Archive pour mars, 2015

AIUTACI A COSTRUIRE UNA CULTURA SENZA VIOLENZA, (Papa Giovanni Paolo II)

http://www.paxchristiroma.org/html/preghiera_cultura_senza_violenza.htm

AIUTACI A COSTRUIRE UNA CULTURA SENZA VIOLENZA

(Papa Giovanni Paolo II)

O Signore e Dio di ogni cosa, tu hai voluto che tutti i tuoi figli,
uniti dallo Spirito, vivessero e crescessero insieme
in reciproca accettazione, in armonia e in pace.
Abbiamo il cuore colmo di afflizione, perché il nostro umano egoismo e la nostra cupidigia hanno impedito
che in questo nostro tempo fosse realizzato il tuo disegno.
Noi riconosciamo che la pace è un dono che proviene da te.
Sappiamo anche che la nostra collaborazione,
in qualità di tuoi strumenti, richiede che amministriamo
con saggezza le risorse della terra per il reale progresso di tutti i popoli. Essa esige un rispetto e una
venerazione profondi per la vita,
una viva considerazione della dignità umana
e della sacralità della coscienza di ogni persona,
e una costante lotta contro tutte le forme di discriminazione,
di diritto e di fatto.
Noi ci impegniamo, assieme a tutti i nostri fratelli e sorelle,
a sviluppare una più profonda consapevolezza
della tua presenza e della tua azione nella storia,
ad una più efficace pratica di verità e di responsabilità,
alla incessante ricerca di libertà da tutte le forme di oppressione,
alla fratellanza attraverso l’eliminazione di ogni barriera,
alla giustizia e alla pienezza di vita per tutti.
Mettici in grado, o Signore, di vivere e di crescere
in attiva cooperazione comune e gli uni con gli altri
nel comune intento di costruire una cultura senza violenza,
una comunità mondiale che affidi la sua sicurezza
non alla costruzione di armi sempre più distruttive,
ma alla fiducia reciproca e al sollecito operare
per un futuro migliore per tutti i tuoi figli,
in una civiltà mondiale fatta di amore, verità e pace.

 

SAN GIUSEPPE, PADRE E SIGNORE

http://www.it.josemariaescriva.info/articolo/san-giuseppe-padre-e-signore-parlare-con-dio

SAN GIUSEPPE, PADRE E SIGNORE

Il 19 marzo è la festa di San Giuseppe. Proponiamo alcuni testi di San Josemaría per parlare con Dio della figura di questo Santo Patriarca.

San Giuseppe, Padre di Cristo, è anche Padre tuo e tuo Signore. —Ricorri a lui.
Cammino, 559
San Giuseppe, Padre e Signore nostro, è Maestro di vita interiore. —Mettiti sotto il suo patrocinio e sentirai l’efficacia del suo potere.
Cammino, 560
Di San Giuseppe ecco che cosa dice Santa Teresa d’Avila, nella sua autobiografia: “Chi non trova Maestro che gli insegni a pregare, prenda per maestro questo glorioso santo, e non sbaglierà strada”. —Il consiglio viene da un’anima esperta. Seguilo.
Cammino, 561
A tua Madre Maria, a San Giuseppe, al tuo Angelo Custode… chiedi di parlare al Signore, perché gli dicano ciò che tu, con la tua goffaggine, non sai esprimere.
Forgia, 272
San Giuseppe: non si può amare Gesù e amare Maria senza amare il Santo Patriarca.
Forgia, 551
Guarda quanti motivi per venerare San Giuseppe e per imparare dalla sua vita: fu un uomo forte nella fede…; mandò avanti la sua famiglia — Gesù e Maria — con il suo lavoro gagliardo…; custodì la purezza della Vergine, che era sua Sposa…; e rispettò — amò! — la libertà di Dio, che non solo scelse la Vergine come Madre, ma scelse anche lui come Sposo della Madonna.
Forgia, 552
San Giuseppe, Padre e Signore nostro, castissimo, limpidissimo, che hai meritato di portare in braccio Gesù Bambino, e di lavarlo e abbracciarlo: insegnaci a trattare il nostro Dio, a essere puri, degni di essere altri Cristi.
E aiutaci a percorrere e a indicare, come Cristo, i cammini divini — nascosti e luminosi —, dicendo agli uomini che, sulla terra, possono avere costantemente un’efficacia spirituale straordinaria.
Forgia, 553
Ama molto San Giuseppe, amalo con tutta l’anima, perché è la persona, assieme a Gesù, che ha amato di più la Madonna e che più è stato in rapporto con Dio: colui che più lo ha amato, dopo nostra Madre.
— Merita il tuo affetto, e ti conviene frequentarlo, perché è Maestro di vita interiore, ed è molto potente presso il Signore e presso la Madre di Dio.
Forgia, 554
Se ci sentiamo venir meno, ricorriamo all’amore di Maria santissima, Maestra di orazione, e a san Giuseppe, nostro Padre e Signore, che tanto veneriamo, perché è colui che più intimamente ha frequentato in questo mondo la Madre di Dio e — dopo Maria santissima — il suo Figlio divino. Essi presenteranno la nostra debolezza a Gesù, perché la trasformi in fortezza.
Amici di Dio, 255
La Chiesa intera riconosce in san Giuseppe il suo protettore e patrono. Nel corso dei secoli si è parlato di lui, sottolineando i vari aspetti della sua vita, che lo mostrano costantemente fedele alla missione ricevuta da Dio. È per questo che, da molti anni, mi piace invocarlo con un titolo che mi sta a cuore: Padre e signore nostro.
San Giuseppe è realmente un padre e signore che protegge e accompagna nel cammino terreno coloro che lo venerano, come protesse e accompagnò Gesù che cresceva e diveniva adulto. Dall’intimità con lui si scopre inoltre che il santo Patriarca è maestro di vita interiore: ci insegna infatti a conoscere Gesù, a convivere con Lui, a sentirci parte della famiglia di Dio. San Giuseppe ci insegna tutto ciò apparendoci così come fu: un uomo comune, un padre di famiglia, un lavoratore che si guadagna la vita con lo sforzo delle sue mani. E anche questo fatto ha per noi un significato che è motivo di riflessione e di gioia.
È Gesù che passa, 39
La Sacra Scrittura dice che Giuseppe era artigiano. Alcuni Padri aggiungono che fu falegname. San Giustino, parlando della vita di lavoro di Gesù, dice che fabbricava aratri e gioghi; forse per queste parole sant’Isidoro di Siviglia conclude che Giuseppe era fabbro. Comunque era un operaio che lavorava al servizio dei suoi concittadini, con un’abilità manuale derivante da lunghi anni di sforzi e di sudore.
Dai racconti evangelici risalta la grande personalità umana di Giuseppe: in nessuna circostanza si dimostra un debole o un pavido dinanzi alla vita; al contrario, sa affrontare i problemi, supera le situazioni difficili, accetta con responsabilità e iniziativa i compiti che gli vengono affidati.
Non sono d’accordo con il modo tradizionale di raffigurare san Giuseppe come un vecchio, anche se riconosco la buona intenzione di dare risalto alla verginità perpetua di Maria. Io lo immagino giovane, forte, forse con qualche anno più della Madonna, ma nella pienezza dell’età e delle forze fisiche.
Per praticare la virtù della castità non c’è bisogno di attendere la vecchiaia o la perdita del vigore. La purezza nasce dall’amore, e non sono un ostacolo per l’amore puro la forza e la gioia della giovinezza. Erano giovani il cuore e il corpo di Giuseppe quando contrasse matrimonio con Maria, quando conobbe il mistero della sua Maternità divina, quando le visse accanto rispettando quell’integrità che Dio affidava al mondo come uno dei segni della sua venuta tra gli uomini. Chi non è capace di capire tale amore vuol dire che sa ben poco del vero amore e che ignora totalmente il senso cristiano della castità.
È Gesù che passa, 40
Giuseppe era infatti un uomo comune su cui Dio fece affidamento per operare cose grandi. Seppe vivere come voleva il Signore in tutti i singoli eventi che composero la sua vita. Per questo la Sacra Scrittura loda Giuseppe affermando che era giusto. E, nella lingua ebraica, giusto vuoi dire pio, servitore irreprensibile di Dio, esecutore della volontà divina; significa anche buono e caritatevole verso il prossimo. In una parola, il giusto è colui che ama Dio e dimostra questo amore osservando i comandamenti e orientando la vita intera al servizio degli uomini, propri fratelli.
È Gesù che passa, 40
Giuseppe si abbandonò senza riserve all’azione di Dio, ma non rifiutò mai di riflettere sui fatti, e in tal modo ottenne dal Signore quel grado di intelligenza delle opere di Dio che costituisce la vera sapienza. E così apprese a poco a poco che i disegni soprannaturali hanno una coerenza divina, sovente in contraddizione con i piani umani.
Nelle diverse circostanze della sua vita, il Patriarca non rinuncia a pensare, né a far uso della sua responsabilità. Anzi, colloca al servizio della fede tutta la sua esperienza umana. Di ritorno dall’Egitto, avendo saputo che era re della Giudea Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Ha imparato a muoversi nell’ambito del piano divino e, a conferma che il suo presentimento corrisponde effettivamente alla volontà di Dio, riceve l’indicazione di riparare in Galilea.
Tale fu la fede di Giuseppe: piena, fiduciosa, integra; una fede che si manifesta con la dedizione efficace alla volontà di Dio, con l’obbedienza intelligente. E, assieme alla fede, ecco la carità, l’amore. La sua fede si fonde con l’amore: l’amore per Dio che compiva le promesse fatte ad Abramo, a Giacobbe, a Mosé; l’affetto coniugale per Maria; l’affetto paterno per Gesù. Fede e amore si fondono nella speranza della grande missione che Dio, servendosi proprio di lui — un falegname della Galilea — cominciava a realizzare nel mondo: la redenzione degli uomini.
È Gesù che passa, 42
Fede, amore, speranza: sono i cardini della vita di Giuseppe, come lo sono di ogni vita cristiana. La dedizione di Giuseppe risulta da questo intrecciarsi di amore fedele, di fede amorosa, di speranza fiduciosa. La sua festa è dunque un’ottima occasione per rinnovare il nostro impegno di fedeltà alla vocazione di cristiani, che il Signore ha concesso a ognuno di noi.
È Gesù che passa, 43
A Nazaret Giuseppe doveva essere uno dei pochi artigiani del villaggio, o forse l’unico. Probabilmente era falegname. Ma, come accade nei piccoli paesi, doveva essere capace di fare anche altre cose: rimettere in funzione il mulino, o riparare prima dell’inverno le crepe di un tetto. Giuseppe, indubbiamente, con un lavoro ben fatto, risolveva le difficoltà di molta gente. La sua attività professionale era orientata al servizio degli altri, a rendere più gradevole la vita delle famiglie del villaggio; ed era certamente accompagnata da un sorriso, da una parola opportuna, da uno di quei commenti fatti di sfuggita, ma che servono a ridare la fede e la gioia a chi sta per perderle.
È Gesù che passa, 51
Giuseppe è stato, nell’ordine naturale, maestro di Gesù: ha avuto con Lui rapporti quotidiani delicati e affettuosi, e se n’è preso cura con lieta abnegazione. Tutto ciò non è forse un buon motivo per considerare questo uomo giusto, questo santo Patriarca, in cui culmina la fede dell’Antica Alleanza, come Maestro di vita interiore? La vita interiore non è altro che il rapporto assiduo e intimo con Cristo, allo scopo di identificarci con Lui. E Giuseppe saprà dirci molte cose di Gesù. Pertanto, non tralasciate mai di frequentarlo: Andate da Giuseppe, raccomanda la tradizione cristiana con una frase dell’Antico Testamento.
Maestro di vita interiore, lavoratore impegnato nel dovere quotidiano, servitore fedele di Dio in continuo rapporto con Gesù: questo è Giuseppe. Andate da Giuseppe. Da Giuseppe il cristiano impara che cosa significa essere di Dio ed essere pienamente inserito tra gli uomini, santificando il mondo. Frequentate Giuseppe e incontrerete Gesù. Frequentate Giuseppe e incontrerete Maria, che riempì sempre di pace la bottega di Nazaret.

 

Publié dans:San Giuseppe |on 18 mars, 2015 |Pas de commentaires »

S. GIUSEPPE, UNA PATERNITÀ NELLA VERGINITÀ – II

http://www.moscati.it/moscati/Ital2/PMarafioti_SGius2.html

S. GIUSEPPE, UNA PATERNITÀ NELLA VERGINITÀ – II

Domenico Marafioti s.j.

La verginità di Maria

È sicuro che Maria e Giuseppe avevano preso l’impegno di vivere la loro vita insieme nella castità e nella verginità? I Padri della Chiesa non avevano dubbi, oggi molti sono perplessi e alcuni lo negano. Ma c’è una piccola frase che lo dice chiaramente. All’angelo, che le annuncia la nascita del Messia, Maria risponde: «Com’è possibile? Non conosco uomo» (Luca 1,34). Certamente Maria non dice una bugia. Allora, cosa intende dire con queste parole? La conoscenza di cui parla non è quella dei normali rapporti sociali, perché a questo livello conosceva tanti compaesani e conosceva Giuseppe.
Lei si riferisce a quella conoscenza interpersonale tra uomo e donna che si ha nell’intimità dei rapporti coniugali. Lei però era fidanzata e non dice: «Ancora non conosco uomo»; in questo caso l’angelo l’avrebbe tranquillizzata, dicendole: «Tra poco lo conoscerai e avrai un figlio». Maria invece dice: «Com’è possibile? Non conosco uomo». Naturalmente Maria sapeva bene come nascono i bambini: qualcuno glielo avrà spiegato nell’infanzia o nell’adolescenza, per farle comprendere le trasformazioni che avvenivano nel suo corpo. Oppure lo avrà capito da sola.
Se santa Teresa di Gesù Bambino lo intuì guardando gli uccellini sul prato, anche Maria di Nazaret poté impararlo collegando i segni della natura e i discorsi umani. E comunque è assurdo pensare che sarebbe arrivata al fidanzamento senza sapere cos’è il matrimonio. Sarebbe avere un’idea ben meschina di questa ragazza eccezionale! Lei dunque sapeva che è possibilissimo avere un figlio, nell’ambito di una normale vita coniugale. D’altra parte l’angelo non le spiega come nascono i bambini, ma le dice che questo bambino nascerà in modo straordinario. Allora l’unico modo comprensibile e intelligente di capire perché Maria ritenesse impossibile avere un figlio, pur essendo prossima a sposarsi, è l’impegno preso con Giuseppe davanti a Dio di non avere rapporti coniugali.
E senza rapporti coniugali, senza conoscere uomo, è davvero impossibile avere figli. La difficoltà di Maria riguarda quindi il suo rapporto con Dio. L’angelo non può chiederle di mancare di parola, di ritirare la promessa fatta, perché tutta la Scrittura parla della necessità di «fare voti al Signore e mantenerli» (cf. Salmi 75,12; 115,18-19). Questo impegno di Maria non può non coinvolgere Giuseppe. L’angelo le annunzia la nascita di un figlio quando lei è già «promessa sposa» di Giuseppe (Luca 1,27); se le sue parole significano che non conosce e non intende conoscere uomo, vuol dire che questa decisione è condivisa da Giuseppe, altrimenti lei avrebbe tratto in inganno il fidanzato e avrebbe commesso un’ingiustizia nei suoi confronti. Due mancanze che bisogna assolutamente escludere in Maria, «piena di grazia».

Sacra Famiglia, con in evidenza
S. Giuseppe patrono e difesa della Chiesa.
Non resta quindi che accettare l’ipotesi più semplice nella sua luminosa grandezza. Maria e Giuseppe, nell’esperienza di un amore totale verso Dio e di un amore spirituale tra di loro, avevano fatto dono di se stessi a Dio nella verginità. Maria non poteva ritirare questo dono senza commettere peccato, e lei non voleva peccare. All’inizio infatti aveva capito che avrebbe dovuto avere un figlio nel modo normale in cui lo hanno tutte le donne del mondo. Perciò l’angelo interviene e le trasmette la seconda parte del messaggio. Il figlio non sarebbe nato dalla sua unione con Giuseppe; l’impegno preso e il dono fatto a Dio non erano messi in discussione, rimanevano validi e andavano mantenuti. Ma Dio, a cui «nulla è impossibile», disponeva che questo figlio nascesse in maniera del tutto straordinaria, senza concorso di uomo.
Maria e Giuseppe potevano continuare a vivere il loro amore spirituale nella verginità, come avevano deciso nella fede, mentre lei poteva accettare di diventare madre del Figlio di Dio secondo la stupenda disposizione della grazia. Sarebbe diventata madre non per l’unione con un uomo, ma per l’opera dello Spirito Santo e la potenza dell’Altissimo. Rileggiamo tutto il v. 35: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio».
La potenza di Dio che ha creato i cieli e la terra, che ha creato l’uomo e la donna e li ha resi fecondi, rende ora feconda una vergine senza nessuna partecipazione maschile, e fa nascere un uomo da una madre che rimane vergine. Maria ora capisce che questo modo nuovo di diventare madre non contraddice né l’impegno preso con Dio, né quello preso insieme a Giuseppe, e perciò accetta: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto» (v. 38). Quel figlio, a cui Maria aveva rinunziato per amore di Dio, ora le viene dato per grazia. La nascita verginale di Gesù indica chiaramente che quel «salvatore», che l’umanità non avrebbe mai potuto procurarsi da sé, le viene dato in modo straordinario e gratuito da Dio, come dice chiaramente il nome di Gesù: Dio salva.

Giuseppe nel dramma
Maria, saputa la buona notizia che la cugina Elisabetta sta per aveva un bambino, parte subito in fretta per andare ad aiutarla. Non sappiamo se ha avuto il tempo di incontrarsi con Giuseppe per informarlo dell’annunzio dell’angelo. Probabilmente no, qualche cosa deve averlo impedito: forse la carovana partiva d’urgenza per la Giudea, o forse Giuseppe era impegnato per lavoro nella vicina città di Sefforis. Appena arriva ad Ain Karim (?) ha la sorpresa di veder svelato il suo segreto, perché Elisabetta salutandola le dice: «A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?» (Luca 1,43). Dopo le parole dell’angelo Maria non è più quella di prima, è già diventata madre e il bambino comincia a crescere e svilupparsi nel suo seno.
Nel canto del Magnificat loda il Signore onnipotente che «fa grandi cose» per salvare Israele e l’umanità, e ha guardato proprio a lei, un’umile ragazza di un paese sconosciuto, per compiere le sue meraviglie; infatti il figlio che le è stato dato realizzerà le promesse fatte ad Abramo e ai padri, per manifestare la fedeltà di Dio e la grandezza del suo amore. Nei tre mesi che rimane presso la cugina, Maria l’aiuta in tutti i lavori di casa, s’informa dell’apparizione dell’angelo a Zaccaria, vede le somiglianze e le differenze con la propria situazione, e pensa che bisogna informare Giuseppe di tutto ciò che è accaduto. Probabilmente, dopo la nascita di Giovanni Battista e la festa della sua circoncisione, Maria ritorna a Nazaret, e come prima cosa si mette in contatto con Giuseppe per raccontargli tutto.
Giuseppe vede coi suoi stessi occhi che Maria è incinta e aspetta un bambino, e sa benissimo che questo bambino non è suo. Mentre Maria parla e racconta dell’angelo, del saluto ricevuto, della descrizione di questo bambino che «sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo », e avrebbe ricevuto «il trono di Davide» per regnare per sempre, Giuseppe l’ascolta pensoso. E quando continua dicendo che questo figlio è opera dello Spirito Santo, della potenza dell’Altissimo e di nessun altro, lui rimane sospeso e la guarda negli occhi: racconta bugie o dice la verità? Li vede limpidi, sereni, sinceri, come quelli di sempre. Maria non sa mentire, ma come riuscire a credere a ciò che dice? Alla fine avrà risposto con un rapido: «Va bene, andiamo avanti, poi vedremo cosa fare», e se ne sarà tornato a casa sua perplesso e disorientato.

La lotta di Giuseppe
Quella notte naturalmente Giuseppe non chiuse occhio. Ripensava a Maria, a come l’aveva conosciuta prima di chiederla in sposa, ai discorsi fatti durante quei mesi di fidanzamento, alla fiducia e all’amore reciproco, alla comune scelta della verginità, e a quel bambino che ora portava in grembo. Si ripassava tutte le parole di Maria sull’angelo e l’opera di Dio, e rimaneva sospeso: come non credere alla sincerità di Maria? E come credere alla verità di ciò che diceva? Se lui avesse raccontato tutto questo ai suoi amici, gli avrebbero riso in faccia. Tutti sanno come nascono i bambini, se questo non era suo, era di qualcun altro!
E se Maria avesse finto e lo avesse ingannato una seconda volta? Era riuscita a convincerlo ad accettare un matrimonio nella verginità, ma ora si rendeva conto della stranezza di una tale decisione. Perché Maria lo aveva indotto a quella scelta? Aveva forse un altro uomo a cui voleva bene, e con cui aveva fatto questo figlio? Oppure qualcuno aveva abusato di lei in questi tre lunghi mesi di assenza in cui non aveva fatto sapere nulla?
No, non era serio credere al racconto di Maria, era troppo singolare e insolito. Sarebbe stato un cretino a crederle. Per nascondere la propria colpa, quali storie non è capace di raccontare una donna! E la storia dell’angelo era molto ben congegnata. Ma lui non era così stupido da bere tutto. L’indomani torna da Maria e senza mezzi termini le dice: «Senti, dimmi la verità: se nella tua vita c’è un altro uomo, dimmelo. Si aggiusta tutto, io mi ritiro, tu te ne vai con lui e non se ne parla più».
Come si sarà sentita Maria a queste parole di Giuseppe? Aveva sempre temuto che gliele dicesse, mentre in casa di Elisabetta cercava il modo giusto di fargli sapere quello che era successo. Ora vedeva che il dubbio e la preoccupazione lo facevano soffrire, e anche lei soffriva con lui; capiva che non era creduta e soffriva doppiamente. Con dolcezza e fiducia gli dice: «Giuseppe, ascolta!», e riprende a raccontare dall’inizio l’incontro con l’angelo, poi ricorda le tante nascite miracolose dell’Antico Testamento, quella di Isacco, quella di Sansone, quella di Samuele, e l’ultima recentissima di Giovanni Battista, di cui in parte era stata testimone (Genesi 15; Giuda 13; 1 Samuele 1-2; Luca 1).
«Sì- le dice Giuseppe – ma tutti questi bambini straordinari sono figli dei loro genitori, e tu sai che questo figlio non è mio!» Sì, Maria lo sapeva, Dio con lei vergine si era comportata in modo diverso dalle donne sterili; e non sapeva che cosa dire a Giuseppe per fargli superare il dubbio che lo stringeva. Alla fine disse solo: «Giuseppe, proprio questa era la difficoltà che ho fatto all’angelo, quando gli ho detto: ‘Com’è possibile? Non conosco uomo’. E lui mi ha richiamato all’onnipotenza di Dio. Forse una cosa possiamo ancora ricordare, quello che dice il profeta Isaia: Il Signore stesso vi darà un segno. Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele (Isaia 7,14; Matteo 1,23)».
S. Giuseppe con il Bambino Gesù (Residenza dei Padri Gesuiti del Gesù Nuovo, Napoli).
Giuseppe l’aveva guardata attentamente per tutto il tempo: Maria parlava con fervore, ma era calma e manteneva la semplicità di sempre; la vedeva anche un po’ impacciata perché non riusciva a spiegare con altre parole le cose che raccontava, ma si notava che non nascondeva nulla; era la ragazza buona che aveva sempre conosciuto, non si poteva dubitare di ciò che diceva. Nella sua incredibile e straordinaria grandezza, il discorso che faceva aveva una sua logica e limpida coerenza. Eppure c’era qualcosa che ancora non lo convinceva, aveva bisogno di prendere tempo.
Perciò le dice: «Va bene Maria, ci penserò; intanto preghiamo l’uno per l’altro». Si lasciarono, e Maria lo seguì con uno sguardo colmo di affetto e comprensione. Poi abbassò gli occhi pieni di lacrime e si mise a pregare.

Nella notte oscura
Giuseppe da questo secondo incontro, o da questa seconda serie d’incontri – perché non sappiamo quanti giorni è durata la sua lotta interiore – se ne tornava con una certezza: Maria non lo aveva tradito e nessuno aveva abusato di lei. Ma lui, Giuseppe, che c’entrava in questa storia straordinaria di Dio, degli angeli e dei padri? Lui era un ragazzo normale, un lavoratore che aveva cercato di farsi una famiglia; aveva trovato una brava ragazza, aveva scoperto la bellezza della verginità e voleva vivere con Maria in questo nuovo stato di vita.
Ma ora che Maria portava in grembo questo bambino, tutto era cambiato. Se ciò che lei diceva era vero, lui che doveva fare? Il rapporto tra loro due non era più lo stesso, perché il figlio apparteneva a lei e non a lui. Ripensava ai personaggi della Scrittura e agli interventi miracolosi di Dio nella storia d’Israele ricordati da Maria. Certo, Dio era padrone del tempo e dello spazio, e poteva agire oggi come ieri; non c’erano dubbi sulla sua onnipotenza; e se aveva deciso di compiere la redenzione del mondo, chi poteva dirgli cosa doveva fare o non fare? E certamente avrebbe potuto benissimo scegliere Maria come la «vergine» per attuare la profezia di Isaia e far nascere l’Emmanuele.
Su questo anche lui era d’accordo, perché le ragazze come Maria erano poche, anzi non ce n’era nessuna! Ma se davvero Maria portava in seno il Figlio di Dio, chi era lui per portare madre e figlio a casa sua? Ricordava che quando Davide aveva voluto portare l’arca dell’alleanza a Gerusalemme, qualcuno si era avvicinato, l’aveva toccata ed era morto sul colpo (2 Samuele 6,1-11). No, non era più possibile stare accanto a Maria. Anche se in fondo gli dispiaceva, doveva comunque rimandarla a casa. Se la rimandava pubblicamente, però, avrebbe dovuto spiegare che quel figlio non era suo, e tutti avrebbero pensato che Maria lo aveva tradito e l’avrebbero accusata di adulterio, col rischio non improbabile che la volessero lapidare. No, l’avrebbe rimandata in segreto, perché lei continuasse la sua vita seguendo i messaggi del cielo, mentre lui avrebbe cercato di farsi una vita normale sulla terra.
Questo dice esattamente il vangelo di Matteo: «Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto» (Matteo 1,19).

La chiamata alla paternità spirituale
Dio però vede la difficoltà in cui si trova Giuseppe e non lo abbandona. Lo prepara ad accogliere la sua parola e gli viene incontro con la sua grazia, perché abbia una risposta spirituale al problema squisitamente spirituale in cui si trova. Gli manda in sogno un angelo, come aveva fatto con altri grandi personaggi biblici: «Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Matteo 1,19-21).
Dio manda un angelo a Giuseppe come lo aveva mandato a Maria; diverso è solo il momento, non di giorno, ma nel sonno. Dio non lascia soli nella ricerca del bene da fare, ma viene incontro a ognuno con la sua grazia e dà i segni giusti per riconoscere la sua volontà. L’angelo dice a Giuseppe come sono esattamente le cose e qual è la sua parte in questa opera di Dio. Anzitutto gli conferma che il figlio di Maria è opera dello Spirito Santo, in modo da eliminare ogni dubbio residuo; poi gli dice che non deve aver alcun timore di entrare in questo disegno di salvezza, perché lui ha un compito importante quasi quanto quello di Maria: lei sta dando la vita fisica al Messia; lui gli deve dare la vita sociale e religiosa.
Giuseppe deve inserire il figlio di Maria nel tessuto sociale del popolo d’Israele e gli deve trasmettere le promesse divine fatte alla famiglia di Davide. Perciò sarà lui a dare il nome al figlio di Maria, riconoscendolo come figlio proprio, e lo chiamerà Gesù per far sapere a tutti che Dio salva. Così Giuseppe viene confermato nella sua scelta di vita verginale accanto a Maria, e viene chiamato a vivere una nuova paternità spirituale nei confronti di Gesù. Come Maria anche Giuseppe rinunzia ai propri progetti, accetta la vocazione che gli viene da Dio; si affida alla sua parola, come gli antichi patriarchi, e mette la propria vita a servizio di Gesù e del progetto di salvezza per l’umanità.
Al mattino presto Giuseppe corre alla casa della fidanzata, la chiama e le dice raggiante: «Maria, quello che mi hai detto è tutto vero, stanotte me lo ha confermato un angelo!». Quale gioia esplose nel cuore di tutti e due! Spontaneamente si sono trovati l’una tra le braccia dell’altro, mentre sentivano che l’amore di Gesù li stringeva con una forza potente piena di dolcezza per sempre. Dopo un po’ si sono asciugati gli occhi colmi di lacrime di commozione, e Giuseppe disse: «Presto, prepariamo tutto e cominciamo a vivere insieme, come avevamo deciso».
Questo infatti dice il Vangelo: «Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Matteo 1,24). Così si conclude quello che potremmo chiamare il percorso vocazionale di Giuseppe: un giovane che pensa al matrimonio come prima e normale vocazione umana; che scopre la bellezza della verginità nel rapporto personale con l’assoluto di Dio; che si trova di fronte l’imprevedibile della novità di un progetto divino non facile da comprendere; e che nell’ubbidienza alla parola di Dio accetta la paternità spirituale verso Gesù, il figlio di Maria, che lui accoglie in tutti i sensi come figlio proprio.
La decisione di Giuseppe fa nascere la famiglia di Nazaret. Essa, così normale tra le tante famiglie del paese, e così eccezionale per la vocazione e la missione, rimane il prototipo di ogni famiglia cristiana.

Publié dans:San Giuseppe |on 18 mars, 2015 |Pas de commentaires »

La devozione a Maria, ai santi ed agli angeli nella Chiesa Ortodossa

La devozione a Maria, ai santi ed agli angeli nella Chiesa Ortodossa dans immagini sacre theotokos-8
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Publié dans:immagini sacre |on 17 mars, 2015 |Pas de commentaires »

LA SCALA SANTA DEL PARADISO (Icona)

http://www.piccoloeremodellequerce.it/gliko/Studi/Scala_santa_Paradiso.htm

LA SCALA SANTA DEL PARADISO

LA SCALA SANTA DEL PARADISO (Icona) dans immagini sacre e testo La-scala-santa-del-paradiso

Nella notte contemplare la luce

sr Renata Bozzetto

San Giovanni Climaco (da climax, scala: genitivo greco latinizzato come nominativo Climacus) è ce­lebre per la sua opera La Scala Santa del Paradiso. Egli, monaco igumeno del mona­stero di S. Caterina sul Sinai, nella Scala descrive l’itinerario dell’e­sperienza spirituale che conduce alla deificazione attraverso la luce. Traccia la via dell’ascesi mistica: un percorso in salita, i cui gradini sono uguali, in numero, all’età del Signore nella sua vita terrena. Infatti, prendendo a modello quei trent’anni, egli ci presenta una sca­la simbolica che in trenta gradini conduce alla perfezione.
Il termine del cammino è quindi la « trasfigurazione » del cuore.
Ogni anima anelante al cielo, come cerva immunizzata dal veleno in forza del profondo desiderio di unirsi al Signore, raggiunta la cima della Scala, può bagnarsi nelle acque della teologia spirituale e snidare definitivamente le « fiere » dai loro nascondigli col fiato della sua bocca, passeggiando poi, libera, sugli alti monti dove abita la conoscenza della Trinità.
« Il presente libro – esorta san Giovanni, esperto conoscito­re dell’anima umana – mostra il miglior cammino. Se lo imbocchiamo, troveremo in esso una guida sicura per chi lo segue, una scala molto stabile che conduce dalle cose terrestri alle realtà sante, e al sommo di essa vedremo affacciarsi Dio. E’ quella che io penso sia la scala di Giacobbe, « colui che ha superato » le passioni, e che contemplò mentre riposava sul giaciglio dell’ascesi. Saliamo dunque con coraggio e confidenza: così vi esorta questa scala spirituale che conduce al cielo » (S. Giovanni Climaco).
La lettura fungeva per così dire da manuale per i monaci, ma divenne in seguito assai popolare anche in ambiente laico, perché indicava la via verso la purificazione morale. Attraverso i suoi insegnamenti la vita monastica diventava paradigma della vita cristiana in quanto tale, intesa come responsabilità, vigilanza e battaglia contro il male nella « notte » dell’esistenza.

Stare davanti all’icona
L’icona « Scala Santa dei Paradiso », conservata nel mona­stero di S. Caterina sul Sinai (sec. XII), traduce in termini pittorici il cammino dell’anima verso la luce e sottolinea con semplici sim­bologie i pericoli che la « notte » nasconde.
La composizione dell’icona è costruita in modo ideale: la scala, su cui salgono i monaci superando difficoltà e prove nel cammino ascetico, divide perfettamente la scena in due parti. Nella parte superiore si collocano i monaci che salgono i gradini delle virtù, giungendo fino a Cristo che si affaccia dai cieli per accogliere i Santi asceti. Nella zona inferiore sono raffigurati i monaci che non hanno perseverato nella loro tensione verso la Luce e, quindi, precipitano, catturati dai diavoli che li trascinano nelle tenebre dell’inferno (raffigurato nella parte inferiore sotto forma di una testa oscura e mostruosa).
I diavoletti sono rappresentati con una vena più comica e grottesca che terrificante, secondo la consuetudine bizantina di evitare raffigurazioni raccapriccianti delle forze maligne.
L’Oriente accentua preferibilmente l’elemento vittorioso, pasquale. Ecco infatti apparire alla sommità della Scala Gesù Cristo dallo sguardo vivo e pensoso, intenso e colmo di misericordia nell’atto di accogliere Giovanni Climaco con gesto ampio e solenne. E’ il Pantocratore, Colui che regge tutto « l’essere », il Salvatore, Gesù di Nazareth: è il Volto visibile della Luce divina increata che spiritualizza e anima ogni forma materiale e terrena. Avvolto in vesti luminose e vivaci, Cristo si rivela vigoroso e accogliente nel contempo, così che la robustezza delle proporzioni regolari crea l’effetto di una plasticità scultorea, di un’immagine maestosa ed elevata.
San Giovanni, invece, marcia alla testa di un gran numero di monaci, decisamente orientato verso la straordinaria Luce che lo attrae e affascina: la sua figura severa, austera, delinea i tratti ideali dell’asceta: distaccato dal mondo, ma teso e assorto nella contemplazione dei mistero di Luce cui allude il fondo oro idealmente lucido e levigato, che gli antichi dichiaravano essere come « un fuoco che brilla nella notte ».
L’oro, « colore dei colori » di cui l’icona è interamente coperta, nel suo « brillio » e nella sua « nobile luminosità » (Andrea di Creta), significa quindi la Luce increata che investe la creatura e la trasfigura, rendendola già fin d’ora partecipe del Paradiso. La presenza dell’oro, in tal modo, è sempre un indizio del divino, del suo manifestarsi nelle forme sensibili come sublime Presenza che permea di sé il cosmo intero. La lumino­sità dell’oro ha inoltre la caratteristica di « abbagliare » e di « accecare ». Pur illuminando la materia accendendola di una luce misteriosa, essa costituisce come una barriera compatta che cela la prospettiva spaziale e non permette all’occhio di penetrarla, ma rende piuttosto il senso della realtà come « Mistero », mettendo l’accento su quella stupefacente Presenza di Dio che la anima.
Le semplici figure dei monaci tradiscono fisionomie di tipo orientale, espressioni tese e immote, figure dinamiche e asimmetriche, austero silenzio e intensità interiore, costruzione ascetica del mondo spirituale e insieme lieve e raffinato gusto pittorico per la pennellata in cui prevale quello sfumato che aumenta il senso della luminosità. Tutto ciò consente quel fondamentale passaggio dalla concretezza al carattere ideale che ci da di ritrovare l’elemento distintivo dell’icona: una contemplazione silenziosa, una quiete ideale, l’assenza di emozioni troppo sensibili e contrastanti. I monaci hanno mani protese in avanti quasi dovessero porgere qualcosa, forse offrire la propria vita e quella altrui; ma potrebbero essere anche mani aperte e disponibili ad accogliere il dono di Luce che dalla cima invita a salire.
In alto, a sinistra, poi, gli Angeli cantano i loro cori angelici a quanti hanno raggiunto la Pace, la Luce, il Paradiso, a cui fa contrasto il resto contraddistinto da silenzio e da un’essenzialità assorta e interiore.

« Alzati, rivestiti di luce, perché viene a te la tua Luce, la gloria di Jahweh brilla su di te … su di te risplende Jahweh » (Is 60,1-2).
Dio è Luce, cioè è principio di vita, di novità, di creazione. Dio, poi, è difesa, accoglienza e misericordia. Con questa protezione si affrontano l’incertezza e le insidie del male nella notte dell’esistenza.
« Dio è luce e in Lui non ci sono tenebre’ (1Gv 1,5): sì, Egli è innanzitutto luce, un simbolo universale che esprime mirabilmente la bipolarità di Dio: è il Trascendente come la luce del sole, che è all’esterno di noi e irrompe da una fonte che non possiamo né controllare né dominare ed è, come la luce, vicino, immanente, penetrante.
Quando l’uomo si apre e abbandona pienamente al Mistero di Dio, scopre se stesso, l’intera sua storia: passato presente e futuro.
« L’uomo di luce è l’uomo dell’interiorità che avendo realizzato l’unità in se stesso è giunto alla chiarezza di Dio. Egli ama come ama Dio, o piuttosto è Dio che ama in lui. Egli irradia luce divina e dona la vita. Nell’uomo di luce si è insediato lo Spirito, di qui l’importante ruolo svolto dallo Spirito Santo pres­so i figli della luce. La loro particolare vocazione è inserirsi in una dimensione cosmica, poter divenire i redentori dell’universo. Così l’uomo di luce è un salvatore e ogni creatura, anche la più umile, è beneficiaria del suo dono di luce »[1].
Contemplare la Luce non può essere perciò qualcosa di passivo, ma di rivoluzionario che ti apre gli occhi il cuore la casa la vita. Ti rende appassionato, intrepido, audace, propositivo.
Pur coinvolto nella « notte » del tempo, talora intrappolato nelle quotidiane fatiche esistenziali, avverti che è necessario continuare a « salire » dalla terra al ciclo, anticipazione di piena esperienza di comunione con l’eterno.
Come? Con volto franco e sereno, a mani aperte e disponibili, giorno dopo giorno, momento per momento, cogliendo i segni di questo « oltre di Dio » che vanno vagliati attraverso quel filtro sicuro che rappresenta la più autentica specificità del Cristo: il filtro della comunione, dell’universalità, del dialogo, del perdono e della misericordia. Questa apertura « dell’oltre di Dio » ci stimolerà a fare di tutta la nostra vita una pura contemplazione. Contemplazione non come attività, ma come atteggia­mento … un essere in-relazione-con.
Siate piccole luci in salita: grida l’icona! E si tratta di un atteg­giamento, oserei dire, immutabile, di silenzioso sorriso, di apertura e disponibilità totale a Dio che ci penetra, ci possiede, ci ama.
Un’attitudine di misericordia, di benevolenza, di servizio e di pace per gli uomini e le cose del mondo. Infatti è sempre nello sbriciolarsi della giornata che si gioca la contemplazione: nelle dure ore del lavoro, nell’accettare le contrarietà quotidiane come un dono di Dio, nell’interessamento sincero e amorevole per gli altri. Nel sacrificarci per far contento chi ci vive accanto, nella benevolenza verso tutti, nella gioia di vedere le cose belle, nella stanchezza e nel sonno accettati o vinti secondo la necessità del momento.
Salire e scendere la Scala Santa del Paradiso: un movimento perenne tra terra e cielo in compagnia di tanti, tutti a mani tese… Così più che accrescere in noi « conoscenza » impariamo a stabilirci nella « comunione »; una comunione che quanto più è totale e assoluta, espressa nel fare la volontà del Padre, tanto più ci penetra del Mistero luminoso di Dio.
Ciò che conta è non cessare di avanzare, né lamentare stanchezza ma salire e salire con determinazione incontro a Colui che è sorgente di pace e gioia senza fine.
Cessa allora la necessità di esprimersi e rimane quella di « essere ».
« Ti ringrazio, Adonaj, perché hai illuminato il mio volto in vista dell’Alleanza e dalla fossa hai liberato l’anima mia. Ti ho cercato quale stabile aurora e tu mi sei apparso all’alba »: così canta l’inno IV di Qumran (vv. 5-6).

Pregare l’icona
Per vivere questa esperienza spirituale è fondamentale la determinazione per un silenzio interiore tale da permettere al Mistero di penetrarti, coinvolgerti e trasformarti.
Poi, per aiutarti a entrare con fiducioso coraggio in questa esperienza di fede, poniti in atteggiamento di umile amore davanti all’icona.
L’umile amore è quella eccezionale realtà che unisce in maniera indissolubile il Creatore con la creatura e perciò l’icona con colui che in essa si comunica.
« Come coloro che vedono la luce sono nella luce e partecipano del suo splendore, così coloro che vedono Dio sono in Dio, partecipando del suo splendore. Perché lo splendore di Dio vivifica » (S. Ireneo di Lione).
Di fronte alla manifestazione e alla percezione interiore della santità di Dio, osserva le tue reazioni e confrontati con Is.6,1-8.
Chiediti: ho esperienza di cambiamenti, di « trasfigurazioni » nella mia vita? Quando? Come? A cosa o a chi li attribuisco?
Sintetizzo le esperienze che mi hanno « illuminato »: com’è accaduto?
Cosa chiamo nella mia vita « luce », « giorno », e quali situazioni di notte ho sperimentato essere poi portatrici di luce? Osservo e ringrazio.
Ripercorro i vari scalini dell’icona: salire, salire con … ascoltare, prendere fiato, non voltarsi indietro, non distrarsi, contemplare, tenere teso il filo del desiderio per giungere in cima, ridiscendere per « farmi carico di… » e poi risalire.
Faccio lettura sapienziale delle parole della Piccola Sorella Magdeleine di Gesù: « E se tutto è triste attorno a noi, se tutto è oscuro, guarderemo più in alto, altissimo, là dove saremo riuniti nello stesso amore. Là dove Certosini, Domenicani, Francescani, Gesuiti, Trappisti saranno fusi nella stessa armonia, dove ciascuno avrà la sua nota …, non la stessa, perché non sarebbe armonioso… E noi saremo la piccola nota in sordina di cui si potrebbe fare benissimo a meno, ma che all’insieme da qualcosa di dolce, di argentino, come i campanellini di montagna… »[2].
Prego. Ringrazio. Mi congedo.

[1] MARIE MAGDELEINE DAVY, Le thème de la lumière dans le iudaisme, le cìiristia-nisme et l’isiam, Paris 1976, p.275.
[2] MAGDELEINE DI GESÙ, Gesù per le strade del mondo – I PARTE, Piemme, p.124.

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PAOLO PP. VI : PETRUM ET PAULUM APOSTOLOS

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PETRUM ET PAULUM APOSTOLOS

ESORTAZIONE APOSTOLICA DI SUA SANTITÀ

Nel XIX centenario del martirio degli Apostoli Pietro e Paolo

PAOLO PP. VI

VENERABILI FRATELLI SALUTE ED APOSTOLICA BENEDIZION

I santi Apostoli Pietro e Paolo sono giustamente considerati dai fedeli come colonne primarie non solo di questa Santa Sede Romana, ma anche di tutta la Chiesa universale del Dio vivo. Riteniamo, perciò, di fare cosa consona al Nostro ministero Apostolico esortando voi tutti, Venerabili Fratelli, a promuovere, spiritualmente a Noi uniti, ciascuno nella propria diocesi, una devota celebrazione della memoria, diciannove volte centenaria, del martirio, consumato in Roma, tanto dell’apostolo Pietro scelto da Cristo a fondamento della sua Chiesa, e primo Vescovo di quest’alma Città, quanto dell’apostolo Paolo, dottore delle Genti (Cf 1 Tm 2,7), maestro e amico della prima comunità cristiana in Roma.
La data di questa memorabile ricorrenza non può essere sicuramente fissata, in base ai documenti storici. È certo che i due apostoli furono martirizzati a Roma durante la persecuzione di Nerone, che infierì dall’anno 64 al 68. Il martirio è ricordato da san Clemente, Successore dello stesso Pietro nel governo della Chiesa Romana, nella sua lettera ai Corinzi, ai quali propone i validi esempi dei due atleti: Per invidia e per gelosia le più grandi e giuste colonne furono perseguitate e lottarono sino alla morte (1 Epistula ad Corinthios, V, 1-2: ed. FUNK 1, p. 105).
Ai due Apostoli Pietro e Paolo fece corona un gran numero di persone (Cf TACITO, Annales, XV, 44) che costituisce la primizia dei martiri della Chiesa Romana, come scrive lo stesso Clemente: A questi uomini che vissero santamente si aggiunse una grande schiera di eletti, i quali, soffrendo per invidia molti oltraggi e torture, furono di bellissimo esempio a noi (Epistula ad Corinthios, VI, 1: ed. FUNK 1, p. 107).
Noi, poi, lasciando alle erudite discussioni la precisa determinazione della data del martirio dei due Apostoli, abbiamo scelto, per le celebrazioni centenarie, l’anno corrente, seguendo in ciò l’esempio del Nostro venerato Predecessore Pio IX, il quale volle solennemente ricordare nel 1867 il martirio di san Pietro.
E poiché la prima comunità cristiana di Roma esaltò insieme il martirio di Pietro e Paolo, e la Chiesa in seguito fissò la commemorazione anniversaria dell’uno e dell’altro Apostolo in un’unica festa liturgica (29 giugno), Noi abbiamo pensato di unire insieme, in questa celebrazione centenaria, il glorioso martirio dei Principi degli Apostoli.
E che Noi pure siamo tenuti a richiamare il ricordo di questo anniversario lo dice l’abitudine, ormai universalmente diffusa, di commemorare persone e fatti, che lasciarono un’impronta di sé nel corso del tempo, e che, considerati nella distanza degli anni trascorsi e nella vicinanza delle memorie superstiti, offrono a chi saggiamente li ripensa e quasi li rivive, non vane lezioni circa il valore delle cose umane, forse più palese ai posteri che oggi lo scoprono, che non ai contemporanei, che allora non sempre e non tutto lo compresero. L’educazione moderna al senso della storia a tale ripensamento facilmente ci piega, mentre il culto delle sacre tradizioni, elemento precipuo della spiritualità cattolica, stimola la memoria, accende lo spirito, suggerisce i propositi, per cui una ricorrenza anniversaria si traduce in una lieta e pia festività, infonde il desiderio della riviviscenza delle antiche venerande vicende, e apre lo sguardo sull’orizzonte del tempo passato e futuro, quasi che un disegno segreto lo unificasse e ne segnasse nella futura comunione dei santi il suo estremo destino. Questa spirituale esperienza sembra a noi doversi particolarmente effettuare mediante la rievocazione dei due sommi Apostoli Pietro e Paolo, che alla temporale mortalità pagarono col martirio per Cristo il loro umano tributo, e che dell’immortalità di Cristo trasmisero a noi e fino agli ultimi posteri sacramento perenne la Chiesa, guadagnando per sé l’eredità incorruttibile, incontaminata e inalterabile, riservata nei cieli (Cf 1 Pt 1,4).
E tanto più Ci piace commemorare con voi, Venerati Fratelli e Figli carissimi, questo anniversario, quanto maggiormente questi beati Apostoli Pietro e Paolo sono non solo Nostri, ma vostri altresì: essi sono gloria di tutta la Chiesa, perché delegati delle Chiese, gloria di Cristo (2 Cor 8,23) e da essi esce tuttora per tutta la Chiesa la voce: «Noi siamo il vostro vanto, come voi sarete il nostro» (Cf 2 Cor 1,14). Che se questo tragico e benedetto suolo romano raccolse il loro sangue e custodì, inestimabili trofei, le loro tombe, e alla Chiesa di Roma toccò l’incomparabile prerogativa di assumere e di continua re la loro specifica missione, questa non ha per fine la Chiesa locale, sì bene la Chiesa intera, consistendo principalmente quella missione nel fungere da centro della Chiesa stessa e nel dilatarne la visibile e mistica circonferenza ai confini dell’universalità; l’unità cioè e la cattolicità, che in virtù dei santi Apostoli Pietro e Paolo hanno nella Chiesa di Roma la loro precipua sede storica e locale, sono proprietà e sono note distintive di tutta la vera e grande Famiglia di Cristo, sono doni di tutto il Popolo di Dio, per il quale la viva e fedele tradizione romana li custodisce, li difende, li dispensa e li accresce.
Per questo il Nostro invito, oltre che per la nostra diletta diocesi di Roma «di cui sono i celesti patroni», è per voi tutti, che siete Successori degli Apostoli e Pastori della Chiesa universale, in quanto componenti con Noi quel Collegio episcopale, che il recente Concilio Ecumenico, con tanta ricchezza di dottrina e con tanti presagi di futuri incrementi ecclesiali, illustrò; è per voi, fedeli e ministri tutti della santa Chiesa; e così via, a Dio piacendo, per tutti i fratelli che, sebbene non ancora in piena comunione con Noi, sono tuttavia insigniti del nome cristiano, e che ben volentieri sappiamo cultori della memoria e dello spirito dei due Apostoli. In particolare ricordiamo con viva soddisfazione del Nostro animo che le venerande Chiese Orientali celebrano solennemente nelle loro liturgie i due Corifei degli Apostoli, e ne mantengono vivo il culto tra il popolo cristiano. Ci piace altresì rilevare come presso le Chiese e le Comunità Ecclesiali separate dell’Occidente sia viva l’idea dell’apostolicità, che la presente celebrazione mira a vedere sempre più perfetta ed operante, e che san Paolo esprime con quelle mirabili parole: Edificati sopra il fondamento degli apostoli (Ef 2,20).
In che cosa consiste praticamente il Nostro invito? Come insieme celebreremo il significativo anniversario? È costume di questa Sede Apostolica, quando intende rendere solenne e universale qualche singolare ricorrenza, elargire qualche beneficio spirituale (e non Ci rifiutiamo dal farlo anche in questa occasione); ma questa volta, più che donare, Ci piace domandare; più che offrire, vogliamo chiedere. E la Nostra domanda è semplice e grande: Noi vi preghiamo tutti e singoli, Fratelli e Figli Nostri, di voler celebrare la memoria dei santi Apostoli Pietro e Paolo, testimoni con la parola e col sangue della fede di Cristo, con un’autentica e sincera professione della medesima fede, quale la Chiesa da loro fondata e illustrata ha raccolto gelosamente e autorevolmente formulata. Una professione di fede vogliamo a Dio offrire, al cospetto dei beati Apostoli, individuale e collettiva, libera e cosciente, interiore ed esteriore, umile e franca. Vogliamo che questa professione salga dall’intimo di ogni cuore fedele e risuoni identica e amorosa in tutta la Chiesa.
Quale migliore tributo di memoria, d’onore, di comunione potremmo offrire a Pietro e a Paolo che quello della fede stessa, che da loro abbiamo ereditata?
Voi sapete benissimo che il Padre stesso celeste rivelò a Pietro chi era Gesù: il Cristo, il Figlio del Dio vivo, il Maestro e il Salvatore da cui a noi deriva la grazia e la verità (Cf Gv 1,14), la nostra salvezza, il cuore della nostra fede; voi sapete che sulla fede di Pietro riposa tutto l’edificio della santa Chiesa (Cf Mt 16,16-19); voi sapete che quando molti abbandonavano Gesù, dopo il discorso di Cafarnao, fu Pietro che, a nome del Collegio Apostolico, proclamò la fede in Cristo Figlio di Dio (Cf Gv 6,68-69); voi sapete che Cristo medesimo si è fatto garante con la sua personale preghiera dell’indefettibilità della fede di Pietro, ed ha a lui affidato l’ufficio, nonostante le sue umane debolezze, di confermare in essa i suoi fratelli (Cf Lc 22,32); e voi anche sapete che la Chiesa vivente ha preso inizio, disceso lo Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, con la testimonianza della fede di Pietro (Cf At 2,32-40).
Che cosa potremmo a Pietro domandare a nostro vantaggio, a Pietro offrire a suo onore, se non la fede, donde ha origine la nostra spirituale salute, e la nostra promessa, da lui reclamata, d’essere forti nella fede? (1 Pt 5,9)
A voi è parimente noto quale assertore della fede è stato san Paolo: a lui la Chiesa deve la dottrina fondamentale della fede come principio della nostra giustificazione, cioè della nostra salvezza e dei nostri rapporti soprannaturali con Dio; a lui la prima determinazione teologica del mistero cristiano, a lui la prima analisi dell’atto di fede, a lui l’affermazione del rapporto tra la fede, unica e inequivocabile, e la consistenza della Chiesa visibile, comunitaria e gerarchica. Come non invocarlo nostro perenne maestro di fede; come non chiedere a lui la grande e sperata fortuna della reintegrazione di tutti i cristiani in un’unica fede, in un’unica speranza, in un’unica carità dell’unico Corpo Mistico di Cristo? (Cf Ef 4,4-16) E come non deporre sulla sua tomba di «Apostolo e martire» il nostro impegno di professare con coraggio apostolico, con anelito missionario, la fede, ch’egli alla Chiesa, al mondo, con la parola, con gli scritti, con l’esempio, col sangue, insegnò e trasmise?
Così che arride a Noi la speranza che la commemorazione centenaria del martirio dei santi Apostoli Pietro e Paolo si risolva principalmente per tutta la Chiesa in un grande atto di fede. E vogliamo ravvisare in questa ricorrenza la felice occasione che la divina Provvidenza appresta al Popolo di Dio per riprendere esatta coscienza della sua fede, per ravvivarla, per purificarla, per confermarla, per confessarla. Non possiamo ignorare che di ciò l’ora presente accusa grande bisogno. È pur noto a voi, Venerati Fratelli e Figli carissimi, come, nella sua evoluzione, il mondo moderno, proteso verso mirabili conquiste nel dominio delle cose esteriori, e fiero d’una cresciuta coscienza di sé, sia incline alla dimenticanza e alla negazione di Dio, e sia poi tormentato dagli squilibri logici, morali e sociali, che la decadenza religiosa porta con sé, e si rassegni a vedere l’uomo agitato da torbide passioni e da implacabili angosce: dove manca Dio manca la ragione suprema delle cose, manca la luce prima del pensiero, manca l’indiscutibile imperativo morale, di cui l’ordine umano ha bisogno (Cf S. AGOSTINO, De civ. Dei, 8, 4: PL 41, 228-229; Contra Faustum, 20, 7: PL 43, 372).
E mentre vien meno il senso religioso fra gli uomini del nostro tempo, privando la fede del suo naturale fondamento, opinioni esegetiche o teologiche nuove, spesso mutuate da audaci, ma cieche filosofie profane, sono qua e là insinuate nel campo della dottrina cattolica, mettendo in dubbio o deformando il senso oggettivo di verità autorevolmente insegnate dalla Chiesa, e, col pretesto di adattare il pensiero religioso alla mentalità del mondo moderno, si prescinde dalla guida del magistero ecclesiastico, si dà alla speculazione teologica un indirizzo radicalmente storicistico, si osa spogliare la testimonianza della Sacra Scrittura del suo carattere storico e sacro, e si tenta di introdurre nel Popolo di Dio una mentalità cosiddetta post-conciliare, che del Concilio trascura la ferma coerenza dei suoi ampli e magnifici sviluppi dottrinali e legislativi con il tesoro di pensiero e di prassi della Chiesa, per sovvertirne lo spirito di fedeltà tradizionale e per diffondere l’illusione di dare al cristianesimo una nuova interpretazione arbitraria e isterilita. Che cosa resterebbe del contenuto della nostra fede e della virtù teologale che la professa, se questi tentativi, emancipati dal suffragio del magistero ecclesiastico, avessero a prevalere?
Ed ecco che a confortare la nostra fede nel suo autentico significato, a stimolare lo studio delle dottrine enunciate dal recente Concilio Ecumenico, e a sorreggere lo sforzo del pensiero cattolico nella ricerca di nuove e originali espressioni, fedeli tuttavia al deposito dottrinale della Chiesa, nello stesso senso e nello stesso modo di intendere (Cf VINCENZO LERINO, Commonitorium, 1, 23: PL 50, 668; D.-S. 3020), giunge sulla ruota del tempo questo anniversario Apostolico, il quale offre ad ogni figlio della santa Chiesa la felice opportunità: di dare a Gesù Cristo Figlio di Dio, Mediatore e Perfezionatore della rivelazione, l’umile e sublimante risposta: io credo, cioè il pieno assenso dell’intelletto e della volontà alla sua Parola, alla sua Persona, alla sua missione di salvezza (Cf Eb 12,2; CONC. VAT. I, Cost. dogm. de fide catholica, c. 3: DA. 3008, 3020; CONC. VAT. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen Gentium, n. 5: AAS 57 (1965), p. 7; CONC. VAT. П, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, nn. 5, 8: AAS 58 (1966), pp: 819, 821); e di onorare così quei sommi testimoni di Cristo, Pietro e Paolo, rinnovando l’impegno cristiano d’una sincera e operante professione della loro e nostra fede, e ancora pregando e lavorando per la ricomposizione di tutti i cristiani nell’unità della medesima fede.
Noi non intendiamo indire a tal fine un particolare Giubileo, quando appena è stato celebrato quello da Noi stabilito a conclusione del Concilio Ecumenico; ma fraternamente esortiamo voi tutti, Venerati Fratelli nell’Episcopato, a voler illustrare con la parola, a voler onorare con particolari solennità religiose, a voler soprattutto recitare solennemente e ripetutamente con i vostri sacerdoti e con i vostri fedeli il «Credo», in una o in altra delle formule in uso nella preghiera cattolica.
Ci piacerà sapere che il «Credo» è stato recitato espressamente, ad onore dei santi Pietro e Paolo, in ogni cattedrale, presenti il Vescovo, il Presbiterio, gli alunni dei Seminari, i Laici cattolici militanti per il regno di Cristo, i Religiosi e le Religiose, e quanto più numerosa possibile la santa assemblea dei fedeli. Analogamente faccia ogni Parrocchia per la propria comunità; e parimente ogni casa religiosa. Così suggeriamo che tale professione di fede sia, in un giorno stabilito, emessa in ogni singola casa ove dimori una famiglia cristiana, in ogni associazione cattolica, in ogni scuola cattolica, in ogni ospedale cattolico e in ogni luogo di culto, in ogni ambiente e in ogni riunione, ove la voce della fede possa esprimere e rinfrancare l’adesione sincera alla comune vocazione cristiana.
Noi rivolgiamo una particolare esortazione agli studiosi della Sacra Scrittura e della Teologia, affinché vogliano contribuire col magistero gerarchico della Chiesa a preservare la vera fede da ogni errore, ad approfondirne le insondabili profondità, a spiegarne rettamente il contenuto, a proporne i sani criteri di studio e di divulgazione. Similmente diciamo ai predicatori, ai maestri di religione, ai catechisti.
L’anno centenario commemorativo dei santi Pietro e Paolo sarà in tale modo l’anno della fede. Affinché la sua celebrazione abbia una certa simultaneità, Noi vi daremo inizio con la festa degli Apostoli medesimi, il 29 giugno prossimo venturo, e procureremo, fino allo scadere della medesima data dell’anno successivo, di renderlo fecondo di particolari commemorazioni e celebrazioni, tutte improntate al perfezionamento interiore, allo studio approfondito, alla professione religiosa, all’operosa testimonianza di quella santa fede senza la quale è impossibile piacere a Dio (Eb 1,6), e mediante la quale speriamo di raggiungere la promessa salvezza (Cf Mc 16,16; Ef 2,8; ecc.).
Dando a voi, Venerati Fratelli e diletti Figli, questo annuncio pieno di spirituali prospettive e di consolanti speranze, sicuri di avervi tutti solidali in piissima comunione, nel nome e con la potestà dei beati Apostoli e martiri Pietro e Paolo, sulle cui tombe riposa e fiorisce questa Chiesa Romana, erede, alunna e custode dell’unità e della cattolicità da loro qui per sempre incentrate e fatte scaturire, di gran cuore vi salutiamo e vi benediciamo.
Roma, presso S. Pietro, 22 febbraio, nella festa della Cattedra di san Pietro apostolo, dell’anno 1967, quarto del Nostro Pontificato.

PAOLO PP. VI

Publié dans:Papa Paolo VI, San Paolo, San Pietro |on 17 mars, 2015 |Pas de commentaires »

Giambattista Tiepolo, San Patrizio vescovo d’Irlanda, Padova,

Giambattista Tiepolo, San Patrizio vescovo d'Irlanda, Padova,  dans immagini sacre Tiepolo-s.patrizio

http://it.wikipedia.org/wiki/Giambattista_Tiepolo#/media/File:Tiepolo-s.patrizio.jpg

Publié dans:immagini sacre |on 16 mars, 2015 |Pas de commentaires »

CORAZZA DI S. PATRIZIO – PREGHIERA DI SAN PATRIZIO

http://apologetica-cattolica.net/preghiera/item/54-san-patrizio.html

CORAZZA DI S. PATRIZIO – PREGHIERA  DI SAN PATRIZIO

Io associo oggi a me la forza possente dell’invocazione della Trinità: io credo la Trinità nell’Unità, il Creatore dell’universo.
Io associo oggi a me la forza della Nascita di Cristo con il suo Battesimo, la forza della sua Crocifissione e della sua Sepoltura, la forza della sua Resurrezione e della sua Ascensione, la forza della sua Venuta per il Giudizio Universale.
Io associo oggi a me la forza dell’amore dei cherubini, nell’ obbedienza degli angeli, nella speranza della resurrezione e della ricompensa, nelle preghiere dei Patriarchi, nelle predizioni dei profeti, nella predicazione degli Apostoli, nella fede dei Confessori, nell’innocenza delle sante Vergini, nelle imprese degli uomini giusti.
Io associo oggi a me: la forza del Cielo, la luce del sole, il fulgore della luna, lo splendore del fuoco, la velocità del lampo, la rapidità del vento, la profondità del mare, la stabilità della terra, la saldezza delle rocce.
Io associo oggi a me: la forza del Signore per guidarmi, il potere di Dio per sollevarmi, la saggezza di Dio per insegnarmi, l’occhio di Dio per custodirmi, l’orecchio di Dio per udirmi, la parola di Dio per darmi di parlare, la mano di Dio per guidarmi, la via di Dio perché stia davanti a me, lo scudo di Dio per proteggermi, l’esercito di Dio per custodirmi dai tranelli dei diavoli, dalle tentazioni del vizio, dalle passioni della natura, da chiunque mi voglia del male, che sia vicino o lontano, solo o con molti.
Io invoco oggi tutte queste forze contro ogni crudele e impietoso potere che si opponga al mio corpo e alla mia anima, contro le stregonerie di falsi profeti, contro le leggi nere del paganesimo, contro le leggi false degli eretici, contro la pratica dell’idolatria, contro i sortilegi di streghe, dei maghi e dei druidi, contro ogni conoscenza che lega l’anima dell’uomo.
Cristo proteggimi oggi contro il veleno, contro il fuoco, contro l’annegamento, contro ogni ferita mortale, così che io possa avere abbondante ricompensa. Cristo con me, Cristo davanti a me, Cristo dietro di me, Cristo in me, Cristo sotto di me, Cristo sopra di me, Cristo alla mia destra, Cristo alla mia sinistra, Cristo quando mi corico, Cristo nel seggio del carro, Cristo sulla poppa della nave, Cristo nel cuore di ogni uomo che mi pensa, Cristo sulle labbra di tutti coloro che parlano di me, Cristo in ogni occhio che mi guarda, Cristo in ogni orecchio che mi ascolta.Io associo oggi a me la forza possente dell’invocazione della Trinità: io credo la Trinità nell’Unità, il Creatore dell’universo.

Mia traduzione da
http://www.newadvent.org/cathen/11554a.htm
Don Tullio Rotondo

Publié dans:preghiere, Santi |on 16 mars, 2015 |Pas de commentaires »

GIOVANNI PAOLO II – DISCORSO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI IRLANDA (1989)

http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/speeches/1989/april/documents/hf_jp-ii_spe_19890420_pres-rep-irlanda.html

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II DURANTE LA VISITA UFFICIALE DI S.E. IL SIGNOR PATRICK J. HILLERY, PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI IRLANDA

Giovedì, 20 aprile 1989

A Uachataráain Wasal (Caro signor Presidente).
Cad míle fáilte romhat chuig an Vaticáin (centomila volte benvenuto in Vaticano).

1. È per me un grande piacere riceverla oggi. Attraverso la sua persona estendo il mio caloroso saluto all’amatissimo popolo dell’Irlanda che occupa un posto speciale nel cuore del successore dell’apostolo Pietro. Nel disegno di Dio per la sua Chiesa, la predicazione di san Patrizio agli Irlandesi resta una delle esemplificazioni più straordinarie della parabola evangelica del seminatore che uscì fuori a seminare. Il seme cadde su un buon terreno e diede frutto il cento (cf. Mt 13, 8). Il singolare contributo dell’Irlanda all’evangelizzazione dell’Europa e allo sviluppo della cultura europea, come pure alla più recente espansione missionaria della Chiesa, ha forgiato un inscindibile legame tra il suo Paese e la Santa Sede.
Durante la mia memorabile visita del 1979, ho sperimentato di persona la profondità di questa “unione di carità tra l’Irlanda e la Santa Chiesa di Roma” (Homilia ad “Phoenix Park” habita, 1, die 29 sept. 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 2 [1979] 413). Per questi motivi, considerai la mia visita “il pagamento di un gran debito a Gesù Cristo, Signore della storia e operatore della nostra salvezza” (Homilia ad “Phoenix Park” habita, 1, die 29 sept. 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 2 [1979] 413). Il nostro incontro di oggi è un solenne riconoscimento e una gioiosa celebrazione di quella autentica amicizia che, da parte mia, abbraccia tutto il popolo di Irlanda, compresi i seguaci di altre tradizioni religiose.
2. L’Irlanda moderna fu fondata su una concezione della società che rispondeva alle più profonde aspirazioni del suo popolo e assicurava il rispetto della dignità e dei diritti di tutti i suoi abitanti. Una tale visione è legata al desiderio dell’effettiva realizzazione dei valori profondamente umani e cristiani che non hanno mai cessato di risuonare nella mente e nel cuore del popolo irlandese. L’Irlanda può certo essere orgogliosa del progresso realizzato. Le difficoltà – anche molto serie – non mancano ma, nel complesso, è una società affabile e cordiale, sicura nell’applicazione delle leggi e radicata nei più alti ideali della giustizia, la libertà e la pace.
Nel consesso internazionale, l’Irlanda occupa un posto di particolare rilievo. Milioni di persone in altre parti del mondo traggono la loro origine da questa terra, e un gran numero di Irlandesi, uomini e donne, della Chiesa, come anche volontari nel lavoro sociale e di sviluppo, prestano il loro servizio in quasi ogni angolo del mondo. Ugualmente notevole è il fatto che il suo Paese ha sempre cercato di essere un membro attivo ed impegnato nelle organizzazioni come l’ONU e la comunità europea.
Lei stesso, come ministro degli esteri ha negoziato l’ingresso dell’Irlanda nella CEE e ha lavorato come vice-presidente della commissione CEE per gli affari sociali. Ho notato nel Jean Monet Lecture da lei tenuto l’anno scorso all’istituto universitario europeo la profondità del suo impegno con l’ideale di una comunità europea che, nello stesso tempo, tiene in considerazione la ricchezza delle sue differenti culture e la singolarità della storia di ciascun popolo. La voce dell’Irlanda nell’Europa e nel mondo è particolarmente adatta ad essere la voce dell’amicizia, della buona volontà e della pace. L’Irlanda può contribuire con la saggia riflessione, calma e imparziale, sulle lezioni della storia, una riflessione fatta nel contesto dell’umanesimo profondamente cristiano che costituisce il suo ethos più autentico.
3. Come vostra eccellenza ben sa, nella Basilica di san Pietro c’è una cappella dedicata al grande irlandese, san Colombano. Il mosaico dietro l’altare mostra Colombano e i suoi discepoli come “peregrinantes pro Christo”, ambasciatori ed araldi del Vangelo di Cristo. Quante volte si è parlato così degli Irlandesi, uomini e donne, che sono stati sempre testimoni di Cristo in tutti i continenti! Il mosaico porta questa iscrizione: “Si tollis libertatem, tollis dignitatem” – se togli la libertà togli la dignità (Epist. n. 4 ad Attela, in S. Columbani opera, Dublin 1957, p. 34). La frase potrebbe essere stata pronunciata non da Colombano agli inizi del VII secolo, ma da uno dei vostri patrioti o da qualcuno oggi che guarda il mondo e costata con tristezza e dolore che non tutti i popoli sono liberi. Accanto alle vecchie forme di oppressione, le società moderne ne conoscono di nuove. Queste nuove servitù sono particolarmente distruttive della dignità umana.
Pensando a questo, durante la mia visita in Irlanda dieci anni fa, parlai di un confronto con valori e orientamenti alieni dalla società irlandese. Le società sviluppate fanno esperienza del fatto che i principi più sacri “sono stati completamente eliminati da false pretese” (Homilia ad “Phoenix Park” habita, 3, die 29 sept. 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 2 [1979] 415). L’egoismo si sostituisce al coraggio morale e alla solidarietà. Il valore della persona viene allora misurato in termini di avere e non di essere. Come conseguenza, si instaura un clima di grandi e piccole ingiustizie e migliaia di forme di violenza. Quella che viene considerata autentica libertà è in realtà solo una nuova forma di schiavitù.
In simili circostanze, le parole inscritte nella cappella di san Colombano risuonano con forza in tutta la loro saggezza e come avvertimento: se la vera libertà (la volontà di scegliere il bene e la verità) viene perduta, allora sono messi in pericolo il valore e gli inalienabili diritti della persona. L’Irlanda ha le risorse umane e spirituali per procedere nel cammino di un autentico sviluppo, che rispetti e promuova tutte le dimensioni della persona umana, nell’esercizio di una giusta e generosa solidarietà, soprattutto verso i membri più deboli della società. So, eccellenza, che lei condivide questa mia preoccupazione e convinzione. Le assicuro che la mia fervida preghiera per i suoi connazionali riflette la fiducia che l’Irlanda riuscirà ad affrontare positivamente questa sfida.
4. L’Irlanda è saldamente dalla parte della pace, che sta molto a cuore al popolo irlandese. Tuttavia la vita di tutta l’isola è sconvolta da un clima mortale di intimidazione e violenza che ha causato tante sofferenze alle due comunità nell’Irlanda del Nord negli ultimi vent’anni. La violenza che viene perpetrata in Irlanda non offre nessuna soluzione ai problemi reali della società. Non è il metodo scelto democraticamente dal popolo di entrambe le parti. Non porta verità che possa attrarre e convincere la mente e il cuore della gente comune. Il suo solo argomento è il terrore e la distruzione.
Solo una reale volontà di impegnarsi nel dialogo e in coraggiosi gesti di riconciliazione sa risalire alle cause profonde dell’attuale situazione di conflitto. Come ho scritto nel messaggio di quest’anno per la Giornata Mondiale della Pace, dove ci sono l’una accanto all’altra comunità con diverse origini etniche, tradizioni culturali o credo religioso, ciascuna ha diritto alla sua identità collettiva che deve essere salvaguardata e promossa (Nuntius ob diem ad pacem fovemdam dicatum pro a. D. 1989, 3, die 8 dec. 1988: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XI, 3 [1988] 1788). Nello stesso tempo tutti dovranno valutare consapevolmente la fondatezza delle loro rivendicazioni alla luce dell’evoluzione storica e della realtà attuale. Non farlo comporterebbe il rischio di rimanere prigionieri del passato e senza prospettive per l’avvenire (Nuntius ob diem ad pacem fovendam dicatum pro a. D. 1989, 11, die 8 dec. 1988: “l. c.”, p. 1788).
Ma il futuro è già davanti a noi. È nei giovani dell’Irlanda, cattolici e protestanti, che vogliono ereditare una terra in pace e una società edificata sulla giustizia e il rispetto per tutti i suoi membri. Quando vedono i giovani d’Europa reagire positivamente alla crescente unità tra i popoli di diversi paesi e tradizioni culturali, forse non chiedono per se stessi la medesima possibilità? Chi può arrogarsi il diritto di negare loro un futuro di libertà?
È un imperativo morale per tutte le parti coinvolte di arrivare a un accordo politico che rispetti i legittimi diritti e le aspirazioni di tutta la popolazione dell’Irlanda del Nord. Non mancano segni di speranza, e noi preghiamo e siamo fiduciosi che un processo guidato dalla ragione e dalla reciproca accettazione metterà fine allo spargimento di sangue e saprà portare a una giusta riconciliazione e una pacifica ricostruzione. Sostenga Iddio la perseveranza e il coraggio di quanti lavorano realisticamente e con amore fraterno perché giunga presto quel giorno.
5. Signor Presidente, ricordo con vivezza alcune belle immagini dell’Irlanda: la naturale bellezza della campagna e la cordialità della sua popolazione; la gioiosa e devota partecipazione di un’immensa moltitudine alla Messa celebrata al Phoenix Park; il nobile entusiasmo di un mare di giovani a Galway; il mio incontro con i responsabili delle altre Chiese e comunità cristiane, e molti altri incontri con individui e gruppi. E sullo sfondo l’immagine delle rovine monastiche di Clonmacnois. I resti parlano della lunga fedeltà a Cristo dell’Irlanda. Le facce delle persone padano chiaramente della fedeltà dell’Irlanda a Cristo oggi e della fiducia con cui l’Irlanda affronta il suo futuro.
La mia felicità nel ricevere la sua persona è perciò profonda e piena di apprezzamento. Ancor di più, noi celebriamo il sesto anniversario delle cordiali e feconde relazioni diplomatiche tra l’Irlanda e la Santa Sede. Il Signore Dio onnipotente continui a benedire queste relazioni, per la sua gloria, per il bene della Chiesa e per la pace e il bene del popolo irlandese.
La ringrazio, signor Presidente, per aver rappresentato qui oggi il suo Paese. Di tutto cuore invoco l’amorosa protezione di Dio su di lei e sui suoi connazionali.

Dia agus Muire libh (Dio e Maria siano con lei).

Beannacht Dé is Muire libh go léir (La benedizione di Dio e di Maria sia con tutti voi).

 

Publié dans:Papa Giovanni Paolo II, Santi |on 16 mars, 2015 |Pas de commentaires »

SAN PATRIZIO VESCOVO – 17 MARZO (m.f.)

http://www.santiebeati.it/dettaglio/26400

SAN PATRIZIO VESCOVO

17 MARZO – MEMORIA FACOLTATIVA

BRITANNIA (INGHILTERRA), 385 CA – DOWN (ULSTER), 461

«Arrivato in Irlanda, ogni giorno portavo al pascolo il bestiame, e pregavo spesso nella giornata; fu allora che l’amore e il timore di Dio invasero sempre più il mio cuore, la mia fede crebbe e il mio spirito era portato a far circa cento preghiere al giorno e quasi altrettanto durante la notte, perché allora il mio spirito era pieno di ardore». Patrizio nasce verso il 385 in Britannia da una famiglia cristiana. Verso i 16 anni viene rapito e condotto schiavo in Irlanda, dove rimane prigioniero per 6 anni durante i quali approfondisce la sua vita di fede secondo il brano della Confessione che abbiamo letto all’inizio. Fuggito dalla schiavitù, ritorna in patria. Trascorre qualche tempo con i genitori, poi si prepara per diventare diacono e prete. In questi anni raggiunge probabilmente il continente e fa delle esperienze monastiche in Francia. Ha ormai 40 anni e sente forse la nostalgia di ritornare nell’isola verde. Qui c’è bisogno di evangelizzatori e qualcuno fa il suo nome come vescovo missionario. Egli si prepara, ma la famiglia è restia a lasciarlo partire, mentre degli oppositori gli rimproverano una scarsa preparazione. Nel 432, tuttavia, egli è di nuovo sull’isola. Accompagnato da una scorta, predica, battezza, conferma, celebra l’Eucarestia, ordina presbiteri, consacra monaci e vergini. Il successo missionario è grande, ma non mancano gli assalti di nemici e predoni, e neppure le malignità dei cristiani. Patrizio scrive allora la Confessione per respingere le accuse e celebrare l’amore di Dio che l’ha protetto e guidato nei suoi viaggi così pericolosi. Muore verso il 461. È il patrono dell’Irlanda e degli irlandesi nel mondo.

Patronato: Irlanda
Etimologia: Patrizio = di nobile discendenza, dal latino

Emblema: Bastone pastorale, Trifoglio
Martirologio Romano: San Patrizio, vescovo: da giovane fu portato prigioniero dalla Britannia in Irlanda; recuperata poi la libertà, volle entrare tra i chierici; fatto ritorno nella stessa isola ed eletto vescovo, annunciò con impegno il Vangelo al popolo e diresse con rigore la sua Chiesa, finché presso la città di Down in Irlanda si addormentò nel Signore.

San Patrizio è il patrono e l’apostolo dell’Isola Verde e la sua opera diede tanto frutto; infatti in Irlanda la predicazione del Vangelo non ha avuto nessun martire, sebbene i nativi fossero forti guerrieri e i suoi abitanti sono da sempre fierissimi cristiani.
Patrizio nacque nella Britannia Romana nel 385 ca. da genitori cristiani appartenenti alla società romanizzata della provincia.
Il padre Calpurnio era diacono della comunità di Bannhaven Taberniae, loro città d’origine e possedeva anche un podere nei dintorni.
Il giovane Patrizio trascorse la sua fanciullezza e l’adolescenza in serenità, ricevendo un’educazione abbastanza elevata; a 16 anni villeggiando nel podere del padre, venne fatto prigioniero insieme a migliaia di vittime dai pirati irlandesi e trasferito sulle coste nordiche dell’isola, qui fu venduto come schiavo.
Il padrone gli affidò il pascolo delle pecore; la vita grama, la libertà persa, il ritrovarsi in terra straniera fra gente che parlava una lingua che non capiva, la solitudine con le bestie, resero a Patrizio lo stare in questa terra verde e bellissima, molto spiacevole, per cui tentò ben due volte la fuga ma inutilmente.
Dopo sei anni di servitù, aveva man mano conosciuto i costumi dei suoi padroni, imparandone la lingua e così si rendeva conto che gli irlandesi non erano così rozzi come era sembrato all’inizio.
Avevano un organizzazione tribale che si rivelava qualcosa di nobile e i rapporti tra le famiglie e le tribù erano densi di rispetto reciproco.
Certo non erano cristiani e adoravano ancora gli idoli, ma cosa poteva fare lui che era ancora uno schiavo; quindi era sempre più convinto che doveva fuggire e il terzo tentativo questa volta riuscì.
Si imbarcò su una nave in partenza con il permesso del capitano e dopo tre giorni di navigazione sbarcò su una costa deserta della Gallia, era la primavera del 407, l’equipaggio e lui camminarono per 28 giorni durante i quali le scorte finirono, allora gli uomini che erano pagani, spinsero Patrizio a pregare il suo Dio per tutti loro; il giovane acconsentì e dopo un poco comparve un gruppo di maiali, con cui si sfamarono.
Qui i biografi non narrano come lasciò la Gallia e raggiunse i suoi; ritornato in famiglia Patrizio sognò che gli irlandesi lo chiamavano, interpretò ciò come una vocazione all’apostolato fra quelle tribù ancora pagane e avendo ricevuto esperienze mistiche, decise di farsi chierico e di convertire gl’irlandesi.
Si recò di nuovo in Gallia (Francia) presso il santo vescovo di Auxerre Germano, per continuare gli studi, terminati i quali fu ordinato diacono; la sua aspirazione era di recarsi in Irlanda ma i suoi superiori non erano convinti delle sue qualità perché poco colto.
Nel 431 in Irlanda fu mandato il vescovo Palladio da papa Celestino I, con l’incarico di organizzare una diocesi per quanti già convertiti al cristianesimo.
Patrizio nel frattempo completati gli studi, si ritirò per un periodo nel famoso monastero di Lérins di fronte alla Provenza, per assimilare con tutta la sua volontà la vita monastica, convinto che con questo carisma poteva impiantare la Chiesa tra i popoli celti e scoti, come erano chiamati allora gli irlandesi.
Con lo stesso scopo si recò in Italia nelle isole di fronte alla Toscana, per visitare i piccoli monasteri e capire che metodo fosse usato dai monaci per convertire gli abitanti delle isole.
Non è certo che abbia incontrato il papa a Roma, comunque secondo recenti studi, Patrizio fu consacrato vescovo e nominato successore di Palladio intorno al 460, finora gli antichi testi dicevano nel 432, in tal caso Palladio primo vescovo d’Irlanda avrebbe operato un solo anno, invece è più probabile che sia arrivato nell’isola intorno al 432 e confuso dai cronisti con Patrizio, perché il cognome di Palladio o il suo secondo nome, era appunto Patrizio.
Il metodo di evangelizzazione fu adatto ed efficace, gli irlandesi (celti e scoti) erano raggruppati in un gran numero di tribù che formavano piccoli stati sovrani (tuatha), quindi occorreva il favore del re di ogni singolo territorio, per avere il permesso di predicare e la protezione nei viaggi missionari.
Per questo scopo Patrizio faceva molti doni ai personaggi della stirpe reale ed anche ai dignitari che l’accompagnavano. Il denaro era in buona parte suo, che attingeva dalla vendita dei poderi paterni che aveva ereditato, non chiedendo niente ai suoi fedeli convertiti per evitare rimproveri d’avarizia.
La conversione dei re e dei nobili a cui mirava per primo Patrizio, portava di conseguenza alla conversione dei sudditi. Introdusse in Irlanda il monachesimo che di recente era sorto in Occidente e un gran numero di giovani aderirono con entusiasmo facendo fiorire conventi di monaci e vergini.
Certo non tutto fu facile, le persone più anziane erano restie a lasciare il paganesimo e inoltre Patrizio e i suoi discepoli dovettero subire l’avversione dei druidi (casta sacerdotale pagana degli antichi popoli celtici, che praticavano i riti nelle foreste, anche con sacrifici umani), i quali lo perseguitarono tendendogli imboscate e una volta lo fecero prigioniero per 15 giorni.
Patrizio nella sua opera apostolica ed organizzativa della Chiesa, stabilì delle diocesi territoriali con vescovi dotati di piena giurisdizione, i territori diocesani in genere corrispondevano a quelli delle singole tribù.
Non essendoci città come nell’impero romano, Patrizio seguendo l’esempio di altri santi missionari dell’epoca, istituì nelle sue cattedrali Capitoli organizzati in modo monastico come centri pastorali della zona (Sinodo).
Predicò in modo itinerante per alcuni anni, sforzandosi di formare un clero locale, infatti le ordinazioni sacerdotali furono numerose e fra questi non pochi discepoli divennero vescovi.
Secondo gli “Annali d’Ulster” nel 444, Patrizio fondò la sua sede ad Armagh nella contea che oggi porta il suo nome; evangelizzò soprattutto il Nord e il Nord-Ovest dell’Irlanda, nel resto dell’Isola ebbe dal 439 l’aiuto di altri tre vescovi continentali, Secondino, Ausilio e Isernino, la cui venuta non è tanto chiaro se per aiuto a Patrizio o indipendentemente da lui e poi uniti nella collaborazione reciproca.
Benché il santo vescovo vivesse per carità di Cristo fra ‘stranieri e barbari’ da anni, in cuor suo si sentì sempre romano con il desiderio di rivedere la sua patria Britannia e quella spirituale la Gallia; ma la sua vocazione missionaria non gli permise mai di lasciare la Chiesa d’Irlanda che Dio gli aveva affidato, in quella che fu la terra della sua schiavitù.
Patrizio ebbe vita difficile con gli eretici pelagiani, che per ostacolare la sua opera ricorsero anche alla calunnia, egli per discolparsi scrisse una “Confessione” chiarendo che il suo lavoro missionario era volere di Dio e che la sua avversione al pelagianesimo scaturiva dall’assoluto valore teologico che egli attribuiva alla Grazia; dichiarandosi inoltre ‘peccatore rusticissimo’ ma convertito per grazia divina.
L’infaticabile apostolo concluse la sua vita nel 461 nell’Ulster a Down, che prenderà poi il nome di Downpatrick.
Durante il secolo VIII il santo vescovo fu riconosciuto come apostolo nazionale dell’Irlanda intera e la sua festa al 17 marzo, è ricordata per la prima volta nella ‘Vita’ di s. Geltrude di Nivelles del VII secolo.
Intorno al 650, s. Furseo portò alcune reliquie di s. Patrizio a Péronne in Francia da dove il culto si diffuse in varie regioni d’Europa; in tempi moderni il suo culto fu introdotto in America e in Australia dagli emigranti cattolici irlandesi.

Autore: Antonio Borrelli

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