Archive pour le 23 mars, 2015

Cristo in croce, altare, St. Paul’s Catholic Church

 Cristo in croce, altare,  St. Paul’s Catholic Church dans immagini sacre
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Publié dans:immagini sacre |on 23 mars, 2015 |Pas de commentaires »

IL PANE QUOTIDIANO…

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IL PANE QUOTIDIANO…

Padre Davide ripercorrerà nei suoi articoli i pasti di Gesù evidenziandone la dimensione conviviale della sua vita. L’incontro con uomini e donne di ogni stato e condizione di vita sarà l’occasione per cogliere l’amabilità del Cristo che anche attorno ad una tavola ha riportato la speranza e ha donato la salvezza

Autore: Davide Carbonaro

Tratto da: L’Emanuele del 01/01/2005
La vita terrena di Gesù, Figlio di Dio, è segnata a più riprese nella narrazione dei Vangeli dall’esperienza conviviale. Gesù lascia “tracce visibili” del suo incontro con l’umanità, attraverso i pasti consumati con alcune figure espressive che ricevono luce nuova dal singolare evento. Non per niente un teologo qualche tempo fa affermava che le cose più belle Gesù le ha realizzate a tavola. O, come spesso mi capita ascoltare dai confratelli anziani: “a tavola non ci s’invecchia mai”. Con probabilità questo detto popolare come altri, riconosce nell’atto conviviale una delle esperienze alte di vita che la cultura umana ha tenuto da sempre in gran considerazione. L’atto di prendere il cibo insieme, esercitando il dono reciproco dell’ospitalità, è dunque legato alla vita. Da sempre l’uomo si è scontrato con il problema del pane quotidiano; è spesso ha dovuto fare i conti con l’esperienza dolorosa della fame. Mentre il nostro occidente opulento si può permettere il lusso di fare delle diete, una buona parte dell’umanità grida a Dio in tanti modi: “dacci oggi il nostro pane quotidiano”. La Bibbia da sempre, ha raccolto l’esperienza conviviale dell’uomo e il grido per la sussistenza solidale.

Dio commensale dell’uomo
“Essi (i settantadue) videro Dio e tuttavia mangiarono e bevvero” (Es 24,11). Così nell’Esodo è descritta l’alleanza conclusa con il popolo nel Sinai. Mangiare e bere è garanzia di vita e Dio, inaccessibile per la religiosità ebraica, diventa paradossalmente commensale per l’uomo. Nella stipula dell’Alleanza gli ospiti sono chiamati a mangiare un cibo offerto a Dio che egli ridona loro come segno della sua benevolenza. Dio, rimane per Israele, colui che dà il cibo ad ogni vivente ponendo così rimedio all’inevitabile ingiustizia degli uomini (Sal 136,25; 145,15-16; 107,36-38; Is 65,13; Pr 22; Gb 31,17). Su questa linea si pone Gesù rievocando nei pasti comuni i valori di condivisione e di solidarietà che il gesto richiama. Nello stesso tempo egli annunzia che Dio attua le sue promesse attraverso un rinnovamento finale. Tale novità è segnalata nei pasti che Gesù condivide con gli ultimi e i peccatori, anticipando in essi il segno profetico della cena pasquale indissolubilmente connesso con il sacrificio della croce. I pasti nel Vangelo, diventano così occasioni per consegnare ai commensali, non solo degli insegnamenti, ma la stessa salvezza (Lc 19,9; 23,43). La Chiesa riceverà questo modo di agire del Maestro di Nazareth, rinnovando nell’Eucaristia le parole di vita e i pasti condivisi con coloro che egli amò sino alla fine.

Dal tavolo di lavoro…
Le prime battute del Vangelo riservano alla chiamata dei discepoli un posto rilevante. Il Maestro di Nazareth acquista sempre più popolarità tra la gente per gli insegnamenti e le opere che compie (Mc 2,12). Il racconto che consideriamo in queste riflessioni, si riferisce alla chiamata di Levi (Mc 2,13-17) ed è diviso in due scene strettamente dipendenti: la chiamata del figlio di Alfeo ed il banchetto con i pubblicani e i peccatori. È l’evangelista Marco, a detta degli studiosi, che lega queste due scene già esistenti come materiale tradizionale indipendente. D’altra parte lo schema di vocazione segue quello di Mc 1,16-20, mentre l’abbinamento pubblicani peccatori s’incontra in contesti analoghi (vedi Mt 11,19; Lc 15,1). La presenza di Gesù lungo il mare, oltre alla indicazione geografica, presenta un richiamo simbolico. Il cammino del Maestro tra i passi quotidiani della gente, rammenta chi è Gesù: il Figlio di Dio venuto tra gli uomini (Mc 1,1; 2,13). Il suo passaggio s’impiglia ai confini della povertà e ai margini della debolezza umana (Mc 2, 1-11).

Il primo evangelista tra gli ultimi
Lo sguardo di Gesù incrocia quello di Levi. La chiamata avviene lungo la strada, tra la gente, lungo la via che dal lago va a Cafarnao. Sulla linea di frontiera è giustificabile il banco delle imposte. Un lavoro disprezzato dal popolo e quanti lo esercitavano, erano considerati avidi e sfruttatori, rinnegati dal punto di vista religioso e politico. I pubblicani avevano il compito di riscuotere i tributi per conto del potere romano soprattutto su quelle merci che attraversavano i confini. La riscossione avveniva non per mezzo di impiegati dello stato, ma attraverso appaltatori: i pubblicani appunto. Ora, il contesto, c’induce a pensare che Levi-Matteo fosse uno di questi (Mc 2, Mt 9,9; Lc 5,27). Alla sequela di Cristo c’è posto per tutti, basta rispondere senza mezze misure o reticenze alla sua chiamata. Il racconto evangelico, è di una essenzialità disarmante. L’imperativo appartiene a Gesù: “Seguimi!”. Al discepolo spetta la risposta confermata nel gesto concreto: seguire e mangiare insieme. Non sono questi i presupposti dell’Eucaristia che la Chiesa riconosce come “luogo” della chiamata, del convito e della guarigione? La Tradizione riserva a Matteo un certo primato: il suo Vangelo è il primo della lista. Forse questo per ricordarci che è testimone chi ha sperimentato il passaggio dagli ultimi ai primi, dalla morte alla vita.

Quale casa?
Il racconto non precisa di quale casa si tratta, se quella di Levi o quella di Gesù. Luca elimina ogni dubbio: l’ospite è Levi (Lc 5,29); mentre lo stesso Matteo non specifica (Mt 9,10). In Mc 1,29 e 2,1 si fa riferimento alla casa di Simone a Cafarnao, in essa le parole autorevoli del Maestro s’intrecciano con il gesto di guarigione fisica e interiore. Il caso della guarigione della suocera di Pietro termina con un pasto: “si mise a servirli” (Mc 1,29-31); mentre la doppia guarigione del paralitico si conclude con l’invito di Gesù a tornare nella propria casa (Mc 2,1-12). La figura del pubblicano, per le esigenze della legge d’Israele, non poteva avere dimora religiosa o appartenenza comunitaria, egli per l’impurità del suo mestiere era accomunato ai ladri, agli usurai, ai pastori e agli schiavi; ed escluso dall’alleanza. Si comprende a questo punto che Gesù frequentando la sua casa o viceversa, rimane impigliato nell’accusa d’impurità legale tanto più che consumare un pasto, era ritenuto in Israele un atto di sacralità e di comunione profonda. Il gesto compiuto da Gesù, oltre alla manifesta dissidenza con la legislazione corrente che dimentica la persona (Mt 9,13), dimostra che la dimora di Dio e dell’umanità s’intrecciano mirabilmente e ogni uomo che risponde generosamente alla chiamata diventa suo commensale. D’altro canto l’allusione alla tribù di Levi (Nm 18,20.24; 26,62) separata dal resto delle tribù e senza luogo nella terra promessa, ricorda che Gesù chiama il nuovo Israele a ricevere in eredità non la terra, ma il regno di Dio. In definitiva, la chiamata di Levi è figura della chiamata degli esclusi d’Israele questi, accomunati ai pagani, sono inseriti tra le primizie del regno di Dio.

… alla mensa della salvezza
La chiamata di Levi inaugura il messaggio universalista di Gesù che rifiuta in modo esplicito le barriere innalzate nel nome di Dio o per il sentire degli uomini. Se da una parte a Gesù non interessano i precedenti o il vuoto mormorio che riempie le strade, dall’altra, al discepolo è chiesta una decisione autentica e liberante: “alzatosi lo seguì”. Il tavolo delle imposte (Mc 2,14) è ricordo del passato di Levi, mentre la mensa del banchetto (Mc 2,15) è memoriale della salvezza ricevuta. Fra queste coordinate si estende la seconda scena che i tre Evangeli sinottici riservano al banchetto che Gesù consuma con i peccatori. Tale gesto, posto in apertura del Vangelo, riassume la missione del Maestro di Nazareth ed è annuncio del pasto salvifico che egli morto e risorto, condividerà con i suoi discepoli in ogni tempo.

Gli invitati: i seguaci di Gesù
Il racconto presenta subito il biglietto da visita degli invitati al banchetto: gli esattori (pubblicani) uniti ai peccatori sono i primi della lista; poi Gesù e i suoi discepoli. Questi ultimi, appaiono per la prima volta nella narrazione. Infine con i molti che lo seguivano, il racconto lascia intravedere un numero indeterminato di persone. A tutti è rivolto l’invito-chiamata che si prolungherà nel tempo e nella storia coinvolgendo una moltitudine di uomini e donne cercatori della salvezza. È la comunità formata da uomini nuovi provenienti da Israele e dalle genti, primizia della futura “comunità universale”. La casa e il banchetto ne rappresentano il segno visibile. Gesù è descritto da Marco mentre “giace a mensa” (Mc 2,15). Il verbo giacere, stare sdraiato, coricato è detto degli infermi (la suocera di Pietro Mc 1,30; il paralitico Mc 2,4; i morti Mc 5,40; Simone il lebbroso Mc 14,3); forse tale congiunzione linguistica, ha delle tracce nel detto popolare: “chi mangia lotta con la morte”. D’altro canto, per descrivere la posizione di quelli che mangiano insieme a Gesù, si dice “adagiati”. Con questa leggera sfumatura Marco anticipa nel gesto di Gesù il mistero della Pasqua. Egli invita al banchetto nuovo la comunità che è frutto della sua morte e risurrezione.

La guarigione come salvezza
Il banchetto è immagine dell’Eucaristia, annunciata nelle pagine del Vangelo e celebrata dalla Chiesa. Il nutrimento offerto, non è il cibo dei perfetti o di quelli che si ritengono tali. È medicina dei deboli, compagnia di Dio nella fragilità, farmaco d’immortalità per l’uomo pellegrino. Ogni volta che la Chiesa si raduna, confessa la paralisi del peccato e sente la distanza tra la sua vita, le sue scelte e l’amore di Dio. Chi colma questo vuoto? Chi permette al cuore di esercitare la sua libertà? Solo chi è venuto a chiamare i peccatori e non i giusti, i deboli e non i sani. Cos’è allora la salvezza? Accogliere l’amore gratuito e universale di Gesù che per noi si è fatto peccato (2Cor 5,21). Tale incontro salvifico che accorcia le distanze tra Dio e l’uomo, si compie nel pasto conviviale, e ci rende familiari di Dio e suoi commensali (Ef 2,19). Gesù non solo perdona i peccati, gesto che solo Dio può compiere (Mc 2,6), ma entra in comunione con l’uomo condividendo la sua vita divina.

LA BELLEZZA E LA BONTÀ DELLE COSE

http://www.usminazionale.it/2011_12/augruso.htm

LA BELLEZZA E LA BONTÀ DELLE COSE

ANTONIETTA AUGRUSO

Io so che il cielo e la terra e tutta la creazione,
sono grandi, generosi, buoni e belli.
Giuliana di Norwich

La Scrittura si apre nell’Antico Testamento con la forza creativa della Parola (dabar). Dalla vitalità della Parola viene alla luce il mondo: «Dio disse: “Sia la luce!” E la luce fu» (Gen 1,3). Anche il Nuovo Testamento ci presenta la forza creativa del Verbo (Logos) per mezzo del quale ogni cosa prende vita (cf Gv 1,2).

Parola nel cosmo

La Parola è creativa in una molteplicità di direzioni: «Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro schiera» (Sal 33,6). La Sapienza sottolinea che è possibile contemplare l’Autore, partendo dalla bellezza della sua opera realizzata (cf Sap 13,1-9). Si legge una poesia, si contempla con ammirazione un’opera d’arte, e si risale alla genialità dell’autore, ai suoi tratti, come se le immagini esprimano la pienezza dell’energia che crea. I Salmi e tutta la Scrittura sono suggestivi quando conducono il lettore ad una sorta di stupore riconciliante. Come può essere altrimenti, davanti ad immagini che evocano la creazione quasi un’armonia danzante? «I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento» (Sal 19,2), proclama il salmista.

E la stessa Parola eterna si rivolge alla sua creatura attraverso un dialogo di libertà, la cerca con insistente cura della sua sorte: «Dove sei?» (Gen 3,9). La Parola che crea è la stessa che libera e salva. Il religioso ascolto passa anche attraverso la possibilità di scorgere la premura divina nei colori della natura e nella varietà dei suoi paesaggi. A partire dalla convinzione della bontà del creato, l’esortazione postsinodale può stigmatizzare la profanazione ecologica: «La rivelazione, mentre ci rende noto il disegno di Dio sul cosmo, ci porta anche a denunciare gli atteggiamenti sbagliati dell’uomo, quando non riconosce tutte le cose come riflesso del Creatore, ma mera materia da manipolare senza scrupoli » (VD 108).

Dunque, la parola di Dio fa appello al cuore dell’uomo, invitandolo a non chiudersi nell’indifferenza o, peggio ancora, nei propri orizzonti, pensando che i beni da salvaguardare e difendere siano unicamente quelli della propria casa. La Parola, che prende forma nella creazione e in essa brilla per chi la sa cogliere, è oggi profondamente deturpata nella sua bellezza: rischia di subire una sorta di oscuramento proprio in uno dei canali che ha ispirato poeti e santi: gli scritti che ora fanno parte della letteratura mondiale. Per tutti, basti pensare al Cantico delle creature di san Francesco d’Assisi.

«Lectio mundi»

Ma la Parola stessa ci viene in aiuto, se l’ascoltiamo con cuore docile: è la linfa a cui attingere per la formazione di coscienze che desiderano ancora rendere abitabile il mondo. Benedetto XVI insiste sulla maturazione di una visione teologica rinnovata come percorso educativo allo stupore, e mostra di aver accolto le indicazioni dei Padri sinodali là dove si afferma: “Accogliere la parola di Dio attestata nella Scrittura e nella Tradizione viva della Chiesa genera un nuovo modo di vedere le cose, promuovendo una ecologia autentica, che ha la sua radice più profonda nell’obbedienza della fede… (e) sviluppando una rinnovata sensibilità teologica sulla bontà di tutte le cose, create in Cristo» (VD 108).

La Parola è comunicativa. Rivolgendosi al cuore dell’uomo lo incoraggia a guardare con occhi nuovi l’intero cosmo, a realizzare progetti educativi che facciano maturare il senso dello stupore e la scoperta delle sue tracce. Stupore, ascolto e incontro con l’Altro educano al senso del limite, suscitano in noi la domanda, la giusta verifica, soprattutto quando ci si accorge di seminare distruzione per il profitto di pochi, di elaborare e mettere in pratica strategie di morte e di distruzione delle risorse non rinnovabili. La terra è davvero oggi un pianeta in bilico. I mezzi di comunicazione ogni giorno c’informano di masse enormi di scorie radioattive e rifiuti tossici seppelliti in luoghi inimmaginabili: «Così l’uomo manca di quella essenziale umiltà che gli permette di riconoscere la creazione come dono di Dio da accogliere e usare secondo il suo disegno» (VD 108).

L’esortazione invita a riformulare le scelte anche a partire dalla Parola presente ed eloquente nel cosmo che attende una sua liberazione: «Sappiamo infatti che tutta la creazione geme e soffre le doglie del parto» (Rm 8,22). Si tratta di nutrire una relazione viva e costante con il Logos vivo e operante nella storia (cf Gv 1,2).

Delle quattro colonne ideali su cui poggia la Parola nel Nuovo Testamento – annuncio, fraternità, frazione del pane e preghiera – una è la predicazione del kérigma: la speranza nella risurrezione di Cristo spinge alla comunicazione là dove la vita chiama ad operare e a confrontarsi con gli altri. Gesù rimane il filo luminoso di ogni sorta di lettura delle Scritture, ma chi spiega e interpreta la Bibbia deve scendere nel presente di chi ascolta: Gesù stesso l’aveva fatto nell’itinerario da Gerusalemme ad Emmaus in compagnia di due suoi discepoli. È quello che farà il diacono Filippo sulla strada verso Gaza, quando incontra il funzionario etiope, con il quale intesse quel dialogo emblematico: «Capisci cosa stai leggendo?». E riceve la risposta: «E come potrei capire se nessuno mi guida?» (At 8,30-31). Interpretare la Parola e farla entrare nella storia di ciascuno non è frutto di improvvisazione. Non si può tralasciare il dato “carnale e letterale” della Parola, né mettere tra parentesi la diversità degli uditori e delle culture a cui essa viene annunciata.

«Gli innamorati della bellezza»

Ciascun uomo vive la propria storia unica; la comunicazione richiede sempre ascolto umile dell’altro e attenzione, per individuare linguaggi corretti, in grado di generare il dialogo. Come la cura del Padre si è espressa nel dono dell’incarnazione, anche la Chiesa, custode e interprete della Parola, da sempre si adopera perché i popoli non vengano privati di una relazione profonda con le Scritture: «Dio non si rivela all’uomo in astratto, ma assumendo linguaggi, immagini ed espressioni legati alle diverse culture. Si tratta di un rapporto fecondo, testimoniato ampiamente nella storia della Chiesa» (VD 109).

La Parola, con la docilità e la forza che vengono dallo Spirito, più di ogni altro strumento trasfigura l’animo umano, fa gioire il cuore e illumina gli occhi (cf Sal 19,9) di chi s’illumina alla luce della Parola: gli occhi “contemplano” il mondo nella sua bellezza e, nel guardarlo, lo cantano con il cuore o lo rivelano in forme creative. Quando la Parola diventa musica, canto, immagine, davvero i suoi frutti sono abbondanti e ridestano l’apertura alla trascendenza.

«Con i Padri sinodali, si legge nell’esortazione, la Chiesa tutta esprime apprezzamento, stima e ammirazione per gli artisti ‘innamorati della bellezza’, che si sono lasciati ispirare dai testi sacri» (VD 112). La Parola si è resa visibile e udibile attraverso la genialità degli artisti ispirati dallo Spirito Santo; non si può certo immaginare il mondo privo delle opere artistiche e musicali che hanno espresso il mistero dell’amore del Padre nella rivelazione. Benedetto XVI in questi anni in tante occasioni ha incontrato gli artisti e non ha tralasciato mai di valorizzarne il contributo, anche in ordine all’evangelizzazione: «Esorto gli organismi competenti affinché si promuova nella Chiesa una solida formazione degli artisti riguardo alla Sacra Scrittura alla luce della Tradizione viva della Chiesa e del magistero» (VD 112).

Parola e new media

Tutti i popoli nella diversità di spazi e di tempo hanno lasciato un patrimonio inestimabile di arte e costruzioni, istituzioni e simboli, tradizioni religiose e prodotti letterari per trasmettere la fede. Le gioie e le fatiche, i ritorni e gli esili di ogni popolo – rischiarati e consolati dalla Parola – sono stati narrati tramite i diversi codici culturali e hanno trovato spesso nella parola di Dio la possibilità di esprimere sogni e speranze: è la bellezza dell’Incarnazione! «La parola di Dio, come del resto la fede cristiana, manifesta così un carattere profondamente interculturale, capace di incontrare e di far incontrare culture diverse» (VD 114). Un processo così complesso trova nei tradizionali mezzi di comunicazione e nelle nuove forme uno strumento prezioso per far conoscere il mistero dell’amore di Dio che entra nella storia dei popoli e di ogni uomo.

Per questo, l’acquisire nuovi metodi per conoscere il Vangelo è parte integrante dell’evangelizzazione, anche se rimane fermo che essa «potrà usufruire della virtualità offerta dai new media per instaurare rapporti significativi, solo se si arriverà al contatto personale, che resta insostituibile» (VD 113).

La Parola è vivente, consola e chiama al cambiamento, interroga e indica i sentieri della luce. Ecco perché il rapporto personale è la strada da seguire: una relazione tra viventi. Non si comprendono a fondo le persone se non si ascoltano, se non si conosce la loro storia. Esiste un’empatia che si vive soltanto con i propri occhi, le proprie emozioni e il proprio cuore. Analogamente è per la Parola del Signore, che penetra in profondità il cuore umano, rispettando un eventuale rifiuto. Cristo sta alla porta e bussa, ma bisogna spalancare le porte (cf Ap 3,20).

Incontri e volti

Si può avere familiarità con tutte le tecniche esistenti e progettare siti diversificati, ma ciò rimane pura strumentalità: «Il mondo virtuale non potrà sostituire il mondo reale» (VD 113). L’esortazione mette in guardia dalla convinzione e dall’abitudine radicata nell’uomo digitale di abitare la realtà virtuale come se fosse l’unica e quella reale con la convinzione di comunicare con tutti, dire tutto a tutti. Il risultato sarà di non aver niente da dire (F. Ferrarotti).

La vita quotidiana è fatta d’incontri, di volti, di ascolto. Gesù ha sempre privilegiato il linguaggio legato alla vita, e il suo annuncio avviene nelle situazioni più ordinarie, e soprattutto a partire da similitudini e narrazioni comprensibili dai suoi ascoltatori. Se da una parte la tecnologia rimane uno strumento insostituibile, dall’altra comporta una seria riflessione sui limiti e lo stile della comunicazione che veicola e produce. Lo stile dell’homo zapping non è certamente caratterizzato dai tempi lunghi, tipici dell’interiorizzazione.

Il Messaggio dell’assemblea sinodale infatti avvertiva: «Questa nuova comunicazione ha adottato una specifica grammatica espressiva ed è, quindi, necessario essere attrezzati, non solo tecnicamente, ma anche culturalmente per questa impresa». C’è un tempo per tutto: l’amore chiede fedeltà e accoglienza, creatività e pause. Nella trasmissione della Parola la comunità cristiana dona ai fratelli di fede il suo prezioso bagaglio, ma bisogna curiosare con insistenza e intelligenza per trovare la perla preziosa e soprattutto fare memoria, cercare una relazione vitale, come dice l’angelo al veggente di Patmos: «Prendilo e divoralo; ti riempirà di amarezza le viscere; ma in bocca ti sarà dolce come il miele» (Ap 10,9). Nel viaggio verso la pienezza l’umanità è sostenuta dal suo amore: «… nell’umanità che sarà salvata è compreso tutto, voglio dire tutto ciò che è creato e il creatore di tutto, perché nell’uomo c’è Dio, e in Dio c’è tutto» (Giuliana di Norwich).

 Antonietta Augruso

Docente di Religione

Publié dans:meditazioni |on 23 mars, 2015 |Pas de commentaires »

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