Archive pour mars, 2015

LODATE DIO CON ARTE (I Salmi)

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LODATE DIO CON ARTE

In un testo giudaico intitolato Sefer ha-Haggadah, il “libro del racconto” pasquale, leggiamo questo curioso apologo: «Si narra che, quando Davide ebbe finito il libro dei Salmi, si sentì molto orgoglioso. Egli disse a Dio: Padre del mondo, chi fra tutti gli esseri umani che hai creato canta più di me la tua gloria? In quel momento sopraggiunse una rana che gli disse: Davide, non inorgoglirti! Io canto più di te in onore di Dio!». Questa parabola mi aveva offerto anni fa il titolo di un libro che avevo dedicato alla musica e alla teologia nella Bibbia, Il canto della rana (Ed. Piemme). C’è, infatti, nella Bibbia la convinzione che nella natura ci sia una musica bellissima e segreta: «tutto ciò che respira canti l’alleluia», dice letteralmente l’ultimo versetto del Salterio (150,5). La rana, perciò, canta a Dio con tutto il suo essere e «i piccoli del corvo gridano al Signore», come dice il Salmo 147,9. Tuttavia non bisogna dimenticare che la Bibbia esalta la musica creata dall’uomo e invita il popolo a «cantare inni con arte» (Salmo 47,8). Potremmo a questo riguardo elencare una lunga lista di testi biblici che mettono in scena l’orchestra del tempio, il canto, l’armonia della musica.
Pensiamo solo all’Apocalisse con le sue trombe, le arpe, i cori: c’è chi ha definito quel libro «una palingenesi per soli, coro e orchestra». Noi sappiamo, però, che la Bibbia è stata anche alla sorgente di tanta splendida musica. I nostri lettori più fedeli ricorderanno che un paio di settimane fa abbiamo parlato del Magnificat, il canto di Maria messo in musica infinite volte. Ora, invece, faremo un esempio un po’ più difficile.
C’è nel Salterio un inno piccolissimo; ed è il Salmo 117, il più breve di tutti (in ebraico sono solo 17 parole!). Esso era forse usato come una giaculatoria, una specie di Gloria Patri dell’Antico Testamento, da mettere in finale ad altri canti. Ebbene, questo Salmo – nella versione latina della liturgia cattolica è noto come Laudate Dominum – è irrilevante dal punto di vista poetico
ma ha al suo interno due parole che per l’ebreo erano di altissimo livello teologico, l’amore e la fedeltà (hesed e emet), i due sentimenti che uniscono Dio a Israele nel legame dell’alleanza.
Ecco il testo: «Lodate il Signore, popoli tutti, voi tutte nazioni, glorificatelo, perché forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore dura in eterno». Su questa specie di antifona Mozart ha costruito nel 1780 una composizione colma di stupore e di pace, di esaltazione e di bellezza, il Laudate Dominum in fa minore dei Vespri solenni di un confessore (K 339). In questa rielaborazione lo spirito di fiducia dell’originale è ricreato in una forma che nessuna spiegazione esegetica riesce a dare.
Dopo dieci battute dell’orchestra si apre – come scrive un critico, Marc Vigna! – una meravigliosa cantilena del soprano solo. La melodia viene poi ripresa da! coro in un’atmosfera di ineffabile tenerezza ultraterrena. Poi c’è un breve momento di immobilità e di gioia. E infine la voce soprano dell’Amen finale si unisce al coro e lo domina dolcemente. Provate ad ascoltare per credere!

GESÙ ED I CRISTIANI (VISTI DA TRE STORICI DELLA SUA EPOCA)

http://www.tanogabo.it/religione/Scritti_sui_Cristiani.htm

GESÙ ED I CRISTIANI (VISTI DA TRE STORICI DELLA SUA EPOCA)

GIUSEPPE FLAVIO (37-103 circa),
“Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, se pure bisogna chiamarlo uomo: era infatti autore di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità, ed attirò a sé molti Giudei, e anche molti dei greci. Questi era il Cristo. E quando Pilato, per denunzia degli uomini notabili fra noi, lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Egli infatti apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già annunziato i divini profeti queste e migliaia d’altre meraviglie riguardo a lui. Ancor oggi non è venuta meno la tribù di quelli che, da costui, sono chiamati Cristiani” (Ant. XVIII, 63-64)

CORNELIO TACITO (54-119)
“Perciò, per far cessare tale diceria, Nerone si inventò dei colpevoli e sottomise a pene raffinatissime coloro che la plebaglia, detestandoli a causa delle loro nefandezze, denominava cristiani. Origine di questo nome era Cristo, il quale sotto l’impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato; e, momentaneamente sopita, questa esiziale superstizione di nuovo si diffondeva, non solo per la Giudea, focolare di quel morbo, ma anche a Roma, dove da ogni parte confluisce e viene tenuto in onore tutto ciò che vi è di turpe e di vergognoso. Perciò, da principio vennero arrestati coloro che confessavano, quindi, dietro denuncia di questi, fu condannata una ingente moltitudine, non tanto per l’accusa dell’incendio, quanto per odio del genere umano. Inoltre, a quelli che andavano a morire si aggiungevano beffe: coperti di pelli ferine, perivano dilaniati dai cani, o venivano crocifissi oppure arsi vivi in guisa di torce, per servire da illuminazione notturna al calare della notte. Nerone aveva offerto i suoi giardini e celebrava giochi circensi, mescolato alla plebe in veste d’auriga o ritto sul cocchio. Perciò, benché si trattasse di rei, meritevoli di pene severissime, nasceva un senso di pietà, in quanto venivano uccisi non per il bene comune, ma per la ferocia di un solo uomo” (Ann. XV, 44)

PLINIO IL GIOVANE (61-112/113)
Lettera scritta a Traiano per ottenere istruzioni da seguirsi nel trattare con i cristiani della Bitinia e del Ponto, ove ricopriva la carica di legato con potere consolare.
“E’ per me un dovere, o signore, deferire a te tutte le questioni in merito alle quali sono incerto. Chi infatti può meglio dirigere la mia titubanza o istruire la mia incompetenza? Non ho mai preso parte ad istruttorie a carico dei Cristiani; pertanto, non so che cosa e fino a qual punto si sia soliti punire o inquisire. Ho anche assai dubitato se si debba tener conto di qualche differenza di anni; se anche i fanciulli della più tenera età vadano trattati diversamente dagli uomini nel pieno del vigore; se si conceda grazia in seguito al pentimento, o se a colui che sia stato comunque cristiano non giovi affatto l’aver cessato di esserlo; se vada punito il nome di per se stesso, pur se esente da colpe, oppure le colpe connesse al nome. Nel frattempo, con coloro che mi venivano deferiti quali Cristiani, ho seguito questa procedura: chiedevo loro se fossero Cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda e una terza volta, minacciandoli di pena capitale; quelli che perseveravano, li ho mandati a morte. Infatti non dubitavo che, qualunque cosa confessassero, dovesse essere punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione. Ve ne furono altri affetti dalla medesima follia, i quali, poiché erano cittadini romani, ordinai che fossero rimandati a Roma. Ben presto, poiché si accrebbero le imputazioni, come avviene di solito per il fatto stesso di trattare tali questioni, mi capitarono innanzi diversi casi.
Venne messo in circolazione un libello anonimo che conteneva molti nomi. Coloro che negavano di essere cristiani, o di esserlo stati, ritenni di doverli rimettere in libertà, quando, dopo aver ripetuto quanto io formulavo, invocavano gli dei e veneravano la tua immagine, che a questo scopo avevo fatto portare assieme ai simulacri dei numi, e quando imprecavano contro Cristo, cosa che si dice sia impossibile ad ottenersi da coloro che siano veramente Cristiani.
Altri, denunciati da un delatore, dissero di essere cristiani, ma subito dopo lo negarono; lo erano stati, ma avevano cessato di esserlo, chi da tre anni, chi da molti anni prima, alcuni persino da vent’anni. Anche tutti costoro venerarono la tua immagine e i simulacri degli dei, e imprecarono contro Cristo. Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente, cosa che cessarono di fare dopo il mio editto nel quale, secondo le tue disposizioni, avevo proibito l’esistenza di sodalizi. Per questo, ancor più ritenni necessario l’interrogare due ancelle, che erano dette ministre, per sapere quale sfondo di verità ci fosse, ricorrendo pure alla tortura. Non ho trovato null’altro al di fuori di una superstizione balorda e smodata.
Perciò, differita l’istruttoria, mi sono affrettato a richiedere il tuo parere. Mi parve infatti cosa degna di consultazione, soprattutto per il numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo; molte persone di ogni età, ceto sociale e di entrambi i sessi, vengono trascinati, e ancora lo saranno, in questo pericolo. Né soltanto la città, ma anche i borghi e le campagne sono pervase dal contagio di questa superstizione; credo però che possa esser ancora fermata e riportata nella norma” (Epist. X, 96, 1-9)
Segue la concisa risposta dell’imperatore Traiano:
“Mio caro Plinio, nell’istruttoria dei processi di coloro che ti sono stati denunciati come Cristiani, hai seguito la procedura alla quale dovevi attenerti. Non può essere stabilita infatti una regola generale che abbia, per così dire, un carattere rigido. Non li si deve ricercare; qualora vengano denunciati e riconosciuti colpevoli, li si deve punire, ma in modo tale che colui che avrà negato di essere cristiano e lo avrà dimostrato con i fatti, cioè rivolgendo suppliche ai nostri dei, quantunque abbia suscitato sospetti in passato, ottenga il perdono per il suo ravvedimento. Quanto ai libelli anonimi messi in circolazione, non devono godere di considerazione in alcun processo; infatti è prassi di pessimo esempio, indegna dei nostri tempi” (Epist. X, 97)

Publié dans:CRISTIANI (I) STORIA |on 26 mars, 2015 |Pas de commentaires »

Perdonare non significa dimenticare ciò che è successo, ma caricarsi del peso della fragilità, persino del male, di un’altra persona. (citazione dal sito dell’immagine)

 

 Perdonare non significa dimenticare ciò che è successo, ma caricarsi del peso della fragilità, persino del male, di un’altra persona. (citazione dal sito dell'immagine) dans immagini sacre remb_vz_terug1642

http://www.natidallospirito.com/2010/02/19/perdono-e-guarigione/

Publié dans:immagini sacre |on 25 mars, 2015 |Pas de commentaires »

IL CUORE (Benedetto XVI/Dentro la realtà, citazioni e commento)

http://www.tracce.it/default.asp?id=266&id2=262&id_n=7723

IL CUORE

LORENZO ALBACETE

Tracce N.3, Marzo 2007

Benedetto XVI/Dentro la realtà

Si presenta come sicuro e autosufficiente artefice del proprio destino, fabbricatore entusiasta di indiscussi successi quest’uomo del secolo ventunesimo. (…) Come non sentire che proprio dal fondo di questa umanità gaudente e disperata si leva un’invocazione straziante di aiuto? (…) Malgrado le tante forme di progresso, l’essere umano è rimasto quello di sempre: una libertà tesa tra bene e male, tra vita e morte. È proprio lì, nel suo intimo, in quello che la Bibbia chiama il “cuore”, che egli ha sempre necessità di essere “salvato”. E nell’attuale epoca post moderna ha forse ancora più bisogno di un Salvatore, perché più complessa è diventata la società in cui vive e più insidiose si sono fatte le minacce per la sua integrità personale e morale.
(Messaggio Urbi et Orbi, 25 dicembre 2006)

Nel cuore di ogni uomo c’è, amici miei, il desiderio di una casa. Tanto più in un cuore giovane c’è il grande anelito a una casa propria, che sia solida, nella quale non soltanto si possa tornare con gioia, ma anche con gioia si possa accogliere ogni ospite che viene. È la nostalgia di una casa nella quale il pane quotidiano sia l’amore, il perdono, la necessità di comprensione, nella quale la verità sia la sorgente da cui sgorga la pace del cuore. È la nostalgia di una casa di cui si possa essere orgogliosi, di cui non ci si debba vergognare e della quale non si debba mai piangere il crollo. Questa nostalgia non è che il desiderio di una vita piena, felice, riuscita. Non abbiate paura di questo desiderio! Non lo sfuggite! Non vi scoraggiate alla vista delle case crollate, dei desideri vanificati, delle nostalgie svanite. Dio Creatore, che infonde in un giovane cuore l’immenso desiderio della felicità, non lo abbandona poi nella faticosa costruzione di quella casa che si chiama vita.
(Incontro coi giovani in Polonia, 27 maggio 2006)

È stato in occasione del messaggio Urbi et Orbi del Natale di quest’anno che papa Benedetto XVI ha sottolineato l’importanza del concetto biblico di “cuore”, concetto essenziale per comprendere il dramma della vita umana all’inizio di questo terzo millennio. La Chiesa proclama Gesù Cristo “Salvatore” del mondo, ma il Papa si chiedeva se gli uomini e le donne di oggi sperimentino o anche solo comprendano il bisogno di un Salvatore. Comprendere il concetto biblico di cuore è essenziale per intendere correttamente l’insegnamento del Papa riguardo al modo in cui la Chiesa prende parte al dramma dell’esistenza umana, così come viene vissuto ai nostri giorni.
Già in Deus caritas est Benedetto XVI aveva scritto: «La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia». Il contributo della fede cattolica è di determinare quell’«allargamento della ragione», ovvero «l’apertura dell’intelligenza e della volontà alle esigenze del bene» che permette a tutti di cogliere i bisogni umani in relazione alla totalità del reale. Senza questo contributo, le risposte ai bisogni umani – seppur animate dalle migliori intenzioni – degenerano in un’ideologia che «umilia l’uomo e disconosce proprio ciò che è più specificamente umano» (Deus caritas est, 28).
Come ha ripetutamente insegnato don Giussani fin dall’inizio, la pretesa cristiana non verrà compresa né darà alcun contributo culturale finché non saremo persuasi che «per incontrare Cristo [...] dobbiamo innanzitutto impostare seriamente il nostro problema umano» (L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, Rizzoli, Milano 2006, p. 84). Senza la consapevolezza di ciò che costituisce il cuore dell’uomo, in particolare il suo bisogno d’infinito – che è ciò che ci definisce come umani -, Gesù Cristo resta solo un nome. Le “soluzioni” al dramma della vita si trasformano presto in ideologie.
Di recente un amico ha osservato come qui «negli Stati Uniti sia più facile dire Gesù che dire cuore». Per quanto riguarda l’attuale campagna politica, per esempio, è chiaro come la religione continui a essere una delle sue componenti principali. Il “voto di Dio” continuerà a giocare un ruolo fondamentale per il suo esito finale. Da un lato, il Partito Repubblicano cerca di fare in modo di non perdere il sostegno della “destra cristiana”, dall’altro, i candidati del Partito Democratico ingaggiano società di consulenza che li facciano apparire in profonda sintonia con il linguaggio e coi valori delle comunità religiose. In questo contesto, è facile appellarsi agli insegnamenti di Gesù lasciando che la discussione rimanga sul piano moralistico. L’unico punto di riferimento che può aprire un varco in questa riduzione della proposta cristiana è il “cuore”, dove si sperimenta la natura e la vastità dell’umano bisogno di salvezza. È al livello più profondo dell’esistenza umana che umano e divino si incontrano, che la ragione trionfa sul sentimentalismo, la politica tocca la fede e nasce un’autentica cultura umana.

Publié dans:meditazioni, Papa Benedetto XVI |on 25 mars, 2015 |Pas de commentaires »

CIÒ CHE MARIA CREDETTE DIVENNE IN LEI REALTÀ – SANT’AGOSTINO, SERMONE 215, 4

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20011223_agostino_it.html

CIÒ CHE MARIA CREDETTE DIVENNE IN LEI REALTÀ

SANT’AGOSTINO, SERMONE 215, 4.

4. « Perciò crediamo in Gesù Cristo nostro Signore, nato da Spirito Santo e da Maria Vergine. La Vergine Maria partorì credendo quel che concepì credendo. Infatti quando le fu promesso il figlio, essa domandò come questo sarebbe successo, dato che non conosceva uomo (e naturalmente le era noto quale fosse il solo modo di conoscere e partorire, ossia che l’uomo nasce dall’unione del maschio e della femmina, modo che essa non aveva sperimentato, ma che aveva appreso dalla normale frequentazione delle altre donne).
E l’angelo le rispose: «Lo Spirito Santo scenderà su di te; su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo; colui dunque che nascerà da te sarà santo e chiamato Figlio di Dio» (Lc 1, 35). E dopo che l’angelo ebbe detto così, essa, piena di fede e concependo Cristo prima nel cuore che nel grembo, rispose: «Eccomi, sono la serva del Signore; avvenga di me secondo la tua parola» (Lc 1, 38). Ossia avvenga la concezione nella Vergine senza seme di uomo; nasca da Spirito Santo e da una donna integra colui per il quale integra possa rinascere da Spirito Santo la Chiesa.
Il santo che nascerà dalla parte umana della madre senza l’apporto umano del Padre si chiami Figlio di Dio; colui che è nato da Dio Padre senza alcuna madre, doveva in modo meraviglioso diventare figlio dell’uomo, e così, nato in quella carne, poté uscire piccolo attraverso viscere chiuse, e grande, risuscitato, poté entrare attraverso porte chiuse. Sono cose meravigliose, perché divine; indescrivibili, perché inscrutabili; non è in grado di spiegarlo la bocca dell’uomo, perché non è in grado di esprimerlo il cuore dell’uomo. Maria credette e in lei quel che credette si avverò.
Crediamo anche noi, perché quello che si avverò possa giovare anche a noi. Per quanto infatti anche questa nascita sia ammirabile, tuttavia, o uomo, tu puoi pensare che cosa il tuo Dio si è fatto per te, il Creatore per la creatura; il Dio che è sempre in Dio, l’Eterno che vive con l’Eterno, il Figlio uguale al Padre non ha disdegnato di rivestirsi della condizione di servo per dei servi empi e peccatori. E questa non è stata ricompensa per dei meriti umani; per le nostre iniquità semmai noi meritavamo delle pene; ma se egli avesse tenuto conto delle colpe, chi avrebbe potuto sussistere? (cf. Sal 129, 3). È quindi per dei servi empi e peccatori che il Signore si è degnato di nascere servo e uomo dallo Spirito Santo e dalla Vergine Maria. »

PREGHIERA

Ave Maria e Sub tuum – Madre di Dio Vergine, salve, piena di grazia, il Signore è con te (Lc 1, 28); benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo (Lc 1, 42), perché tu hai generato il Salvatore delle nostre anime.
Sotto la tua misericordia ci rifugiamo, o Madre di Dio: non disprezzare le nostre suppliche nelle tentazioni, ma liberaci dai pericoli, o sola pura, sola benedetta.

A cura della Pontificia Facoltà Teologica «Marianum»

Annunciazione, Murillo

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http://en.wikipedia.org/wiki/Annunciation#/media/File:Bartolom%C3%A9_Esteban_Perez_Murillo_023.jpg

Publié dans:immagini sacre |on 24 mars, 2015 |Pas de commentaires »

L’ANNUNCIAZIONE (J. RATZINGER)

http://it.mariedenazareth.com/8438.0.html?L=4

L’ANNUNCIAZIONE (J. RATZINGER)

Nel suo libro La figlia di Sion, Papa Benedetto XVI, allora Cardinale J. Ratzinger, il racconto dell’Annunciazione è fonte di numerose meditazioni. Egli, andando diritto all’essenziale, apre la via ai principali approfondimenti che il lettore trova poi a sua disposizione.

Il luogo
Anzitutto, è già importante la localizzazione che Luca presenta in voluta contrapposizione con la precedente storia di Giovanni Battista.
L’annuncio della nascita del Battista avviene nel Tempio di Gerusalemme, è fatto ad un sacerdote che sta svolgendo la sua funzione e avviene, per così dire, nell’ordinamento ufficiale, come prescritto dalla legge, in conformità al culto, al luogo e alle funzioni.
L’annuncio della nascita del Messia viene fatto a Maria, ad una donna, in un luogo insignificante della semi-pagana Galilea che né Flavio Giuseppe né il Talmud nominano. Tutto ciò era « insolito per la sensibilità ebraica.
Ora Dio si rivela dove e quando Lui vuole ». Incomincia una vita nuova, al centro della quale non vi è il tempio ma l’umanità semplice di Gesù Cristo. È Egli ora il vero tempio, la tenda dell’incontro.

Il saluto a Maria
Il saluto a Maria (Lc 1,28-32) è stato formulato con stretto riferimento a Sof. 3,14-17 : è Maria la figlia di Sion alla quale sono rivolte le espressioni di quel testo, a lei viene detto « Gioisci » ; a lei viene detto che il Signore viene a lei; è lei che viene sollevata dall’angoscia perché il Signore è con lei per salvarla. [...]
Maria rimase turbata (Lc 1,29) a questo messaggio. Il suo turbamento non deriva dalla non comprensione o da quella paura pusillanime alla quale lo si vorrebbe talvolta far risalire. Deriva dalla commozione prodotta dagli incontri con Dio, di quelle gioie incommensurabili che sono capaci di commuovere le nature più dure.
Nel saluto dell’angelo compare il motivo portante con cui Luca presenta la figura di Maria in genere: è lei, in persona, la vera Sion alla quale si sono rivolte le speranze da tutte le rovine della storia.
È lei il vero Israele, nel quale si uniscono inseparabilmente Antica e Nuova Alleanza, Israele e Chiesa.
È lei il « popolo di Dio » , che porta frutto per la potenza della grazia di Dio.

Un concepimento misterioso
Dobbiamo infine fare attenzione anche all’espressione con la quale, in modo preciso, viene descritto il mistero del nuovo concepimento e della nuova nascita: « Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo ». [...]
La prima immagine fa riferimento al racconto della creazione ( Gn 1,2) e caratterizza quindi l’avvenimento come una nuova creazione: il Dio, il cui Spirito aleggiava sugli abissi, chiamò l’essere dal nulla. Egli che, come « Spirito creatore », è la ragione di tutto ciò che è, questo Dio inaugura qui una nuova creazione. Viene perciò sottolineato con ogni energia il taglio radicale che la venuta di Cristo significa: la sua novità è tale che essa raggiunge anche il fondamento dell’essere; è tale che può venire solamente dalla potenza creatrice di Dio stesso, non da altre parti.
La seconda immagine « su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo », appartiene alla teologia cultuale d’Israele; essa rimanda alla nube che stende la sua ombra sul Tempio ed indica così la presenza di Dio. Maria appare come la tenda santa sulla quale comincia ad agire la presenza nascosta di Dio.

J. Ratzinger (Papa Benedetto XVI)

L’ORA DELL’AVE MARIA

http://www.stpauls.it/madre/1003md/1003md19.htm

L’ORA DELL’AVE MARIA

ELISEO SGARBOSSA ssp

Conosciamo il celebre idillio che conclude La chiesa di Polenta del Carducci. Ma forse ignoriamo che il poeta toscano si ispirò a un autore inglese, George Gordon Noel Lord Byron, il quale nel poema Il Pellegrinaggio del cavaliere Aroldo evocò prima di lui la mistica suggestione dell’Angelus serale.

Lord Byron (1788-1824) viaggiò molto in Italia, prima di concludere la sua avventurosa esistenza a Missolungi (Grecia). A Venezia fu affascinato dalle tele di Tiziano e in Romagna, nella pineta di Ravenna, si commosse in presenza delle testimonianze dantesche. Ma fu la presenza di Maria che, in concomitanza con altri eventi familiari, determinò la sua conversione alla fede, dopo una giovinezza dissoluta. L’Ave Maria della sera, annunziata dai campanili della pianura padana, fu una delle esperienze che segnarono più a fondo la sua sensibilità e accompagnarono i suoi anni maturi.

Giosuè Carducci (1835-1907), premio Nobel per la letteratura, condivise con il poeta inglese la passione romantica per la storia nazionale, ma non altrettanto la sensibilità religiosa. Più che la Vergine Maria, nella celebre ode La chiesa di Polenta il Carducci cantò la chiesetta romanica, visitata un giorno con una giovane amica, in atteggiamento di pellegrino culturale. Quella chiesetta sull’Appennino, nel territorio di Guido da Polenta, ammirata come testimone di tragiche ed epiche vicende storiche, fu tuttavia il luogo di un incontro spirituale con la « Madre antica » che da lassù aveva visto trascorrere migrazioni incessanti di tribù nemiche, affratellate dalla fede. Nella evocazione di tali eventi, l’orgoglioso massone, cantore di Satana, era stato toccato nell’intimo dall’Ave Maria, e trovò persino il coraggio di difendere l’onore della Vergine contro uno scritto dissacrante di Gabriele D’Annunzio.

Riportiamo qui di séguito, a confronto, i due idilli, come omaggi paralleli resi a Maria da due autori, distanti fra loro e apparentemente estranei a temi devozionali.

Il canto del giorno morente (Byron)
Ave Maria! Sulla terra e sul mare
quest’ora più d’ogni altra celeste
è la più degna di te, Benedetta.
Ave Maria! Benedetta quest’ora,

Benedetto il giorno, il paese, il luogo
dove tante volte ho sentito in pienezza
questo annuncio scendere in terra
dalla campana della torre lontana.

Saliva leggero il canto del giorno morente;
non un soffio turbava l’aria tinta di rosa,
eppure le foglie sui rami trasalivano
vibrando in fremiti di preghiera.

Ave Maria! È l’ora di pregare.
Ave Maria! È l’ora di amare.
Ave Maria! È l’ora che il nostro spirito
si elevi fino a te, fino al tuo Figlio!

Ave Maria! Volto stupendo, occhi socchiusi
sotto l’ala della Colomba onnipotente!
Ti miro adesso in un’immagine dipinta?
Ma essa traduce in bellezza la Pura Verità.

Salve, chiesetta del mio canto (Carducci)
Salve, affacciata al tuo balcon di poggi
tra Bertinoro alto ridente e il dolce
pian, cui sovrasta fino al mar Cesena
donna di prodi,

salve, chiesetta del mio canto! A questa
madre vegliarda, o tu rinnovellata
itala gente da le molte vite,
rendi la voce

de la preghiera; la campana squilli
ammonitrice: il campanil risorto
canti di clivo in clivo a la campagna
Ave Maria.

Ave Maria! Quando su l’aure corre
l’umil saluto, i piccioli mortali
scovron il capo, curvano la fronte
Dante ed Aroldo.

Una di flauti lenta melodia
passa invisibil fra la terra e il cielo:
spiriti forse che furon, che sono
e che saranno?

Un oblio lene de la faticosa
vita, un pensoso sospirar quïete,
una soave volontà di pianto
l’anima invade.

Taccion le fiere e gli uomini e le cose,
roseo ’l tramonto ne l’azzurro sfuma,
mormoran gli alti vertici ondeggianti
Ave Maria.

Cristo in croce, altare, St. Paul’s Catholic Church

 Cristo in croce, altare,  St. Paul’s Catholic Church dans immagini sacre
http://www.stpaultranquillity.com/

Publié dans:immagini sacre |on 23 mars, 2015 |Pas de commentaires »

IL PANE QUOTIDIANO…

http://www.liturgiagiovane.it/new_lg/articoli.asp?nf=documenti/ARTICOLI/2561.htm&l0=3&l1=100&l2=0&nr=2561

IL PANE QUOTIDIANO…

Padre Davide ripercorrerà nei suoi articoli i pasti di Gesù evidenziandone la dimensione conviviale della sua vita. L’incontro con uomini e donne di ogni stato e condizione di vita sarà l’occasione per cogliere l’amabilità del Cristo che anche attorno ad una tavola ha riportato la speranza e ha donato la salvezza

Autore: Davide Carbonaro

Tratto da: L’Emanuele del 01/01/2005
La vita terrena di Gesù, Figlio di Dio, è segnata a più riprese nella narrazione dei Vangeli dall’esperienza conviviale. Gesù lascia “tracce visibili” del suo incontro con l’umanità, attraverso i pasti consumati con alcune figure espressive che ricevono luce nuova dal singolare evento. Non per niente un teologo qualche tempo fa affermava che le cose più belle Gesù le ha realizzate a tavola. O, come spesso mi capita ascoltare dai confratelli anziani: “a tavola non ci s’invecchia mai”. Con probabilità questo detto popolare come altri, riconosce nell’atto conviviale una delle esperienze alte di vita che la cultura umana ha tenuto da sempre in gran considerazione. L’atto di prendere il cibo insieme, esercitando il dono reciproco dell’ospitalità, è dunque legato alla vita. Da sempre l’uomo si è scontrato con il problema del pane quotidiano; è spesso ha dovuto fare i conti con l’esperienza dolorosa della fame. Mentre il nostro occidente opulento si può permettere il lusso di fare delle diete, una buona parte dell’umanità grida a Dio in tanti modi: “dacci oggi il nostro pane quotidiano”. La Bibbia da sempre, ha raccolto l’esperienza conviviale dell’uomo e il grido per la sussistenza solidale.

Dio commensale dell’uomo
“Essi (i settantadue) videro Dio e tuttavia mangiarono e bevvero” (Es 24,11). Così nell’Esodo è descritta l’alleanza conclusa con il popolo nel Sinai. Mangiare e bere è garanzia di vita e Dio, inaccessibile per la religiosità ebraica, diventa paradossalmente commensale per l’uomo. Nella stipula dell’Alleanza gli ospiti sono chiamati a mangiare un cibo offerto a Dio che egli ridona loro come segno della sua benevolenza. Dio, rimane per Israele, colui che dà il cibo ad ogni vivente ponendo così rimedio all’inevitabile ingiustizia degli uomini (Sal 136,25; 145,15-16; 107,36-38; Is 65,13; Pr 22; Gb 31,17). Su questa linea si pone Gesù rievocando nei pasti comuni i valori di condivisione e di solidarietà che il gesto richiama. Nello stesso tempo egli annunzia che Dio attua le sue promesse attraverso un rinnovamento finale. Tale novità è segnalata nei pasti che Gesù condivide con gli ultimi e i peccatori, anticipando in essi il segno profetico della cena pasquale indissolubilmente connesso con il sacrificio della croce. I pasti nel Vangelo, diventano così occasioni per consegnare ai commensali, non solo degli insegnamenti, ma la stessa salvezza (Lc 19,9; 23,43). La Chiesa riceverà questo modo di agire del Maestro di Nazareth, rinnovando nell’Eucaristia le parole di vita e i pasti condivisi con coloro che egli amò sino alla fine.

Dal tavolo di lavoro…
Le prime battute del Vangelo riservano alla chiamata dei discepoli un posto rilevante. Il Maestro di Nazareth acquista sempre più popolarità tra la gente per gli insegnamenti e le opere che compie (Mc 2,12). Il racconto che consideriamo in queste riflessioni, si riferisce alla chiamata di Levi (Mc 2,13-17) ed è diviso in due scene strettamente dipendenti: la chiamata del figlio di Alfeo ed il banchetto con i pubblicani e i peccatori. È l’evangelista Marco, a detta degli studiosi, che lega queste due scene già esistenti come materiale tradizionale indipendente. D’altra parte lo schema di vocazione segue quello di Mc 1,16-20, mentre l’abbinamento pubblicani peccatori s’incontra in contesti analoghi (vedi Mt 11,19; Lc 15,1). La presenza di Gesù lungo il mare, oltre alla indicazione geografica, presenta un richiamo simbolico. Il cammino del Maestro tra i passi quotidiani della gente, rammenta chi è Gesù: il Figlio di Dio venuto tra gli uomini (Mc 1,1; 2,13). Il suo passaggio s’impiglia ai confini della povertà e ai margini della debolezza umana (Mc 2, 1-11).

Il primo evangelista tra gli ultimi
Lo sguardo di Gesù incrocia quello di Levi. La chiamata avviene lungo la strada, tra la gente, lungo la via che dal lago va a Cafarnao. Sulla linea di frontiera è giustificabile il banco delle imposte. Un lavoro disprezzato dal popolo e quanti lo esercitavano, erano considerati avidi e sfruttatori, rinnegati dal punto di vista religioso e politico. I pubblicani avevano il compito di riscuotere i tributi per conto del potere romano soprattutto su quelle merci che attraversavano i confini. La riscossione avveniva non per mezzo di impiegati dello stato, ma attraverso appaltatori: i pubblicani appunto. Ora, il contesto, c’induce a pensare che Levi-Matteo fosse uno di questi (Mc 2, Mt 9,9; Lc 5,27). Alla sequela di Cristo c’è posto per tutti, basta rispondere senza mezze misure o reticenze alla sua chiamata. Il racconto evangelico, è di una essenzialità disarmante. L’imperativo appartiene a Gesù: “Seguimi!”. Al discepolo spetta la risposta confermata nel gesto concreto: seguire e mangiare insieme. Non sono questi i presupposti dell’Eucaristia che la Chiesa riconosce come “luogo” della chiamata, del convito e della guarigione? La Tradizione riserva a Matteo un certo primato: il suo Vangelo è il primo della lista. Forse questo per ricordarci che è testimone chi ha sperimentato il passaggio dagli ultimi ai primi, dalla morte alla vita.

Quale casa?
Il racconto non precisa di quale casa si tratta, se quella di Levi o quella di Gesù. Luca elimina ogni dubbio: l’ospite è Levi (Lc 5,29); mentre lo stesso Matteo non specifica (Mt 9,10). In Mc 1,29 e 2,1 si fa riferimento alla casa di Simone a Cafarnao, in essa le parole autorevoli del Maestro s’intrecciano con il gesto di guarigione fisica e interiore. Il caso della guarigione della suocera di Pietro termina con un pasto: “si mise a servirli” (Mc 1,29-31); mentre la doppia guarigione del paralitico si conclude con l’invito di Gesù a tornare nella propria casa (Mc 2,1-12). La figura del pubblicano, per le esigenze della legge d’Israele, non poteva avere dimora religiosa o appartenenza comunitaria, egli per l’impurità del suo mestiere era accomunato ai ladri, agli usurai, ai pastori e agli schiavi; ed escluso dall’alleanza. Si comprende a questo punto che Gesù frequentando la sua casa o viceversa, rimane impigliato nell’accusa d’impurità legale tanto più che consumare un pasto, era ritenuto in Israele un atto di sacralità e di comunione profonda. Il gesto compiuto da Gesù, oltre alla manifesta dissidenza con la legislazione corrente che dimentica la persona (Mt 9,13), dimostra che la dimora di Dio e dell’umanità s’intrecciano mirabilmente e ogni uomo che risponde generosamente alla chiamata diventa suo commensale. D’altro canto l’allusione alla tribù di Levi (Nm 18,20.24; 26,62) separata dal resto delle tribù e senza luogo nella terra promessa, ricorda che Gesù chiama il nuovo Israele a ricevere in eredità non la terra, ma il regno di Dio. In definitiva, la chiamata di Levi è figura della chiamata degli esclusi d’Israele questi, accomunati ai pagani, sono inseriti tra le primizie del regno di Dio.

… alla mensa della salvezza
La chiamata di Levi inaugura il messaggio universalista di Gesù che rifiuta in modo esplicito le barriere innalzate nel nome di Dio o per il sentire degli uomini. Se da una parte a Gesù non interessano i precedenti o il vuoto mormorio che riempie le strade, dall’altra, al discepolo è chiesta una decisione autentica e liberante: “alzatosi lo seguì”. Il tavolo delle imposte (Mc 2,14) è ricordo del passato di Levi, mentre la mensa del banchetto (Mc 2,15) è memoriale della salvezza ricevuta. Fra queste coordinate si estende la seconda scena che i tre Evangeli sinottici riservano al banchetto che Gesù consuma con i peccatori. Tale gesto, posto in apertura del Vangelo, riassume la missione del Maestro di Nazareth ed è annuncio del pasto salvifico che egli morto e risorto, condividerà con i suoi discepoli in ogni tempo.

Gli invitati: i seguaci di Gesù
Il racconto presenta subito il biglietto da visita degli invitati al banchetto: gli esattori (pubblicani) uniti ai peccatori sono i primi della lista; poi Gesù e i suoi discepoli. Questi ultimi, appaiono per la prima volta nella narrazione. Infine con i molti che lo seguivano, il racconto lascia intravedere un numero indeterminato di persone. A tutti è rivolto l’invito-chiamata che si prolungherà nel tempo e nella storia coinvolgendo una moltitudine di uomini e donne cercatori della salvezza. È la comunità formata da uomini nuovi provenienti da Israele e dalle genti, primizia della futura “comunità universale”. La casa e il banchetto ne rappresentano il segno visibile. Gesù è descritto da Marco mentre “giace a mensa” (Mc 2,15). Il verbo giacere, stare sdraiato, coricato è detto degli infermi (la suocera di Pietro Mc 1,30; il paralitico Mc 2,4; i morti Mc 5,40; Simone il lebbroso Mc 14,3); forse tale congiunzione linguistica, ha delle tracce nel detto popolare: “chi mangia lotta con la morte”. D’altro canto, per descrivere la posizione di quelli che mangiano insieme a Gesù, si dice “adagiati”. Con questa leggera sfumatura Marco anticipa nel gesto di Gesù il mistero della Pasqua. Egli invita al banchetto nuovo la comunità che è frutto della sua morte e risurrezione.

La guarigione come salvezza
Il banchetto è immagine dell’Eucaristia, annunciata nelle pagine del Vangelo e celebrata dalla Chiesa. Il nutrimento offerto, non è il cibo dei perfetti o di quelli che si ritengono tali. È medicina dei deboli, compagnia di Dio nella fragilità, farmaco d’immortalità per l’uomo pellegrino. Ogni volta che la Chiesa si raduna, confessa la paralisi del peccato e sente la distanza tra la sua vita, le sue scelte e l’amore di Dio. Chi colma questo vuoto? Chi permette al cuore di esercitare la sua libertà? Solo chi è venuto a chiamare i peccatori e non i giusti, i deboli e non i sani. Cos’è allora la salvezza? Accogliere l’amore gratuito e universale di Gesù che per noi si è fatto peccato (2Cor 5,21). Tale incontro salvifico che accorcia le distanze tra Dio e l’uomo, si compie nel pasto conviviale, e ci rende familiari di Dio e suoi commensali (Ef 2,19). Gesù non solo perdona i peccati, gesto che solo Dio può compiere (Mc 2,6), ma entra in comunione con l’uomo condividendo la sua vita divina.

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