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EBREI 4,14-16; 5,7-9
Fratelli, 14 poiché abbiamo un grande sommo sacerdote che ha attraversato i cieli, Gesù, Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede. 15 Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato. 16 Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno.
5,7 Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; 8 pure essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.
COMMENTO
Ebrei 4,14-16; 5,7-9
Gesù sacerdote misericordioso
Nella seconda sezione dello scritto (3,1-5,10) viene affrontato il tema del sommo sacerdote «misericordioso e fedele», preannunziato in 2,17-18. L’autore procede però in un ordine inverso rispetto a quello adottato nell’annunzio tematico. Anzitutto Gesù può e deve essere considerato come il sommo sacerdote «fedele» (3,7-4,13). Ma Gesù è anche un sommo sacerdote «misericordioso»: questa prerogativa viene spiegata in 4,14 – 5,10. Questo brano termina con l’affermazione che proprio nella passione, dove «imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (5,8), Gesù è stato «proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek» (5,10). Viene così anticipata la terza parte della lettera, quella centrale (5,11 – 10,39), in cui si dimostra che il sacerdozio di Cristo supera gli schemi del culto veterotestamentario, che avevano la loro più alta espressione nel sacerdozio levitico, in quanto realizza il misterioso sacerdozio «secondo l’ordine di Melchisedek» dei cui si parla il Sal 110,4.
In Eb 4,14 – 5,10 l’autore mostra dunque come la piena solidarietà di Cristo con gli uomini rappresenti un elemento costitutivo del suo sacerdozio. Il testo si può facilmente dividere in due parti: nella prima (4,14-16), di evidente carattere esortativo, l’autore si esprime alla prima persona plurale («…manteniamo ferma la professione della nostra fede… Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia»); la seconda parte contiene invece una descrizione del ruolo e della condizione del sommo sacerdote dell’AT, cui fa seguito l’applicazione a Cristo (5,1-10). La liturgia propone solo la prima parte e alcuni versetti della seconda.
L’adesione a Cristo sommo sacerdote (Eb 4,14-16)
Precedentemente l’autore aveva presentato Gesù come un sacerdote degno di fede. Ora riprende questo tema, facendone il punto di partenza di una pressante esortazione: «Poiché dunque abbiamo un grande sommo sacerdote, che ha attraversato i cieli, Gesù, Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede» (v. 14). Sebbene il sacerdozio di Cristo sia stato consumato sulla croce (cfr. 5,9), esso continua a esercitarsi ancora oggi nei «cieli», dove egli è penetrato con la sua morte cruenta e ormai siede alla destra della maestà «divina» (cfr. 1,3). L’appellativo «Figlio di Dio», sul quale è stato messo l’accento nel prologo (cfr. 1,1-4) e nella prima parte della lettera (cfr. 1,5-8), è attribuito qui direttamente al «Gesù» storico, allo scopo di sottolineare ancora una volta il fondamento del suo ruolo sacerdotale (cfr. 3,6): in quanto Figlio, egli è un sacerdote potente, capace di «salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore» (7,25). In Gesù morto e risorto si è attuato quel «sacerdozio» di cui le istituzioni cultuali dell’AT erano soltanto un’«ombra» (10,1; cfr. 8,5): questa certezza deve spingere il credente a «mantenere salda», cioè a rinnovare e rinvigorire la sua «professione di fede». Solo così potrà entrare in un rapporto vivo con lui e godere i frutti della sua mediazione sacerdotale.
All’esortazione iniziale fa seguito una frase esplicativa con cui si esclude una possibile interpretazione errata del sacerdozio di Cristo: «Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (v. 15). La grandezza del sacerdozio di Cristo non esclude, anzi esige che egli sia solidale con la famiglia umana, che deve rappresentare davanti a Dio: egli infatti è «uomo» in mezzo agli uomini e perciò è capace di comprendere fino in fondo i loro limiti e i loro peccati. Il verbo «compatire» (sympatheō) è tipico della lettera agli Ebrei (cfr. 10,34): esso non significa semplicemente una qualche partecipazione alla sorte dell’altro, ma una vera e propria consonanza di affetti profondi: è l’amore che spinge a patire con chi patisce! Gesù ha dimostrato questa sua compassione perché proprio lui, che è e rimane sempre il «Figlio di Dio» (cfr. v. 14), si è assoggettato ai limiti e alle prove comuni della vita, compreso il dramma della morte (cfr. 5,7-10), come un qualsiasi essere umano (cfr. 2,14-18). Precedentemente l’autore aveva detto che Gesù, «proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (2,18).
La solidarietà di Gesù con l’umanità ha però un limite: egli si assimila in tutto alla condizione umana «escluso il peccato». Si afferma così la perfetta santità di Cristo, che esclude ogni sua partecipazione alla comune situazione di peccato. In realtà questa prerogativa non diminuisce la sua solidarietà con gli uomini, anzi rappresenta la condizione indispensabile perché egli possa effettivamente andare loro incontro e salvarli. Un peccatore infatti ha bisogno prima di tutto di essere lui stesso salvato: solo chi è santo può salvare gli altri! Per questo si dirà tra poco che il sacerdozio antico era inefficace perché il sommo sacerdote doveva offrire sacrifici prima di tutto per i propri peccati (cfr. 5,3). La santità quindi non impedisce a Cristo di essere totalmente simile a noi, partecipe dello stesso sangue e della stessa carne (cfr. 2,14): al contrario, gli consente di essere «redentore» in senso pieno, senza limiti di sorta. Inoltre lo costituisce modello della vita nuova, redenta, che tutti i credenti devono ormai condividere.
L’autore conclude con una nuova esortazione: «Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno» (v. 16). L’invito iniziale a mantenere salda la professione di fede viene qui ripreso, dopo lo sviluppo riguardante la compassione di Gesù, sotto forma di richiamo ad accostarsi con piena fiducia al «trono della grazia», cioè alla presenza del Dio misericordioso. Dopo che Cristo «ha attraversato i cieli», Dio non deve essere più ricercato in un santuario terreno, ma proprio là dove egli si trova, cioè nel suo santuario celeste. In forza della mediazione di Cristo i credenti devono ormai sentirsi sicuri che Dio non negherà loro la salvezza e l’aiuto necessario tutte le volte che ne avranno bisogno.
Cristo sommo sacerdote «compassionevole» (Eb 5,7-9)
Nella seconda parte della pericope l’autore mostra come il sacerdozio di Cristo debba essere compreso specialmente a partire dal suo atteggiamento di solidarietà e compassione nei confronti dei peccatori. A tale scopo egli propone anzitutto una definizione di sacerdote quale emerge dall’esperienza del popolo ebraico e poi la applica a Cristo (5,1-10). La liturgia omette la descrizione del sacerdozio levitico e le affermazioni riguardanti la chiamata di Cristo come sacerdote, proponendo soltanto i versetti riguardanti la sua solidarietà con l’umanità, quale appare dalla sua preghiera per essere liberato dalla morte: «Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà » (v. 7). Se è vero infatti che per ottenere il sommo sacerdozio bisognava essere chiamati, così come era stato chiamato Aronne, è vero anche che esso era un onore (cfr. 5,4), per ottenere il quale parecchi erano disposti persino ad affrontare aspre guerre. Il sacerdozio di Cristo invece è tale che neppure l’unico abilitato ad esercitarlo aveva il desiderio di accedervi perché implicava già in partenza l’identificazione con la vittima, e quindi la totale offerta di sé al Padre; l’onore certamente sarebbe venuto con l’ingresso nei cieli, ma la via per accedervi passava per la croce. È questo che ha spaventato Cristo stesso quando stava ormai per raggiungere il culmine della sua opera sacerdotale.
Egli infatti, giunto al termine della sua vita terrena «offrì» (prosenenkas) a Dio preghiere e suppliche. Questo verbo è il participio aoristo di prosferō, il verbo tecnico con cui indica solitamente l’attività sacrificale propria del sacerdote («offrire in sacrificio»; cfr. 5,1.3; 8,3) e l’offerta che Cristo ha fatto di se stesso sulla croce (cfr. 7,27; 9,14.28). Prima che sulla croce, la sua offerta sacrificale ha avuto dunque luogo nell’orto degli Ulivi, dove ha rivolto al Padre la sua preghiera, accompagnata da «forti grida e lacrime». Le «preghiere e suppliche con forti grida e lacrime» sono quasi certamente quelle che Cristo ha elevato a Dio durante la sua passione. (cfr. Mc 14,33-36 e par.). In questo testo non si parla di «forti grida e lacrime», ma solo di una preghiera accorata di Cristo: è chiaro che l’autore di Ebrei, pur avendo in mente i fatti accaduti nel Getsemani, non si riferisce ai vangeli scritti, ma alla tradizione orale, che egli ha ulteriormente drammatizzato.
Più difficile da spiegare è il significato della frase «fu esaudito per la sua pietà (apo tēs eulabeias, Vg: pro sua reverentia)». Se con la sua preghiera Gesù voleva ottenere di essere liberato dalla morte, di fatto non è stato esaudito, come appare chiaramente dal racconto evangelico. Perciò alcuni studiosi hanno supposto che nel testo originale fosse scritto che egli «non» fu esaudito, sebbene fosse figlio di Dio; in seguito il «non» sarebbe stato eliminato per motivi dottrinali. Questa ipotesi però non è accettabile, in quanto non è suffragata da testimonianze o varianti di codici; inoltre, essa toglierebbe non poco alla drammaticità del testo e alla sua densità teologica. Altri invece, facendo leva sul fatto che il termine eulabeia significa anche «timore», «paura», traducono così il passo: «… fu esaudito (venendo liberato) dalla paura (della morte)». Ma anche questa spiegazione non convince, perché Gesù ha realmente pregato per essere liberato dalla morte, come risulta anche dal racconto dei vangeli.
Secondo una terza interpretazione, l’autore non intenderebbe semplicemente la morte fisica, ma il tipo di morte affrontata da Cristo. Questi ha voluto partecipare alla comune condizione umana «per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita» (2,14-15). La morte è intesa qui come lo strumento mediante il quale gli uomini sono tenuti sotto la schiavitù del diavolo, e di conseguenza riguarda direttamente solo i peccatori (cfr. Sap 2,24; 3,1). Da questa morte Cristo è stato effettivamente liberato non solo perché Dio gli ha dato la forza per superare la prova, ma anche e soprattutto perché si è servito della sua morte fisica per eliminare la morte stessa in quanto realtà strettamente collegata con il peccato, trasformandola in un grande gesto di affidamento a Dio.
L’autore fa poi questa riflessione: «Pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì» (v. 8). L’«obbedienza» (hypakoē) che Cristo imparò dalla sua sofferenza consiste nell’adesione radicale al progetto di Dio, che lo ha guidato nelle scelte decisive della sua vita. La sottomissione alla volontà del Padre viene presentata spesso nel NT come un aspetto caratteristico del comportamento di Gesù (cfr. Mc 14,36; Gv 4,34; 10,18). Paolo in modo speciale sottolinea come l’obbedienza di Cristo si sia manifestata nella sofferenza della morte (cfr. Fil 2,8; Rm 5,19). Ma ciò che la lettera agli Ebrei mette maggiormente in luce, in piena sintonia con il racconto evangelico della passione, è il fatto che questa obbedienza non è stata spontanea e quasi scontata, ma ha richiesto una notevole dose di impegno e di fatica per superare la naturale paura della morte. L’aspetto più specifico del sacerdozio di Cristo sta quindi nell’accettazione libera, anche se sofferta, della morte, che certo non è stata voluta dal Padre, ma imposta dalle circostanze concrete della storia. Le modalità con cui è stata esaudita la sua preghiera aiutano dunque a comprendere retrospettivamente in che cosa essa consisteva.
Dall’esperienza terrena di Cristo l’autore ricava questa conclusione: «Reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchìsedek» (vv. 9-10). Proprio a causa della sua obbedienza Cristo «fu reso perfetto» (teleiōtheis). Nell’AT l’appellativo di «perfetto» (ebr. tamîm) compete non a Dio, ma all’uomo che adempie tutto ciò che, in campo morale o rituale, è richiesto per poter accedere a Dio (cfr. Gn 17,1; Dt 18,13; 2Sam 22,26). Il verbo teleioō, « perfezionare » è molto importante per l’autore della lettera agli Ebrei, che lo usa ben nove volte, delle quali tre applicato a Cristo (2,10; 5,9; 7,28) come espressione dell’opera di Dio in lui. La «perfezione» ottenuta da Cristo non deve però intendersi in senso morale: essa è piuttosto quella che gli deriva dall’aver raggiunto il «fine» (tēlos) della sua esistenza terrena, cioè dall’attuazione della salvezza che il Padre aveva progettato di realizzare per mezzo suo in favore degli uomini. L’obbedienza di Cristo ha come risultato la salvezza eterna di tutti coloro che «gli obbediscono». Obbedire significa qui accettare la totalità del messaggio di Cristo, ma soprattutto seguire l’esempio che egli ha offerto a tutti nel suo affidarsi all’amore del Padre, anche quando poteva sembrare che il Padre l’avesse abbandonato (cfr. Mt 27,46). Il Padre dal canto suo ha talmente accettato l’offerta sacrificale di Cristo da proclamarlo, proprio in virtù di essa, «sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek».
Linee interpretative
L’autore della Lettera agli Ebrei si è assunto l’arduo compito di presentare la vicenda umana di Gesù in termini sacrificali. Il concetto di sacerdozio, quale di fatto si ricava sia dall’AT sia dalla più normale esperienza religiosa, implica la possibilità di compiere un’efficace mediazione tra Dio e gli uomini: «Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati» (5,1). La mediazione perfetta però esige che il sacerdote sia veramente rappresentativo delle due parti in causa: solidale con Dio e al tempo stesso con gli uomini. In questo senso Gesù rappresenta il sacerdote ideale, perché è il «figlio di Dio» (4,14; 5,8), «che ha attraversato i cieli» e gode di una potenza di intercessione infinita presso «il trono della grazia» (4,16); ma nello stesso tempo si è fatto simile a noi, «essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (4,15).
La prova più grande (che è stata anche una forte tentazione), a cui è stato sottoposto Gesù nel suo radicale assimilarsi agli uomini, è la morte: da essa egli, in quanto Figlio, aveva il diritto di essere esentato, e invece le è andato incontro coscientemente, pur sentendone la naturale ripugnanza (5,7). Nell’accettazione, pur sofferta, della morte Gesù realizza il massimo di amore verso Dio e verso gli uomini. Verso Dio tale amore si manifesta in forma di radicale «obbedienza» (5,8); verso gli uomini assume i caratteri della più totale «condivisione».
Proprio per questa dimensione di amore, totalmente libero e perciò anche estremamente sofferto, la morte di Cristo è presentata come un vero «sacrificio»: la stessa preghiera, con cui domanda di essere liberato dalla morte, ma al tempo stesso si affida al Padre, diventa un’offerta sacrificale (5,7). Non stupisce pertanto che il Padre gradisca questa offerta al punto tale da farla rifluire, come dono di salvezza, su tutti gli uomini: «E, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (5,9). A questo sacrificio totalmente nuovo e diverso si ricollega il sacerdozio di Cristo, che l’autore definisce come un sacerdozio «alla maniera di Melchisedek» (5,10), il misterioso personaggio che è presentato come «re di Salem» e «sacerdote del Dio Altissimo» (Gen 14,17-20). Con questo riferimento a Melchisedek però egli, più che definire la natura del sacerdozio di Cristo, vuole affermarne la novità e anche la rottura nei confronti del vecchio sacerdozio levitico.
La presentazione in termini sacrificali dell’esperienza di Gesù ha un alto significato teologico, comprensibile soprattutto a persone che vivevano l’esperienza sacrificale di Israele. In pratica però, pur affermando la solidarietà di Gesù con l’umanità, l’autore rischia di perdere la dimensione vissuta della sua partecipazione alle sofferenze, alle lotte e al cammino di liberazione dei più poveri quale appare dai vangeli. Senza volerlo, l’autore ha aperto la strada a una nuova ritualizzazione del cristianesimo che ha fatto sentire i suoi effetti nei secoli successivi.
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