Archive pour mars, 2015

LA BELLEZZA E LA BONTÀ DELLE COSE

http://www.usminazionale.it/2011_12/augruso.htm

LA BELLEZZA E LA BONTÀ DELLE COSE

ANTONIETTA AUGRUSO

Io so che il cielo e la terra e tutta la creazione,
sono grandi, generosi, buoni e belli.
Giuliana di Norwich

La Scrittura si apre nell’Antico Testamento con la forza creativa della Parola (dabar). Dalla vitalità della Parola viene alla luce il mondo: «Dio disse: “Sia la luce!” E la luce fu» (Gen 1,3). Anche il Nuovo Testamento ci presenta la forza creativa del Verbo (Logos) per mezzo del quale ogni cosa prende vita (cf Gv 1,2).

Parola nel cosmo

La Parola è creativa in una molteplicità di direzioni: «Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro schiera» (Sal 33,6). La Sapienza sottolinea che è possibile contemplare l’Autore, partendo dalla bellezza della sua opera realizzata (cf Sap 13,1-9). Si legge una poesia, si contempla con ammirazione un’opera d’arte, e si risale alla genialità dell’autore, ai suoi tratti, come se le immagini esprimano la pienezza dell’energia che crea. I Salmi e tutta la Scrittura sono suggestivi quando conducono il lettore ad una sorta di stupore riconciliante. Come può essere altrimenti, davanti ad immagini che evocano la creazione quasi un’armonia danzante? «I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento» (Sal 19,2), proclama il salmista.

E la stessa Parola eterna si rivolge alla sua creatura attraverso un dialogo di libertà, la cerca con insistente cura della sua sorte: «Dove sei?» (Gen 3,9). La Parola che crea è la stessa che libera e salva. Il religioso ascolto passa anche attraverso la possibilità di scorgere la premura divina nei colori della natura e nella varietà dei suoi paesaggi. A partire dalla convinzione della bontà del creato, l’esortazione postsinodale può stigmatizzare la profanazione ecologica: «La rivelazione, mentre ci rende noto il disegno di Dio sul cosmo, ci porta anche a denunciare gli atteggiamenti sbagliati dell’uomo, quando non riconosce tutte le cose come riflesso del Creatore, ma mera materia da manipolare senza scrupoli » (VD 108).

Dunque, la parola di Dio fa appello al cuore dell’uomo, invitandolo a non chiudersi nell’indifferenza o, peggio ancora, nei propri orizzonti, pensando che i beni da salvaguardare e difendere siano unicamente quelli della propria casa. La Parola, che prende forma nella creazione e in essa brilla per chi la sa cogliere, è oggi profondamente deturpata nella sua bellezza: rischia di subire una sorta di oscuramento proprio in uno dei canali che ha ispirato poeti e santi: gli scritti che ora fanno parte della letteratura mondiale. Per tutti, basti pensare al Cantico delle creature di san Francesco d’Assisi.

«Lectio mundi»

Ma la Parola stessa ci viene in aiuto, se l’ascoltiamo con cuore docile: è la linfa a cui attingere per la formazione di coscienze che desiderano ancora rendere abitabile il mondo. Benedetto XVI insiste sulla maturazione di una visione teologica rinnovata come percorso educativo allo stupore, e mostra di aver accolto le indicazioni dei Padri sinodali là dove si afferma: “Accogliere la parola di Dio attestata nella Scrittura e nella Tradizione viva della Chiesa genera un nuovo modo di vedere le cose, promuovendo una ecologia autentica, che ha la sua radice più profonda nell’obbedienza della fede… (e) sviluppando una rinnovata sensibilità teologica sulla bontà di tutte le cose, create in Cristo» (VD 108).

La Parola è comunicativa. Rivolgendosi al cuore dell’uomo lo incoraggia a guardare con occhi nuovi l’intero cosmo, a realizzare progetti educativi che facciano maturare il senso dello stupore e la scoperta delle sue tracce. Stupore, ascolto e incontro con l’Altro educano al senso del limite, suscitano in noi la domanda, la giusta verifica, soprattutto quando ci si accorge di seminare distruzione per il profitto di pochi, di elaborare e mettere in pratica strategie di morte e di distruzione delle risorse non rinnovabili. La terra è davvero oggi un pianeta in bilico. I mezzi di comunicazione ogni giorno c’informano di masse enormi di scorie radioattive e rifiuti tossici seppelliti in luoghi inimmaginabili: «Così l’uomo manca di quella essenziale umiltà che gli permette di riconoscere la creazione come dono di Dio da accogliere e usare secondo il suo disegno» (VD 108).

L’esortazione invita a riformulare le scelte anche a partire dalla Parola presente ed eloquente nel cosmo che attende una sua liberazione: «Sappiamo infatti che tutta la creazione geme e soffre le doglie del parto» (Rm 8,22). Si tratta di nutrire una relazione viva e costante con il Logos vivo e operante nella storia (cf Gv 1,2).

Delle quattro colonne ideali su cui poggia la Parola nel Nuovo Testamento – annuncio, fraternità, frazione del pane e preghiera – una è la predicazione del kérigma: la speranza nella risurrezione di Cristo spinge alla comunicazione là dove la vita chiama ad operare e a confrontarsi con gli altri. Gesù rimane il filo luminoso di ogni sorta di lettura delle Scritture, ma chi spiega e interpreta la Bibbia deve scendere nel presente di chi ascolta: Gesù stesso l’aveva fatto nell’itinerario da Gerusalemme ad Emmaus in compagnia di due suoi discepoli. È quello che farà il diacono Filippo sulla strada verso Gaza, quando incontra il funzionario etiope, con il quale intesse quel dialogo emblematico: «Capisci cosa stai leggendo?». E riceve la risposta: «E come potrei capire se nessuno mi guida?» (At 8,30-31). Interpretare la Parola e farla entrare nella storia di ciascuno non è frutto di improvvisazione. Non si può tralasciare il dato “carnale e letterale” della Parola, né mettere tra parentesi la diversità degli uditori e delle culture a cui essa viene annunciata.

«Gli innamorati della bellezza»

Ciascun uomo vive la propria storia unica; la comunicazione richiede sempre ascolto umile dell’altro e attenzione, per individuare linguaggi corretti, in grado di generare il dialogo. Come la cura del Padre si è espressa nel dono dell’incarnazione, anche la Chiesa, custode e interprete della Parola, da sempre si adopera perché i popoli non vengano privati di una relazione profonda con le Scritture: «Dio non si rivela all’uomo in astratto, ma assumendo linguaggi, immagini ed espressioni legati alle diverse culture. Si tratta di un rapporto fecondo, testimoniato ampiamente nella storia della Chiesa» (VD 109).

La Parola, con la docilità e la forza che vengono dallo Spirito, più di ogni altro strumento trasfigura l’animo umano, fa gioire il cuore e illumina gli occhi (cf Sal 19,9) di chi s’illumina alla luce della Parola: gli occhi “contemplano” il mondo nella sua bellezza e, nel guardarlo, lo cantano con il cuore o lo rivelano in forme creative. Quando la Parola diventa musica, canto, immagine, davvero i suoi frutti sono abbondanti e ridestano l’apertura alla trascendenza.

«Con i Padri sinodali, si legge nell’esortazione, la Chiesa tutta esprime apprezzamento, stima e ammirazione per gli artisti ‘innamorati della bellezza’, che si sono lasciati ispirare dai testi sacri» (VD 112). La Parola si è resa visibile e udibile attraverso la genialità degli artisti ispirati dallo Spirito Santo; non si può certo immaginare il mondo privo delle opere artistiche e musicali che hanno espresso il mistero dell’amore del Padre nella rivelazione. Benedetto XVI in questi anni in tante occasioni ha incontrato gli artisti e non ha tralasciato mai di valorizzarne il contributo, anche in ordine all’evangelizzazione: «Esorto gli organismi competenti affinché si promuova nella Chiesa una solida formazione degli artisti riguardo alla Sacra Scrittura alla luce della Tradizione viva della Chiesa e del magistero» (VD 112).

Parola e new media

Tutti i popoli nella diversità di spazi e di tempo hanno lasciato un patrimonio inestimabile di arte e costruzioni, istituzioni e simboli, tradizioni religiose e prodotti letterari per trasmettere la fede. Le gioie e le fatiche, i ritorni e gli esili di ogni popolo – rischiarati e consolati dalla Parola – sono stati narrati tramite i diversi codici culturali e hanno trovato spesso nella parola di Dio la possibilità di esprimere sogni e speranze: è la bellezza dell’Incarnazione! «La parola di Dio, come del resto la fede cristiana, manifesta così un carattere profondamente interculturale, capace di incontrare e di far incontrare culture diverse» (VD 114). Un processo così complesso trova nei tradizionali mezzi di comunicazione e nelle nuove forme uno strumento prezioso per far conoscere il mistero dell’amore di Dio che entra nella storia dei popoli e di ogni uomo.

Per questo, l’acquisire nuovi metodi per conoscere il Vangelo è parte integrante dell’evangelizzazione, anche se rimane fermo che essa «potrà usufruire della virtualità offerta dai new media per instaurare rapporti significativi, solo se si arriverà al contatto personale, che resta insostituibile» (VD 113).

La Parola è vivente, consola e chiama al cambiamento, interroga e indica i sentieri della luce. Ecco perché il rapporto personale è la strada da seguire: una relazione tra viventi. Non si comprendono a fondo le persone se non si ascoltano, se non si conosce la loro storia. Esiste un’empatia che si vive soltanto con i propri occhi, le proprie emozioni e il proprio cuore. Analogamente è per la Parola del Signore, che penetra in profondità il cuore umano, rispettando un eventuale rifiuto. Cristo sta alla porta e bussa, ma bisogna spalancare le porte (cf Ap 3,20).

Incontri e volti

Si può avere familiarità con tutte le tecniche esistenti e progettare siti diversificati, ma ciò rimane pura strumentalità: «Il mondo virtuale non potrà sostituire il mondo reale» (VD 113). L’esortazione mette in guardia dalla convinzione e dall’abitudine radicata nell’uomo digitale di abitare la realtà virtuale come se fosse l’unica e quella reale con la convinzione di comunicare con tutti, dire tutto a tutti. Il risultato sarà di non aver niente da dire (F. Ferrarotti).

La vita quotidiana è fatta d’incontri, di volti, di ascolto. Gesù ha sempre privilegiato il linguaggio legato alla vita, e il suo annuncio avviene nelle situazioni più ordinarie, e soprattutto a partire da similitudini e narrazioni comprensibili dai suoi ascoltatori. Se da una parte la tecnologia rimane uno strumento insostituibile, dall’altra comporta una seria riflessione sui limiti e lo stile della comunicazione che veicola e produce. Lo stile dell’homo zapping non è certamente caratterizzato dai tempi lunghi, tipici dell’interiorizzazione.

Il Messaggio dell’assemblea sinodale infatti avvertiva: «Questa nuova comunicazione ha adottato una specifica grammatica espressiva ed è, quindi, necessario essere attrezzati, non solo tecnicamente, ma anche culturalmente per questa impresa». C’è un tempo per tutto: l’amore chiede fedeltà e accoglienza, creatività e pause. Nella trasmissione della Parola la comunità cristiana dona ai fratelli di fede il suo prezioso bagaglio, ma bisogna curiosare con insistenza e intelligenza per trovare la perla preziosa e soprattutto fare memoria, cercare una relazione vitale, come dice l’angelo al veggente di Patmos: «Prendilo e divoralo; ti riempirà di amarezza le viscere; ma in bocca ti sarà dolce come il miele» (Ap 10,9). Nel viaggio verso la pienezza l’umanità è sostenuta dal suo amore: «… nell’umanità che sarà salvata è compreso tutto, voglio dire tutto ciò che è creato e il creatore di tutto, perché nell’uomo c’è Dio, e in Dio c’è tutto» (Giuliana di Norwich).

 Antonietta Augruso

Docente di Religione

Publié dans:meditazioni |on 23 mars, 2015 |Pas de commentaires »

RALLEGRATEVI NEL SIGNORE, SEMPRE (FIL 4,4)

http://www.novena.it/riflessioni_autori_antichi_moderni/142.htm

RALLEGRATEVI NEL SIGNORE, SEMPRE (FIL 4,4)

Dal trattato «Sulla lettera ai Filippesi» di sant’Ambrogio, vescovo
(PLS 1, 617-618)

Come avete sentito nella precedente lettura nella quale l’Apostolo diceva: «Rallegratevi nel Signore sempre» (Fil 4, 4), la carità di Dio, o fratelli carissimi, ci chiama, per la salvezza delle nostre anime, alle gioie della beatitudine eterna. Le gioie del mondo vanno verso la tristezza senza fine. Invece le gioie rispondenti alla volontà del Signore portano alle gioie durature ed intramontabili coloro che le coltivano assiduamente. Perciò l’Apostolo dice: «Ve lo ripeto ancora: rallegratevi» (Fil 4, 4).
Egli esorta ad accrescere sempre più la nostra gioia in Dio mediante l’osservanza dei suoi comandamenti, perché quanto più avremo lottato in questo mondo per obbedire ai precetti del Signore, tanto più saremo beati nella vita futura, e tanto maggior gloria ci guadagneremo agli occhi di Dio. «La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini» (Fil 4, 5); cioè, la vostra condotta santa sia manifesta non solamente agli occhi di Dio, ma anche a quelli degli uomini, come esempio di onestà e sobrietà per tutti coloro che abitano con voi sulla terra. Lasciate di voi un buon ricordo sia di vita cristiana che di rettitudine umana.
«Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla» (Fil 4, 5-6). Il Signore è sempre vicino a tutti quelli che lo invocano con cuore sincero, con fede retta, con speranza ferma, con carità perfetta; egli infatti sa quello di cui avete bisogno prima che glielo domandiate: egli è sempre pronto a venire in soccorso in ogni necessità a tutti coloro che lo servono fedelmente. Perciò non dobbiamo preoccuparci gran che dei mali che ci sovrastano, quando abbiamo la certezza che Dio, nostra difesa, ci è vicinissimo secondo il detto: «Il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito, egli salva gli spiriti affranti. Molte sono le sventure del giusto, ma lo libera da tutte il Signore» (Sal 33, 19-20). Se noi ci sforziamo di compiere e di conservare quanto ci ha comandato, egli non tarda a renderci quello che ci ha promesso.
«Ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti» (Fil 4, 6) per potere affrontare le prove con pazienza e serenità e mai con amare contestazioni – Dio ce ne guardi –, anzi «rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre» (Ef 5, 20).

 

Gianfranco Ravasi – La felicità è come una farfalla…

http://www.novena.it/mattutino/mattutino08.htm

Gianfranco Ravasi

La felicità è come una farfalla: se la insegui, non riesci mai a prenderla; ma se ti metti tranquillo, può anche posarsi su di te. «Si può prendere la felicità per la coda come un passero», scriveva il poeta Leonardo Sinisgalli (1908-1981).

Ebbene, provateci, e vedrete se mai ci riuscirete. Analoga è l’immagine usata dallo scrittore americano dell’Ottocento Nathaniel Hawthorne, l’autore del famoso romanzo La lettera scarlatta: afferrare una farfalla è un’impresa ben ardua. Così è con la felicità. La si rincorre freneticamente, ci si apposta per sorprenderla, ci si organizza per ottenerla a ogni piè sospinto e inesorabilmente essa ci sfugge, anche quando ci sembrava di averla acchiappata. Eppure non è impossibile conquistarla e Hawthorne indica una strada, quella della quiete serena.

Quando si è in pace con la propria coscienza, impegnati nelle piccole cose quotidiane, affidati agli affetti semplici e sinceri, ecco che la farfalla della felicità si posa su di noi. È una presenza lieve, ad ogni sussulto può svanire nell’aria. Proprio per questo abbiamo usato la parola « felicità » e non « allegria »: quest’ultima può essere più a portata di mano, fa clamore, è rumorosa, ma dura solo un’ora o poco più e poi si dissolve, un po’ come quelle farfalle che hai afferrato per le ali e, appena ti distrai, ti sfuggono lasciandoti solo una polvere colorata sulle dita.

La vera felicità è, invece, in ultima analisi un dono, una grazia che ti irradia il cuore e la vita e che ha bisogno di semplicità e purezza interiore. Charles M. Schulz, il disegnatore del cane Snoopy e dei bambini Peanuts, in una sua « striscia » scriveva: «La felicità è un cucciolo caldo». 

Publié dans:SERA (PENSIERI PER LA) |on 21 mars, 2015 |Pas de commentaires »

Dodicesima Stazione, Gesù sulla Croce, la Madre e il discepolo

Dodicesima Stazione, Gesù sulla Croce, la Madre e il discepolo dans immagini sacre stazione12

http://www.vatican.va/news_services/liturgy/2007/via_crucis/fr/station_12.html

Publié dans:immagini sacre |on 20 mars, 2015 |Pas de commentaires »

EBREI 4,14-16; 5,7-9 – LETTURA E COMMENTO

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Ebrei%204,14-16;%205,7-9

EBREI 4,14-16; 5,7-9

Fratelli, 14 poiché abbiamo un grande sommo sacerdote che ha attraversato i cieli, Gesù, Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede. 15 Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato. 16 Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno.
5,7 Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; 8 pure essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.

COMMENTO
Ebrei 4,14-16; 5,7-9

Gesù sacerdote misericordioso
Nella seconda sezione dello scritto (3,1-5,10) viene affrontato il tema del sommo sacerdote «misericordioso e fedele», preannunziato in 2,17-18. L’autore procede però in un ordine inverso rispetto a quello adottato nell’annunzio tematico. Anzitutto Gesù può e deve essere considerato come il sommo sacerdote «fedele» (3,7-4,13). Ma Gesù è anche un sommo sacerdote «misericordioso»: questa prerogativa viene spiegata in 4,14 – 5,10. Questo brano termina con l’affermazione che proprio nella passione, dove «imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (5,8), Gesù è stato «proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek» (5,10). Viene così anticipata la terza parte della lettera, quella centrale (5,11 – 10,39), in cui si dimostra che il sacerdozio di Cristo supera gli schemi del culto veterotestamentario, che avevano la loro più alta espressione nel sacerdozio levitico, in quanto realizza il misterioso sacerdozio «secondo l’ordine di Melchisedek» dei cui si parla il Sal 110,4.
In Eb 4,14 – 5,10 l’autore mostra dunque come la piena solidarietà di Cristo con gli uomini rappresenti un elemento costitutivo del suo sacerdozio. Il testo si può facilmente dividere in due parti: nella prima (4,14-16), di evidente carattere esortativo, l’autore si esprime alla prima persona plurale («…manteniamo ferma la professione della nostra fede… Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia»); la seconda parte contiene invece una descrizione del ruolo e della condizione del sommo sacerdote dell’AT, cui fa seguito l’applicazione a Cristo (5,1-10). La liturgia propone solo la prima parte e alcuni versetti della seconda.

L’adesione a Cristo sommo sacerdote (Eb 4,14-16)
Precedentemente l’autore aveva presentato Gesù come un sacerdote degno di fede. Ora riprende questo tema, facendone il punto di partenza di una pressante esortazione: «Poiché dunque abbiamo un grande sommo sacerdote, che ha attraversato i cieli, Gesù, Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede» (v. 14). Sebbene il sacerdozio di Cristo sia stato consumato sulla croce (cfr. 5,9), esso continua a esercitarsi ancora oggi nei «cieli», dove egli è penetrato con la sua morte cruenta e ormai siede alla destra della maestà «divina» (cfr. 1,3). L’appellativo «Figlio di Dio», sul quale è stato messo l’accento nel prologo (cfr. 1,1-4) e nella prima parte della lettera (cfr. 1,5-8), è attribuito qui direttamente al «Gesù» storico, allo scopo di sottolineare ancora una volta il fondamento del suo ruolo sacerdotale (cfr. 3,6): in quanto Figlio, egli è un sacerdote potente, capace di «salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore» (7,25). In Gesù morto e risorto si è attuato quel «sacerdozio» di cui le istituzioni cultuali dell’AT erano soltanto un’«ombra» (10,1; cfr. 8,5): questa certezza deve spingere il credente a «mantenere salda», cioè a rinnovare e rinvigorire la sua «professione di fede». Solo così potrà entrare in un rapporto vivo con lui e godere i frutti della sua mediazione sacerdotale.
All’esortazione iniziale fa seguito una frase esplicativa con cui si esclude una possibile interpretazione errata del sacerdozio di Cristo: «Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (v. 15). La grandezza del sacerdozio di Cristo non esclude, anzi esige che egli sia solidale con la famiglia umana, che deve rappresentare davanti a Dio: egli infatti è «uomo» in mezzo agli uomini e perciò è capace di comprendere fino in fondo i loro limiti e i loro peccati. Il verbo «compatire» (sympatheō) è tipico della lettera agli Ebrei (cfr. 10,34): esso non significa semplicemente una qualche partecipazione alla sorte dell’altro, ma una vera e propria consonanza di affetti profondi: è l’amore che spinge a patire con chi patisce! Gesù ha dimostrato questa sua compassione perché proprio lui, che è e rimane sempre il «Figlio di Dio» (cfr. v. 14), si è assoggettato ai limiti e alle prove comuni della vita, compreso il dramma della morte (cfr. 5,7-10), come un qualsiasi essere umano (cfr. 2,14-18). Precedentemente l’autore aveva detto che Gesù, «proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (2,18).
La solidarietà di Gesù con l’umanità ha però un limite: egli si assimila in tutto alla condizione umana «escluso il peccato». Si afferma così la perfetta santità di Cristo, che esclude ogni sua partecipazione alla comune situazione di peccato. In realtà questa prerogativa non diminuisce la sua solidarietà con gli uomini, anzi rappresenta la condizione indispensabile perché egli possa effettivamente andare loro incontro e salvarli. Un peccatore infatti ha bisogno prima di tutto di essere lui stesso salvato: solo chi è santo può salvare gli altri! Per questo si dirà tra poco che il sacerdozio antico era inefficace perché il sommo sacerdote doveva offrire sacrifici prima di tutto per i propri peccati (cfr. 5,3). La santità quindi non impedisce a Cristo di essere totalmente simile a noi, partecipe dello stesso sangue e della stessa carne (cfr. 2,14): al contrario, gli consente di essere «redentore» in senso pieno, senza limiti di sorta. Inoltre lo costituisce modello della vita nuova, redenta, che tutti i credenti devono ormai condividere.
L’autore conclude con una nuova esortazione: «Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno» (v. 16). L’invito iniziale a mantenere salda la professione di fede viene qui ripreso, dopo lo sviluppo riguardante la compassione di Gesù, sotto forma di richiamo ad accostarsi con piena fiducia al «trono della grazia», cioè alla presenza del Dio misericordioso. Dopo che Cristo «ha attraversato i cieli», Dio non deve essere più ricercato in un santuario terreno, ma proprio là dove egli si trova, cioè nel suo santuario celeste. In forza della mediazione di Cristo i credenti devono ormai sentirsi sicuri che Dio non negherà loro la salvezza e l’aiuto necessario tutte le volte che ne avranno bisogno.

Cristo sommo sacerdote «compassionevole» (Eb 5,7-9)
Nella seconda parte della pericope l’autore mostra come il sacerdozio di Cristo debba essere compreso specialmente a partire dal suo atteggiamento di solidarietà e compassione nei confronti dei peccatori. A tale scopo egli propone anzitutto una definizione di sacerdote quale emerge dall’esperienza del popolo ebraico e poi la applica a Cristo (5,1-10). La liturgia omette la descrizione del sacerdozio levitico e le affermazioni riguardanti la chiamata di Cristo come sacerdote, proponendo soltanto i versetti riguardanti la sua solidarietà con l’umanità, quale appare dalla sua preghiera per essere liberato dalla morte: «Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà » (v. 7). Se è vero infatti che per ottenere il sommo sacerdozio bisognava essere chiamati, così come era stato chiamato Aronne, è vero anche che esso era un onore (cfr. 5,4), per ottenere il quale parecchi erano disposti persino ad affrontare aspre guerre. Il sacerdozio di Cristo invece è tale che neppure l’unico abilitato ad esercitarlo aveva il desiderio di accedervi perché implicava già in partenza l’identificazione con la vittima, e quindi la totale offerta di sé al Padre; l’onore certamente sarebbe venuto con l’ingresso nei cieli, ma la via per accedervi passava per la croce. È questo che ha spaventato Cristo stesso quando stava ormai per raggiungere il culmine della sua opera sacerdotale.
Egli infatti, giunto al termine della sua vita terrena «offrì» (prosenenkas) a Dio preghiere e suppliche. Questo verbo è il participio aoristo di prosferō, il verbo tecnico con cui indica solitamente l’attività sacrificale propria del sacerdote («offrire in sacrificio»; cfr. 5,1.3; 8,3) e l’offerta che Cristo ha fatto di se stesso sulla croce (cfr. 7,27; 9,14.28). Prima che sulla croce, la sua offerta sacrificale ha avuto dunque luogo nell’orto degli Ulivi, dove ha rivolto al Padre la sua preghiera, accompagnata da «forti grida e lacrime». Le «preghiere e suppliche con forti grida e lacrime» sono quasi certamente quelle che Cristo ha elevato a Dio durante la sua passione. (cfr. Mc 14,33-36 e par.). In questo testo non si parla di «forti grida e lacrime», ma solo di una preghiera accorata di Cristo: è chiaro che l’autore di Ebrei, pur avendo in mente i fatti accaduti nel Getsemani, non si riferisce ai vangeli scritti, ma alla tradizione orale, che egli ha ulteriormente drammatizzato.
Più difficile da spiegare è il significato della frase «fu esaudito per la sua pietà (apo tēs eulabeias, Vg: pro sua reverentia)». Se con la sua preghiera Gesù voleva ottenere di essere liberato dalla morte, di fatto non è stato esaudito, come appare chiaramente dal racconto evangelico. Perciò alcuni studiosi hanno supposto che nel testo originale fosse scritto che egli «non» fu esaudito, sebbene fosse figlio di Dio; in seguito il «non» sarebbe stato eliminato per motivi dottrinali. Questa ipotesi però non è accettabile, in quanto non è suffragata da testimonianze o varianti di codici; inoltre, essa toglierebbe non poco alla drammaticità del testo e alla sua densità teologica. Altri invece, facendo leva sul fatto che il termine eulabeia significa anche «timore», «paura», traducono così il passo: «… fu esaudito (venendo liberato) dalla paura (della morte)». Ma anche questa spiegazione non convince, perché Gesù ha realmente pregato per essere liberato dalla morte, come risulta anche dal racconto dei vangeli.
Secondo una terza interpretazione, l’autore non intenderebbe semplicemente la morte fisica, ma il tipo di morte affrontata da Cristo. Questi ha voluto partecipare alla comune condizione umana «per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita» (2,14-15). La morte è intesa qui come lo strumento mediante il quale gli uomini sono tenuti sotto la schiavitù del diavolo, e di conseguenza riguarda direttamente solo i peccatori (cfr. Sap 2,24; 3,1). Da questa morte Cristo è stato effettivamente liberato non solo perché Dio gli ha dato la forza per superare la prova, ma anche e soprattutto perché si è servito della sua morte fisica per eliminare la morte stessa in quanto realtà strettamente collegata con il peccato, trasformandola in un grande gesto di affidamento a Dio.
L’autore fa poi questa riflessione: «Pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì» (v. 8). L’«obbedienza» (hypakoē) che Cristo imparò dalla sua sofferenza consiste nell’adesione radicale al progetto di Dio, che lo ha guidato nelle scelte decisive della sua vita. La sottomissione alla volontà del Padre viene presentata spesso nel NT come un aspetto caratteristico del comportamento di Gesù (cfr. Mc 14,36; Gv 4,34; 10,18). Paolo in modo speciale sottolinea come l’obbedienza di Cristo si sia manifestata nella sofferenza della morte (cfr. Fil 2,8; Rm 5,19). Ma ciò che la lettera agli Ebrei mette maggiormente in luce, in piena sintonia con il racconto evangelico della passione, è il fatto che questa obbedienza non è stata spontanea e quasi scontata, ma ha richiesto una notevole dose di impegno e di fatica per superare la naturale paura della morte. L’aspetto più specifico del sacerdozio di Cristo sta quindi nell’accettazione libera, anche se sofferta, della morte, che certo non è stata voluta dal Padre, ma imposta dalle circostanze concrete della storia. Le modalità con cui è stata esaudita la sua preghiera aiutano dunque a comprendere retrospettivamente in che cosa essa consisteva.
Dall’esperienza terrena di Cristo l’autore ricava questa conclusione: «Reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchìsedek» (vv. 9-10). Proprio a causa della sua obbedienza Cristo «fu reso perfetto» (teleiōtheis). Nell’AT l’appellativo di «perfetto» (ebr. tamîm) compete non a Dio, ma all’uomo che adempie tutto ciò che, in campo morale o rituale, è richiesto per poter accedere a Dio (cfr. Gn 17,1; Dt 18,13; 2Sam 22,26). Il verbo teleioō, « perfezionare » è molto importante per l’autore della lettera agli Ebrei, che lo usa ben nove volte, delle quali tre applicato a Cristo (2,10; 5,9; 7,28) come espressione dell’opera di Dio in lui. La «perfezione» ottenuta da Cristo non deve però intendersi in senso morale: essa è piuttosto quella che gli deriva dall’aver raggiunto il «fine» (tēlos) della sua esistenza terrena, cioè dall’attuazione della salvezza che il Padre aveva progettato di realizzare per mezzo suo in favore degli uomini. L’obbedienza di Cristo ha come risultato la salvezza eterna di tutti coloro che «gli obbediscono». Obbedire significa qui accettare la totalità del messaggio di Cristo, ma soprattutto seguire l’esempio che egli ha offerto a tutti nel suo affidarsi all’amore del Padre, anche quando poteva sembrare che il Padre l’avesse abbandonato (cfr. Mt 27,46). Il Padre dal canto suo ha talmente accettato l’offerta sacrificale di Cristo da proclamarlo, proprio in virtù di essa, «sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek».

Linee interpretative
L’autore della Lettera agli Ebrei si è assunto l’arduo compito di presentare la vicenda umana di Gesù in termini sacrificali. Il concetto di sacerdozio, quale di fatto si ricava sia dall’AT sia dalla più normale esperienza religiosa, implica la possibilità di compiere un’efficace mediazione tra Dio e gli uomini: «Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati» (5,1). La mediazione perfetta però esige che il sacerdote sia veramente rappresentativo delle due parti in causa: solidale con Dio e al tempo stesso con gli uomini. In questo senso Gesù rappresenta il sacerdote ideale, perché è il «figlio di Dio» (4,14; 5,8), «che ha attraversato i cieli» e gode di una potenza di intercessione infinita presso «il trono della grazia» (4,16); ma nello stesso tempo si è fatto simile a noi, «essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (4,15).
La prova più grande (che è stata anche una forte tentazione), a cui è stato sottoposto Gesù nel suo radicale assimilarsi agli uomini, è la morte: da essa egli, in quanto Figlio, aveva il diritto di essere esentato, e invece le è andato incontro coscientemente, pur sentendone la naturale ripugnanza (5,7). Nell’accettazione, pur sofferta, della morte Gesù realizza il massimo di amore verso Dio e verso gli uomini. Verso Dio tale amore si manifesta in forma di radicale «obbedienza» (5,8); verso gli uomini assume i caratteri della più totale «condivisione».
Proprio per questa dimensione di amore, totalmente libero e perciò anche estremamente sofferto, la morte di Cristo è presentata come un vero «sacrificio»: la stessa preghiera, con cui domanda di essere liberato dalla morte, ma al tempo stesso si affida al Padre, diventa un’offerta sacrificale (5,7). Non stupisce pertanto che il Padre gradisca questa offerta al punto tale da farla rifluire, come dono di salvezza, su tutti gli uomini: «E, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (5,9). A questo sacrificio totalmente nuovo e diverso si ricollega il sacerdozio di Cristo, che l’autore definisce come un sacerdozio «alla maniera di Melchisedek» (5,10), il misterioso personaggio che è presentato come «re di Salem» e «sacerdote del Dio Altissimo» (Gen 14,17-20). Con questo riferimento a Melchisedek però egli, più che definire la natura del sacerdozio di Cristo, vuole affermarne la novità e anche la rottura nei confronti del vecchio sacerdozio levitico.
La presentazione in termini sacrificali dell’esperienza di Gesù ha un alto significato teologico, comprensibile soprattutto a persone che vivevano l’esperienza sacrificale di Israele. In pratica però, pur affermando la solidarietà di Gesù con l’umanità, l’autore rischia di perdere la dimensione vissuta della sua partecipazione alle sofferenze, alle lotte e al cammino di liberazione dei più poveri quale appare dai vangeli. Senza volerlo, l’autore ha aperto la strada a una nuova ritualizzazione del cristianesimo che ha fatto sentire i suoi effetti nei secoli successivi.

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OMELIA 5A DOMENICA DI QUARESIMA

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/02-annoB/14-15/Omelie/6-Quaresima/5a-Domenica-B-2015/10-05a-Quaresima-B-2015-UD.htm

22 MARZO 2015 | 5A DOMENICA – TEMPO DI QUARESIMA B | OMELIA

5A DOMENICA – T. QUARESIMA 2015

Per cominciare
Si avvicinano i giorni drammatici della passione e morte di Gesù e si incomincia a parlare apertamente di croce. Domenica prossima sarà la Domenica delle Palme, che aprirà la settimana santa. In questa domenica prima del concilio e della riforma liturgica si velavano la croce e le statue dei santi, per esprimere anche visivamente la drammaticità di questi quindici giorni che ci separano dalla Pasqua.

La Parola di Dio
Geremia 31,31-34. Ci viene presentata una delle più belle pagine dei profeti: Dio per bocca di Geremia parla di un tempo in cui la fedeltà del popolo non verrà meno, la legge sarà scolpita nel loro cuore e l’alleanza sarà definitiva.
Ebrei 5,7-9. Il testo afferma che l’alleanza definitiva si è realizzata in Gesù, attraverso la sua morte. Gesù ha siglato con il suo sangue l’alleanza con Dio, e un patto siglato con la morte è per sua natura definitivo, non può essere ritrattato. È in questo modo che Gesù è diventato causa di salvezza per tutti gli uomini.
Giovanni 12,20-33. Gesù colpisce con il suo modo di fare e di operare e alcuni greci chiedono di vederlo, rivolgendosi a Filippo. Ma Gesù li sorprende facendo riferimento alla sua imminente morte in croce: sarà un morire destinato a fiorire e a produrre salvezza.

Riflettere…
* Curiosamente la liturgia quaresimale anticipa oggi un passaggio di Giovanni che segue immediatamente l’ingresso solenne di Gesù a Gerusalemme. Come ricorderemo domenica prossima, Gesù è appena entrato trionfalmente in Gerusalemme per celebrare la Pasqua. La città è gremita di fedeli provenienti da ogni dove. Gesù cavalca un asinello e la gente lo acclama. Mentre le autorità ebraiche si allarmano e osservano: « Gli va dietro il mondo intero! ».
* Tra i fedeli giunti in città ci son*** anche dei « proseliti », stranieri che hanno aderito pienamente alla religione giudaica, compresa la circoncisione. Tra essi, alcuni greci, che si rivolgono all’apostolo Filippo (il suo nome è greco, probabilmente conosce la loro lingua) e chiedono di poter vedere Gesù.
* « Vedere » nella cultura ebraica non è mai un semplice guardare con gli occhi. Ha sempre un significato forte: può voler dire, come nel caso di Nicodemo, di cui s’è parlato la settimana scorsa, « avere un forte interesse »; addirittura quasi un « credere in qualcuno ».
* Proprio questo allargarsi dell’interesse attorno a lui, spinge Gesù a capire che i tempi sono maturi, che la sua « ora » sta per realizzarsi: l’ora per cui si è incarnato, quando tutti dovranno guardare a lui per essere salvati.
* Non si sa se Gesù abbia accettato di incontrare questi greci, Giovanni non lo dice, ma l’episodio apre al discorso sulla glorificazione di Gesù, che si realizzerà attraverso la sua passione.
* Gesù ne ha paura. Giovanni che non racconta l’episodio del Getsemani, in qualche modo lo fa adesso, mettendo in bocca a Gesù queste parole: « Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò: Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome! ». Non un angelo, ma il Padre stesso, interviene a dargli forza e dice: « L’ho glorificato, e lo glorificherò ancora ».
* Una glorificazione che avverrà attraverso la passione. Come il chicco di grano per dare frutto deve cadere in terra e marcire per germinare, così la glorificazione di Gesù passerà attraverso il suo sacrifico.
* La liturgia domenicale nella prima lettura apre a un secondo tema, che è già stato ricordato quindici giorni fa (Es 20,1-17): la promulgazione della legge da parte di Mosè, strumento che definiva i termini dell’alleanza tra Dio e il popolo di Israele.
* Geremia, con espressioni che sono tra le più alte di tutto l’antico testamento, parla di un’alleanza nuova, sancita non più da una legge esterna all’uomo, ma di un’alleanza scritta nel cuore dei credenti. Alla prima alleanza il popolo non si è rivelato fedele, a questa alleanza nuova e definitiva la fedeltà non verrà meno, perché è firmata dal sangue di Gesù, Figlio di Dio. Un patto con Dio senza ripensamenti, compiuto a favore di tutta l’umanità.
* Si tratta di un nuovo modo di rapportarsi con Dio, che non stabilisce con lui una specie di accordo determinato da gesti, riti, sacrifici, osservanze minuziose e maniacali per osservare con scrupolo una legge, ma di una conversione del cuore, di un’apertura radicale ai progetti di Dio.

Attualizzare
* Secondo un sondaggio, il 64 per cento degli italiani considera Gesù « il personaggio più interessante della storia ». Ma c’è anche chi non lo inserisce nemmeno nei sondaggi, e chi non pensa affatto di doversi in qualche modo confrontare con lui.
* Gesù non è certo uno sconosciuto. Per molti di noi la sua figura è familiare sin dai primi anni. Scrivono di lui un gran numero di libri, opere teatrali, musicali e scritti di ogni genere. Dal 1972 a Londra ci sono state un numero incredibile di repliche del musical Jesus Christ Superstar, che ha battuto ogni record di incassi. Il critico cinematografico Ernesto G. Laura elenca 69 film su Gesù girati dal 1897 a oggi. Il fascino di Gesù è un dato indiscutibile. Sin dall’inizio migliaia di donne e uomini hanno dato la loro vita per lui. Prima i suoi dodici apostoli, poi tanti altri lungo i secoli. Anche oggi milioni di persone si mettono al suo seguito, vivono e sono disposti a morire per lui.
* « Vogliamo vedere Gesù », dicono i greci. Dovrebbe essere questo il desiderio di chi ha preso la quaresima sul serio e si sta preparando alla Pasqua. Invece è più normale, soprattutto nei « praticanti », una certa assuefazione anche all’esperienza della fede, un lasciarsi guidare addirittura da una stanca abitudine. A quindici giorni dalla Pasqua, domandiamoci: con che spirito stiamo vivendo questa quaresima? Ci stiamo preparando ad accompagnare Gesù nel momento in cui si appresta a vivere fino in fondo la sua « ora »?
* « Vogliamo vedere Gesù »: è questo invece a volte il desiderio che attraversa il cuore di chi è lontano dalla fede, di chi si è allontanato dalla chiesa o non ci è mai entrato e ne ha inconsciamente nostalgia. È il desiderio di vedere Dio, di sentirlo vicino e farne esperienza, in qualche modo di toccarlo, avere delle certezze più forti.
* « Vogliamo vedere Gesù! », ripetiamo anche noi oggi, insieme ai milioni e milioni di uomini e donne che dall’inizio della storia cristiana hanno cercato di conoscerlo più da vicino. « Il tuo volto Signore io cerco, di te ha sete l’anima mia, all’aurora ti cerco… » (Salmo 27): dovrebbe essere questa la nostra preghiera in questi ultimi quindici giorni di quaresima, per entrare nell’animo di Gesù, comprenderlo meglio, entrare nella sua intimità.
* Non sappiamo quale dialogo sia stato intessuto tra Gesù e questi greci, ma durante tutta la sua vita, Gesù non si è negato a nessuno, si è rivelato gradualmente ai suoi apostoli, alla gente e perfino ai suoi nemici; addirittura quando in catene, durante il processo, rivelerà fino in fondo la propria identità.
* Al centro della parola di Dio di quest’oggi c’è l’ »ora » di Gesù, che è il momento centrale della sua vita, a cui il vangelo di Giovanni fa riferimento più volte. La sua « ora » è il momento della decisione estrema: « Proprio per questo sono giunto », dice Gesù, e sa che la sua missione non potrà non avere questo epilogo. Ma ne ha anche paura e la sua anima ne è turbata: si tratta ormai di affrontare a viso aperto l’esperienza del sacrificio della croce.
* Quanto a noi, sappiamo che essere discepoli di Cristo significa accettare la logica del vangelo. Al termine della vita di Cristo ci fu la croce. Ma essa è già una realtà a ogni passo, come conseguenza della decisione di scegliere come unica proposta di vita la volontà di Dio.
* Per Gesù prendere la croce non vuol tanto dire mettersi nella prospettiva della mor-te, ma decidere di rimanere fedele, anche a costo di rimetterci ogni cosa, compresa la vita. È quindi segno di un amore senza misura, di una vita non persa ma realizzata.
* Come Cristo ha salvato il mondo con il suo apparente fallimento, giungendo al culmine della sua azione salvifica proprio nel momento della sua Pasqua, così anche per i discepoli, ogni volta che sopportano sofferenza e annientamento per non cedere al compromesso, per essere fedeli a Dio e al suo piano sul mondo, essi diventano causa di salvezza, manifestazione della potenza di Dio, che dona al mondo la vita per mezzo della loro morte.
* Quello della croce è diventato certo un discorso duro per le nostre comunità. Se ne parla con una certa rassegnazione e diventa un fatto incomprensibile, accettato spesso con cuore chiuso. È necessario quindi un vero cambiamento di mentalità, una conversione. La croce, infatti, come già si è detto, in quanto insieme di difficoltà e privazioni che sono conseguenza di scelte evangeliche, è un fatto positivo e salvifico, e rientra nella logica vincente di Dio.
* La via della croce, che era vista come una maledizione per l’uomo, un supplizio infamante, è motivo di onore e di gloria per il cristiano. Se mancasse questa componente della sua vita dovrebbe probabilmente dubitare della verità del suo amore e della sua fedeltà a Dio.
* La gioia, l’amore comunitario e una certa vitalità propria della vita evangelica possono far pensare che il cristiano sia chiamato a una vita di efficienza e non a quella mortificante della croce. C’è addirittura chi immagina che al cristiano quasi per un privilegio venga negata quella componente di vita dura a cui ogni uomo è costretto dalla natura. Essere dalla parte di Dio significa essere dalla parte vincente, ma non in modo automatico, e non sempre in questa vita.

I veri cristiani e l’inevitabilità della croce
Mamma Margherita abbandonò i suoi campi e seguì il figlio Giovanni Bosco a Torino, dove si prese cura dei poveri ragazzi dell’oratorio. Ma una sera, dopo che i ragazzi le avevano distrutto il piccolo l’orto che era riuscita a farsi in città, sussurrò al figlio: « Giovanni, sono stanca. Lasciami tornare ai Becchi. Lavoro dal mattino alla sera, sono una povera vecchia, e quei ragazzacci mi rovinano sempre tutto. Non ce la faccio proprio più ». Don Bosco guardò il volto di sua madre e sentì un nodo alla gola. Non trovò parole potenzialmente capaci di consolare quella povera madre stanca. Si limitò allora a fare un gesto: le indicò il crocifisso appeso alla parete e la santa mamma capì.

Risorgerò nel popolo
« Se mi uccideranno, risorgerò nel popolo salvadoregno! »: così disse mons. Oscar Romero, vescovo di San Salvador, quando sentì che la sua vita era in grave pericolo. Il 24 marzo 1980 venne ucciso da un sicario mentre celebrava la messa feriale. La sua colpa è stata quella di essersi messo contro gli squadristi per difendere i poveri, di aver sfidato con la forza della fede i poteri forti.

Umberto DE VANNA
Giorno di Festa, Anno B, Editrice Ancora, Milano

Jaime Huguet,Ultima Cena, 1470 ca., Museo di Arte Catalana, Barcellona

 Jaime Huguet,Ultima Cena, 1470 ca., Museo di Arte Catalana, Barcellona dans immagini sacre huguet_ultima-cena

https://gpcentofanti.wordpress.com/2011/03/20/calendario-aprile/

Publié dans:immagini sacre |on 19 mars, 2015 |Pas de commentaires »

CONOSCERE LA PASQUA E VIVERLA DA CRISTIANI

http://www.donegidio.com/santapasqua.htm

CONOSCERE LA PASQUA E VIVERLA DA CRISTIANI

E’ il nucleo centrale della nostra fede. E’ il passaggio dalla morte alla vita e dalla mentalità corrente del mondo alla sapienza di Dio

Comprendiamo subito il significato di “Natale”, “nascita” di Nostro Signore. Invece l’etimologia e l’origine di “Pasqua”, al quale i Cristiani danno normalmente il senso di “Resurrezione”, forse sono sconosciute a molti. Essa deriva da “pasha”, dall’antico aramaico, lingua che vanta circa 3.000 anni di storia, usata in buona parte dei testi biblici e parlata correntemente in Israele ai tempi di Gesù. La parola, trasformata dai Greci e dai Latini in pascha, è stata poi interpretata, dai Padri della Chiesa, in maniera diversa. Qualcuno si è ispirato al greco paschein (= soffrire), con ciò riferendosi soprattutto alla sofferenza del Cristo percosso e crocifisso; altri, rifacendosi all’agnello (pasqua, in ebraico), hanno posto l’accento sulla salvezza che ci viene dalla passione del Signore; un terzo gruppo, collegandola al passaggio del Mar Rosso e conseguente liberazione degli Ebrei dalla schiavitù in Egitto, le diedero il significato di “passare oltre”. Il Salvatore “passa” dalla morte alla vita, “passa oltre” la natura umana e ritorna a quella divina.
Anche la data della Pasqua, stabilita durante il Concilio di Nicea (325 d.C), accredita questa interpretazione (che ritroviamo pure nel Battesimo con cui “si passa” dal giogo del peccato originale alla libertà di figli del Padre): come la prima luna piena dopo l’equinozio di marzo (pasqua ebraica e, quindi, ultima cena di Gesù) sottolinea il ritorno della primavera, simbolo di rinascita, dopo i rigori dell’inverno, così la nostra Pasqua indica il passaggio dall’oscurità del male alla luce della salvezza. Il che collega il cristianesimo alla sua matrice giudaica: non a caso, una delle più antiche preghiere pasquali cristiane riprende, applicandolo a Cristo, una orazione giudaica: “Egli è colui che ci ha fatti passare dalla schiavitù alla libertà, dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita, dalla tirannia al regno eterno. Egli è l’Agnello della nostra salvezza”.
In sostanza, quindi, Pasqua significa passaggio alla pratica delle virtù. Acquisirne il significato aiuta a comprendere il significato della Quaresima, in memoria di quei quaranta giorni di digiuno e di preghiera che il Cristo trascorse, in preparazione del sacrificio che l’attendeva, nel deserto, antitesi del giardino rigoglioso e verdeggiante dell’Eden; aiuta a cercare di non imitare Adamo ed Eva, che si lasciarono convincere a mangiare il frutto del Bene e del Male, ma a vincere le tentazioni, come “l’uomo” Gesù seppe resistere a Satana, traendo la sua forza dalla parola di Dio. Perché, ascoltandola, si trova la via della salvezza.
Non per nulla il Papa, nel messaggio per la Quaresima di quest’anno, ci ha invitati a vivere il digiuno come segno di amicizia con Dio e di attenzione verso chi ha bisogno di sostegno economico o di conforto. Vale la pena registrare le sue parole: ci serviranno a santificare meglio questa festività importante: “Scegliendo liberamente di privarci di qualcosa per aiutare gli altri, mostriamo concretamente che il prossimo in difficoltà non ci è estraneo. La Quaresima sia pertanto valorizzata in ogni famiglia e in ogni comunità cristiana, per allontanare tutto ciò che distrae lo spirito e per intensificare ciò che nutre l’anima aprendola all’amore di Dio e del prossimo”.
Ma conoscere l’etimologia di “Pasqua” aiuta anche a seguire l’invito a “passare oltre” la mentalità e i costumi correnti; a non ricadere negli errori dei progenitori che peccarono di presunzione e di arroganza, credendo di poter uguagliare l’Onnipotente in poteri e conoscenze. Aiuta a controllare debolezze e difetti; a non condividere, in nome della laicità (o, piuttosto, del laicismo) e del progresso scientifico, quei comportamenti (per esempio: divorzio, aborto, eutanasia, esaltazione dell’omosessualità) che vanno tanto di moda ma che, ovviamente, la morale cristiana condanna; a non vivere con indifferenza l’attuale divario tra ricchezza materiale e povertà morale, che trasforma la libertà (il libero arbitrio riconosciutoci da Dio) in licenza; a purificare il nostro cuore dalla schiavitù del peccato per renderlo sempre più “tabernacolo vivente di Dio”.
E’ questo il significato della Pasqua: è la festa della salvezza, di quel disegno salvifico di Dio che ci permette di riconquistare il Paradiso che le nostre debolezze rischiano di farci perdere. E’ il dono che il Signore ci offre per “passare dal peccato alla vita, dalla colpa alla grazia, dalla macchia alla santità”. La celebrazione della Passione, morte e Resurrezione di Gesù è il nucleo della nostra fede cristiana, che invita a seguire le scelte di vita di Cristo: aiutare i poveri, essere solidali, amare “il prossimo come te stesso”. Ma anche a chiederci se i comandamenti di Dio sono ancora alla base dei nostri comportamenti. Per non correre il rischio di sprofondare in un baratro senza ritorno e senza speranza.

Egidio Todeschini
4.4..2009

Publié dans:meditazioni, Pasqua |on 19 mars, 2015 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO : LA FAMIGLIA – 8. I BAMBINI (I)

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2015/documents/papa-francesco_20150318_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 18 marzo 2015

LA FAMIGLIA – 8. I BAMBINI (I)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Dopo aver passato in rassegna le diverse figure della vita familiare – madre, padre, figli, fratelli, nonni –, vorrei concludere questo primo gruppo di catechesi sulla famiglia parlando dei bambini. Lo farò in due momenti: oggi mi soffermerò sul grande dono che sono i bambini per l’umanità – è vero sono un grande dono per l’umanità, ma sono anche i grandi esclusi perché neppure li lasciano nascere – e prossimamente mi soffermerò su alcune ferite che purtroppo fanno male all’infanzia. Mi vengono in mente i tanti bambini che ho incontrato durante il mio ultimo viaggio in Asia: pieni di vita, di entusiasmo, e, d’altra parte, vedo che nel mondo molti di loro vivono in condizioni non degne… In effetti, da come sono trattati i bambini si può giudicare la società, ma non solo moralmente, anche sociologicamente, se è una società libera o una società schiava di interessi internazionali.
Per prima cosa i bambini ci ricordano che tutti, nei primi anni della vita, siamo stati totalmente dipendenti dalle cure e dalla benevolenza degli altri. E il Figlio di Dio non si è risparmiato questo passaggio. E’ il mistero che contempliamo ogni anno, a Natale. Il Presepe è l’icona che ci comunica questa realtà nel modo più semplice e diretto. Ma è curioso: Dio non ha difficoltà a farsi capire dai bambini, e i bambini non hanno problemi a capire Dio. Non per caso nel Vangelo ci sono alcune parole molto belle e forti di Gesù sui “piccoli”. Questo termine “piccoli” indica tutte le persone che dipendono dall’aiuto degli altri, e in particolare i bambini. Ad esempio Gesù dice: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25). E ancora: «Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli» (Mt 18,10).
Dunque, i bambini sono in sé stessi una ricchezza per l’umanità e anche per la Chiesa, perché ci richiamano costantemente alla condizione necessaria per entrare nel Regno di Dio: quella di non considerarci autosufficienti, ma bisognosi di aiuto, di amore, di perdono. E tutti, siamo bisognosi di aiuto, d’amore e di perdono!
I bambini ci ricordano un’altra cosa bella; ci ricordano che siamo sempre figli: anche se uno diventa adulto, o anziano, anche se diventa genitore, se occupa un posto di responsabilità, al di sotto di tutto questo rimane l’identità di figlio. Tutti siamo figli. E questo ci riporta sempre al fatto che la vita non ce la siamo data noi ma l’abbiamo ricevuta. Il grande dono della vita è il primo regalo che abbiamo ricevuto. A volte rischiamo di vivere dimenticandoci di questo, come se fossimo noi i padroni della nostra esistenza, e invece siamo radicalmente dipendenti. In realtà, è motivo di grande gioia sentire che in ogni età della vita, in ogni situazione, in ogni condizione sociale, siamo e rimaniamo figli. Questo è il principale messaggio che i bambini ci danno, con la loro stessa presenza: soltanto con la presenza ci ricordano che tutti noi ed ognuno di noi siamo figli.
Ma ci sono tanti doni, tante ricchezze che i bambini portano all’umanità. Ne ricordo solo alcuni.
Portano il loro modo di vedere la realtà, con uno sguardo fiducioso e puro. Il bambino ha una spontanea fiducia nel papà e nella mamma; ha una spontanea fiducia in Dio, in Gesù, nella Madonna. Nello stesso tempo, il suo sguardo interiore è puro, non ancora inquinato dalla malizia, dalle doppiezze, dalle “incrostazioni” della vita che induriscono il cuore. Sappiamo che anche i bambini hanno il peccato originale, che hanno i loro egoismi, ma conservano una purezza, e una semplicità interiore. Ma i bambini non sono diplomatici: dicono quello che sentono, dicono quello che vedono, direttamente. E tante volte mettono in difficoltà i genitori, dicendo davanti alle altre persone: “Questo non mi piace perché è brutto”. Ma i bambini dicono quello che vedono, non sono persone doppie, non hanno ancora imparato quella scienza della doppiezza che noi adulti purtroppo abbiamo imparato.
I bambini inoltre – nella loro semplicità interiore – portano con sé la capacità di ricevere e dare tenerezza. Tenerezza è avere un cuore “di carne” e non “di pietra”, come dice la Bibbia (cfr Ez 36,26). La tenerezza è anche poesia: è “sentire” le cose e gli avvenimenti, non trattarli come meri oggetti, solo per usarli, perché servono…
I bambini hanno la capacità di sorridere e di piangere. Alcuni, quando li prendo per abbracciarli, sorridono; altri mi vedono vestito di bianco e credono che io sia il medico e che vengo a fargli il vaccino, e piangono … ma spontaneamente! I bambini sono così: sorridono e piangono, due cose che in noi grandi spesso “si bloccano”, non siamo più capaci… Tante volte il nostro sorriso diventa un sorriso di cartone, una cosa senza vita, un sorriso che non è vivace, anche un sorriso artificiale, di pagliaccio. I bambini sorridono spontaneamente e piangono spontaneamente. Dipende sempre dal cuore, e spesso il nostro cuore si blocca e perde questa capacità di sorridere, di piangere. E allora i bambini possono insegnarci di nuovo a sorridere e a piangere. Ma, noi stessi, dobbiamo domandarci: io sorrido spontaneamente, con freschezza, con amore o il mio sorriso è artificiale? Io ancora piango oppure ho perso la capacità di piangere? Due domande molto umane che ci insegnano i bambini.
Per tutti questi motivi Gesù invita i suoi discepoli a “diventare come i bambini”, perché “a chi è come loro appartiene il Regno di Dio” (cfr Mt 18,3; Mc 10,14).
Cari fratelli e sorelle, i bambini portano vita, allegria, speranza, anche guai. Ma, la vita è così. Certamente portano anche preoccupazioni e a volte tanti problemi; ma è meglio una società con queste preoccupazioni e questi problemi, che una società triste e grigia perché è rimasta senza bambini! E quando vediamo che il livello di nascita di una società arriva appena all’uno percento, possiamo dire che questa società è triste, è grigia perché è rimasta senza bambini.

St. Joseph the Carpenter, by Georges de La Tour, 1640s.

 St. Joseph the Carpenter, by Georges de La Tour, 1640s. dans immagini sacre
http://en.wikipedia.org/wiki/Saint_Joseph

Publié dans:immagini sacre |on 18 mars, 2015 |Pas de commentaires »
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