I miei occhi si consumano nel dolore,
invecchio fra tanti miei oppressori.
[9] Via da me voi tutti che fate il male,
il Signore ascolta la voce del mio pianto.
[10] II Signore ascolta la mia supplica,
il Signore accoglie la mia preghiera.
[11] Arrossiscano e tremino i miei nemici, confusi, indietreggino all’istante.

Il salmo 6 è una supplica individuale di un uomo gravemente malato. L’esperienza che l’orante fa è quella amara della malattia e delle sue sofferenze, di un’angoscia interiore e del timore della morte, la coscienza di una ostilità perversa, la consapevolezza del peccato. Questo intreccio esistenziale, le relazioni fra tutti questi fattori somatici e spirituali, ci permetteranno di meditare questo salmo. Una classificazione tradizionale ha inserito questo salmo tra i sette salmi penitenziali (6; 32; 38; 51; 102; 130; 143). La ragione è tematica ed ha alle sue spalle una conferma nell’uso liturgico.
È un salmo che ci parla dell’ira di Dio: « Signore, non punirmi nel tuo sdegno, non castigarmi nel tuo furore » (v 2). Non è facile farci un’idea dell’ira di Dio; è una cosa che esula dal nostro linguaggio ordinario. Come posiamo sentirci invitati alla preghiera da questa menzione cruda dell’ira, del furore, dello sdegno di Dio? Sembra che questo salmo rappresenti come una chiusura di orizzonti sulla vita presente dell’uomo. Al v .6 si dice: « Nessuno tra i morti ti ricorda, chi negli inferi canta le tue lodi? ». Sembra che chi recita questo salmo non si preoccupi di un avvenire dell’uomo oltre la vita, ma abbia una visione limitata, una chiusura di orizzonti sulla vita presente. Il Nuovo Testamento ha completamente trasformato questa visione, ponendo chiaramante l’orizzonte della vita dell’uomo nella vita senza fine. E’ un salmo che fu composto per essere recitato dai malati, ma nessuno di noi può presumere di poter entrare nella psicologia di un malato grave, tentato di disperazione, di solitudine, di chiusura. Solo chi l’ha provato può avere un’idea di questo stato d’animo.
Un dramma con tre personaggi: Dio, il sofferente, i nemici. C’è un uomo in uno stato di grande prostrazione fisica e morale che attraverso lo sfogo libero del cuore a Dio, chiede di essere liberato dai nemici. Che cos’è il lamento? E’ il grido dell’uomo che sente venire meno il vivere in senso specifico, cioè la salute, il progetto di vita, la propria capacità di amare, la propria dignità. Allora l’uomo grida a Dio: « Non abbandonarmi, ritorna, voglio tornare a lodarti ». Quello che l’uomo sperimenta in questo degradarsi del vivere di cui ha paura, è chiamato l’ira di Dio, lo sdegno di Dio, il non vivere è l’essere abbandonati da Dio. E allora grida: « Abbi pietà di me, Signore, vengo meno… » (C 3 – 6). Il lamento è l’opposto della lode, della chiarezza, della coscienza dell’uomo che il vivere è lodare Dio.
Nella Bibbia troviamo personaggi che hanno pregato così: in gran parte dei salmi di lamento Davide ha pregato così, ma non da disperato. Il profeta Geremia ha scritto lamenti molto simili a questo salmo. Giobbe nella sua sofferenza fisica e morale si è espresso così. Gesù sulla croce ha detto: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ». Ogni cristiano può ripetere l’esperienza di Davide, di Geremia, di Gesù. Quando noi recitiamo questo salmo ci uniamo a tutti coloro che soffrono; forse non possiamo raggiungere la loro sofferenza; ma ci possiamo ugualmente unire al lamento universale di coloro che invocano Dio perché venga a salvarli.
I nemici. Possono essere nemici molto diversi: nemici politici, popoli conquistatori, oppressori, ma anche nemici privati, prepotenti, sfruttatori. Nei salmi i nemici sono sempre figure un pò vaghe; non hanno un volto preciso, però sono sempre uomini senza Dio. Sono il segno dell’impossibilità del mondo di vivere senza amore e senza lode; sono il segno del male.

v. 2 .l’orante cerca un Dio che sia un pedagogo comprensivo; rifugge da un Dio giudice adirato. Si potrebbe tradurre: « riprendimi senza ira, correggimi senza collera ». Si può vedere Ger 10, 24: « Correggici, Signore, con misura, non farci venir meno con la tua collera ». Oppure Sap 12,2: « Per questo correggi poco a poco chi cade ».

vv. 3-4 « Vengo meno… tremano le mie ossa ». Il verbo indica lo slogamento per cui le ossa sono disarticolate, il respiro affannoso e ansimante, l’animo agghiacciato dalla paura. L’interrogativo: « e tu, Signore, fino a quando? » che appare anche in altri salmi (Sal 12; Sal 90, 13; Sal 79, 5 sulla sorte di Gerusalemme), ha l’effetto di mettere in risalto la situazione drammatica nel senso che l’indugio di Dio nell’intervenire, può rendere mortale la malattia.

v. 5 Curare è salvare la vita che è in gioco nella malattia che affligge l’orante. Nel Nuovo Testamento la guarigione viene chiamata salvezza: « La tua fede ti ha salvato » (la guarigione del cieco di Gerico: Mc 10. 52).

v. 6 Il Signore è un Dio dei viventi: cf il testo classico di Is 38, 18: « poiché non ti lodano gli inferi, né la morte ti canta inni; quanti scendono nella fossa non sperano nella tua fedeltà ».

v. 7 L’immagine è il giaciglio dell’orante che dilaga in lacrime. Il pianto è l’espressione del dolore interiore, come in Lam 1, 2; 2, 11. 18.

v. 8 I continui gemiti prostrano l’orante come se il travaglio faticoso di una vita fosse gemere, travaglio sterile, senza esiti. A causa del pianto gli occhi si consumano ed invecchiano.

v. 9 Dopo i cinque imperativi indirizzati a Dio « non punirmi, non castigarmi, risanami, volgiti, salvami », e dopo la descrizione del suo stato pietoso, ci sorprende un imperativo al plurale rivolto a personaggi di cui ignoravamo la presenza: « Via da me voi tutti che fate il male ». Il salmista che fino a questo momento è stato a guardare se stesso, in una amara analisi introspettiva, scopre all’improvviso una presenza ostile, quando questa è già praticamente vinta.

v. 10 L’orante riconosce subito che Dio ha ascoltato la sua richiesta. Da dove nasce la sua certezza? Secondo un’ipotesi l’orante è venuto al tempio per esporre la sua situazione. Il sacerdote o il profeta del tempio pronunciano un oracolo che contiene l’esaudimento divino. Il fedele ringrazia e benedice Dio.

v. 11 « Arrossiscano e tremino i miei nemici ». E’ il prolungamento della ritirata dei nemici. C’è una ritorsione, quasi un contrappasso, di quello che i nemici hanno fatto. Il male fatto si ritorce contro coloro che l’hanno fatto.

Trasposizione e attualizzazione cristiana
Leggiamo in Mt 7, 23 e in Lc 13, 27: « allontanatevi da me voi tutti operatori di iniquità » quello che leggiamo al v. 9 del salmo. Le guarigioni operate da Cristo, specialmente quando si presentano in relazione con il peccato dell’uomo, prolungano il tema del salmo.
Ma partendo dalla situazione descritta nel salmo, quali sono le domande che ci riguadano?
* La prima domanda ci interroga sul tema del lamento come verità del nostro vivere. Il lamento esprime la voglia di vivere, l’aspirazione ad avere motivazioni di vita dal Dio della vita. E’ la preghiera di chi, vivendo coscientemente le proprie sofferenze, le proprie miserie, le miserie e le sofferenze di coloro che ama, le propone a Dio con cuore fiducioso?
Ho mai sperimentato in me il rapporto tra la lode e la vita?
Mi perdo nel lamento, oppure, nei momenti di sofferenza, mi presento al Signore nella preghiera sapendo che è purificatrice, che trasforma la sofferenza e anche chi prega così?

* La seconda domanda ci fa interrogare sull’oggetto di questo lamento. Di che cosa si lamenta l’uomo, qual è l’oggetto reale della preghiera, della sofferenza? E’ tutto ciò che toglie la vita, tutto ciò che diminuisce l’essere dell’uomo, tutto ciò che lo contrasta. Il salmo 6 sottolinea la dignità della protesta per tutto ciò che avviene in noi come forza di morte e indica pure le qualità che questa protesta deve avere. E’ una protesta che individua il male fino in fondo e non si ferma alle cause esteriori, ma scopre l’origine del male nel cuore dell’uomo.
So veramente da che cosa dipende il male dell’uomo?
Quale coscienza ho del mio peccato?
Mi fido completamente di Dio?
C’è dignità in me quando mi lamento, oppure esprimo una protesta inerte e velleitaria che si accontenta solo del gridare?

* La terza domanda riguarda la fiducia nella preghiera. Il salmista ha pregato descrivendo se stesso: « sono stremato dai lunghi lamenti, ogni notte inondo di lacrime il mio giaciglio… « .
So che Dio ascolta la mia preghiera? Sono certo che il Signore mi ascolta, mi accoglie, mi riceve? Quale coscienza ho dell’amore, della fedeltà e del perdono di Dio?
So vedere la realtà con occhi nuovi e superare le difficoltà con un entusiamo rinnovato?
C’è qualche gesto che posso fare concretamente per esprimere la forza di questa preghiera?

PER UN TUO STUDIO BIBLICO…SULLA SOFFERENZA

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PER UN TUO STUDIO BIBLICO…SULLA SOFFERENZA

PUBBLICATO MARTEDÌ, 25 DICEMBRE 2012

Nel mio post precedente ho parlato di quanto sia importante che noi cristiani comprendiamo ciò che la Bibbia dice della sofferenza. Si tratta di un tema difficile per motivi ovvi. Purtroppo tanti cristiani vogliono credere di non dover avere nulla a che fare con la sofferenza, proprio perché sono credenti. Si tratta di un’operazione di ‘rinnegamento psicologico’, perché essi stessi e i credenti che li circondano vengono continuamente investiti dalla sofferenza. Una predicazione irreale sulla sofferenza viene portata avanti dai fautori e dalle fautrici del cosiddetto vangelo del benessere e della prosperità. Ma questo ‘vangelo’ non è un Vangelo (una buona notizia), bensì una grave distorsione della teologia biblica (nota 1).
Dedicherò questo post e quello successivo al tema della sofferenza. In questo post, nella scaletta che segue, vi voglio semplicemente dare dei passi biblici su cui potete riflettere per avviare un vostro studio personale su questo tema di fondamentale importanza nella fede cristiana e nella vita di tutti quanti noi (nota 2). Sia chiaro che i brani in questione sono degli spunti iniziali e che la Bibbia è stracolma di dati sulla dottrina della sofferenza. Ecco un piccolo antipasto!
1. Dove si colloca la sofferenza nella vita cristiana? La sofferenza fa parte integrante della vita cristiana. Notate la risposta di Gesù alla domanda di Pietro (Marco 10:28-30): “Pietro gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito». Gesù rispose: «In verità vi dico che non vi è nessuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi, per amor mio e per amor del vangelo, il quale ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figli, campi, insieme a persecuzioni e, nel secolo a venire, la vita eterna.»” Potete leggere anche Atti 14:21-22, e l’elenco trovato in Ebrei 11:30-39. Quando arrivate a Ebrei 11:35, vi renderete conto che c’è uno spartiacque in quel versetto, in cui su ambedue i lati i credenti descritti hanno vissuto per fede.
Isaia 53:3 profetizzò il seguente del Messia che doveva venire, dicendo che egli sarebbe stato: “disprezzato e abbandonato dagli uomini, uomo di dolore, familiare con la sofferenza”. I suoi seguaci seguono le orme dell’‘Uomo di dolore’. 1 Pietro 2:21 rende esplicito questo fatto: “Infatti a questo siete stati chiamati, poiché anche Cristo ha sofferto per voi, lasciandovi un esempio, perché seguiate le sue orme.”
2. Che cosa è la sofferenza? La sofferenza è tante cose e fa malissimo. E pur non volendo banalizzare la sofferenza di nessuno (personalmente odio soffrire), bisogna far presente che, secondo la Bibbia, c’è un senso in cui la sofferenza è un dono di Dio. Considerate il parallelismo trovato in Filippesi 1:29: “Perché vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui.” Dio ci ha ‘dato’, ha ‘donato’ (è questo il senso di ‘concessa’) sia di credere in lui sia di soffrire per lui. Entrambi sono doni di Dio. Se qualcuno dovesse dubitare del significato di ‘dare, donare’ per il verbo tradotto ‘concesso’ in Filippesi 1:29, consideri questo. Si tratta dello stesso verbo adoperato, sempre da Paolo, in Romani 8:32: “Colui che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per noi tutti, non ci donerà [ecco di nuovo il verbo charizomai] forse anche tutte le cose con lui?” Notate un altro versetto in Filippesi con un binomio che include la sofferenza: “Tutto questo allo scopo di conoscere Cristo, [a] la potenza della sua risurrezione, [b] la comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte” (3:10).
Allora qual è lo scopo della sofferenza (nota 3)? Ce ne sono diversi, tra cui i seguenti quattro punti.
3. La sofferenza purifica la nostra fede e ci aiuta a maturare. Ebrei 12:10-11: “Essi [i padri umani] infatti ci correggevano per pochi giorni come sembrava loro opportuno; ma egli [il nostro Padre Dio] lo fa per il nostro bene, affinché siamo partecipi della sua santità. È vero che qualunque correzione sul momento non sembra recar gioia, ma tristezza; in seguito tuttavia produce un frutto di pace e di giustizia in coloro che sono stati addestrati per mezzo di essa.” Noi veniamo ‘addestrati’ nella e dalla sofferenza. Ricordate la citazione riportata nel mio post precedente, in cui Wendy Alsup, Teologia pratica per le donne osserva: “E tuttavia, quando esaminavo la mia vita, potevo vedere la benevola mano di Dio costantemente all’opera. Ogni prova ci [a me e a mio marito] insegnava cose meravigliose su Dio, cose così preziose da sapere su di lui da valer la pena di sopportare la sofferenza materiale pur di venirne a conoscenza” (p. 57).
4. La sofferenza fa sì che noi non ci fidiamo delle nostre proprie forze, ma di Dio. Questa è la testimonianza di Paolo (2 Corinzi 1:8-9): “Fratelli [e sorelle], non vogliamo che ignoriate, riguardo all’afflizione che ci colse in Asia, che siamo stati molto provati, oltre le nostre forze, tanto da farci disperare perfino della vita. Anzi, avevamo già noi stessi pronunciato la nostra sentenza di morte, affinché non mettessimo la nostra fiducia in noi stessi, ma in Dio che risuscita i morti.” Quando io posso gestire le cose, faccio da me. Invece quando per esempio, anni fa, uno dei miei figli fu ricoverato per una malattia molto grave, fui costantemente in ginocchio nel mio cuore—costantemente. Perché? Perché è quando siamo provati ‘oltre le nostre forze’ che dobbiamo rivolgerci a Qualcuno che sta al di sopra delle nostre forze. Vi invito a meditare, con il cuore inginocchiato, su 2 Corinzi 12:7-10, il brano celebre in cui Paolo svela quand’è che egli è ‘forte’. Quand’è? Lo vedrete in quel passo.
5. La sofferenza fa sì che comprendiamo la differenza tra l’eterno e il passeggero, come vediamo in 2 Corinzi 4:16-18: “Perciò non ci scoraggiamo; ma, anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, il nostro uomo interiore si rinnova di giorno in giorno. Perché la nostra momentanea, leggera afflizione ci produce un sempre più grande, smisurato peso eterno di gloria, mentre abbiamo lo sguardo intento non alle cose che si vedono, ma a quelle che non si vedono; poiché le cose che si vedono sono per un tempo, ma quelle che non si vedono sono eterne.”
6. La sofferenza fa sì che bramiamo il ritorno di Cristo. Nel mio post successivo, rifletterò insieme a voi su Romani 8:15-39—un passo straordinariamente ricco sulla teologia della sofferenza. E’ affascinante il modo in cui, in quel brano, Paolo colloca la sofferenza tra due momenti: la caduta dell’uomo e la restaurazione di ogni cosa. E quand’è che ci sarà tale ‘restaurazione’? Solo quando Cristo sarà tornato. Se la chiave che farà cessare definitivamente la sofferenza è Cristo, allora la sofferenza ci fa bramare il suo ritorno; ci fa esclamare con la chiesa primitiva ‘marana tha’, ‘vieni, nostro Signore’ (1 Corinzi 16:22)! Guardate ora insieme a me come saranno le cose (solo) quando Cristo avrà restaurato tutte le cose. Giovanni ci proietta in avanti a quel momento (Apocalisse 21:1-4): “Poi vidi [lo vedi anche tu!?] un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c’era più. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii [la senti anche tu!?] una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro, essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio. Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate».” Bramate anche voi quel momento? Io sì. Conosco più persone con dei brutti tumori, so di più tragedie che sono successe a credenti consacrati al Signore. Tutti i giorni il telegiornale passa in rassegna davanti ai miei occhi, e davanti ai vostri occhi, il terribile frutto della nostra ribellione contro il nostro misericordioso Creatore. ‘Vieni, Signor Gesù, ed elimina per sempre la sofferenza!’
Un giorno la sofferenza non ci sarà più, ed essa stessa—la sofferenza!—ci fa bramare l’arrivo di quel giorno. Ma cosa dobbiamo fare nel frattempo? Ecco almeno due cose.
7. Nella sofferenza dobbiamo: (a) ricordare Cristo e (b) appellarci a Dio.
(a) Ebrei 12:2-3: “fissa[te] lo sguardo su Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta. Per la gioia che gli era posta dinanzi egli sopportò la croce, disprezzando l’infamia, e si è seduto alla destra del trono di Dio. Considerate perciò colui che ha sopportato una simile ostilità contro la sua persona da parte dei peccatori, affinché non vi stanchiate perdendovi d’animo.”
(b) Salmo 25:16: “Volgiti a me, e abbi pietà di me, perché io son solo e afflitto”.
Le istruzioni sono chiare. Se stiamo soffrendo, dobbiamo ricordare il Sofferente per eccellenza Cristo, e dobbiamo rivolgerci a Dio chiedendogli di darci un po’ di sollievo.
Leggi lentamente 1 Pietro 2:21-23; il Salmo 25:16-20; e Ebrei 4:12-16. Ed ora accostati con piena fiducia al trono della grazia, laddove ti aspettano la misericordia, la grazie e il soccorso divino.
8. Ma c’è qualcosa che la sofferenza farà in me, per me? Abbiamo visto sopra che Dio ci addestra per via della sofferenza. E una parte di quell’addestramento è che ora siamo in grado di consolare ed aiutare gli altri che soffrono. La catena della consolazione è sommamente delineata in 2 Corinzi 1:3-7: “Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, il Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra afflizione, affinché, mediante la consolazione con la quale siamo noi stessi da Dio consolati, possiamo consolare quelli che si trovano in qualunque afflizione [!]; perché, come abbondano in noi le sofferenze di Cristo, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione. Perciò se siamo afflitti, è per la vostra consolazione e salvezza; se siamo consolati, è per la vostra consolazione, la quale opera efficacemente nel farvi capaci di sopportare le stesse sofferenze che anche noi sopportiamo. La nostra speranza nei vostri riguardi è salda, sapendo che, come siete partecipi delle sofferenze, siete anche partecipi della consolazione.” L’autore di Ebrei si appella alla nostra capacità di metterci nei panni altrui, quando ci esorta (13:3): “Ricordatevi dei carcerati, come se foste in carcere con loro; e di quelli che sono maltrattati, come se anche voi lo foste!” (nota 4).
9. In più modi abbiamo già dato una risposta alla domanda: allora come dobbiamo accogliere la sofferenza? Ora vogliamo dare una risposta esplicita. Dobbiamo accogliere la sofferenza con fiducia nella bontà, nella saggezza e nell’amore del Padre. Lo stesso Dio che è il Sovrano dell’universo è anche il mio buon Padre celeste. E lui è in controllo della situazione e, in ed attraverso la sofferenza, egli sta operando per la sua gloria e per il mio bene. Romani 8:28: “Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno.”
10. E cosa succede quando noi, senza mai essere masochisti (coloro a cui piace la sofferenza!), accogliamo la sofferenza secondo la volontà di Dio? Quando facciamo così, glorifichiamo Dio, e costituiamo una dimostrazione vivente della preziosità di Cristo, verso glii altri credenti e verso il mondo non credente.
Giobbe 1:21: “Nudo sono uscito dal grembo di mia madre, e nudo tornerò in grembo alla terra; il SIGNORE ha dato, il SIGNORE ha tolto; sia benedetto il nome del SIGNORE” (vedi Giobbe 2:8-10).
Abacuc 3:17-19: “Anche se il fico non fiorirà e non ci sarà alcun frutto sulle viti, anche se il lavoro dell’ulivo sarà deludente e i campi non daranno più cibo, anche se le greggi scompariranno dagli ovili e non ci saranno più buoi nelle stalle, esulterò nell’Eterno e mi rallegrerò nel DIO della mia salvezza”.
Io leggo libri di teologia in continuazione e sono grato al Signore per ogni pagina letta. Ma lo ringrazio anche per i credenti che io conosco di persona (ed anche da internet, come Joni Eareckson Tada e Nick Vujicic) che continuano a perseverare nella fede, nonostante la sofferenza. Quando predico sulla sofferenza, spesso do l’esempio di una sorella in Cristo che conosco bene. Lei ha sofferto in così tanti modi, che mi vengono le lacrime agli occhi solo a pensare alle sue sofferenze—sofferenze che in questo periodo sembra che aumenteranno addirittura. Ogni volta che vedo questa sorella in chiesa, senza che lei mi dica nulla e senza neppure che mi guardi, un forte messaggio giunge ai posti più profondi del mio cuore. Cosa mi sta dicendo, per via della sua perseveranza sotto l’afflizione, questa sorella? Lei, senza pronunciare verbo, ma solo con la sua fedele presenza, mi sta esortando: ‘Pietro, Cristo è prezioso. Dai, ce la fai anche tu a perseverare nella fede. Abbiamo un Dio veramente grande!’ (nota 5).
Grazie, Signore Gesù per le tue sofferenze, esse mi hanno portato a Dio. Grazie per il tuo soccorso nelle mie sofferenze. Grazie per l’istruzione della Bibbia su questo argomento importante. Grazie per la sorella che mi è di un incoraggiamento costante. Benedici la lettrice e il lettore che si trova adesso nella sofferenza. E, Maranatha, vieni Signore Gesù!

Nota 1: affronto gli errori del vangelo del benessere e della prosperità nel sermone trovato qui.
Nota 2: nel post successivo invece, ho intenzione di mettere a fuoco le ricchezze di un solo brano molto speciale.
Nota 3: concordo con Piper che possiamo accomunare le svariate forme della sofferenza. Pensate quanto siano differenti le fonti della persecuzione, un cancro, uno tsunami, o perfino le conseguenze di peccati passati a cui ormai abbiamo rinunciato (l’ultimo esempio è mio e non di Piper). Nel capitolo 10 di Desiderare Dio, sulla sofferenza, John Piper scrive: “Tutte le esperienze di sofferenza nel cammino dell’ubbidienza cristiana, sia a causa della persecuzione, sia della malattia, sia di un incidente, hanno questo in comune: tutte minacciano la nostra fede nella bontà di Dio e ci tentano ad abbandonare il cammino dell’obbedienza. Perciò, ogni trionfo della fede e la perseveranza nell’obbedienza sono testimonianze della bontà di Dio e della preziosità di Cristo—che il nemico sia la malattia, Satana, il peccato o il sabotaggio”; John Piper, Desiderare Dio, Passaggio, Virgilio 2003, p. 273. Ho ritoccato la parte dopo il trattino sulla base dell’inglese originale; si tratta di p. 257 (ingl.) in Desiring God qui. Più avanti Piper aggiunge (p. 276 ital.): “Ciò che trasforma le sofferenze in sofferenze ‘con’ e ‘per’ Cristo non è quanto deliberati siano i nostri nemici, ma quanto siamo fedeli noi. Se noi apparteniamo a Cristo, allora quello che ci accade è per la sua gloria e per il nostro bene, non importa se causato dai batteri o dai nemici.” Il punto è che, per il credente e per la credente, ciò che accomuna tutte le sofferenze, tutte le afflizioni, tutte le tribolazioni—insomma, tutte le prove—è il modo in cui noi le affrontiamo.
Nota 4: nel contesto, i carcerati sono quelli perseguitati per la fede in Cristo. Giustamente i rappresentanti di Porte Aperte e organizzazioni simili si servono di questo versetto per invogliarci ad aiutare la Chiesa perseguitata. A questo link troverete un sermone (video e cartaceo) su ‘la chiesa perseguitata’, predicato il 6 dicembre 2009.
Nota 5: inerente sia al tema di questo post sia a quest’ultimo punto è il cap. 9 di John Piper, Vedete e gustate Gesù Cristo, BE Edizioni, Firenze 2012: ‘la gloria di riscattare i peccatori, senza eliminare Satana’. Tutto il capitolo è bello, ma la preghiera a fine capitolo è già in sé molto preziosa. Eccone un antipasto (p. 65): “dacci di svergognare Satana riconoscendo la superiorità di Gesù” in mezzo alla sofferenza, l’afflizione e le prove.

Pietro Ciavarella è laureato in Teologia (Trinity Evangelical Divinity School) e Storia (University of Illinois at Chicago). È Direttore dell’Accademia Teologica Logos di Firenze e, per BE Edizioni, ha scritto: La Preghiera Perfetta: Il Padre Nostro; I Salmi: Un invito ad un rapporto più intimo con Dio (con David M. Howard Jr.); Come avere pace con Dio: Martin Lutero sulla giustificazione per fede; Genesi Esodo Levitico Numeri Deuteronomio e I Proverbi: un invito ad abbracciare la saggezza di Dio.

 

Publié dans:TEMA: SOFFERENZA |on 4 mars, 2015 |Pas de commentaires »

Abramo e i tre angeli, IV-V d.C., Catacombe di Via Latina, Grottaferrata

 Abramo e i tre angeli, IV-V d.C., Catacombe di Via Latina, Grottaferrata dans immagini sacre 1325OP2045

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Publié dans:immagini sacre |on 3 mars, 2015 |Pas de commentaires »

TAGORE: LA POESIA COME BISOGNO DI TRASCENDENZA

http://www.zenit.org/it/articles/tagore-la-poesia-come-bisogno-di-trascendenza

TAGORE: LA POESIA COME BISOGNO DI TRASCENDENZA

Una breve monografia del poeta Premio Nobel, fautore dell’incontro tra la cultura occidentale ed orientale

Roma, 25 Febbraio 2015 (Zenit.org) Massimo Nardi

Nell’articolo intitolato Quaresima, il tempo del coraggio, pubblicato su ZENIT nell’ambito dei contributi di riflessione dedicati a questa importante ricorrenza della liturgia cattolica, mons. Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace, cita un pensiero di Gandhi: “È bene confessare i propri errori perché ci si ritrova più forti”.
Una citazione in linea con l’appassionato impegno di Papa Francesco per promuovere il dialogo interreligioso sulla base di valori condivisi. Valori che trovano una nobile incarnazione nella figura del Mahatma Gandhi, il celebre apostolo della non-violenza che improntò la sua vita al culto dell’umiltà e al rispetto delle religioni.
Gandhi, l’uomo di Stato che, avvalendosi delle armi dello spirito e dell’intelligenza, riuscì vittorioso in mille battaglie legali, sociali e politiche, e che ancora oggi viene ricordato con il titolo di “Mahatma” (grande anima) che gli venne attribuito dal suo popolo.
Pensando a Gandhi, il pensiero corre ad un’altra personalità della storia dell’India con la quale il Mahatma intrattenne un rapporto di stima e ammirazione reciproca: Rabindranath Tagore (1861-1941), il grande poeta che nel 1913 vinse il Premio Nobel per la letteratura (primo Nobel letterario non occidentale nella storia del celebre Premio).

Amore, il mio cuore desidera giorno e notte
d’incontrarsi con te – in un incontro simile
alla morte, che tutto consuma.
Abbattimi, come fa la tempesta; prendi
tutto quello che possiedo; invadi il mio sonno
e ruba i miei sogni.
E in quella desolazione, nella nullità dello spirito,
uniamoci nella bellezza.
Ahimé, che vano desiderio! Che speranza c’è
d’essere uniti se non in te, mio Dio?

Abbiamo aperto la nostra riflessione su Tagore con un componimento che ben esprime il fondamento della sua poetica: la ricerca simbolica del viaggiatore che vive di sensazioni inquiete, alternando l’angoscia con la gioia; avvertendo il disagio dell’anima, sempre in attesa del richiamo di Dio.
Nella sua poesia si avverte un bisogno di trascendenza che si manifesta anche nel rapporto con la donna, vissuta come sogno, come ideale di bellezza:

Donna, non sei soltanto l’opera di Dio,
ma anche degli uomini, che sempre ti fanno
bella con i loro cuori.
I poeti ti tessono una tela con fili
d’immagini dorate; i pittori danno alla tua forma
sempre nuove immortalità.
Il mare dona le sue perle, le miniere il loro oro,
i giardini d’estate i loro fiori per ornarti,
per coprirti, per renderti più preziosa.
Il desiderio del cuore degli uomini, stende
la sua gloria sulla tua giovinezza.
Tu sei metà donna e metà sogno.

Tagore nacque a Calcutta da una famiglia dell’alta aristocrazia. Iniziò prestissimo a comporre versi, mosso dalla sua indole ribelle, insofferente d’ogni forma di disciplina scolastica: “La scuola – lascerà scritto – mi appariva come una prigione dell’intelligenza. Dalla finestra spiavo la bellezza del mondo, il mondo della divina libertà”.
Libertà che, nella sua poetica, è anche strumento per la conquista della consapevolezza, sebbene si tratti di un processo graduale, che può apparire, a volte, difficile e oscuro. Come sperimenta il “vagabondo pazzo”, protagonista della poesia che segue, che viaggia alla ricerca della pietra filosofale e non s’accorge d’averla trovata:

Un vagabondo pazzo andava in giro, cercando
la pietra filosofale; coi capelli arruffati,
abbronzato e coperto di polvere, il corpo
ridotto ad un’ombra, le labbra serrate
come le porte chiuse del suo cuore, gli occhi
scintillanti come la luce di una lucciola,
in cerca del compagno.
Davanti a lui rumoreggiava l’immenso oceano.
Le onde ciarliere parlavano instancabili di tesori
nascosti, burlandosi dell’ignoranza,
che non conosce il loro segreto.
Forse a lui non restava più nessuna speranza,
ma non voleva riposarsi, perché la ricerca
era diventata lo scopo della sua vita.
Proprio come l’oceano che alza le braccia al cielo,
per raggiungere l’impossibile.
Proprio come le stelle, che girano in cerchio,
cercando una meta inafferrabile.
Proprio così, sulla spiaggia solitaria, il pazzo,
dagli scuri capelli impolverati, vagava
in cerca della pietra filosofale.
Un giorno un ragazzo di un villaggio gli si accostò
e chiese: “Dimmi, dove hai trovato questa catena
d’oro, che porti intorno alla vita?”
Il pazzo trasalì – la catena che una volta
era di ferro, era diventata proprio d’oro, non sognava,
ma non sapeva quando era avvenuto il cambiamento.
Si colpì con violenza la fronte – dove, oh dove,
senza saperlo, aveva raggiunto la meta? –
Aveva fatto l’abitudine a raccogliere pietre
ed a toccare con esse la catena, ma le gettava
senza osservare se avveniva il cambiamento;
così il pazzo aveva trovato e perso la pietra filosofale.
Il sole tramontava ad occidente, il cielo
era dorato.
Il pazzo ritornò sui suoi passi per cercare
di nuovo il tesoro perduto, ma ormai privo di forze,
il corpo ricurvo, il cuore nella polvere,
come un albero sradicato.

Il ruolo che Tagore svolse nella vita culturale, artistica, religiosa e politica del Bengala fu di grande rilievo. Viaggiò a lungo in Europa, visitando anche l’Italia. Al suo ritorno in India pubblicò Il diario di un viaggiatore in Europa.
Nella sua formazione ebbe un ruolo determinante lo studio della civiltà europea. L’incontro tra la cultura occidentale ed orientale costituì un obiettivo costante della sua attività artistica, pedagogica e culturale. Dopo il conferimento del Premio Nobel, Tagore s’impegnò nella fondazione di una Università a carattere internazionale, devolvendo in essa l’intera somma del Nobel, i diritti d’autore dei suoi libri nonché alcune proprietà personali.
Tra le forme simboliche utilizzate da Tagore per suscitare l’emozione poetica, possiamo citare una ricorrente rappresentazione dell’immagine di Dio, che assume l’aspetto di un viandante, un vagabondo che sosta sotto gli alberi, senza svelare i suoi pensieri…

“Prendo quello che viene dalle tue mani generose,
altro non chiedo”.
“Sì, sì, ti conosco umile mendicante, tu
chiedi tutto quello che si ha”.
“Se vi fosse un fiore smarrito lo porterei
sul mio cuore”.
“Ma se vi fossero delle spine?”
“Le sopporterò”.
“Sì, sì, ti conosco umile mendicante, tu
chiedi tutto quello che si ha”.
“Se una volta sola tu mi guardassi
con occhi pieni d’amore, renderesti la mia vita
felice al di là della morte”.
“Ma se non fossero che sguardi crudeli?”
“Li terrei a trafiggermi il cuore”.
“Sì, sì, ti conosco umile mendicante, tu
chiedi tutto quello che si ha”.

La poesia appena letta ricorda, in qualche modo, una bella frase pronunciata nel 2010 da Papa Francesco: “A volte chiedo a chi si confessa se fa l’elemosina ai mendicanti. Quando mi risponde di sì pongo questa domanda: ‘E guardi negli occhi la persona che la riceve? Le tocchi la mano?’. A questo punto il fedele si sente confuso, perché molti si limitano a gettare i soldi e si girano dall’altra parte…”.
Per completare il nostro breve tratteggio di questa straordinaria personalità della cultura mondiale, non possiamo fare a meno di accennare al suo eclettismo creativo: Tagore fu anche un talentuoso autore di opere dell’arte figurativa, che espose negli Stati Uniti e in Europa. Alla sua morte lasciò più di duemila dipinti e disegni, molti dei quali di elevato valore artistico.
Ma c’è ancora un altro aspetto da sottolineare nella poesia di Tagore: la sostanza autentica del suo stile espressivo che trascende la parola scritta. La sua poesia, infatti, è composta per essere cantata e s’identifica fortemente con la musica, secondo una tradizione che appartiene alla storia letteraria indiana. Chi ha avuto la fortuna di ascoltare le poesie di Tagore cantate in bengalese, afferma d’aver provato un’emozione intensa. Un motivo in più per abbandonarsi al fascino poetico di questo artista d’oriente, che possiamo considerare tra i più raffinati interpreti della poesia d’ispirazione religiosa. 

Publié dans:POESIA E TRASCENDENZA |on 3 mars, 2015 |Pas de commentaires »

ANGELI (GIANFRANCO RAVASI) IN VOLO OLTRE LA NEW AGE

http://alzogliocchiversoilcielo.blogspot.it/2010/04/angeli-gianfranco-ravasi-in-volo-oltre.html

ANGELI (GIANFRANCO RAVASI) IN VOLO OLTRE LA NEW AGE

Avvenire 18.4.2010

All’improvviso s’incrina il soffitto, le crepe s’allargano e da un varco aperto, in mezzo ai calcinacci s’affaccia un volto radioso: « Un angelo! Pensai.
Tutto il giorno vola verso di me e io, scettico come sono, non lo sapevo. Adesso mi parlerà » . In realtà l’angelo scompare senza proferire parola e Kafka, che incastona questa angelofania nei suoi « Diari » , lascia aperto il dilemma reiterato nei secoli, destinato sia a cogliere il delicato e misterioso « brusio » ( Peter L. Berger) dell’angelo sia a dissolverne la presenza in sogno, anche se con nostalgia e con un rigurgito di fede, come confessava Czeslaw Milosz: « Vi ho tolto le vesti bianche,/ le ali e perfino l’esistenza,/ tuttavia io vi credo, messaggeri » .
L’angelo, però, ha come sua culla generativa per la civiltà occidentale soprattutto le Sacre Scritture. Dalla prima pagina coi « Cherubini dalla fiamma della spada folgorante » , posti a guardia del giardino dell’Eden ( Genesi 3, 24) fino alla folla angelica che popola l’Apocalisse, l’intera Bibbia è animata dalla presenza di queste figure sovrumane ma non divine, la cui realtà era nota anche alle culture circostanti a Israele, sia pure con modalità differenti.
Il nome stesso ebraico, « mal’ak » ( 215 volte nell’Antico Testamento), e greco, « ánghelos » ( 175 volte nel Nuovo Testamento), ne denota la funzione: significa, infatti, « messaggero » . Da qui si riesce a intuire la missione e, per usare un’espressione del filosofo Massimo Cacciari, la « necessità » ( L’Angelo necessario è il titolo di una sua opera) di questa figura biblica, affermata ripetutamente dalla tradizione giudaica e cristiana, confermata dal magistero della Chiesa nei documenti conciliari ( a partire dal Credo di Nicea del IV secolo) e papali e accolta nella liturgia e nella pietà popolare.
Il compito dell’angelo è sostanzialmente quello di salvaguardare la trascendenza di Dio, ossia il suo essere misterioso e « altro » rispetto al mondo e alla storia, ma al tempo stesso di renderlo vicino a noi comunicando la sua parola e la sua azione, proprio come fa il « messaggero » . È per questo che in alcuni casi l’angelo nella Bibbia sembra quasi ritirarsi per lasciare spazio a Dio che entra in scena direttamente. Così nel racconto del roveto ardente ad apparire a Mosè tra quelle fiamme è innanzitutto « l’angelo del Signore » , ma subito dopo è « Dio che chiama dal roveto: Mosè, Mosè! » ( Esodo 3, 2- 4). La funzione dell’angelo è, quindi, quella di rendere quasi visibili e percepibili in modo mediato la volontà, l’amore e la giustizia di Dio, come si legge nel Salterio: « L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono e li salva… Il Signore darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi; sulle loro mani ti porteranno perché non inciampi nella pietra il tuo piede » ( 34, 8; 91, 11- 12). Si ha qui l’immagine tradizionale dell’ « angelo custode » , bene raffigurata nell’angelo Azaria- Raffaele del libro di Tobia.
Il compito dell’angelo è, quindi, quello del mediatore tra l’infinito di Dio e il finito dell’uomo e questa funzione la espleta anche per il Cristo. Come scriveva il teologo Hans Urs von Balthasar, « gli angeli circondano l’intera vita di Gesù, appaiono nel presepe come splendore della discesa di Dio in mezzo a noi; riappaiono nella Risurrezione e nell’Ascensione come splendore della ascesa in Dio » . La loro è ancora una volta la missione di mettersi vicini all’umanità per svelare il mistero della gloria divina presente in Cristo in un modo che non ci accechi come sarebbe con la luce divina diretta. L’angelo può, però, sconfinare paradossalmente in demonio. Il tema della caduta degli angeli, in verità, è molto caro alla tradizione giudaica e cristiana soprattutto popolare ma ha una presenza solo allusiva nella Bibbia: ad esempio, c’è la « Lettera di Giuda » che parla di « angeli che non conservarono lo loro dignità ma lasciarono la propria dimora » ( v. 6); oppure ci si può riferire alla seconda Lettera di Pietro che presenta « gli angeli che avevano peccato, precipitati negli abissi tenebrosi dell’inferno » ( 2, 4). Ciò che è netta è l’affermazione biblica della presenza oscura di Satana che cerca proprio di spezzare quel dialogo di vita e di amore tra Dio e l’umanità che l’angelo, invece, favorisce e sostiene.
Non per nulla il poeta madrileno Pedro Salinas nel suo Angelo smarrito cantava: « Le mani di chi ama/ terminano in angeli » . Ma il tracciato dei voli angelici pervade tutto il cielo del Natale e della Pasqua quasi come una mappa di luce, di salvezza, di speranza.
Una posizione privilegiata è occupata da Gabriele, ministro nel consiglio della corona di Dio: non per nulla Luca ( 1,19) gli mette in bocca una frase che nel linguaggio orientale definisce i ministri ( » Io sono Gabriele che sto al cospetto di Dio » e i ministri erano appunto « coloro che avevano accesso al cospetto del re » ). Ma con Gabriele appaiono altri angeli anonimi nel Natale di Cristo; anzi Luca ( 2,14) in quella notte, come si è visto, introduce « tutta la milizia celeste » , cioè tutto l’esercito di Dio composto da legioni angeliche, pronte a combattere il male e l’ingiustizia. Quelle legioni che Gesù al momento dell’arresto nel giardino del Getsemani dirà di non voler convocare per bloccare il suo destino sacrificale ( Matteo 26,53: « Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? » ). Ma la presenza angelica si era affacciata già prima di quell’ora terribile. Ci sono, infatti, gli angeli che si accostano a Gesù al termine delle tentazioni sataniche per servirlo ( Matteo 4,11). C’è l’angelo che veglia sul piccoli: « Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli » ( Matteo 18,10).
C’è l’angelo consolatore nella sera dell’agonia: « Gli apparve ( nel Getsemani) un angelo del cielo a confortarlo » ( Luca 22,43).
C’è l’angelo che indica il destino dell’uomo oltre la morte: « Alla risurrezione… si sarà come angeli nel cielo » ( Matteo 22,30). Ma, importanti come quelli del Natale, sono gli angeli della Pasqua. Se l’angelo del Natale era simile a un profeta che annunziava l’incarnazione, cioè l’ingresso di Dio nella storia proprio sotto le spoglie di quel bambino nato nella « città di Davide » Betlemme, l’angelo della Pasqua proclama la redenzione piena operata da Cristo e sigillata dalla sua vittoria sulla morte. « Vi fu un grande terremoto: un angelo del Signore, sceso dal cielo, si accostò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. Il suo aspetto era come la folgore e il suo vestito bianco come la neve. Per lo spavento che ebbero di lui le guardie tremarono tramortite. Ma l’angelo disse alle donne: ‘ Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso.
Non è qui. È risorto, come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto.
Presto, andate a dire ai suoi discepoli: È risuscitato dai morti, e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, io ve l’ho detto’ » ( Matteo 28,2- 7). Sulle labbra dell’angelo risuona la professione di fede pasquale della Chiesa: « È risorto! » . È ciò che ripeterà anche l’angelo pasquale di Marco raffigurato come « un giovane vestito di una veste bianca » ( 16,5- 6) o « i due uomini in vesti sfolgoranti » del racconto di Luca ( 24,4- 6).
Essi inaugurano anche la missione della Chiesa quando, nel giorno dell’ascensione di Cristo nella sua gloria celeste, sotto l’aspetto di « due uomini in bianche vesti » ( e il bianco nella Bibbia è simbolo dell’eterno), si rivolgeranno agli apostoli così: « Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?
Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo » ( Atti 1,10- 11). La Chiesa vive da quel momento accompagnata dagli angeli. C’è l’angelo degli apostoli: apre loro le porte del carcere a notte fonda ( Atti 5,19). C’è l’angelo di Pietro: di notte gli scioglie le catene, lo riveste e gli spalanca le porte della prigione ( Atti 2,7- 11). C’è l’angelo del diacono Filippo: mette questo ministro del Vangelo sulla strada di Gaza per incontrare l’eunuco etiope, funzionario della regina Candace, e così convertirlo ( Atti 8,26). C’è l’angelo del centurione romano Cornelio: gli annunzia la via della salvezza attraverso l’incontro con Pietro ( Atti 10,3; 11,13). C’è l’angelo di Paolo: durante la tempesta che colpisce la nave che porta l’apostolo a Roma per essere processato, lo conforta e gli assicura che raggiungerà il tribunale di Cesare per testimoniare Cristo ( Atti 27,23­24). C’è l’angelo di tutti gli annunziatori del Vangelo: assiste alla lotta che il discepolo deve condurre per compiere la sua missione ( 1Corinzi 4,9). C’è l’angelo della liturgia e ce lo presenta lo stesso Paolo nel passo un po’ folcloristico sul velo delle donne ( 1Corinzi 11,10). Come si vede, la presenza angelica popola le strade della Chiesa e della sua storia. E non l’abbandona nel momento estremo, quello dell’approdo alla Gerusalemme celeste. Lo stesso Gesù nel suo « discorso escatologico » , dedicato alla meta ultima della vicenda umana e cosmica, aveva evocato la funzione degli angeli quasi come cerimonieri dell’evento del giudizio finale ( Matteo 13,41- 42; Marco 13,27.32; Luca 16,22). Ma sarà l’Apocalisse ad affollare il cielo di angeli, riflettendo in questo un modello tipico di una letteratura allora popolare, quella chiamata appunto apocalittica e che abbiamo già avuto occasione di evocare per l’Antico Testamento e per il giudaismo. In un trionfo di luce gli angeli dell’Apocalisse cantano, assistono al soglio divino, suonano trombe, scagliano i flagelli del giudizio, scardinano dalle fondamenta Babilonia, la città del male, simbolo della Roma imperiale, incatenano la Bestia infernale, vegliano alle porte della Gerusalemme celeste, la città della gioia, seguono Michele nella lotta estrema tra bene e male. La coreografia dell’Apocalisse ha l’angelo come attore di grande rilievo, nella prospettiva di una palingenesi di tutto l’essere e in particolare dell’umanità, chiamata alla cittadinanza celeste e alla comunione angelica, come ricorda Paolo ( Efesini 1,18; Filippesi 3,20). Ma lo stesso libro nelle sue pagine di apertura, cioè nelle lettere indirizzate ad altrettante comunità cristiane dell’Asia Minore ( capitoli 2- 3), rivela che su ogni Chiesa ancora pellegrina sulla terra veglia un angelo del Signore.
Egli raccoglie il messaggio ora dolce ora aspro che il Cristo rivolge ai fedeli di Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia e Laodicea, divenendo così partecipe delle sorti della comunità che assiste.

Ci rimane un’ultima nota da fare. È facile colmare i cieli di deliziosi angioletti, è ancor più facile bamboleggiare ideologicamente con le « misteriose presenze » alla « New Age » . È pericoloso inoltrarsi nel mondo angelico con intenti esoterico- magici perché questa è idolatria nel caso peggiore o stupidità nel caso dell’ingenuità superstiziosa. Ritornare al rigore e alla sobrietà della fede, in questo come in altri campi, è necessario. Ce lo ricorda soprattutto Paolo. Egli aveva già reagito con veemenza a questa riduzione idolatrica del mistero cristiano quando, scrivendo ai cristiani di Colossi, una città della più profonda provincia dell’Asia Minore, aveva polemizzato con un loro culto angelico esasperato, forse simile a quello che sta ai nostri giorni qua e là affiorando: « Nessuno si compiaccia in pratiche di poco conto e nella venerazione degli angeli, seguendo le proprie pretese visioni » ( 2,18).
« A quale degli angeli Dio ha detto: ‘ Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato’? » , si domanda l’anonimo autore neotestamentario della Lettera agli Ebrei ( 1,5). Al centro dell’autentica fede cristiana non ci sono gli angeli ma il Cristo che è « al di sopra di ogni potenza angelica » e nel cui nome « ogni ginocchio si piega in cielo, sulla terra e sotto terra » ( Filippesi 2,10).
Scriveva il teologo von Balthasar: «Gli enti abitatori del Paradiso circondano l’intera vita di Gesù, appaiono nel presepe come splendore della sua discesa in mezzo a noi; riappaiono nella Risurrezione e nell’Ascensione come fulgore dell’ascesa lassù» La loro missione è mettersi vicini all’umanità per svelare il mistero della gloria presente in Cristo in un modo che non ci accechi come sarebbe con la luce diretta»

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Uultima udienza Benedetto XVI: « Non abbandono la croce »

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I DUE ALBERI DEL GIARDINO DI EDEN: L’ALBERO DELLA CONOSCENZA DEL BENE E DEL MALE E L’ALBERO DELLA VITA (RAV LUCIANO CARO)

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I DUE ALBERI DEL GIARDINO DI EDEN: L’ALBERO DELLA CONOSCENZA DEL BENE E DEL MALE E L’ALBERO DELLA VITA

(RAV LUCIANO CARO)

Voglio fare un approccio al testo biblico, come messaggio di origine divina indirizzato a tutti gli uomini che credono, ebrei o non ebrei. Vediamo cosa insegna questo messaggio all’uomo. Tutta la prima parte del libro della Genesi appartiene a quelle parti del testo biblico che sono le più pericolose; io li chiamo capitoli trappola. Dico questo nel senso che sono talmente interessanti e semplici nella loro esposizione, che possono portarci fuori strada; sembrano solo delle belle storielle (la creazione del mondo, il paradiso terrestre, l’arca di Noè, ecc.), che noi leggiamo con un certo sorriso di compiacimento, credendoci molto più avanti. Secondo me, invece, dietro questa esposizione così semplice, c’è un bagaglio di significati che molto spesso non riusciamo a vedere. Quando il testo ci dice che Dio creò il mondo in sei giorni, o che creò il cielo e la terra, non è vero, perché le cose non sono andate così, ma nessuno sa come sono andate in realtà. Dietro questo modo così elementare, apparentemente puerile della descrizione, ci sia una provocazione rivolta ad ognuno di noi, perché cerchiamo di approfondire e di capire il messaggio divino insito in quelle pagine.
Volevo anche sottolineare che la Genesi non è stata prodotta in un ambiente completamente vergine; cioè non è che Mosè un bel giorno ha detto: « Adesso scrivo la creazione, il diluvio, i patriarchi, ecc. », ma il testo è stato prodotto in un ambiente già saturo di miti, storie, leggende che circolavano. Di questi miti di ambiente mesopotamico, egiziano, numerico, ecc. lascia alcune cose così come si trovano, mentre altre le manipola, per cercare di presentarci un racconto dal quale noi possiamo cercare di ricavare un insegnamento, così come si fa con i bambini. Se voglio parlare di Dio a un bambino piccolo, non posso adoperare un linguaggio teologico, che non sarebbe in condizione di capire, ma devo utilizzare dei raccontini, che gli permettano di ricavare lui il significato. Così tutto quello che il testo biblico ci dice della creazione, è ripreso da miti più antichi, ma sono raccontati in modo tale da togliere dalla mente della gente determinati elementi negativi, per fare cogliere loro degli elementi positivi. Il racconto sulla creazione, ad es., a mio avviso vuole insegnarci che tutte quelle forze della natura, che anticamente erano divinizzate, non sono altro che il prodotto di una volontà superiore. Il mare, dunque, non è più il dio del mare, ma un qualcosa creato da qualcuno che è al di sopra; lo stesso per le piante e così via. Viene così insinuato in noi il concetto che tutto è nato da una volontà superiore imperscrutabile. La Torah non vuole insegnarci il come e il perché Dio abbia creato il mondo, ma vuole solo dirci che c’è un creatore che ha creato le forze della natura.
La cosa ha particolare significato per quanto attiene ai passi che dovremo considerare oggi. Il testo ci racconta che Dio, tra le cose che ha fatto, ha piantato un giardino in una località chiamata Eden; un giardino a oriente dell’Eden, nel quale ha collocato l’uomo, dandogli l’ordine di non mangiare un certo frutto. Si parla della mela, perché tutti i pittori di tutti i tempi hanno rappresentato Adamo ed Eva nel giardino sempre con la mela; doveva essere un frutto, ma nell’immaginario collettivo il frutto è un qualche cosa di rotondo e quindi questa cosa tonda, per noi, è la mela. Il testo, però, dice solo « il frutto dell’albero », che era bello da vedersi e appetibile da mangiarsi. I nostri maestri si sono sbizzarriti nel trovare tutte le risposte a questo riguardo. Qual è il frutto bello da vedersi e appetibile? Ognuno ha i suoi gusti. Fate attenzione, perché molto spesso le traduzioni ci portano fuori strada.
Dobbiamo abituarci, in queste parti narrative del testo sacro, a cercare di vedere qual è il significato interno; buttare via (è un’espressione usata dai nostri maestri) la buccia, cioè il contorno e guardare qual è l’interno. Da una lettura dei primi capitoli della Genesi, si ricava che Dio ha creato il mondo tov, buono ed è stata la presenza dell’uomo a sottrarre, in un certa misura, questa bontà all’universo, con il suo comportamento.
Nel nostro racconto si parla dell’albero della conoscenza del bene e del male. Ma facciamo attenzione, perché il testo biblico a volte ci prende in giro, ci stimola. Noi traduciamo tov e ra’, con buono e cattivo, bene e male. Non so se vuol dire bene nel senso nostro; quando leggiamo che Dio vide che una cosa era buona, cosa vuol dire? Che è una cosa bella, o utile, o buona dal punto di vista morale ed etico?
Leggendo il testo così con semplicità, ci vengono delle perplessità sulla figura di Dio, il quale crea e, dopo aver creato, vede che è una cosa buona. Prima non lo sapeva? Possiamo farci un’idea sbagliata di Dio. Il succo è che cosa vuol dire buono. Tutto il libro della genesi è focalizzato su questa parola. Dio crea la donna, perché dice: lo tov, cioè non è bene che l’uomo sia solo. Non è cosa buona dal punto di vista morale, etico, oppure non è comodo, cioè l’uomo senza la donna non sta bene? A un certo punto del testo si dice che vennero i figli di Dio (chi sono non lo sa nessuno) e videro le figlie dell’uomo che erano tovòt, buone e si sono prese delle donne, da cui nacquero i giganti. Cosa vuol dire? Che erano belle più delle donne che ci sono tra gli angeli? Buone alla romana, nel senso di formose? E’ evidente che le cose non stanno in questi termini. Analogamente in termine di provocazione, quando si narra della nascita di Mosè, è detto che la mamma non l’ha buttato via, perché era buono; se era cattivo lo buttava, forse? E qual è quella madre che nei confronti del bambino appena nato, trova qualcosa che non funziona?
Lo stesso vale per l’albero della conoscenza del tov e del ra’. Il ra’ è il contrario del tov, ma cos’è?
C’è un altro elemento che vorrei sottoporre alla vostra attenzione; sembra che vada fuori tema, ma soltanto parzialmente. Nel racconto del giardino dell’Eden, compaiono degli altri personaggi. C’è il giardino, le piante, Adamo ed Eva, il serpente e alla fine ci sono i cherubini. Cosa sono? Non lo sappiamo di preciso. Un qualche cosa che sono degli esseri posti da Dio a guardia del giardino per fare in modo che l’uomo, cacciato dal giardino, non ci ritorni. L’immagine che abbiamo noi dei cherubini è quella di angioletti paffuti, dalla forma pseudo umana. Ma è proprio così o vuol dire un’altra cosa? Sembra che questa parola cherubìm fosse chiarissima ai tempi in cui fu scritto il testo. Ritroviamo questo termine nel racconto dell’Esodo, dove si narra della tenda del convegno, in cui vi era una cassetta, che conteneva le tavole della Legge e che aveva sopra un coperchio e su di esso due cherubini, che si guardano. Rimaniamo sbigottiti. Proprio nel momento culminante, in cui si sottolinea il divieto di farsi alcuna immagine per adorarla, compaiono due forme umane. Io credo che nell’antichità, quando la Torah fu emanata, avessero delle idee più chiare delle nostre su cosa fossero questi cherubini.
Un’altra cosa che vorrei suggerire alla vostra attenzione, sempre come provocazione, perché cerchiate di approfondire, è che del giardino dell’Eden se ne parla, in forma piuttosto oscura, in fonti mesopotamiche e anche in altre fonti ebraiche bibliche, in particolare nel libro di Ezechiele, ai capitoli 28 e 31, dove è riproposto in chiave diversa. Non sappiamo nemmeno cosa vuol dirci Ezechiele. Lui ci parla di un cherubino, cherùv, che forse è la personificazione del re di Tiro. Lui sta rivolgendo una petizione al re di Tiro e in modo sarcastico gli dice: « Ma cosa ti credi di essere ancora il cherubino del giardino dell’Eden? ». Inoltre in quella circostanza si fa riferimento al fatto che questo giardino, nella visione di Ezechiele, era in un monte sacro, mentre, viceversa, nel testo della Genesi, di monte non se ne parla per niente. E cosa vuol dire Eden? Nell’ebraico moderno è una radice che vuole dire soavità, dolcezza, delicatezza, ma sembra che in una radice araba più antica abbia il significato o di un nome di luogo oppure sembra che abbia delle attinenze con pianura, quindi il giardino dell’Eden è il giardino della pianura. Ezechiele lo pone, invece, su una montagna. Probabilmente c’erano vari miti che circolavano. La Genesi ce lo propone anche con dei fiumi e delle pietre preziose, mentre Ezechiele ci parla di alberi che invece di frutti, producevano pietre preziose. La stessa cosa troviamo in miti numerici precedenti, dove si parla del giardino collocato in un posto pieno di miniere di pietre preziose.
Se leggete quei capitoli di Ezechiele, troverete che il giardino è chiamato il giardino di Dio, facendoci immaginare che fosse una specie di residenza divina. Sembra che Dio l’avesse preso per abitarci, ma poi ci ha messo l’uomo. Ma cos’è questa storia? Quindi siamo veramente provocati a cercare di capire cosa ci vuole insegnare il testo.
Spero di non deludervi, ma devo dire ancora una cosa. Per cercare di capire bene qual è il significato di questi passi, dobbiamo tenere conto anche della terminologia antica usata nel testo. Ad es. per indicare il nome di Dio, che compare sotto forme diverse. All’inizio della Genesi compare il nome Elohìm, un termine molto generico: divinità. Chiunque sia, qualunque cosa sia. Poi, andando avanti nel testo, si usa il termine tetragrammato, cioè con le quattro lettere sacre, impronunciabile. Come mai l’autore usa questo e quello? In altri passi viene chiamato in tutti e due i modi: il Tetragramma seguito da Elohìm. Una delle interpretazioni che va per la maggiore, è quella che dice che quando si usa Elohìm si vuole indicare Dio dal punto di vista della giustizia, mentre quando si parla di Dio dal punto di vista della bontà e della misericordia, si usa il tetragramma. Ma c’è chi dice esattamente il contrario.
Qualcuno dice che il termine Elohìm viene usato per indicare il Dio in qualche modo trascendente, il Creatore, che non si sa bene cos’è; mentre l’altro termine indica un Dio più personale, che parla con l’uomo in un rapporto più diretto. Sarà vero? Non lo so.
Quello che non riusciamo a capire è cosa sia questa faccenda di Dio che crea il giardino e vi mette dentro l’uomo. Un passo dice che l’ha messo lì « per lavorarlo e per custodirlo ». E noi ci inalberiamo subito. Intanto perché dal punto di vista grammaticale le cose non funzionano, perché se lavorarlo si riferisce al giardino, la parola giardino, in ebraico, è maschile, mentre viene adoperato un suffisso femminile, come se dicessimo in italiano: « Dio creò un giardino e vi mise l’uomo per lavorarla e custodirla »; ma lavorarla e custodirla che cosa? Mosè non sapeva la grammatica? Prima adopera un maschile e poi ci mette un suffisso femminile? Tra l’altro non è nemmeno chiaro se sia un suffisso femminile o no. Qualcuno dice che Mosè volesse intendere la terra e non il giardino, da lavorare. Ma poi non funziona dal punto di vista del significato, perché Dio ha decretato il lavoro dopo che l’uomo aveva peccato. Sembra, da una lettura sommaria, che l’uomo, quand’era nel giardino, passasse il tempo a fare i complimenti a sua moglie, forse, oppure a mangiare i frutti che gli capitavano. Cosa vuol dire custodire il giardino? Custodirlo, proteggerlo da che cosa? Non lo sappiamo. I nostri maestri, adoperando il meccanismo di andare a cercare tutti i significati dei vari termini, sostengono che lavorarlo e custodirlo ha un significato più cultuale, perché la parola avodà vuol dire lavoro, ma anche culto e la parola custodire vuol dire anche osservare. Già nel momento in cui l’uomo è stato collocato lì dentro, Dio aveva lo scopo che l’uomo prestasse una specie di servizio di Dio, osservando quello che Dio gli aveva detto di osservare. Come un segno di riconoscimento che tutte le cose di cui l’uomo stava godendo, venivano da Dio. Ovviamente l’uomo non ha fatto né l’una, né l’altra cosa.
Poi troviamo l’albero della conoscenza del bene e del male collocato proprio nel mezzo del giardino, quasi come una provocazione; qualunque strada l’uomo facesse, si trovava davanti questo albero. Inoltre c’era anche l’albero della vita; però Dio non gliel’ha detto. Lo scopo sembra che sia quello di fare in modo che, prima o poi, l’uomo mangi anche di quell’albero e perciò divenga immortale. Dio dice solo che se mangiano di quell’albero, moriranno; ma cosa vuol dire morire? Fino a quel momento non era ancora morto nessuno e perciò che idea potevano avere Adamo ed Eva della morte? Dio è scorretto! Una delle forme interpretative è quella di considerare l’uomo, in quel momento, come l’uomo bambino. Dio si rivolge a lui come ci si rivolge a un bambino, perché non aveva nessuna esperienza. La provocazione consisterebbe in questo: l’albero della conoscenza del bene e del male è l’albero delle esperienze. L’uomo ha due possibilità davanti a sé: o obbedire a Dio e non mangiare dell’albero della conoscenza e continuare, così, a vivere come un bambino, senza l’esperienza di quello che è buono e cattivo, ma non in senso morale, ma nel senso di quello che è positivo e quello che è negativo nella vita: malattie, dispiaceri, vecchiaia, ecc. Se l’uomo fosse stato lì dentro come un bambino, ubbidendo a Dio, avrebbe continuato a vivere una vita felice inconsapevole, senza particolari problemi. Invece l’uomo ha voluto prescindere da questo avvertimento, scegliendo di conoscere, anche se questa conoscenza è legata alla sofferenza. L’albero della conoscenza del bene e del male diventerebbe l’albero dell’esperienza di quello che la vita può dare, allorché diventiamo consapevoli. L’avere ottenuto questa esperienza, disubbidendo a Dio, ha sottratto all’uomo la possibilità di diventare immortale. Questa disubbidienza dell’uomo era in qualche modo pilotata da Dio, perché gli ha detto quello che era vero in modo che non poteva capire. Gli pone davanti due possibilità: o vivere illimitatamente in modo inconsapevole, oppure vivere limitatamente nel tempo, ma consapevolmente, con tutto quello che la consapevolezza comporta: sofferenza, guai, ecc. ma, in qualche modo, Dio l’avrebbe spinto in quella direzione, perché gli ha messo accanto la donna, che gli ha dato il consiglio, poi gli ha dato il serpente, che ha consigliato la moglie e poi ha collocato questo albero nel punto più strategico, inoltre gli avrebbe detto le cose in modo incomprensibile. Gli dice: « Morirai, se fai questo », ma per Adàm quella parola era incomprensibile, perché è come se voi diceste a un bambino: « Non metterti il dito in bocca, quando hai toccato per terra, perché se non ti ammali! ». E’ vero che gliel’avete detto, ma io ho dei dubbi se lui ha capito. Quand’è che comincia a capirlo? Appena gli hai dato la sberla. Come noi: cerchiamo di lasciare i nostri figli liberi di scegliere, ma un po’ li pilotiamo.
Fermiamoci un attimo su una questione semantica, che riguarda il significato delle parole. In varie parti del testo biblico, la conoscenza del bene e del male è un attributo di Dio. Cosa significa, però, che Dio conosce il bene e il male? Che sa distinguere? Mangiando quel frutto proibito, l’uomo può acquisire quella caratteristica di Dio. Anche la vita eterna è una caratteristica divina, ma ad essa Dio non vuole che l’uomo attinga.
Di nuovo. Bene e male è quello che è utile, non dannoso, o in senso morale? Adoperando lo stesso verbo conoscere, il testo dice che, quando ebbero mangiato il frutto, conobbero che erano nudi. Il fatto di essere nudi era una cosa negativa? E’ questo il male? Dio provvede in prima persona a fare loro i vestiti; è il primo sarto dell’universo. Determinati filoni di interpretazione, soprattutto in campo cristiano, hanno portato a pensare il bene e il male in termini sessuali. Quasi a sottolineare che l’uomo e la donna abbiano cominciato a praticare il sesso, dopo aver mangiato il frutto proibito. Io ho molte perplessità che voglia dire questo. Non so bene cosa vuol dire questa nudità. Forse conoscenza vuol dire esperienza; dopo aver mangiato il frutto, si rendono conto di certo aspetti della realtà, ai quali prima non facevano caso. Come i bambini, che crescono piano piano e acquisiscono una conoscenza oggettiva delle cose.
Qualcuno interpreta che tutta questa storia è stata deliberata; in origine sembra che Dio avesse previsto che l’uomo stesse nel giardino e Dio si sarebbe comportato nei suoi confronti come un padre che pensa a tutto. Fa’ quello che ti dico io, e starai bene. L’uomo si sarebbe ribellato: « No, papà! Io voglio uscire dalla tutela paterna. Sbaglierò, non sbaglierò, ma voglio affrontare la vita come desidero io ».
Dio dice che non voleva che l’uomo diventasse immortale, infatti pone i cherubini a guardia del giardino perché l’uomo non potesse mangiare dell’albero della vita. Ma allora perché ha inventato questo albero e l’ha messo nel giardino?
Il passo biblico è provocatorio, incomprensibile. Sta di fatto che il regista di tutto è Dio: è Lui che ha creato, determina e giudica l’operato dell’uomo. Maimonide dice che c’è qualcosa che non funziona; si chiede: « Come fa Dio a dare degli ordini a chi non è in condizione di sapere che disubbidire è male? ».
Quando Adamo si nasconde nell’albero, dopo il peccato, Dio si rivolge a lui dicendogli: « Dove sei? ». Frase bellissima, con un significato molto preciso e cioè il significato più ampio, come se Dio chiedesse a noi tutti i giorni: « Dove sei? Dove stai andando? Dove sei collocato nell’universo? Ti rendi conto? ». C’è un altro elemento più terra terra ed è che noi da qui impariamo il comportamento di Dio, che non ha accusato direttamente l’uomo, assalendo col rimprovero, ma gli ha posto questa domanda per dargli il tempo di formulare una risposta. Viceversa Dio si rivolge all’uomo, dandogli il tempo di prepararsi una difesa, quasi a prepararlo alla seconda domanda, che sarebbe arrivata subito dopo. Quando dobbiamo accusare qualcuno, dovremmo anche dargli la possibilità di prepararsi una giustificazione. Dobbiamo leggere questi racconti, imparando come Dio si comporta, per imitarlo.
Non lasciamoci trascinare dal fascino che esercitano questi racconti o dalle tradizioni stereotipate che ci portano fuori strada. Le traduzioni fanno molta fatica a rendere ciò che il testo vuole dire, perciò dobbiamo sempre stare attenti, tenendo conto anche che certi termini sembrano molto semplici a tradurli e invece non capiamo bene cosa veramente significano. Per es., cosa significa santificare,

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