Archive pour mars, 2015

QUALI SEGRETI CUSTODIVA KAROL WOJTYLA?

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=129193

QUALI SEGRETI CUSTODIVA KAROL WOJTYLA?

Giovanni Paolo II è il primo slavo sulla Cattedra di Pietro, primo straniero da 500 anni, uno dei papi più giovani per uno dei pontificati più lunghi della storia della Chiesa, un Papa proveniente da un Paese dell’Est, il Papa che ha abbattuto i sistemi totalitari del blocco comunista, cambiando la storia del mondo…
Il 2 aprile abbiamo ricordato il settimo anniversario della scomparsa di Giovanni Paolo II, tra qualche settimana, il 1 maggio, ricorderemo il 1° anniversario della sua beatificazione voluta da Benedetto XVI.
Durante queste brevi vacanze pasquali ho avuto modo di leggere due ottimi libri sul papa polacco di Cracovia, I segreti di Karol Wojtyla di Antonio Socci, e Il miracolo di Karol di Saverio Gaeta. Sono stato impressionato soprattutto dal primo anche perché non conoscevo alcuni aspetti della vita di Giovanni Paolo II. Mi riferisco ai segreti che custodiva e perché fino a oggi sono rimaste sconosciute. Il libro di Socci fa riferimento alle esperienze mistiche di Giovanni Paolo II, alla sua forza spirituale che è riuscita a cambiare il mondo, in particolare quello sotto l’impero sovietico. Socci scrive del presunto disastro nucleare imminente, scongiurato grazie all’intervento di Karol Wojtyla.
Giovanni Paolo II è il primo slavo sulla Cattedra di Pietro, primo straniero da 500 anni, uno dei papi più giovani per uno dei pontificati più lunghi della storia della Chiesa, un Papa proveniente da un Paese dell’Est, il Papa che ha abbattuto i sistemi totalitari del blocco comunista, cambiando la storia del mondo, il Papa che ha portato la Chiesa nel terzo millennio e che, con la sua personalità, ha ridato forza al Papato suscitando lo stupore e l’ammirazione di tanti popoli, insieme all’odio di chi ha cercato di assassinarlo sul luogo stesso del martirio di San Pietro.
Il libro di Socci parla di un pontificato misteriosamente annunciato e accompagnato da una serie stupefacente di profezie, di mistici, di avvenimenti soprannaturali e di manifestazioni della Madonna. Evidente il rapporto di Karol Wojtyla con uno dei più grandi mistici del XX secolo, padre Pio da Pietrelcina. A cominciare dal suo viaggio nel 1948 a S. Giovanni Rotondo, sembra che durante la confessione Padre Pio avrebbe svelato al giovane prete che sarebbe diventato Papa, anche se poi lui da Papa ha negato questa profezia. Un particolare destino lega Wojtyla arcivescovo di Cracovia, il Papa Paolo VI e il frate del Gargano, attorno all’evento che provoca la tempesta sull’enciclica Humanae vitae, il documento contro la contraccezione che ha lasciato Paolo VI solo di fronte agli attacchi e dure critiche anche all’interno del mondo cattolico. Il 5 gennaio 1969 sulla prima pagine dell’Osservatore Romano appare un lungo articolo, firmato proprio, dall’arcivescovo di Cracovia Wojtyla per commentare e spiegare l’importanza dell’enciclica. Poi c’è padre Pio, che in quel momento drammatico per il pontificato, il 12 settembre 1968, dieci giorni prima di morire, indirizza una lettera pubblica al Papa. « L’evento è del tutto insolito e va compreso. Mai padre Pio aveva fatto una cosa simile. Quali ne erano le ragioni? Si domanda Socci. Principalmente la terribile crisi che stava esplodendo nella Chiesa. Il postconcilio, come ebbe a dire Paolo VI, si rivelò essere, anziché l’alba di un giorno radioso, una giornata buia e tempestosa. Soprattutto con la pubblicazione dell’enciclica Hunanae vitae, sulla crescita demografica del mondo e sulla morale sessuale, esplose tutta la carica di ribellione al Papato che stava covando dentro la Chiesa, anche tra teologi e pastori ». (pag. 98)
Il pontefice si trovò solo, incompreso e sotto attacco, padre Pio con la lettera, corse in difesa del Santo Padre e della Chiesa minacciata da una delle crisi peggiori della sua storia. Non solo, il frate si offriva come vittima in difesa del Papa e della Chiesa, così dopo cinquant’anni esatti di crocifissione, padre Pio morì improvvisamente il 23 settembre del 1968. Qualcuno ha scritto: « Padre Pio è morto di crepacuore per qual che succede nella Chiesa di Dio « . Da quel momento gli anni del pontificato di Paolo Vi trascorrono nel dolore, circa 70 mila sacerdoti lasciano l’abito e altrettante religiose abbandonano i chiostri. Erano gli anni dell’ autodemolizione della Chiesa.
Ma ritorniamo a Karol Wojtyla, al papa missionario, con i suoi numerosi viaggi in 27 anni di pontificato. « Potremmo dire che si è letteralmente dato in pasto, perché gli uomini hanno bisogno di incontrare un volto concreto in cui riconoscere Gesù ». (pag. 105) Il grande filosofo contemporaneo, Renè Girard, definisce Giovanni Paolo II, un grande conquistatore di folle. Bisogna risalire ai grandi papi medioevali per trovare un pontefice con una personalità altrettanto incisiva, sconvolgente e carismatica. Anzi, per Socci, forse neanche i papi medioevali reggono il confronto con Karol il Grande.
Tra la serie di profezie, Socci cita quella di un sacerdote napoletano Dolindo Ruotolo, morto nel 1970, fu un mistico simile a padre Pio, in una lettera ravvisava la venuta di un Papa polacco che ci avrebbe liberato dal comunismo. « Il mondo va verso la rovina, ma la Polonia come ai tempi di Sobieski, per la devozione che ha al mio cuore, sarà oggi come i 20. 000 che salvarono l’Europa e il mondo dalla tirannia turca. Ora la Polonia libererà il mondo dalla più tremenda tirannia comunista. Sorge un nuovo Giovanni, con una marcia eroica spezzerà le catene, oltre i confini imposti dalla tirannide comunista ». Dodici anni dopo, in effetti, dalla Polonia, sarebbe venuto « un nuovo Giovanni », eroe disarmato, che avrebbe abbattuto, il più vasto, duraturo e mostruoso impero ateo e persecutore dei cristiani della storia, il comunismo. Il caso vuole che don Karol Wojtyla, il 2 novembre 1946, ha celebrato la sua prima messa nella cattedrale di Wawel, nella cripta di S. Leonardo, il cuore della nazione polacca, qui riposano re, regine, vescovi, poeti, ma soprattutto riposa re Giovanni III Sobieski. Wojtyla nel secondo viaggio in Polonia diceva ai polacchi riuniti a Varsavia: « come la Polonia salvò nel 1683 l’Europa dai turchi, così essa libererà un giorno l’Europa dal comunismo ».
Per Giovanni Paolo II la caduta del comunismo e la liberazione delle nazioni dal gioco del totalitarismo marxista è stato una grazia divina, voluta dalla Madonna di Fatima. Lei stessa aveva chiesto al Papa l’affidamento della Russia, compiuto il 25 marzo 1984. Secondo Socci siamo di fronte a due miracoli: il primo, senza alcun atto di violenza, da uomini inermi è stato spazzato via il più feroce impero armato fino ai denti. Il secondo: l’impero sovietico non ha scatenato una guerra che sarebbe stata certamente nucleare. Dunque, Giovanni Paolo II ci ha salvati dal comunismo ma anche da una ecatombe nucleare. Sarà un caso ma l’atto di affidamento alla Madonna di Fatima pare che abbia scongiurato una catastrofe planetaria, infatti il 13 maggio 1984, accade un incidente a Severomorsk, nel Mare del Nord, il potenziale sovietico atomico viene messo fuori uso. Sembra la firma della Madonna di Fatima così come avvenne il 13 maggio 1981, quando Maria salvò il Papa dalla pallottola del killer turco Ali Agca.
Per Socci però la minaccia nucleare resta. Giovanni Paolo II continuò sempre ad avvertire della possibilità di una « autodistruzione incalcolabile »del mondo.
Il secondo volume che ho letto traccia le qualità soprannaturali del beato, forse ancora tutte da scoprire. Per i funerali di Giovanni Paolo II, l’allora cardinale Ratzinger poteva dire: « Possiamo essere sicuri che il nostro amato Papa sta adesso alla finestra della casa del Padre, ci vede e ci benedice », ne siamo certi, viste le numerose testimonianze di grazie attribuite alla sua intercessione.

(Giovanni Paolo II) 2012 – autore: Domenica Bonvegna

Publié dans:Papa Giovanni Paolo II |on 10 mars, 2015 |Pas de commentaires »

STAREC SILVANO DELL’ATHOS : LE LACRIME DI ADAMO

http://www.gianfrancobertagni.it/Discipline/misticacristiana.htm

STAREC SILVANO DELL’ATHOS

LE LACRIME DI ADAMO

Adamo, padre dell’umanità, in paradiso conobbe la dolcezza dell’amore di Dio; così, dopo esser stato cacciato dal paradiso a causa del suo peccato e aver perso l’amore di Dio, soffriva amaramente e levava profondi gemiti.
Il deserto intero riecheggiava dei suoi singhiozzi.
La sua anima era tormentata da un unico pensiero: “Ho amareggiato il Dio che amo”.
Non l’Eden, non la sua bellezza rimpiangeva, ma la perdita dell’amore di Dio che a ogni istante attrae insaziabilmente l’anima a Dio.
Così ogni anima, che ha conosciuto Dio nello Spirito santo e ha poi smarrito la grazia, prova lo stesso dolore di Adamo.
L’anima soffre e si tormenta per aver amareggiato il Signore che ama.

Adamo gemeva, sperduto su una terra che non gli procurava gioia; aveva nostalgia di Dio e gridava:
“L’anima mia ha sete del Signore, in lacrime lo cerco. Come potrei non cercarlo?
“Quando ero con Dio, l’anima mia si rallegrava nella pace e l’avversario non poteva farmi alcun male. Ora invece lo spirito malvagio si è impadronito di me e tormenta l’anima mia. Ecco perché l’anima mia si strugge per il Signore fino a morire e non accetta conforto alcuno; il mio spirito anela a Dio e nulla di terreno lo consola; ho desiderio ardente di rivedere Dio (cf. Sal 42,2 ss.), di goderlo fino a saziarmene.
“Nemmeno per un attimo posso dimenticarmi di lui, l’anima mia langue per lui, gemo dal grande dolore. Abbi pietà di me, o Dio, pietà della tua creatura caduta”.
Così gemeva Adamo, e un fiume di lacrime gli solcava il volto, scorreva sul petto e cadeva a terra. Il deserto intero riecheggiava dei suoi singhiozzi.
Bestie e uccelli erano ammutoliti di dolore.
E Adamo gemeva: per il suo peccato tutti avevano perduto la pace e l’amore.

Grande fu il dolore di Adamo dopo la cacciata dal paradiso, ma più grande ancora quando vide il figlio Abele ucciso da Caino. Per l’immane sofferenza piangeva, pensando: “Allora da me usciranno popoli, si moltiplicheranno sulla terra, ma solo per soffrire tutti, per vivere nell’inimicizia e uccidersi a vicenda”
Come oceano immenso era il suo dolore: solo le anime che hanno conosciuto il Signore e il suo ineffabile amore possono capirlo.
Io pure ho perso la grazia, e con Adamo imploro: “Abbi pietà di me, Signore. Donami lo spirito di umiltà e di amore”.
Come è grande l’amore del Signore! Chi ti ha conosciuto non si stanca di cercarti, e giorno e notte grida: “Desidero te, Signore, in lacrime ti cerco. Come potrei non cercarti? Sei tu che mi hai permesso di conoscerti nello Spirito santo e ora questa divina conoscenza attira incessantemente la mia anima a te”.

Adamo piangeva:

“Il silenzio del deserto,
non mi rallegra.
La bellezza di boschi e prati,
non mi dà riposo.
Il canto degli uccelli,
non lenisce il mio dolore.
Nulla, più nulla mi dà gioia.
L’anima mia è affranta
da un dolore troppo grande.
Ho offeso Dio, il mio amato.
E se ancora il Signore
mi accogliesse in paradiso,
anche là piangerei e soffrirei.
Perché ho amareggiato il Dio che amo”.

Adamo, cacciato dal paradiso, sentiva sgorgare dal cuore trafitto fiumi di lacrime. Così piange ogni anima che ha conosciuto Dio e gli dice:

“Dove sei, Signore?
Dove sei, mia luce?
Dove si è nascosta la bellezza del tuo volto?
Da troppo tempo l’anima mia
non vede la tua luce,
afflitta ti cerca.
Nell’anima mia non lo vedo. Perché?
In me non dimora. Cosa glielo impedisce?
In me non c’è l’umiltà di Cristo
né l’amore per i nemici”.

Sconfinato, indescrivibile amore: questo è Dio.
Adamo andava errando sulla terra: nel cuore lacrime amare, la mente continuamente in Dio. E quando il corpo esausto non aveva più lacrime da piangere, era lo spirito ad ardere per Dio, non potendo dimenticare il paradiso e la sua bellezza. Ma l’anima di Adamo amava Dio più di ogni altra cosa e, forte di questo amore, a lui incessantemente anelava.
Adamo, di te io scrivo; ma tu vedi che troppo debole è la mia mente per capire l’ardore del tuo desiderio di Dio e il peso della tua penitenza.
Adamo, tu vedi quanto io, tuo figlio, soffro sulla terra. In me non c’è più fuoco ormai, la fiamma del mio amore si sta spegnendo.
Adamo, canta per noi il cantico del Signore: l’anima mia esulti di gioia nel Signore (cf. Lc 1,47), si levi a cantarlo e glorificarlo, come nei cieli lo lodano i cherubini, i serafini e tutte le potenze celesti.
Adamo, nostro padre, canta per noi il cantico del Signore: tutta la terra lo senta, tutti i tuoi figli levino i loro cuori a Dio, gioiscano al dolce suono dell’inno del cielo, dimentichino le sofferenze della terra.
Adamo, nostro padre, narra il Signore a noi, tuoi figli! L’anima tua conosceva Dio, conosceva la dolcezza e la gioia del paradiso. E ora tu dimori nei cieli e contempli la gloria del Signore.
Narraci come il Signore nostro è glorificato per la sua passione, come vengono cantati i cantici in cielo, come sono dolci gli inni proclamati nello Spirito santo.
Narraci la gloria di Dio, quanto è misericordioso, quanto ama la sua creatura.
Narraci della santa Madre di Dio, quanto è esaltata nei cieli, quali inni la proclamano beata.
Narraci come gioiscono i santi lassù, come risplendono di grazia, come amano il Signore, con quale santa umiltà stanno davanti al suo trono.
Adamo, consola e rallegra le nostre anime affrante.
Narraci: cosa vedi nei cieli?
Non rispondi?
Perché questo silenzio?
Eppure, la terra intera è avvolta di sofferenza.
Tanto ti assorbe l’amore divino da non poterti ricordare di noi?
Oppure vedi la Madre di Dio nella gloria e non puoi distogliere gli occhi da quella celeste visione e per questo lasci i tuoi figli nella desolazione, orfani di una parola di affetto? È per questo che non ci consoli e non ci permetti di scordare le amarezze della nostra vita terrena?
Adamo, nostro padre, non rispondi?
Il dolore dei tuoi figli sulla terra tu lo vedi.
Perché dunque questo silenzio? Perché?

Adamo risponde:
“Figli miei, amati, non turbate la mia pace. Non posso distogliermi dalla visione di Dio. L’anima mia, ferita dall’amore del Signore, si delizia della sua bontà. Chi vive nella luce del volto del Signore non può ricordarsi delle cose terrene”.

Adamo, nostro padre, hai forse abbandonato noi, tuoi figli ormai orfani? Ci hai lasciati immersi nell’abisso dei mali della terra?
Narraci: come piacere a Dio?
Ascolta i tuoi figli dispersi sulla terra: il loro spirito si disperde nei pensieri del loro cuore (cf. Lc 1,5 1) e non può accogliere la divinità. Molti si sono allontanati da Dio, vivono nelle tenebre e camminano verso gli abissi dell’inferno.
“Non turbate la mia estasi. Contemplo la Madre di Dio nella gloria e non posso distrarre la mente da questa visione per parlare con voi. Contemplo anche i santi profeti e apostoli e sono pervaso di stupore perché li vedo in tutto simili al Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio.
“Cammino nell’Eden e ovunque contemplo la gloria del Signore: egli vive in me e mi ha reso simile a lui. A tal punto il Signore glorifica l’uomo!”.

Adamo, parla con noi! Siamo tuoi figli e qui sulla terra soffriamo.
Narraci come ereditare il paradiso, affinché noi pure, come te, possiamo contemplare la gloria del Signore. Le anime nostre soffrono per la lontananza dal Signore, mentre tu nei cieli ti rallegri ed esulti nella gloria divina.
Ti supplichiamo: consolaci!

“Figli miei, perché gridate a me?
“Il Signore vi ama e vi ha dato i comandamenti della salvezza. Osservateli, soprattutto amatevi gli uni gli altri (cf. Gv 13,34): così troverete riposo in Dio. In ogni istante pentitevi dei vostri peccati: così sarete ritenuti degni di andarvene incontro a Cristo. Il Signore ha detto: ‘Amo quelli che mi amano’ (cf. Gv 14,21) e ‘glorificherò quelli che mi glorificano’ (1Sam 2,30)”.

Adamo, prega per noi, tuoi figli!
L’anima nostra è oppressa da molti mali.
Adamo, nostro padre, nei cieli tu contempli il Signore che è seduto nella gloria alla destra del Padre; vedi i cherubini, i serafini e i santi tutti; ascolti canti celesti e l’anima tua è rapita da tanta dolcezza. Ma noi, quaggiù, esclusi dalla grazia, siamo costantemente afflitti e abbiamo sete di Dio.
Si estingue in noi il fuoco dell’amore del Signore, siamo oppressi dal peso delle nostre colpe. Una tua parola ci sia di conforto; canta a noi un canto che ascolti nei cieli: lo senta la terra intera e gli uomini tutti dimentichino le loro miserie.
Adamo, la tristezza ci opprime!

“Figli miei, non turbate la mia pace. Passato è il tempo delle mie sofferenze. Nella dolcezza dello Spirito santo e nelle delizie del paradiso, come ricordarmi della terra?
“Questo solo vi dirò: Il Signore vi ama: vivete nell’amore! ‘Obbedite ai vostri superiori’ (Eb 13,17), umiliate i vostri cuori.
“Lo Spirito di Dio allora porrà la sua tenda in voi (cf . Gv 1,14). Viene nella quiete e all’anima dona pace; muto (cf. Sal 19,4), testimonia la sua salvezza.
“Cantate a Dio con amore e umiltà di spirito: di questo si rallegra il Signore”.
Adamo, nostro padre, che fare?
Cantare, cantiamo. Ma in noi né amore né umiltà.

“Pentitevi davanti al Signore, e pregate. Concederà ogni cosa agli uomini che tanto ama (cf. Gv 3,16). Anch’io mi sono pentito e ho sofferto per aver amareggiato il Signore, perché per i miei peccati la pace e la gioia erano state tolte dalla faccia della terra. Un fiume di lacrime solcava il mio volto, mi scorreva sul petto e cadeva a terra; il deserto intero riecheggiava dei miei singhiozzi. Non potete penetrare l’abisso della mia afflizione, né il mio pianto a causa di Dio e del paradiso. In paradiso ero felice: lo Spirito di Dio mi colmava di gioia, mi preservava libero da sofferenze.

“Ma, cacciato dal paradiso,
fiere e uccelli, che prima mi amavano,
presero a temermi e a fuggire lontano;
pensieri malvagi mi laceravano il cuore;
freddo e fame mi tormentavano;
il sole mi bruciava,
il vento mi sferzava,
la pioggia mi inzuppava:
ero sfinito dalle malattie
e da tutte le disgrazie della terra.
Ma tutto sopportavo, sperando in Dio
contro ogni speranza (cf. Rm 4,18).

“Figli miei, sopportate anche voi le fatiche della penitenza; amate le afflizioni; sottomettete il corpo con l’ascesi e la sobrietà; umiliatevi e amate i nemici (cf. Mt 5,44): lo Spirito santo dimorerà in voi. Allora conoscerete e troverete il regno di Dio.
“Ma non turbate la mia pace. Per l’amore di Dio non posso ricordarmi della terra. Ho dimenticato tutte le cose terrene, persino lo stesso paradiso da me perduto, perché contemplo la gloria eterna del Signore e la gloria dei santi che risplendono della stessa luce del volto di Dio”.

Adamo, canta per noi, cantaci il canto celeste: la terra intera lo ascolti e goda della pace di Dio. Sono inni soavi, cantati nello Spirito santo e noi desideriamo ascoltarli.

Adamo aveva perduto il paradiso terrestre. In lacrime lo cercava:
“Paradiso mio, paradiso mio, paradiso meraviglioso!”.
Ma il Signore nel suo amore gli fece dono, sulla croce (cf. Lc 23,43), di un paradiso migliore di quello perduto, un paradiso celeste dove rifulge la luce increata della santa Trinità.
Come contraccambiare l’amore del Signore per noi (cf. Sal 116,12)?

Raffaello, La disputa del Sacramento, Stanza della Segnatura, Palazzi Vaticani, Roma

Raffaello, La disputa del Sacramento, Stanza della Segnatura, Palazzi Vaticani, Roma dans immagini sacre verdon01
http://www.gliscritti.it/arte_fede/verdon/verdon.htm

Publié dans:immagini sacre |on 9 mars, 2015 |Pas de commentaires »

« LA GIOIA INTIMA DI SCOPRIRSI AMATI »

http://www.apostoline.it/perscegliere/formazione/gioia_intima.htm

« LA GIOIA INTIMA DI SCOPRIRSI AMATI »

di Fabio Ciardi

Chissà quante idee e immagini ti frullano in testa quando senti questa parola un po’ misteriosa: vocazione. A me fa subito venire in mente una cosa semplice e straordinaria: un rapporto di amore intimo e concreto che si intesse tra Dio e me, un colloquio che si va svolgendo tra lui e me giorno per giorno, con accenti sempre nuovi. Ogni uomo, ogni donna è chiamato a questo incontro con l’Amore: siamo fatti costitutivamente per amare, per incontrarci con la sorgente stessa dell’Amore. Siamo fatti per vivere in rapporto di comunione con lui. La realtà più bella e profonda della nostra umanità è la capacità di stare davanti a Dio a tu per tu: è nostro padre e noi siamo figli e figlie suoi.
L’iniziativa di questo rapporto è certamente di Dio stesso che, liberamente e mosso solo dall’amore, da sempre si prende cura di noi e ci chiama alla comunione con sé. Dio infatti –ci ricorda il Concilio- « nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con Sé » (DV 2). Il popolo d’Israele ha sperimentato l’amore di Dio in modo così forte che l’ha paragonato ad uno sposo e lui, il popolo, si è paragonato ad una sposa.
Dio si apre e si rivela, chiama e si comunica. Quanti, raggiunti da tale amore, rispondono – e a loro volta si aprono e si donano-, si trovano coinvolti in un rapporto con lui che tende alla comunione più piena. Il senso profondo della vocazione, prima di ogni altra ulteriore esplicitazione, è racchiuso in questo fecondo dialogo d’amore: è questo stesso dialogo d’amore.
In questo dialogo l’iniziativa è di chi ama di più, ed è l’Amore stesso che si protende verso di noi. « In questo sta l’amore –ci ricorda l’apostolo Giovanni-: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi » (1Gv 4,10). È lui che per primo, come lo sposo del Cantico dei Cantici, ci viene incontro e ci chiama: « Alzati amica mia, mia bella, e vieni » (Ct 2,10). L’iniziativa è sempre sua. È suo il primato d’amore. « Come possiamo amare, se prima non siamo stati amati? » si domandava s. Agostino. Se « noi amiamo », ci ricorda ancora l’apostolo Giovanni, è « perché egli ci ha amato per primo » (1Gv 4,19).
Incontrarsi con Dio è incontrarsi con l’Amore ed essere avvolti dall’amore. Ogni rapporto con lui ha in questo amore il suo inizio e il suo compimento. È la grande luce che brilla nel cuore di colui che crede e che gli fa gridare: sono amato dall’Amore! È quella prima autentica illuminazione interiore di cui parla la lettera agli Ebrei: « Richiamate alla memoria quei primi giorni nei quali foste illuminati » (10,32). Da essa parte l’autentica vita cristiana. È la scoperta gioiosa di avere un Padre che ci ama al punto « da dare il suo Figlio, l’Unigenito » (Gv 3,16). La scoperta che il Figlio, fattosi uomo per amore, ci ama fino a dare « la sua vita per noi » (1Gv 3,16). La scoperta che lo Spirito si riversa in noi come amore (cf. Rm 5,5): Dio è Amore! E perché amore… ci ama, personalmente, uno per uno. S. Paolo comunicava con gioia ai suoi cristiani della Galizia la scoperta che aveva rivoluzionato interamente la sua vita dandole finalmente un senso vero: il Figlio di Dio « mi ha amato e ha dato se stesso per me » (2,20).
Paolo non è certo rimasto indifferente davanti alla scoperta di essere amato personalmente da Cristo, suo Signore e suo Dio. Si è buttato a riamarlo con tutto se stesso. Amore chiama amore. La rivelazione di Dio Amore non lascia inerte o indifferente nessuno. Essa coinvolge la persona in tutta la sua interezza. Fa appello al cuore, alla mente, alla volontà.
Quando Giovanni nella sua prima lettera scriveva: « noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore » (4,16), esprimeva la sua adesione totale e incondizionata al dono ricevuto. Il dialogo che si instaura tra Dio e l’uomo è intrinsecamente coinvolgente. « Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre », gridava Geremia (20,7) incapace di resistere alla forza travolgente dell’amore di Dio.
Allo svelamento che Dio fa di sé è così legata intrinsecamente una chiamata. Rivelazione di Dio e chiamata si postulano a vicenda. La luce brillando illumina. Il fuoco bruciando riscalda. Così la manifestazione che Dio fa di sé come Amore è comunicazione dell’Amore e nello stesso tempo appello a rispondere all’amore con l’adesione di tutto se stesso. È come venire rapiti dall’amore di Dio, in quell’incanto che fa esclamare, con la sposa del Cantico dei Cantici: « Come sei bello, mio diletto » (Ct 1,16). In lui si scopre la pienezza della luce, della vita, della bellezza, l’appagamento di ogni anelito più profondo. È un ritrovarsi pienamente in lui. È l’illuminazione, il primo amore, l’inizio della fede cristiana.
Parlando di questo amore s. Bernardo scriveva che « l’amore basta a se stesso; si compiace di se stesso e per se stesso. L’amore in se stesso è un merito, ed è la ricompensa a se stesso. Al di là di sé, non cerca nessuna causa e nessun effetto: il suo effetto è tutt’uno con la sua pratica. Amo, perché amo; amo perché posso amare… Quando Dio ama, non vuole altro che essere amato; perché egli ama con il solo scopo di poter essere amato,sapendo che coloro che lo amano sono benedetti da quello stesso amore » (Commento al Cantico dei Cantici, 83,4).
La vocazione è prima di tutto questa gratuità dell’amore: scoprire di essere amati e sentirsi chiamati a rispondere all’amore con l’amore.

(da « Se vuoi »)

Publié dans:meditazioni |on 9 mars, 2015 |Pas de commentaires »

LE DONNE ANZIANE NELLA BIBBIA

http://www.usminazionale.it/9-2002/sebastiani.htm

LE DONNE ANZIANE NELLA BIBBIA

DI LILIA SEBASTIANI

Riflettere su questo argomento presenta qualche difficoltà di metodo. E’ difficile soprattutto identificare i materiali utili: cioè decidere in modo attendibile quando la Scrittura parli di donne anziane, ovvero quando il fatto di essere anziana abbia qualche peso nella fisionomia e nel ruolo della persona di cui si parla. Si rende perciò necessario disporre di un criterio, sia pure approssimativo ed elastico.
Il primo caso che consideriamo è quello delle donne che la Bibbia ricorda esplicitamente come avanzate negli anni; ed è piuttosto raro. Il secondo caso, più frequente, è quello in cui, benché dell’età nulla venga detto, le circostanze sembrano suggerire l’idea che si tratti di una donna non giovane. (Magari semplicemente perché non se ne parla in senso più o meno direttamente inteso alla riproduzione; o perché i figli sono adulti).
C’è però una discontinuità di fondo tra il mondo della Bibbia e il nostro, ed è necessario esserne consapevoli. Per noi ‘anziano’ è spesso sinonimo ed eufemismo per ‘vecchio’. L’idea di vecchiaia varia secondo le epoche e gli ambienti: nella Bibbia – come in molte civiltà antiche e, in certe culture, ancora oggi -, una donna che sia suocera e nonna, perciò ascrivibile alla classe degli anziani in senso sociale e culturale se non biologico, potrebbe anche essere sui trent’anni.
La vecchiaia – diciamo anzi “la maturità”, e non per volontà eufemistica, ma perché arrivare alla vecchiaia come noi la intendiamo non era poi facilissimo – è l’età in cui, con figli adulti e nipoti, la donna si trova di solito affrancata dal suo ruolo riproduttivo e in cui può esercitare finalmente una qualche autorità, seppure circoscritta. Ben diverso, certo, il caso in cui le sia toccata in sorte la sterilità, intesa come maledizione e vergogna e sempre indiscutibilmente colpa sua, anche qualora la biologia fosse di parere diverso: se il ruolo attivo nella generazione dei figli è riconosciuto solo all’uomo e a lui appartengono i figli, la sterilità o, poco meno grave, la sventura di partorire solo femmine, è a carico della donna.
La vedovanza, considerazioni affettive a parte, poteva rendere migliore o peggiore la condizione femminile. Una vedova ricca di una certa età è talvolta quanto di più simile a una donna indipendente si possa trovare nell’antichità: emancipata dalla soggezione diretta a un uomo e dal controllo della propria famiglia (infatti se troppo giovane, senza figli ecc., era spesso costretta dai parenti a riprendere marito), in certi casi può amministrare i beni del marito in nome dei figli, o anche possedere dei beni a titolo personale. Invece la vedova povera resta completamente affidata al buon cuore dei figli adulti se ci sono, o si trova ridotta alla miseria e alla mendicità con i figli piccoli.

PRIMO TESTAMENTO
Le mogli dei patriarchi sono le prime figure femminili su cui la Bibbia si soffermi con qualche attenzione alla fisionomia individuale. Per l’argomento di cui ci occupiamo, è Rebecca a suscitare maggiore interesse.
Non Sara – benché della sua età avanzata si faccia esplicita menzione -: anche se la maternità tardiva per dono divino è importante nella storia della salvezza, aspirazioni, caratteristiche e ruolo di Sara sono interamente circoscritti dalla tradizionale funzione materna. Rebecca ha un ruolo molto più attivo.

La saggia Rebecca
Presentata dapprima come bella e saggia fanciulla nel momento in cui il servo di Abramo va a prenderla nel paese di suo padre, poi come madre (con le solite difficoltà iniziali) dell’aspettata discendenza, acquista un ruolo singolarmente incisivo in età matura, quando i suoi figli Esaù e Giacobbe sono cresciuti.
Le viene attribuita dall’autore sacro una preoccupazione ricorrente nel Primo Testamento: il dolore e lo sdegno perché Esaù ha sposato due donne hittite1. Il movente non è etnico-razziale, ma religioso (antiidolatrico). L’autore sacro evidentemente collega con questo fatto la sua preferenza per il secondogenito Giacobbe. Rebecca lo consiglia e lo aiuta a carpire la benedizione paterna, che spetterebbe a Esaù. Il suo ruolo nella vicenda è fondamentale anche rispetto allo sposo Isacco, qui presentato non solo come anziano e cieco ma, quantunque venerabile, lievemente rimbambito.
… Ora Rebecca ascoltava, mentre Isacco parlava al figlio Esaù. (…) Rebecca disse al figlio Giacobbe: «Ecco, ho sentito tuo padre dire a tuo fratello Esaù: Portami la selvaggina e preparami un piatto, così mangerò e poi ti benedirò davanti al Signore prima della morte. Ora, figlio mio, obbedisci al mio ordine: Va’ subito al gregge e prendimi di là due bei capretti; io ne farò un piatto per tuo padre, secondo il suo gusto. Così tu lo porterai a tuo padre che ne mangerà, perché ti benedica prima della sua morte». Rispose Giacobbe a Rebecca sua madre: «Sai che mio fratello Esaù è peloso, mentre io ho la pelle liscia. Forse mio padre mi palperà e si accorgerà che mi prendo gioco di lui e attirerò sopra di me una maledizione invece di una benedizione». Ma sua madre gli disse: «Ricada su di me la tua maledizione, figlio mio! Tu obbedisci soltanto e vammi a prendere i capretti». Allora egli andò a prenderli e li portò alla madre, così la madre ne fece un piatto secondo il gusto di suo padre. Rebecca prese i vestiti migliori del suo figlio maggiore, Esaù, che erano in casa presso di lei, e li fece indossare al figlio minore, Giacobbe; con le pelli dei capretti rivestì le sue braccia e la parte liscia del collo. Poi mise in mano al suo figlio Giacobbe il piatto e il pane che aveva preparato. … (Gen 27,5-17 passim).
In una cultura per cui l’autorità del padre sulla moglie e sui figli costituisce un assioma, è certo singolare il fatto che l’agire di Rebecca sia riferito senza alcuna sfumatura di disapprovazione. Rebecca è entrata nella tradizione cristiana come modello di saggezza. Nell’antichità i confini tra saggezza e astuzia non sono molto netti.
Ancora decisivo sarà poi il ruolo di lei nel salvare Giacobbe dalla vendetta di Esaù, inviandolo a casa del proprio fratello Labano in Paddan-Aram e assicurando per lui la scelta di una sposa che non sia hittita; anche in questo caso Isacco non farà altro che ratificare con la propria autorità e la propria benedizione quanto Rebecca ha già organizzato (Gen 27,41-28,4).

Miriam, atto terzo
Miriam sorella di Mosè ha da giovane il suo ruolo fondamentale nella storia della salvezza: è lei a salvare il fratellino dalla morte che gli sarebbe decretata dal Faraone d’Egitto, lei ad assicurare, dopo che il bambino è stato raccolto dalla figlia del Faraone, che venga allattato dalla donna stessa che lo ha partorito.
Compare di nuovo al centro della scena molti anni dopo: nel momento in cui il popolo d’Israele esce dall’Egitto grazie all’aiuto del Signore, Miriam, guidando i cori delle donne, interpreta in chiave teologica ed epica quanto è avvenuto: il suo cantico (“Cantate al Signore perché ha mirabilmente trionfato”) ha una forza e uno sviluppo superiori a quelli del cantico di Mosè.
Più difficile e strano, meno noto, interessante anche se presentato dall’autore sacro in una luce implicitamente negativa, il terzo momento: nel corso della traversata dell’Esodo, secondo una tradizione biblica, Miriam e Aronne, sdegnati contro Mosè a causa del suo matrimonio con una straniera etiope (in fondo la stessa ragione per cui Rebecca aveva tolto il suo appoggio a Esaù), insidiano l’esclusività della sua leadership: “Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?” (Nm 12,2). Il Signore li punisce perché hanno parlato contro il suo servo e amico; di fatto la punizione colpisce solo Miriam, che istantaneamente si ammala di lebbra e sarà poi risanata dall’intercessione di Mosè.
Troppi elementi mancano per una lettura corretta dell’episodio, ma è chiaro che qui è in gioco un problema di autorità, che l’autorità di Miriam (o l’importanza della profezia femminile) è anche maggiore di quanto comunemente si creda e che Miriam, nonostante questo o forse proprio per questo, viene penalizzata nella lettura patriarcale della memoria d’Israele. Interessante un passaggio del profeta Michea in cui a Miriam viene attribuito lo stesso ruolo di guida dei suoi fratelli nell’Esodo:

Popolo mio, che cosa ti ho fatto?
In che cosa ti ho stancato? Rispondimi.
Forse perché ti ho fatto uscire dall’Egitto,
ti ho riscattato dalla casa di schiavitù
e ho mandato davanti a te
Mosè, Aronne e Miriam? (Mi 3,3-4)

Debora, profeta e giudice
Nel libro dei Giudici c’è un’interessante figura femminile, assai poco nota ai non specialisti: Debora, che riunisce in sé le caratteristiche di giudice e di profeta.
Il suo collaboratore Barak si trova rispetto a lei in posizione nettamente subordinata: è, per così dire, il suo braccio armato; ma il personaggio autorevole e carismatico è Debora. Tanto è vero che, dovendo affrontare i nemici, Barak esce in queste stupefacenti parole rivolte alla donna: “Se vieni anche tu con me, andrò; ma se non vieni, non andrò”.
In quel tempo era giudice d’Israele una profetessa, Debora, moglie di Lappidot. Essa sedeva sotto la palma di Debora, tra Rama e Betel, sulle montagne di Efraim, e gli Israeliti venivano a lei per le vertenze giudiziarie. Essa mandò a chiamare Barak, figlio di Abinoam, da Kades di Nèftali, e gli disse: «Il Signore, Dio d’Israele, ti dà quest’ordine: Va’, marcia sul monte Tabor e prendi con te diecimila figli di Nèftali e figli di Zàbulon. Io attirerò verso di te al torrente Kison Sisara, capo dell’esercito di Iabin, con i suoi carri e la sua numerosa gente, e lo metterò nelle tue mani». Barak le rispose: «Se vieni anche tu con me, andrò; ma se non vieni, non andrò». Rispose: «Bene, verrò con te; però non sarà tua la gloria sulla via per cui cammini; ma il Signore metterà Sisara nelle mani di una donna». (Gdc 4,4-9a)
All’inizio dell’episodio, si trova la presentazione dell’eroina in termini apparentemente convenzionali: “Debora, moglie di Lappidot”. La donna è sempre x di y, sempre definita in relazione a qualcun altro – anche quando, come in questo caso, la donna sia importante e gloriosa e il marito un perfetto sconosciuto. Ma è proprio il marito? L’espressione ebraica eshet lappidoth viene abitualmente tradotta “donna (= moglie) di Lappidot”, benché questo strano nome proprio non appaia altrove. E’ stato osservato che potrebbe tradursi “donna coraggiosa” o “donna animosa”… E qui viene in primo piano la natura profondamente ideologica delle traduzioni. Sentiamo ancora come suona convenzionale e casalingo (non del tutto, visto che si parla comunque di una donna che è giudice e profeta) l’inizio in questi termini: “A quel tempo era giudice in Israele una profetessa, Debora, moglie di Lappidot”. Confrontiamolo con quest’altro inizio: “A quel tempo era giudice in Israele la profetessa Debora, una donna valorosa”. Non sembra differenza da poco.
Dopo la vittoria su Sìsara (in cui assume un certo rilievo l’agire di un’altra donna, Giaele), il senso provvidenziale e salvifico di quanto è avvenuto viene interpretato dal cantico di Debora, in cui predominano le espressioni di riconoscenza al Signore, ma non mancano tratti di orgogliosa consapevolezza di sé:

… Era cessata ogni autorità di governo,
era cessata in Israele,
fin quando sorsi io, Debora,
fin quando sorsi come madre in Israele. (Gdc 5,7)

Giudice e profeta, Debora non è ricordata come madre, non si sa se abbia generato figli (neppure, abbiamo visto, se avesse un marito), ma è “come madre in Israele”: la sua funzione materna, protettrice e ispiratrice, si estende a tutto intero il suo popolo.

Noemi
La giovane straniera Rut, così mite, affettuosa e coraggiosa, può considerarsi senz’altro la protagonista del libro omonimo, con il suo attaccamento alla suocera Noemi e la sua scelta affettiva di far parte del popolo d’Israele, lei che è moabita; ma l’ispiratrice degli eventi è Noemi, la suocera. Forse vi entra il fatto che ebrea è Noemi, non Rut. E’ Noemi a volere una sistemazione per Rut, Noemi a decidere quale sposo è giusto in ogni senso per lei, Noemi infine a dare a Rut le ‘istruzioni seduttive’ nei confronti di Booz.
Il comportamento di Rut potrebbe considerarsi alquanto spregiudicato anche per i criteri attuali; ma nella Scrittura il suo agire non riceve neppure un’ombra di biasimo.
Noemi, sua suocera, le disse: «Figlia mia, non devo io cercarti una sistemazione, così che tu sia felice? Ora, Booz, con le cui giovani tu sei stata, non è nostro parente? Ecco, questa sera deve ventilare l’orzo sull’aia. Su dunque, profumati, avvolgiti nel tuo manto e scendi all’aia; ma non ti far riconoscere da lui, prima che egli abbia finito di mangiare e di bere. Quando andrà a dormire, osserva il luogo dove egli dorme; poi va’, alzagli la coperta dalla parte dei piedi e mettiti lì a giacere; ti dirà lui ciò che dovrai fare». Rut le rispose: «Farò quanto dici». Scese all’aia e fece quanto la suocera le aveva ordinato. (Rt 3,1-6)
Tutto andrà come stabilito, e Rut sarà la bisnonna del re David (quindi, per noi, antenata di Gesù stesso). In questa storia al femminile, nel rapporto delle due donne colpisce l’affetto profondo e disinteressato, la solidarietà, l’assenza totale dei soliti schemi familiari e di potere.

Giuditta ‘post clamores’
Giuditta è una delle figure femminili più gloriose e positive presenti nella tradizione ebraica. Tutti la conoscono, per così dire, in azione: quando cioè, giovane vedova bellissima, ricchissima, virtuosissima…, insomma donna fatta di superlativi, si introduce nell’accampamento del comandante nemico, lo seduce e lo uccide, ottenendo per questa via la salvezza di Betulia. A noi però ora non interessa tanto questa Giuditta nel fiore degli anni. Anche perché, pur se non ignoriamo il significato teologico di fondo a cui l’autore sacro vuole rinviare (il Signore si serve di ciò che è debole, come appunto una donna, per abbattere la superbia dei forti), restiamo sempre soggetti ad anacronistiche reazioni personali: così non possiamo del tutto ignorare la sensazione di fondo che sia poco simpatico e nemmeno tanto eroico fare uso della menzogna e di quelle che sono – secondo gli uomini – le più tradizionali arti femminili, per uccidere a tradimento un uomo inerme e ubriaco, per di più dopo avergli fatto balenare la prospettiva di tutt’altro.
Nel libro di Giuditta è importante anche la conclusione, in cui l’eroina viene presentata di scorcio negli anni successivi, fino ad età avanzatissima (nella Bibbia la longevità è la ricompensa dei giusti), volontariamente sola, senza figli né nipoti eppure amata e rispettata da tutti come una gloria nazionale, come un’istituzione, come vivente difesa del suo popolo.
Dopo quei giorni, …Giuditta tornò a Betulia e dimorò nella sua proprietà e divenne famosa in tutta la terra durante la sua vita. Molti ne erano anche invaghiti, ma nessun uomo potè avvicinarla per tutti i giorni della sua vita (…). Essa andò molto avanti negli anni protraendo la vecchiaia nella casa del marito fino a centocinque anni: alla sua ancella preferita aveva concesso la libertà. Morì in Betulia e la seppellirono nella grotta sepolcrale del marito Manàsse e la casa d’Israele la pianse sette giorni. (…) Né vi fu più nessuno che incutesse timore agli Israeliti finché visse Giuditta, e per un lungo periodo dopo la sua morte. (Gdt 16,21-25 passim).

SECONDO TESTAMENTO
Elisabetta e Anna
All’inizio e alla fine del vangelo dell’infanzia secondo Luca si incontrano due coppie di vecchi santi: il sacerdote Zaccaria e sua moglie Elisabetta, la profetessa Anna e il vecchio Simeone. Nelle intenzioni dell’evangelista esprimono le attese e la fede d’Israele all’inizio dei tempi nuovi.
Sterile da sempre, Elisabetta diventerà madre nella sua vecchiaia per l’intervento di Dio. Il suo sposo Zaccaria è destinatario del relativo annuncio recato dall’angelo, e inoltre è un sacerdote, quindi ‘mediatore del sacro’ per eccellenza; ma Elisabetta viene presentata come superiore a lui nella fede. Se Zaccaria ha accolto l’annuncio non proprio con incredulità, ma con difficoltà palese, chiedendo all’angelo le sue credenziali (“Come conoscerò questo?”), di Elisabetta vengono ricordate nel vangelo solo fede, accoglienza e gratitudine e, come effetto di queste cose, la sua calma, autorevole, armoniosa lettura profetica degli eventi. Nel momento in cui si incontrano Maria ed Elisabetta – la giovane e l’anziana, entrambe in attesa di un figlio umanamente impossibile -, sarà Elisabetta a mettere in parole il senso salvifico di quanto si sta compiendo.
… Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore». (Lc 1,41-45)
Qui Elisabetta ha senz’altro un ruolo profetico: invasa dalla forza dello Spirito, legge i fatti umani alla luce delle intenzioni di Dio, e proclama il proprio entusiastico riconoscimento “a gran voce”. La sua intuizione diventa annuncio.
In rapporto con la sua fede e il suo ruolo profetico è poi il fatto che, contro l’uso abituale, sia lei a dare il nome al figlio quando nasce. Nella cultura d’Israele, dare il nome significa interpretare e prefigurare il destino del nominato.
… All’ottavo giorno vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo col nome di suo padre, Zaccaria. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta, e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. (Lc 1,59-64)
Nel capitolo successivo del terzo vangelo, dopo la nascita di Gesù, viene raccontata la sua presentazione al Tempio: in questo episodio, fondamentale come anticipazione simbolica e misterica della vicenda terrena di Gesù e di tutta la storia della salvezza, ha grande importanza la figura di una donna anziana di nome Anna.
C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. (Lc 2,36-38)
Si deve all’inserimento della figura di Anna se l’episodio della presentazione di Gesù al Tempio non si conclude in modo del tutto tragico e negativo con la seconda profezia di Simeone (le parole rivolte a Maria: “anche a te una spada trapasserà l’anima”).
Il personaggio di Anna – è stato spesso osservato, e del resto è evidente – appare in parte ricalcata sull’immagine ideale della vedova cristiana dei primi tempi della Chiesa. Ma c’è qualcosa di più: ancora una volta spicca in lei, fondamentale, la dimensione profetica. Anna è l’unica donna a cui, nel Nuovo Testamento, sia dato il titolo di profeta2. Anche nel fatto che di lei vengano specificati il nome del padre e la tribù, cosa insolita per le donne, riconosciamo l’intenzione dell’evangelista di conferirle una speciale dignità.
Ricordiamo che nel Primo Testamento il nome di due donne che vengono chiamate ‘profetesse’ è rimasto associato a due cantici (cantico di Miriam; cantico di Debora). Elisabetta e Anna non proferiscono cantici, ma sia l’una che l’altra vengono presentate nella luce di un cantico: cioè il Benedictus per Elisabetta, per Anna il Nunc dimittis. Non sembra del tutto fuori posto, anche se mancano argomenti risolutivi per sostenerlo, che in origine i cantici fossero piuttosto associati con le due figure femminili, e siano stati attribuiti a Zaccaria e a Simeone in seguito, allo scopo di acquistare maggiore autorevolezza.

Le donne intorno a Gesù
Le donne, lo sappiamo, sono molto presenti nell’evento di Gesù e nell’esperienza della prima Chiesa. Anche qui però si deve ripetere quanto detto per la Scrittura in genere: se ben riconoscibili sono i casi in cui la donna compare o viene nominata come madre effettiva o futura, scarse sono le altre determinazioni, anche perché i testi biblici sono molto parchi di tutte quelle informazioni accessorie – di contorno, di coloritura psicologica, di atmosfera – che dal nostro punto di vista sembrano, se non proprio fondamentali, tanto importanti. Come non si dice nulla dell’aspetto fisico delle persone (salvo il caso in cui siano molto malate e l’aspetto fisico lo manifesti, perché in tal caso il dato è importante come punto di partenza), così non si parla dell’età, e sono poche le informazioni biografiche in genere.
Anche sull’età di Gesù gli evangelisti sono estremamente vaghi, perciò non può stupirci il fatto di ignorare l’età della maggior parte delle persone che sono intorno a lui.

Maria sua madre
A cominciare dalla madre. Un’età approssimativa di Maria è stata congetturata tradizionalmente a partire dal fatto noto – non però assolutamente fisso – che le fanciulle ebree potevano venir promesse in sposa dopo i dodici anni e sposate dopo i tredici. Così si ritiene di solito che Maria fosse sui quarantacinque-cinquant’anni durante la vita pubblica di Gesù. A quel tempo, un’età considerevole.
Maria è molto presente nei vangeli dell’infanzia – solo in quello di Luca, veramente; il racconto di Matteo è condotto nella prospettiva di Giuseppe -, molto meno durante la vita pubblica di Gesù. Ha un rilievo forte nell’opera di salvezza solo in due luoghi giovannei: il racconto delle nozze di Cana (Gv 2,1-11) e il racconto della morte di Gesù in croce (Gv 19,25-27). Sappiamo che tre evangelisti su quattro non la ricordano presente alla morte di Gesù. Nessuno la ricorda fra le testimoni della Resurrezione. Comunque la sua non è importanza ‘materna’ nel senso tradizionalmente inteso. Anzi, Gesù nel corso di tutta la sua vita pubblica parla poco a sua madre e pochissimo di sua madre; in diverse occasioni le sue parole e il suo atteggiamento sembrano rivolti a relativizzare l’importanza dei legami familiari, quale era intesa nel suo tempo e nel suo ambiente, sottolineando che nella logica del Regno l’unico legame forte e vincolante è piuttosto quello che si stabilisce sulla base della scelta discepolare.
L’episodio giovanneo delle nozze di Cana è il più importante per riflettere sulla fisionomia ‘matura’ di Maria, non certo in senso biografico (il vangelo non autorizza né supporta simili speculazioni), ma storico-salvifico. E’ un episodio noto ed enigmatico, in cui proprio la fisionomia ovvia di Maria, cioè quella materna, sembra in qualche modo respinta da Gesù, o meglio ‘ridisegnata’ in funzione di un’altra fisionomia. E’ valorizzato il ruolo di Maria in quanto discepola: le sue parole ai servi: “fate quello che vi dirà”, che sembrano modeste e circoscritte, vibrano di una totalità misteriosa e alludono all’atteggiamento discepolare nel suo insieme.
Sul piano umano, storico – comunque difficilmente raggiungibile a partire dai racconti evangelici, soprattutto quando la trasposizione teologico-spirituale sia tanto forte – l’agire di Maria è abbastanza atipico. Una comune donna ebrea di quel tempo, dinanzi a una risposta recisa anzi brusca quale “che ho da fare con te, o donna?” data dal proprio figlio maschio adulto (che si deve supporre capo della famiglia, se il padre è morto), non avrebbe osato replicare. Invece Maria agisce con tranquilla autorità proprio come se Gesù avesse acconsentito; anche questo testimonia da parte sua una singolare penetrazione profetica.
Maria appare qui come una donna attenta alle urgenze: alle urgenze del quotidiano come a quelle della salvezza. Solo nella mentalità patriarcale incline alle divisioni i due piani sono nettamente contrapposti. Addirittura la sua comprensione profetica qui giova a far cambiare idea a Gesù, che sembra avere della propria missione un’idea ancora un po’ astratta e teorica. La tranquilla autorevolezza di Maria sembra trasformare il quasi-rifiuto di Gesù in un consenso che va oltre la richiesta e oltre il bisogno cosciente.

La suocera di Pietro
Una donna ‘anziana’ sempre secondo i criteri detti prima, che compare solo per un momento nel primo vangelo, è la suocera di Pietro. E’ a letto con la febbre (che però non è una malattia, bensì un sintomo), e parecchio è stato scritto nei nostri tempi sul possibile significato spirituale e simbolico di questa infermità inespressa, che sembra piuttosto uno stato di disagio esistenziale connesso con una difficile fase di passaggio. Quali saranno state le reazioni della famiglia di Pietro in seguito alla sua scelta di sequela, che ovviamente metteva in discussione tutti gli equilibri precedenti? Il vangelo dice solo che Gesù risana istantaneamente la donna per mezzo del contatto: “Le toccò la mano e la febbre scomparve; poi essa si alzò e si mise a servirlo” (Mt 8,15). Il verbo ‘servire’ è importante nei vangeli (seguire e servire insieme caratterizzano l’agire del discepolo) e sembra sottintendere tutta una maturazione liberante avvenuta in questa donna in seguito all’incontro con Gesù. Non è più solo suocera, nel senso di madre postuma e intensificata; la famiglia non è più al centro dei suoi pensieri.

La madre dei figli di Zebedeo
Considerazioni non inutili ci vengono ispirate da una delle donne del gruppo discepolare, l’unica a cui possiamo attribuire (sempre molto approssimativamente) un’età matura, in quanto i suoi figli sono adulti e discepoli di Gesù: la madre dei figli di Zebedeo.
Sulle prime, ciò che soprattutto colpisce in lei è proprio questa denominazione in obliquo, per noi così strana: va bene che nella Bibbia una donna è molto più spesso la madre o la moglie o la figlia o la sorella di qualcuno, che non una persona a tutto tondo, con un nome proprio e un significato autonomo; ma perché non dire almeno “la moglie di Zebedeo”? Oppure “la madre di Giovanni e Giacomo”? La denominazione indiretta e obliqua all’orecchio moderno suona artificiosa, come se i figli di suo marito non fossero anche suoi, come se fossero passati attraverso lei solo incidentalmente.
Si trova solo nel vangelo secondo Matteo ed è ricordata solo come madre. E’ passata nella tradizione come personaggio familiare e simpatico, ma di secondo piano. Eppure questa donna non è un tipo comune. Altre madri avrebbero avversato la scelta dei figli di mettersi alla sequela di un rabbi itinerante e irregolare, lasciando un’esistenza sicura e ben avviata. Lei invece sembra compiere una scelta simile alla loro, anche se possiamo domandarci: segue Gesù o segue i suoi figli, all’inizio? (Ci piacerebbe anche sapere che cosa pensasse Zebedeo di tutta la faccenda; ma è noto che con certe nostre curiosità i Vangeli non sono compiacenti).
La scena narrata da Matteo ha qualcosa di strano e ‘predisposto’:
… Allora gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedeo con i suoi figli, e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse: «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Di’ che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno». Rispose Gesù: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?». Gli dicono: «Lo possiamo». Ed egli soggiunse: «Il mio calice lo berrete; però non sta a me concedere che vi sediate alla mia destra o alla mia sinistra, ma è per coloro per i quali è stato preparato dal Padre mio». (Mt 20,20-23)
Insomma, questa donna chiede una collocazione privilegiata e un ruolo onorifico per i suoi figli nel Regno, da lei evidentemente concepito con caratteri molto terreni: secondo il cerimoniale e l’iconografia dell’antico Oriente, alla destra e alla sinistra del re in trono sedevano i più alti dignitari. E’ fin troppo facile rilevare che sul Regno ha perlomeno le idee alquanto confuse.
E, come sempre, la laconicità del racconto evangelico fa germogliare una piccola selva di interpretazioni di scarsa utilità. L’iniziativa è davvero della donna?3 Forse è già d’accordo con i figli? Forse Giovanni e Giacomo (da Gesù soprannominati con un certo umorismo i “figli del tuono” a causa del loro temperamento esplosivo), erano in qualche modo gelosi di Pietro, del suo ruolo di capo e portavoce? Non possiamo dirlo, ma è chiaro – e affiora anche nei vangeli – che nel gruppo discepolare qualche attrito e qualche conflitto di potere dovette delinearsi fin dai giorni della vita terrena di Gesù. Essere discepoli non significa automaticamente essere santi, né d’altra parte essere santi coincide con l’impeccabilità.
La tradizione ha visto sovente nella madre dei figli di Zebedeo il modello della “madre del prete”. Irreprensibile e pia, ma focalizzata con devoto egoismo sul proprio figlio – prolungamento di se stessa -, e inoltre con un debole per il potere, come modello suscita perplessità. Nella Riforma è stata considerata modello della virtuosa e austera madre protestante. Dal che si evince che le confessioni religiose cambiano e gli stereotipi restano.
Questa madre patriarcalmente esemplare vive solo nei suoi figli, davvero si potrebbe dire che “dimentica se stessa” nel chiedere, eppure la sua richiesta manca del tutto il bersaglio e, proprio nella logica del Regno, risulta di una stoltezza sconcertante. Gesù non le dà una risposta diretta: si rivolge solo ai figli. Le non-risposte di Gesù sono sempre eloquenti, ma spesso non chiare. Se in questo caso si tratti di un silenzioso rimprovero, oppure di un modo d’ignorare generosamente la meschinità della richiesta, è difficile dirlo. Certo è che Gesù sembra dire alla madre dei figli di Zebedeo, e non a lei soltanto, che “non sa quello che chiede”; che non la vuole così, brava madre dimentica di sé, ma vuole lei come persona autentica e intera.
Comunque siano andate le cose in questa circostanza, non dobbiamo dimenticare che la madre dei figli di Zebedeo più tardi giunge ad affrancarsi dalle strettoie della sua mentalità e della sua cultura. Sempre secondo il racconto di Matteo, infatti, si trova presente alla crocifissione di Gesù,4 insieme a Maria di Magdala e a un’altra discepola. Tutti i discepoli maschi hanno dato pessima prova di sé: uno ha consegnato Gesù, uno lo ha rinnegato, tutti l’hanno abbandonato e sono fuggiti. Solo alcune donne sono lì, a condividere e testimoniare: “da lontano”5, ma vicine nello spirito. E fra loro c’è la madre dei figli di Zebedeo, senza i suoi figli questa volta. Alla destra e alla sinistra di Gesù, in quel momento supremo, si trovano due ladri, due disgraziati condannati alla stessa pena. E certo lei ha compreso finalmente che cosa significa, nell’ottica del Regno, la collocazione privilegiata.

Per concludere
Alle figure qui rapidamente considerate potremmo aggiungere ancora (benché, secondo il solito, della loro età nulla si dica) alcune delle donne nominate nel libro degli Atti e nelle lettere di Paolo come apostole, come animatrici di chiese domestiche: e ogni comunità ecclesiale è ‘domestica’, nella primissima Chiesa!
Questo argomento è uno di quelli che rendono superflua la conclusione aggiunta. Solo una semplice osservazione che emerge dal Primo e dal Secondo Testamento: nella Bibbia sembra assente o quasi, e comunque ben poco importante, anche nell’immaginario, la figura della brava vecchietta occupata solo da incombenze domestiche/affettive e prodiga di consigli. Se c’è un aspetto che accomuna le donne pensabili come anziane, è semmai il fatto che la dimensione familiare, senza essere azzerata, è molto meno centrale di quanto lo sia per altre donne o per altre fasce di età: queste donne acquistano maggiore libertà di movimento, maggiore iniziativa e una fisionomia individuale più precisata.

In Gen 26, 34-35, questo sentimento è attribuito a lei e a suo marito Isacco insieme; in Gen 27,46 è ripetuto in modo più vibrato in riferimento a Rebecca sola.
2. Più generica la menzione delle quattro figlie di Filippo, “nubili, che avevano il dono della profezia”. In At 21,9.
3. Il passo parallelo, Mc 10,35-45, racconta l’episodio in esclusivo riferimento a Giovanni e Giacomo e ignora la madre; un episodio corrispondente, ma in termini più generali, viene narrato da Luca nel contesto dell’ultima cena. E’ ben possibile che l’iniziativa fosse stata dei figli, in origine, e che poi qualcuno avesse trasmesso così il fatto, nella primissima Chiesa, per evitare una brutta figura a quelli che erano ormai i capi venerati della comunità. (E’ vero che in compenso si faceva fare una brutta figura a una donna; ma le donne non contano…).
4. Mt 27, 55-56: “C’erano anche là molte donne che stavano a osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo. Tra costoro Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedèo”.
5. Solo il quarto evangelista colloca i dolenti “presso la croce”, però con intento teologico: realisticamente è certo più probabile che a parenti e amici dei condannati non venisse concesso di avvicinarsi troppo.

Publié dans:BIBBIA: TEMI VARI, DONNE (le) |on 9 mars, 2015 |Pas de commentaires »

Finestra con le Sante Perpetua e Felicita

Finestra con le Sante Perpetua e Felicita    dans immagini sacre

http://www.chiesacattolica.it/chiesa_cattolica_italiana/le_opere_e_i_giorni/00018570_Finestra_con_le_Sante_Perpetua_e_Felicita.html

Publié dans:immagini sacre |on 6 mars, 2015 |Pas de commentaires »

SANTE PERPETUA E FELICITA MARTIRI – 7 MARZO – † CARTAGINE, 7 MARZO 203

http://www.santiebeati.it/dettaglio/22950

SANTE PERPETUA E FELICITA MARTIRI

7 MARZO - † CARTAGINE, 7 MARZO 203

Chiusa in carcere aspettando la morte, una giovane tiene una sorta di diario dei suoi ultimi giorni, descrivendo la prigione affollata, il tormento della calura; annota nomi di visitatori, racconta sogni e visioni degli ultimi giorni. Siamo a Cartagine, Africa del Nord, anno 203: chi scrive è la colta gentildonna Tibia Perpetua, 22 anni, sposata e madre di un bambino. Nella folla carcerata sono accanto a lei anche la più giovane Felicita, figlia di suoi servi, e in gravidanza avanzata; e tre uomini di nome Saturnino, Revocato e Secondulo. Tutti condannati a morte perché vogliono farsi cristiani e stanno terminando il periodo di formazione; la loro «professione di fede» sarà il martirio nel nome di Cristo. Le annotazioni di Perpetua verranno poi raccolte nella «Passione di Perpetua e Felicita», opera forse di Tertulliano, testimone a Cartagine. (Avvenire)

Etimologia: Perpetua = fede immutabile, dal latino – Felicita = contenta, dal latino

Emblema: Palma
Martirologio Romano: Memoria delle sante martiri Perpetua e Felicita, arrestate a Cartagine sotto l’imperatore Settimio Severo insieme ad altre giovani catecumene. Perpetua, matrona di circa ventidue anni, era madre di un bambino ancora lattante, mentre Felicita, sua schiava, risparmiata dalle leggi in quanto incinta affinché potesse partorire, si mostrava serena davanti alle fiere, nonostante i travagli dell’imminente parto. Entrambe avanzarono dal carcere nell’anfiteatro liete in volto, come se andassero in cielo.
Chiusa in carcere aspettando la morte, tiene una sorta di diario dei suoi ultimi giorni, descrivendo la prigione affollata, il tormento della calura; annota nomi di visitatori, racconta sogni e visioni degli ultimi giorni. Siamo a Cartagine, Africa del Nord, anno 203: chi scrive è la colta gentildonna Tibia Perpetua, 22 anni, sposata e madre di un bambino. Nella folla carcerata sono accanto a lei anche la più giovane Felicita, figlia di suoi servi, e in gravidanza avanzata; e tre uomini di nome Saturnino, Revocato e Secondulo. Tutti condannati a morte perché vogliono farsi cristiani e stanno terminando il periodo di formazione; la loro “professione di fede” sarà la morte nel nome di Cristo. Le annotazioni di Perpetua verranno poi raccolte nella Passione di Perpetua e Felicita, opera forse del grande Tertulliano, testimone a Cartagine. Il racconto segnala le pressioni dei parenti (ancora pagani) su Perpetua e su Felicita, che proprio in quei giorni dà alla luce un bambino. Per aver salva la vita basta “astenersi”. Ma loro non si piegano.
Questo accade regnando l’imperatore Settimio Severo (193-211), anche lui di origine africana, che è in guerra continua contro i molti nemici di Roma, e perciò vede ogni cosa in funzione dell’Impero da difendere; e tutto vorrebbe obbediente e inquadrato come l’esercito. Con i cristiani si è mostrato tollerante nei primi anni. Ma ora, in questa visione globale della disciplina, che include pure la fede religiosa, scatena una dura lotta contro il proselitismo cristiano e anche ebraico. Cioè contro chi ora vuole abbandonare i culti tradizionali. Per questo c’è la pena di morte: e morte-spettacolo, spesso, come appunto a Cartagine. Perpetua, Felicita e tutti gli altri entrano nella Chiesa col martirio che incomincia nell’arena, dove le belve attaccano e straziano i morituri. E poi c’è la decapitazione.
Perpetua vive l’ultima ora con straordinarie prove di amore e di tranquilla dignità. Vede Felicita crollare sotto i colpi, e dolcemente la solleva, la sostiene; zanne e corna lacerano la sua veste di matrona, e lei cerca di rimetterla a posto con tranquillo rispetto di sé. Gesti che colpiscono e sconvolgono anche la folla nemica, creando momenti di commozione pietosa. Ma poi il furore di massa prevale, fino al colpo di grazia.
Nei Promessi sposi, il Manzoni ha chiamato Perpetua la donna di servizio in casa di don Abbondio; e il nome di quel personaggio letterario così fortemente inciso è passato poi a indicare una categoria: quella, appunto, delle “perpetue”, addette alla cura delle canoniche. Cesare Angelini, il grande studioso del Manzoni, ritiene che egli abbia tratto quel nome dal Canone latino della Messa, « dov’è allineato con quelli dell’altre donne del romanzo: Perpetua, Agnese, Lucia, Cecilia… ».

Autore: Domenico Agasso

Publié dans:santi martiri |on 6 mars, 2015 |Pas de commentaires »

I / NON AVRAI ALTRO DIO FUORI DI ME II / NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO – GIANFRANCO RAVASI

http://www.liturgiagiovane.it/new_lg/print_save.asp?nf=documenti/ARTICOLI/1243.htm&ns=1243

I / NON AVRAI ALTRO DIO FUORI DI ME II / NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO

(non trovo il seguito, ma trattandosi di uno studio di Ravasi, anche se tratta solo dei due primi comandamenti, lo posto ugualmente)

Quel creatore « geloso » che libera la sua creatura

Dalla legge divina alla fedeltà umana.

Autore: Gianfranco Ravasi

Tratto da: Famiglia Cristiana del 29/02/2004

«Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio» (Esodo 31,18). È suggestiva questa immagine del dito divino che incide sulla pietra, quasi fosse un’epigrafe perenne, la sua parola. Essa s’incarna per eccellenza nelle « dieci parole » o precetti – tale è appunto il significato del termine di origine greca « Decalogo » usato per indicarle – che la Bibbia offre in due redazioni segnate da lievi variazioni: una è nel capitolo 20 del libro dell’Esodo, mentre l’altra è nel capitolo 5 del Deuteronomio, il quinto libro dell’Antico Testamento.
Ora noi cercheremo di illustrare i primi due comandamenti, omogenei tra loro perché hanno al centro la figura di Dio. Inizieremo col primo, che è quasi l’architrave di tutta l’architettura spirituale del Decalogo. Esso si apre con una dichiarazione in cui il Signore si presenta come persona che proclama un « io », ossia un’identità, e che agisce intervenendo nella storia: «Io sono il Signore tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù». Il Dio che entra in scena, parla e si rivela: è, perciò, un liberatore ed è a questo primo suo atto, che precede ogni nostra azione, che dobbiamo dare una risposta di adesione.
Ecco, allora, l’impegno del primo comandamento, che nel testo biblico ha una formulazione ben più vasta del sintetico: «Non avrai altro dio fuori di me» usato dalla tradizione. Tre, infatti, sono le descrizioni del nostro impegno di fedeltà al Signore. Innanzi tutto dobbiamo riconoscere la sua unicità assoluta contro ogni tentazione politeistica. È quello che si definisce come un « monoteismo affettivo »: non è tanto il riconoscere in sede teorica che non ci sono altri dèi, bensì «avere un Dio a cui il cuore si abbandona totalmente», come aveva giustamente commentato Lutero.
C’è, poi, un’altra definizione del comandamento: «Non ti farai idolo né immagine alcuna…». Il pensiero corre alla scena del vitello d’oro, che subito dopo è narrata dall’Esodo (cap. 32). In realtà essa rappresentava la tentazione di un popolo nomadico-agricolo di raffigurare la divinità, sorgente della vita, nell’immagine di un toro fecondo. L’appello del Decalogo è chiaro e tagliente: Dio non è riducibile a un oggetto o a un segno magico, la sua è una realtà infinita ed eterna che travalica spazio e tempo e, se proprio si vuole pensare a una sua immagine, c’è una sua creatura particolarmente amata: «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò» (Genesi 1,27).
Ecco, infine, un’ultima formulazione del primo comandamento: «Non ti prostrerai davanti agli idoli e non li servirai». L’atto di culto dev’essere riferito solo al Signore, come replicherà Cristo a Satana che, mostrandogli il fascino del potere e del possesso, gli aveva suggerito di « prostrarsi e adorarlo »: «Vattene, Satana! Sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto!» (Matteo 4,9-10). E a questo punto il comandamento ricorda che il Signore è «un Dio geloso», un simbolo vivace per evocare la passione divina nei confronti della sua creatura, libera nel respingerlo ma anche nella scelta di essere legata a lui da un nodo d’amore.
Possiamo, così, concludere la riflessione sul primo comandamento, il più ampio, invitando a leggerlo nella sua stesura completa in Esodo 20,1-6: esso è un forte appello alla purezza della fede nei confronti di un Dio vivo e personale, esigente ma anche amoroso, tant’è vero che, se ricorda il peccato punendolo «fino alla quarta generazione», perdona chi è pentito e svela il suo amore «fino alla millesima generazione», come è scritto nella stessa pagina biblica del primo precetto.
Il secondo comandamento, molto più lapidario, aggiunge un’altra pennellata a questo ritratto divino: «Non nominare il nome di Dio invano» è per noi spontaneamente la condanna della bestemmia. E questo ha un suo fondo di verità perché essa incarna un’aggressione carica di odio e di disprezzo nei confronti della realtà di Dio: il « nome » nel linguaggio biblico è appunto la persona. Spesso, soprattutto nel mondo occidentale, la bestemmia è ridotta a un intercalare volgare e miserabile e perde la sua violenza, rimanendo pur sempre un’offesa impotente alla divinità.
Tuttavia, nel mondo semitico ove la bestemmia in questo senso è ignota, il significato primario del comandamento è un altro ed è legato al termine « invano ». In ebraico la parola usata (shaw’) indica qualcosa di « falso, vuoto, vano, inutile » ed era il vocabolo con cui si indicava spregiativamente l’idolo. Scopriamo, allora, un altro senso da attribuire al secondo precetto, un senso che lo collega al primo. La vera bestemmia è scambiare il nome-persona di Dio col nome « vano » delle cose cui ci aggrappiamo e che consideriamo come un tesoro al quale tutto sacrificare. È l’auto-adorazione dell’uomo o la sostituzione di una cosa (denaro, potere, piacere, successo) al Dio vivente.
Risuona, allora, la voce del Salmista che idealmente commenta il nostro comandamento: «Non vogliate affidarvi alla forza, le rapine non portano frutto; pur se abbonda la ricchezza, mai ponete in essa il vostro cuore… Solo in Dio il mio cuore riposa, da lui viene la mia speranza. È mia rupe e mia salvezza lui solo, la mia roccia: io più non vacillo» (Salmo 62,2-3.11).

OMELIA III DOMENICA DI QUARESIMA B

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/02-annoB/14-15/Omelie/6-Quaresima/3a-Domenica-B-2015/10-03a-Quaresima-B-2015-UD.htm

8 MARZO 2015 | 3A DOMENICA – T. QUARESIMA B | OMELIA

3A DOMENICA – T. QUARESIMA 2015

Per cominciare
La Quaresima che stiamo vivendo ci chiama a una verifica in profondità su come viviamo l’alleanza con Dio, alleanza che è stato il momento centrale dei quarant’anni passati nel deserto dagli ebrei in fuga dall’Egitto. Ma siamo invitati anche a riflettere sulla genuinità dei nostri atti di culto. Proprio perché l’esteriorità dei gesti non si sostituisca all’atteggiamento del cuore e questi non rimangano dei puri gesti esteriori.

La Parola di Dio
Esodo 20,1-17. Il popolo d’Israele in marcia verso la terra promessa riceve la legge, che farà di un gruppo di nomadi il popolo di Dio; e di Dio, il Dio d’Israele. Il Decalogo è un codice di vita che tocca da vicino la vita personale e sociale di tutti. « Dieci parole » che rimangono sempre attuali in ogni epoca della storia.
1 Corinzi 1,22-25. Gli ebrei cercano i miracoli, la riuscita, il potere; i Greci si fidano solo della propria sapienza, della logica, della razionalità: noi cristiani teniamo fisso lo sguardo verso un Dio crocifisso, su Gesù, nostra norma di vita.
Giovanni 2,13-25. Un episodio singolare che Giovanni pone all’inizio della vita pubblica di Gesù. Un gesto clamoroso e profetico, per sottolineare che è Gesù il nuovo tempio e il cuore della nuova fede evangelica.,

Riflettere…
o La parola di Dio quest’oggi ci presenta nella prima lettura il momento in cui Mosè consegna al popolo d’Israele in viaggio verso la terra promessa la legge, che sarà poi sintetizzata nel Decalogo. Un documento d’intesa che doveva regolare i rapporti di alleanza tra Iahvè e il suo popolo.
o Con questa legge Dio chiede al popolo d’Israele di avere verso lui una fede genuina (monoteistica); di avere rispetto per lui, per il suo nome (non tanto il nostro « non bestemmiare », cosa impensabile nel mondo ebraico); e poi di santificare il giorno del riposo di Dio, per dedicarlo a lui e alla sua gloria.
o La legge regola nella seconda parte il rapporto degli uomini tra di loro: verso il padre e la madre, verso ogni uomo; evitando ogni forma di violenza, la falsa testimonianza, una vita sessuale irregolare e sfrenata, la bramosia del possesso.
o La legge diventerà l’espressione culminante dell’alleanza tra Iahvè e il suo popolo. Sarà per loro motivo di orgoglio, ne diventeranno addirittura fanatici. Finendo quasi per idolatrarla, codificandola in gesti rituali obbliganti, schiavizzanti.
o I profeti interverranno per purificare questa osservanza puramente esteriore: Gioele: « Laceratevi il cuore e non le vesti… » (2,13); Isaia: « È forse questo il digiuno che bramo, il giorno in cui l’uomo si mortifica? Piegare come un giunco il proprio capo, usare sacco e cenere per letto, forse questo vorresti chiamare digiuno e giorno gradito al Signore? Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? (58,5-7); Zaccaria: « Praticate una giustizia vera: abbiate amore e misericordia ciascuno verso il suo prossimo. Non frodate la vedova, l’orfano, il forestiero, il misero e nessuno nel cuore trami il male contro il proprio fratello » (7,9-10). Gesù molte volte, e Paolo, dovranno precisare l’ipocrisia di un certo tipo di osservanza della legge ritenuta per se stessa salvifica.
o Quanto all’episodio narrato dal vangelo, si tratta sicuramente di un fatto singolare, ci presenta un Gesù inedito. Perché Gesù è abitualmente calmo, anche nei momenti di maggior tensione. Sempre padrone di se stesso, equilibrato, non ama i gesti teatrali. Eppure questa volta si dà a un gesto clamoroso, violento, pubblico.
o Quello di Gesù è un gesto polemico verso i guardiani del tempio, che lo hanno trasformato in una specie di mercato. Gesù parla così perché è facile approfittare delle cose di Dio, per trarne vantaggi dal punto di vista economico o per il prestigio personale o sociale.
o Giovanni pone questo episodio all’inizio del suo vangelo come a dire che è questo l’obiettivo di tutta l’attività pastorale di Gesù: purificare la religiosità degli ebrei, soprattutto quella ufficiale, che con il tempo si era trasformata in varie forme di formalità e dipendenza.
o Gli altri evangelisti collocano l’episodio nell’ultima settimana della vita di Gesù. Fino a quel momento, Gesù non è mai stato « ufficialmente » a Gerusalemme. Nel loro racconto, l’episodio sarà determinante per condannarlo a morte, perché con questo gesto si presenta come un rivoluzionario sociale e rischia di creare spaccature profonde fra il popolo e l’autorità religiosa.
o Dice Gesù: « Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato! ». Parole che sono una chiara allusione a quelle del libro del profeta Zaccaria. Proprio nell’ultimo capitolo vi si legge: « Ecco, viene un giorno per il Signore… e in quel giorno non vi sarà neppure un mercante nella casa del Signore degli eserciti » (Zc 14,1.21). Gesù compie questo gesto come un oracolo profetico: egli è il Figlio che viene, nel giorno del Signore, nella casa del Padre suo.
o Se attorno al tempio era sorto un mercato in qualche misura inevitabile, anzi necessario al culto (le offerte al tempio andavano fatte unicamente con monete ebraiche, ed è chiaro che gli animali non si potevano portare con sé da lontano…), Gesù sente tutto lo stridore tra l’esigenza della preghiera e quell’urlare, quel mercanteggiare. Come vedere in quel baccano, nel suono delle monete, nel contrattare feroce le espressioni dell’alleanza? Gesù sapeva che il tempio si era trasformato in un « centro di magia, di superstizione e di oscuri interessi » (G. Ravasi).
o La pagina di Giovanni cita appunto il salmo 69, che al versetto 10 dice: « Mi divora lo zelo per la tua casa ». Un versetto che apre ad altre considerazioni importanti. Chi prega nel salmo è un giusto in difficoltà. Anche Gesù si sente chiamato a purificare il tempio a costo della sua vita. Sarà proprio questo zelo, questa pietà per il tempio che si rivolterà contro di lui. Gesù adempirà perfettamente le Scritture.
o Il tempio di Gerusalemme era la massima espressione della gloria del popolo di Israele, il centro di unità del paese, in qualche modo l’incarnazione di Iahvè. Nel vangelo di Giovanni, Gesù molte volte si troverà a Gerusalemme e svolgerà la sua attività nei dintorni del tempio, proprio per il significato simbolico che il tempio rappresentava per la religiosità dei Giudei.
o Ma Gesù con il suo gesto clamoroso intende richiamare alla sostanza del culto, e invita a vedere in lui il cuore della nuova religiosità. Tutto il complesso di riti e sacrifici, e la stessa alleanza, che aveva il suo centro nel tempio, ora la si trova nella persona di Gesù: è lui il vero tempio di Dio nel quale può avvenire l’incontro fra Dio l’uomo.
o Per questo Gesù sfida i Giudei parlando della risurrezione del suo corpo. Ma essi intendono quelle parole come un’offesa contro il tempio, e questa era considerata sacrilegio, offesa grave, punibile persino con la morte. Le oscure parole di Gesù spingono i Giudei a chiedergli prima un segno e poi una spiegazione. La costruzione del tempo di Gerusalemme era cominciata durante regno di Erode il Grande nell’anno 20-19 a.C. e si era conclusa nel 27 d.C., più o meno nel momento di questa controversia. Gesù parla del suo corpo, della sua risurrezione, ma queste dichiarazioni saranno capite a suo tempo soltanto dai suoi discepoli.
o Il brano termina con la dichiarazione che, vedendo i segni che Gesù compiva molti cominciarono a credere in lui. La stessa cosa è avvenuta dopo il miracolo delle nozze di Cana. Ma si dice anche che Gesù non si fidava di loro, perché li conosceva troppo bene. Tutto vangelo sarà caratterizzato da questo duplice atteggiamento nei confronti di Gesù: molti hanno verso di lui una fede iniziale, e nello stesso tempo ne prenderanno le distanze.

Attualizzare
* Una domanda sarebbe legittima: chi sono oggi i « mercanti del tempio »? Coloro verso cui Gesù prenderebbe la frusta? Si diceva in passato: i fabbricanti di armi, gli spacciatori di droga, camorristi e mafiosi, i violentatori di donne e bambini.
* È certo che Gesù avrebbe molto da dire a costoro. Ma sembra più corretto domandarci perché la chiesa propone a noi questo brano, a noi che facciamo già qualcosa di meglio di tanti altri che trascurano, per esempio, l’impegno di santificare la domenica andando a messa.
* Possiamo chiederci quale tipo di religiosità ci caratterizza, se siamo delle persone che si lasciano prendere il cuore, o se si danno ai riti per tradizione, senza metterci l’anima.
* Possiamo pensare alla religiosità popolare, a quella che circola nei grandi santuari. Una religiosità che rischia di trasformarsi in puro turismo religioso, o addirittura in una forma di superstizione.
* Certe forme di religiosità in cui i gesti esteriori sono sfacciatamente prevalenti, non si sa dove conducano. Alcune feste religiose paesane, in cui il trasporto di statue e di enormi carri e candelabri, il suono della banda e le chiacchiere di chi partecipa fanno pensare più a qualcosa di folcloristico, che di religioso; più esibizione di una certa forza muscolare di chi si misura orgoglioso con il peso della statua e del carro, che non a un atteggiamento di fede. Non si può non porre un grosso punto interrogativo su tutte queste forme esteriori di culto. Anche se molta gente semplice riesce probabilmente a trasformare anche queste forme di religiosità in gesti di fede e di sincera preghiera.
* Gesù afferma che non è più il tempio il luogo dell’incontro con Dio, non è più il tempio quella significativa « tenda del convegno » che permetteva il dialogo con Dio. « È finito il tempo in cui Dio sia assegnato a una residenza sacra, prigioniero delle pietre e delle mura degli uomini: Dio non abita dentro, ma fuori, libero, sulle strade del mondo » (L. Pozzoli).
* Come ha detto Gesù alla samaritana, ora Dio vuole che « i veri adoratori lo adorino in spirito e verità » (Gv 4,23). Ai sacrifici del passato, ai gesti di culto compiuti come per una tassa da pagare, c’è ora l’unico sacrificio di Cristo che si è offerto per noi sulla croce, ed è rimasto tra noi fino alla fine dei tempi nella cena eucaristica e nella comunità ecclesiale, fatta di fratelli da amare. « Voi siete il tempio di Dio », dice Paolo (1Cor 3,16).
* La pagina di vangelo si conclude amaramente con una frase un po’ oscura: Gesù non si fidava di loro, perché conosceva tutti fino in fondo. Quanto stenta ad affermarsi la fede schietta attorno a Gesù! Fino all’ultimo gli starà vicina gente dalla fede piccola e incerta.
* Quanto alla prima lettura, è inevitabile in questo tempo di Quaresima, in cui tante volte siamo esortati a rendere la nostra religiosità meno esteriore e più personale, fare una riflessione anche su come viviamo i dieci comandamenti. Perché se la nostra fede quaresimale non è supportata dalla vita vissuta, i nostri atti di culto rischiano di diventare qualcosa di chiuso in se stesso, senza alcuna efficacia e senza rendere gloria a Dio.
* Gesù che ha preso talvolta distanza dalla legge, ne ha anche confermata la validità. Il Decalogo infatti è la legge di Dio scolpita dentro di noi, ed è per tutti un punto di riferimento fondamentale. Chi trascura uno dei comandamenti deve presumere di aver infranto l’alleanza con Dio e aver peccato. Ci si può illudere, a volte la coscienza stessa può essere mal formata, ma chi uccide, chi ruba, chi calunnia… può ben pensare di amare Dio: in realtà nel fondo del suo cuore compie delle scelte contro di lui.
* È inutile quindi fare quaresima in chiesa, se poi ci comportiamo da violenti e vendicativi, se abbandoniamo i nostri genitori nella loro vecchiaia, se viviamo di menzogna e di furbizie, se ci diamo a una vita sessuale disordinata e senza freni. Se non accettiamo alcune regola per la nostra vita e ci costruiamo una personalità dove per Dio non c’è posto. Se invece tutti ci lasciamo abitare dai comandamenti, vivremmo in una società profondamente diversa, costruiremmo il regno di Dio.

Un gesto profetico?
Un parroco di Rivarolo di Toscana era un tipo originale e un po’ « carismatico ». Evangelicamente esigente, era molto radicale, ma riusciva a farsi accettare dai suoi parrocchiani, che lo trovavano gradito ed efficace. Raccoglieva frutti. Ecco che un giorno lo si vide arrivare in chiesa con l’apparecchio televisivo e mandarlo in frantumi scagliandolo a terra li, davanti a tutti. E spiegava: « Così tutti avete visto che io non ho più il televisore… ».

In origine la chiesa
« All’inizio la chiesa era la casa. I gesti significativi non sono i riti, il sacrificio di animali, ma lo spezzare il pane. Niente di più semplice, di più quotidiano e coinvolgente. « Gesù non li manda a compiere un ministero religioso, a spargere benedizioni, a costruire templi, ad alzar statue, a fare processioni… li manda a realizzare la pace » (padre Ernesto Balducci).

Fonte autorizzata : Umberto DE VANNA

Old Woman Reading a Bible

Old Woman Reading a Bible dans immagini old_read
http://www.wga.hu/html_m/d/dou/1/

Publié dans:immagini |on 5 mars, 2015 |Pas de commentaires »
1...45678

PUERI CANTORES SACRE' ... |
FIER D'ÊTRE CHRETIEN EN 2010 |
Annonce des évènements à ve... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | Vie et Bible
| Free Life
| elmuslima31