Archive pour le 17 mars, 2015

La devozione a Maria, ai santi ed agli angeli nella Chiesa Ortodossa

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LA SCALA SANTA DEL PARADISO (Icona)

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LA SCALA SANTA DEL PARADISO

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Nella notte contemplare la luce

sr Renata Bozzetto

San Giovanni Climaco (da climax, scala: genitivo greco latinizzato come nominativo Climacus) è ce­lebre per la sua opera La Scala Santa del Paradiso. Egli, monaco igumeno del mona­stero di S. Caterina sul Sinai, nella Scala descrive l’itinerario dell’e­sperienza spirituale che conduce alla deificazione attraverso la luce. Traccia la via dell’ascesi mistica: un percorso in salita, i cui gradini sono uguali, in numero, all’età del Signore nella sua vita terrena. Infatti, prendendo a modello quei trent’anni, egli ci presenta una sca­la simbolica che in trenta gradini conduce alla perfezione.
Il termine del cammino è quindi la « trasfigurazione » del cuore.
Ogni anima anelante al cielo, come cerva immunizzata dal veleno in forza del profondo desiderio di unirsi al Signore, raggiunta la cima della Scala, può bagnarsi nelle acque della teologia spirituale e snidare definitivamente le « fiere » dai loro nascondigli col fiato della sua bocca, passeggiando poi, libera, sugli alti monti dove abita la conoscenza della Trinità.
« Il presente libro – esorta san Giovanni, esperto conoscito­re dell’anima umana – mostra il miglior cammino. Se lo imbocchiamo, troveremo in esso una guida sicura per chi lo segue, una scala molto stabile che conduce dalle cose terrestri alle realtà sante, e al sommo di essa vedremo affacciarsi Dio. E’ quella che io penso sia la scala di Giacobbe, « colui che ha superato » le passioni, e che contemplò mentre riposava sul giaciglio dell’ascesi. Saliamo dunque con coraggio e confidenza: così vi esorta questa scala spirituale che conduce al cielo » (S. Giovanni Climaco).
La lettura fungeva per così dire da manuale per i monaci, ma divenne in seguito assai popolare anche in ambiente laico, perché indicava la via verso la purificazione morale. Attraverso i suoi insegnamenti la vita monastica diventava paradigma della vita cristiana in quanto tale, intesa come responsabilità, vigilanza e battaglia contro il male nella « notte » dell’esistenza.

Stare davanti all’icona
L’icona « Scala Santa dei Paradiso », conservata nel mona­stero di S. Caterina sul Sinai (sec. XII), traduce in termini pittorici il cammino dell’anima verso la luce e sottolinea con semplici sim­bologie i pericoli che la « notte » nasconde.
La composizione dell’icona è costruita in modo ideale: la scala, su cui salgono i monaci superando difficoltà e prove nel cammino ascetico, divide perfettamente la scena in due parti. Nella parte superiore si collocano i monaci che salgono i gradini delle virtù, giungendo fino a Cristo che si affaccia dai cieli per accogliere i Santi asceti. Nella zona inferiore sono raffigurati i monaci che non hanno perseverato nella loro tensione verso la Luce e, quindi, precipitano, catturati dai diavoli che li trascinano nelle tenebre dell’inferno (raffigurato nella parte inferiore sotto forma di una testa oscura e mostruosa).
I diavoletti sono rappresentati con una vena più comica e grottesca che terrificante, secondo la consuetudine bizantina di evitare raffigurazioni raccapriccianti delle forze maligne.
L’Oriente accentua preferibilmente l’elemento vittorioso, pasquale. Ecco infatti apparire alla sommità della Scala Gesù Cristo dallo sguardo vivo e pensoso, intenso e colmo di misericordia nell’atto di accogliere Giovanni Climaco con gesto ampio e solenne. E’ il Pantocratore, Colui che regge tutto « l’essere », il Salvatore, Gesù di Nazareth: è il Volto visibile della Luce divina increata che spiritualizza e anima ogni forma materiale e terrena. Avvolto in vesti luminose e vivaci, Cristo si rivela vigoroso e accogliente nel contempo, così che la robustezza delle proporzioni regolari crea l’effetto di una plasticità scultorea, di un’immagine maestosa ed elevata.
San Giovanni, invece, marcia alla testa di un gran numero di monaci, decisamente orientato verso la straordinaria Luce che lo attrae e affascina: la sua figura severa, austera, delinea i tratti ideali dell’asceta: distaccato dal mondo, ma teso e assorto nella contemplazione dei mistero di Luce cui allude il fondo oro idealmente lucido e levigato, che gli antichi dichiaravano essere come « un fuoco che brilla nella notte ».
L’oro, « colore dei colori » di cui l’icona è interamente coperta, nel suo « brillio » e nella sua « nobile luminosità » (Andrea di Creta), significa quindi la Luce increata che investe la creatura e la trasfigura, rendendola già fin d’ora partecipe del Paradiso. La presenza dell’oro, in tal modo, è sempre un indizio del divino, del suo manifestarsi nelle forme sensibili come sublime Presenza che permea di sé il cosmo intero. La lumino­sità dell’oro ha inoltre la caratteristica di « abbagliare » e di « accecare ». Pur illuminando la materia accendendola di una luce misteriosa, essa costituisce come una barriera compatta che cela la prospettiva spaziale e non permette all’occhio di penetrarla, ma rende piuttosto il senso della realtà come « Mistero », mettendo l’accento su quella stupefacente Presenza di Dio che la anima.
Le semplici figure dei monaci tradiscono fisionomie di tipo orientale, espressioni tese e immote, figure dinamiche e asimmetriche, austero silenzio e intensità interiore, costruzione ascetica del mondo spirituale e insieme lieve e raffinato gusto pittorico per la pennellata in cui prevale quello sfumato che aumenta il senso della luminosità. Tutto ciò consente quel fondamentale passaggio dalla concretezza al carattere ideale che ci da di ritrovare l’elemento distintivo dell’icona: una contemplazione silenziosa, una quiete ideale, l’assenza di emozioni troppo sensibili e contrastanti. I monaci hanno mani protese in avanti quasi dovessero porgere qualcosa, forse offrire la propria vita e quella altrui; ma potrebbero essere anche mani aperte e disponibili ad accogliere il dono di Luce che dalla cima invita a salire.
In alto, a sinistra, poi, gli Angeli cantano i loro cori angelici a quanti hanno raggiunto la Pace, la Luce, il Paradiso, a cui fa contrasto il resto contraddistinto da silenzio e da un’essenzialità assorta e interiore.

« Alzati, rivestiti di luce, perché viene a te la tua Luce, la gloria di Jahweh brilla su di te … su di te risplende Jahweh » (Is 60,1-2).
Dio è Luce, cioè è principio di vita, di novità, di creazione. Dio, poi, è difesa, accoglienza e misericordia. Con questa protezione si affrontano l’incertezza e le insidie del male nella notte dell’esistenza.
« Dio è luce e in Lui non ci sono tenebre’ (1Gv 1,5): sì, Egli è innanzitutto luce, un simbolo universale che esprime mirabilmente la bipolarità di Dio: è il Trascendente come la luce del sole, che è all’esterno di noi e irrompe da una fonte che non possiamo né controllare né dominare ed è, come la luce, vicino, immanente, penetrante.
Quando l’uomo si apre e abbandona pienamente al Mistero di Dio, scopre se stesso, l’intera sua storia: passato presente e futuro.
« L’uomo di luce è l’uomo dell’interiorità che avendo realizzato l’unità in se stesso è giunto alla chiarezza di Dio. Egli ama come ama Dio, o piuttosto è Dio che ama in lui. Egli irradia luce divina e dona la vita. Nell’uomo di luce si è insediato lo Spirito, di qui l’importante ruolo svolto dallo Spirito Santo pres­so i figli della luce. La loro particolare vocazione è inserirsi in una dimensione cosmica, poter divenire i redentori dell’universo. Così l’uomo di luce è un salvatore e ogni creatura, anche la più umile, è beneficiaria del suo dono di luce »[1].
Contemplare la Luce non può essere perciò qualcosa di passivo, ma di rivoluzionario che ti apre gli occhi il cuore la casa la vita. Ti rende appassionato, intrepido, audace, propositivo.
Pur coinvolto nella « notte » del tempo, talora intrappolato nelle quotidiane fatiche esistenziali, avverti che è necessario continuare a « salire » dalla terra al ciclo, anticipazione di piena esperienza di comunione con l’eterno.
Come? Con volto franco e sereno, a mani aperte e disponibili, giorno dopo giorno, momento per momento, cogliendo i segni di questo « oltre di Dio » che vanno vagliati attraverso quel filtro sicuro che rappresenta la più autentica specificità del Cristo: il filtro della comunione, dell’universalità, del dialogo, del perdono e della misericordia. Questa apertura « dell’oltre di Dio » ci stimolerà a fare di tutta la nostra vita una pura contemplazione. Contemplazione non come attività, ma come atteggia­mento … un essere in-relazione-con.
Siate piccole luci in salita: grida l’icona! E si tratta di un atteg­giamento, oserei dire, immutabile, di silenzioso sorriso, di apertura e disponibilità totale a Dio che ci penetra, ci possiede, ci ama.
Un’attitudine di misericordia, di benevolenza, di servizio e di pace per gli uomini e le cose del mondo. Infatti è sempre nello sbriciolarsi della giornata che si gioca la contemplazione: nelle dure ore del lavoro, nell’accettare le contrarietà quotidiane come un dono di Dio, nell’interessamento sincero e amorevole per gli altri. Nel sacrificarci per far contento chi ci vive accanto, nella benevolenza verso tutti, nella gioia di vedere le cose belle, nella stanchezza e nel sonno accettati o vinti secondo la necessità del momento.
Salire e scendere la Scala Santa del Paradiso: un movimento perenne tra terra e cielo in compagnia di tanti, tutti a mani tese… Così più che accrescere in noi « conoscenza » impariamo a stabilirci nella « comunione »; una comunione che quanto più è totale e assoluta, espressa nel fare la volontà del Padre, tanto più ci penetra del Mistero luminoso di Dio.
Ciò che conta è non cessare di avanzare, né lamentare stanchezza ma salire e salire con determinazione incontro a Colui che è sorgente di pace e gioia senza fine.
Cessa allora la necessità di esprimersi e rimane quella di « essere ».
« Ti ringrazio, Adonaj, perché hai illuminato il mio volto in vista dell’Alleanza e dalla fossa hai liberato l’anima mia. Ti ho cercato quale stabile aurora e tu mi sei apparso all’alba »: così canta l’inno IV di Qumran (vv. 5-6).

Pregare l’icona
Per vivere questa esperienza spirituale è fondamentale la determinazione per un silenzio interiore tale da permettere al Mistero di penetrarti, coinvolgerti e trasformarti.
Poi, per aiutarti a entrare con fiducioso coraggio in questa esperienza di fede, poniti in atteggiamento di umile amore davanti all’icona.
L’umile amore è quella eccezionale realtà che unisce in maniera indissolubile il Creatore con la creatura e perciò l’icona con colui che in essa si comunica.
« Come coloro che vedono la luce sono nella luce e partecipano del suo splendore, così coloro che vedono Dio sono in Dio, partecipando del suo splendore. Perché lo splendore di Dio vivifica » (S. Ireneo di Lione).
Di fronte alla manifestazione e alla percezione interiore della santità di Dio, osserva le tue reazioni e confrontati con Is.6,1-8.
Chiediti: ho esperienza di cambiamenti, di « trasfigurazioni » nella mia vita? Quando? Come? A cosa o a chi li attribuisco?
Sintetizzo le esperienze che mi hanno « illuminato »: com’è accaduto?
Cosa chiamo nella mia vita « luce », « giorno », e quali situazioni di notte ho sperimentato essere poi portatrici di luce? Osservo e ringrazio.
Ripercorro i vari scalini dell’icona: salire, salire con … ascoltare, prendere fiato, non voltarsi indietro, non distrarsi, contemplare, tenere teso il filo del desiderio per giungere in cima, ridiscendere per « farmi carico di… » e poi risalire.
Faccio lettura sapienziale delle parole della Piccola Sorella Magdeleine di Gesù: « E se tutto è triste attorno a noi, se tutto è oscuro, guarderemo più in alto, altissimo, là dove saremo riuniti nello stesso amore. Là dove Certosini, Domenicani, Francescani, Gesuiti, Trappisti saranno fusi nella stessa armonia, dove ciascuno avrà la sua nota …, non la stessa, perché non sarebbe armonioso… E noi saremo la piccola nota in sordina di cui si potrebbe fare benissimo a meno, ma che all’insieme da qualcosa di dolce, di argentino, come i campanellini di montagna… »[2].
Prego. Ringrazio. Mi congedo.

[1] MARIE MAGDELEINE DAVY, Le thème de la lumière dans le iudaisme, le cìiristia-nisme et l’isiam, Paris 1976, p.275.
[2] MAGDELEINE DI GESÙ, Gesù per le strade del mondo – I PARTE, Piemme, p.124.

Publié dans:immagini sacre e testo |on 17 mars, 2015 |Pas de commentaires »

PAOLO PP. VI : PETRUM ET PAULUM APOSTOLOS

http://w2.vatican.va/content/paul-vi/it/apost_exhortations/documents/hf_p-vi_exh_19670222_petrum-et-paulum.html

PETRUM ET PAULUM APOSTOLOS

ESORTAZIONE APOSTOLICA DI SUA SANTITÀ

Nel XIX centenario del martirio degli Apostoli Pietro e Paolo

PAOLO PP. VI

VENERABILI FRATELLI SALUTE ED APOSTOLICA BENEDIZION

I santi Apostoli Pietro e Paolo sono giustamente considerati dai fedeli come colonne primarie non solo di questa Santa Sede Romana, ma anche di tutta la Chiesa universale del Dio vivo. Riteniamo, perciò, di fare cosa consona al Nostro ministero Apostolico esortando voi tutti, Venerabili Fratelli, a promuovere, spiritualmente a Noi uniti, ciascuno nella propria diocesi, una devota celebrazione della memoria, diciannove volte centenaria, del martirio, consumato in Roma, tanto dell’apostolo Pietro scelto da Cristo a fondamento della sua Chiesa, e primo Vescovo di quest’alma Città, quanto dell’apostolo Paolo, dottore delle Genti (Cf 1 Tm 2,7), maestro e amico della prima comunità cristiana in Roma.
La data di questa memorabile ricorrenza non può essere sicuramente fissata, in base ai documenti storici. È certo che i due apostoli furono martirizzati a Roma durante la persecuzione di Nerone, che infierì dall’anno 64 al 68. Il martirio è ricordato da san Clemente, Successore dello stesso Pietro nel governo della Chiesa Romana, nella sua lettera ai Corinzi, ai quali propone i validi esempi dei due atleti: Per invidia e per gelosia le più grandi e giuste colonne furono perseguitate e lottarono sino alla morte (1 Epistula ad Corinthios, V, 1-2: ed. FUNK 1, p. 105).
Ai due Apostoli Pietro e Paolo fece corona un gran numero di persone (Cf TACITO, Annales, XV, 44) che costituisce la primizia dei martiri della Chiesa Romana, come scrive lo stesso Clemente: A questi uomini che vissero santamente si aggiunse una grande schiera di eletti, i quali, soffrendo per invidia molti oltraggi e torture, furono di bellissimo esempio a noi (Epistula ad Corinthios, VI, 1: ed. FUNK 1, p. 107).
Noi, poi, lasciando alle erudite discussioni la precisa determinazione della data del martirio dei due Apostoli, abbiamo scelto, per le celebrazioni centenarie, l’anno corrente, seguendo in ciò l’esempio del Nostro venerato Predecessore Pio IX, il quale volle solennemente ricordare nel 1867 il martirio di san Pietro.
E poiché la prima comunità cristiana di Roma esaltò insieme il martirio di Pietro e Paolo, e la Chiesa in seguito fissò la commemorazione anniversaria dell’uno e dell’altro Apostolo in un’unica festa liturgica (29 giugno), Noi abbiamo pensato di unire insieme, in questa celebrazione centenaria, il glorioso martirio dei Principi degli Apostoli.
E che Noi pure siamo tenuti a richiamare il ricordo di questo anniversario lo dice l’abitudine, ormai universalmente diffusa, di commemorare persone e fatti, che lasciarono un’impronta di sé nel corso del tempo, e che, considerati nella distanza degli anni trascorsi e nella vicinanza delle memorie superstiti, offrono a chi saggiamente li ripensa e quasi li rivive, non vane lezioni circa il valore delle cose umane, forse più palese ai posteri che oggi lo scoprono, che non ai contemporanei, che allora non sempre e non tutto lo compresero. L’educazione moderna al senso della storia a tale ripensamento facilmente ci piega, mentre il culto delle sacre tradizioni, elemento precipuo della spiritualità cattolica, stimola la memoria, accende lo spirito, suggerisce i propositi, per cui una ricorrenza anniversaria si traduce in una lieta e pia festività, infonde il desiderio della riviviscenza delle antiche venerande vicende, e apre lo sguardo sull’orizzonte del tempo passato e futuro, quasi che un disegno segreto lo unificasse e ne segnasse nella futura comunione dei santi il suo estremo destino. Questa spirituale esperienza sembra a noi doversi particolarmente effettuare mediante la rievocazione dei due sommi Apostoli Pietro e Paolo, che alla temporale mortalità pagarono col martirio per Cristo il loro umano tributo, e che dell’immortalità di Cristo trasmisero a noi e fino agli ultimi posteri sacramento perenne la Chiesa, guadagnando per sé l’eredità incorruttibile, incontaminata e inalterabile, riservata nei cieli (Cf 1 Pt 1,4).
E tanto più Ci piace commemorare con voi, Venerati Fratelli e Figli carissimi, questo anniversario, quanto maggiormente questi beati Apostoli Pietro e Paolo sono non solo Nostri, ma vostri altresì: essi sono gloria di tutta la Chiesa, perché delegati delle Chiese, gloria di Cristo (2 Cor 8,23) e da essi esce tuttora per tutta la Chiesa la voce: «Noi siamo il vostro vanto, come voi sarete il nostro» (Cf 2 Cor 1,14). Che se questo tragico e benedetto suolo romano raccolse il loro sangue e custodì, inestimabili trofei, le loro tombe, e alla Chiesa di Roma toccò l’incomparabile prerogativa di assumere e di continua re la loro specifica missione, questa non ha per fine la Chiesa locale, sì bene la Chiesa intera, consistendo principalmente quella missione nel fungere da centro della Chiesa stessa e nel dilatarne la visibile e mistica circonferenza ai confini dell’universalità; l’unità cioè e la cattolicità, che in virtù dei santi Apostoli Pietro e Paolo hanno nella Chiesa di Roma la loro precipua sede storica e locale, sono proprietà e sono note distintive di tutta la vera e grande Famiglia di Cristo, sono doni di tutto il Popolo di Dio, per il quale la viva e fedele tradizione romana li custodisce, li difende, li dispensa e li accresce.
Per questo il Nostro invito, oltre che per la nostra diletta diocesi di Roma «di cui sono i celesti patroni», è per voi tutti, che siete Successori degli Apostoli e Pastori della Chiesa universale, in quanto componenti con Noi quel Collegio episcopale, che il recente Concilio Ecumenico, con tanta ricchezza di dottrina e con tanti presagi di futuri incrementi ecclesiali, illustrò; è per voi, fedeli e ministri tutti della santa Chiesa; e così via, a Dio piacendo, per tutti i fratelli che, sebbene non ancora in piena comunione con Noi, sono tuttavia insigniti del nome cristiano, e che ben volentieri sappiamo cultori della memoria e dello spirito dei due Apostoli. In particolare ricordiamo con viva soddisfazione del Nostro animo che le venerande Chiese Orientali celebrano solennemente nelle loro liturgie i due Corifei degli Apostoli, e ne mantengono vivo il culto tra il popolo cristiano. Ci piace altresì rilevare come presso le Chiese e le Comunità Ecclesiali separate dell’Occidente sia viva l’idea dell’apostolicità, che la presente celebrazione mira a vedere sempre più perfetta ed operante, e che san Paolo esprime con quelle mirabili parole: Edificati sopra il fondamento degli apostoli (Ef 2,20).
In che cosa consiste praticamente il Nostro invito? Come insieme celebreremo il significativo anniversario? È costume di questa Sede Apostolica, quando intende rendere solenne e universale qualche singolare ricorrenza, elargire qualche beneficio spirituale (e non Ci rifiutiamo dal farlo anche in questa occasione); ma questa volta, più che donare, Ci piace domandare; più che offrire, vogliamo chiedere. E la Nostra domanda è semplice e grande: Noi vi preghiamo tutti e singoli, Fratelli e Figli Nostri, di voler celebrare la memoria dei santi Apostoli Pietro e Paolo, testimoni con la parola e col sangue della fede di Cristo, con un’autentica e sincera professione della medesima fede, quale la Chiesa da loro fondata e illustrata ha raccolto gelosamente e autorevolmente formulata. Una professione di fede vogliamo a Dio offrire, al cospetto dei beati Apostoli, individuale e collettiva, libera e cosciente, interiore ed esteriore, umile e franca. Vogliamo che questa professione salga dall’intimo di ogni cuore fedele e risuoni identica e amorosa in tutta la Chiesa.
Quale migliore tributo di memoria, d’onore, di comunione potremmo offrire a Pietro e a Paolo che quello della fede stessa, che da loro abbiamo ereditata?
Voi sapete benissimo che il Padre stesso celeste rivelò a Pietro chi era Gesù: il Cristo, il Figlio del Dio vivo, il Maestro e il Salvatore da cui a noi deriva la grazia e la verità (Cf Gv 1,14), la nostra salvezza, il cuore della nostra fede; voi sapete che sulla fede di Pietro riposa tutto l’edificio della santa Chiesa (Cf Mt 16,16-19); voi sapete che quando molti abbandonavano Gesù, dopo il discorso di Cafarnao, fu Pietro che, a nome del Collegio Apostolico, proclamò la fede in Cristo Figlio di Dio (Cf Gv 6,68-69); voi sapete che Cristo medesimo si è fatto garante con la sua personale preghiera dell’indefettibilità della fede di Pietro, ed ha a lui affidato l’ufficio, nonostante le sue umane debolezze, di confermare in essa i suoi fratelli (Cf Lc 22,32); e voi anche sapete che la Chiesa vivente ha preso inizio, disceso lo Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, con la testimonianza della fede di Pietro (Cf At 2,32-40).
Che cosa potremmo a Pietro domandare a nostro vantaggio, a Pietro offrire a suo onore, se non la fede, donde ha origine la nostra spirituale salute, e la nostra promessa, da lui reclamata, d’essere forti nella fede? (1 Pt 5,9)
A voi è parimente noto quale assertore della fede è stato san Paolo: a lui la Chiesa deve la dottrina fondamentale della fede come principio della nostra giustificazione, cioè della nostra salvezza e dei nostri rapporti soprannaturali con Dio; a lui la prima determinazione teologica del mistero cristiano, a lui la prima analisi dell’atto di fede, a lui l’affermazione del rapporto tra la fede, unica e inequivocabile, e la consistenza della Chiesa visibile, comunitaria e gerarchica. Come non invocarlo nostro perenne maestro di fede; come non chiedere a lui la grande e sperata fortuna della reintegrazione di tutti i cristiani in un’unica fede, in un’unica speranza, in un’unica carità dell’unico Corpo Mistico di Cristo? (Cf Ef 4,4-16) E come non deporre sulla sua tomba di «Apostolo e martire» il nostro impegno di professare con coraggio apostolico, con anelito missionario, la fede, ch’egli alla Chiesa, al mondo, con la parola, con gli scritti, con l’esempio, col sangue, insegnò e trasmise?
Così che arride a Noi la speranza che la commemorazione centenaria del martirio dei santi Apostoli Pietro e Paolo si risolva principalmente per tutta la Chiesa in un grande atto di fede. E vogliamo ravvisare in questa ricorrenza la felice occasione che la divina Provvidenza appresta al Popolo di Dio per riprendere esatta coscienza della sua fede, per ravvivarla, per purificarla, per confermarla, per confessarla. Non possiamo ignorare che di ciò l’ora presente accusa grande bisogno. È pur noto a voi, Venerati Fratelli e Figli carissimi, come, nella sua evoluzione, il mondo moderno, proteso verso mirabili conquiste nel dominio delle cose esteriori, e fiero d’una cresciuta coscienza di sé, sia incline alla dimenticanza e alla negazione di Dio, e sia poi tormentato dagli squilibri logici, morali e sociali, che la decadenza religiosa porta con sé, e si rassegni a vedere l’uomo agitato da torbide passioni e da implacabili angosce: dove manca Dio manca la ragione suprema delle cose, manca la luce prima del pensiero, manca l’indiscutibile imperativo morale, di cui l’ordine umano ha bisogno (Cf S. AGOSTINO, De civ. Dei, 8, 4: PL 41, 228-229; Contra Faustum, 20, 7: PL 43, 372).
E mentre vien meno il senso religioso fra gli uomini del nostro tempo, privando la fede del suo naturale fondamento, opinioni esegetiche o teologiche nuove, spesso mutuate da audaci, ma cieche filosofie profane, sono qua e là insinuate nel campo della dottrina cattolica, mettendo in dubbio o deformando il senso oggettivo di verità autorevolmente insegnate dalla Chiesa, e, col pretesto di adattare il pensiero religioso alla mentalità del mondo moderno, si prescinde dalla guida del magistero ecclesiastico, si dà alla speculazione teologica un indirizzo radicalmente storicistico, si osa spogliare la testimonianza della Sacra Scrittura del suo carattere storico e sacro, e si tenta di introdurre nel Popolo di Dio una mentalità cosiddetta post-conciliare, che del Concilio trascura la ferma coerenza dei suoi ampli e magnifici sviluppi dottrinali e legislativi con il tesoro di pensiero e di prassi della Chiesa, per sovvertirne lo spirito di fedeltà tradizionale e per diffondere l’illusione di dare al cristianesimo una nuova interpretazione arbitraria e isterilita. Che cosa resterebbe del contenuto della nostra fede e della virtù teologale che la professa, se questi tentativi, emancipati dal suffragio del magistero ecclesiastico, avessero a prevalere?
Ed ecco che a confortare la nostra fede nel suo autentico significato, a stimolare lo studio delle dottrine enunciate dal recente Concilio Ecumenico, e a sorreggere lo sforzo del pensiero cattolico nella ricerca di nuove e originali espressioni, fedeli tuttavia al deposito dottrinale della Chiesa, nello stesso senso e nello stesso modo di intendere (Cf VINCENZO LERINO, Commonitorium, 1, 23: PL 50, 668; D.-S. 3020), giunge sulla ruota del tempo questo anniversario Apostolico, il quale offre ad ogni figlio della santa Chiesa la felice opportunità: di dare a Gesù Cristo Figlio di Dio, Mediatore e Perfezionatore della rivelazione, l’umile e sublimante risposta: io credo, cioè il pieno assenso dell’intelletto e della volontà alla sua Parola, alla sua Persona, alla sua missione di salvezza (Cf Eb 12,2; CONC. VAT. I, Cost. dogm. de fide catholica, c. 3: DA. 3008, 3020; CONC. VAT. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen Gentium, n. 5: AAS 57 (1965), p. 7; CONC. VAT. П, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, nn. 5, 8: AAS 58 (1966), pp: 819, 821); e di onorare così quei sommi testimoni di Cristo, Pietro e Paolo, rinnovando l’impegno cristiano d’una sincera e operante professione della loro e nostra fede, e ancora pregando e lavorando per la ricomposizione di tutti i cristiani nell’unità della medesima fede.
Noi non intendiamo indire a tal fine un particolare Giubileo, quando appena è stato celebrato quello da Noi stabilito a conclusione del Concilio Ecumenico; ma fraternamente esortiamo voi tutti, Venerati Fratelli nell’Episcopato, a voler illustrare con la parola, a voler onorare con particolari solennità religiose, a voler soprattutto recitare solennemente e ripetutamente con i vostri sacerdoti e con i vostri fedeli il «Credo», in una o in altra delle formule in uso nella preghiera cattolica.
Ci piacerà sapere che il «Credo» è stato recitato espressamente, ad onore dei santi Pietro e Paolo, in ogni cattedrale, presenti il Vescovo, il Presbiterio, gli alunni dei Seminari, i Laici cattolici militanti per il regno di Cristo, i Religiosi e le Religiose, e quanto più numerosa possibile la santa assemblea dei fedeli. Analogamente faccia ogni Parrocchia per la propria comunità; e parimente ogni casa religiosa. Così suggeriamo che tale professione di fede sia, in un giorno stabilito, emessa in ogni singola casa ove dimori una famiglia cristiana, in ogni associazione cattolica, in ogni scuola cattolica, in ogni ospedale cattolico e in ogni luogo di culto, in ogni ambiente e in ogni riunione, ove la voce della fede possa esprimere e rinfrancare l’adesione sincera alla comune vocazione cristiana.
Noi rivolgiamo una particolare esortazione agli studiosi della Sacra Scrittura e della Teologia, affinché vogliano contribuire col magistero gerarchico della Chiesa a preservare la vera fede da ogni errore, ad approfondirne le insondabili profondità, a spiegarne rettamente il contenuto, a proporne i sani criteri di studio e di divulgazione. Similmente diciamo ai predicatori, ai maestri di religione, ai catechisti.
L’anno centenario commemorativo dei santi Pietro e Paolo sarà in tale modo l’anno della fede. Affinché la sua celebrazione abbia una certa simultaneità, Noi vi daremo inizio con la festa degli Apostoli medesimi, il 29 giugno prossimo venturo, e procureremo, fino allo scadere della medesima data dell’anno successivo, di renderlo fecondo di particolari commemorazioni e celebrazioni, tutte improntate al perfezionamento interiore, allo studio approfondito, alla professione religiosa, all’operosa testimonianza di quella santa fede senza la quale è impossibile piacere a Dio (Eb 1,6), e mediante la quale speriamo di raggiungere la promessa salvezza (Cf Mc 16,16; Ef 2,8; ecc.).
Dando a voi, Venerati Fratelli e diletti Figli, questo annuncio pieno di spirituali prospettive e di consolanti speranze, sicuri di avervi tutti solidali in piissima comunione, nel nome e con la potestà dei beati Apostoli e martiri Pietro e Paolo, sulle cui tombe riposa e fiorisce questa Chiesa Romana, erede, alunna e custode dell’unità e della cattolicità da loro qui per sempre incentrate e fatte scaturire, di gran cuore vi salutiamo e vi benediciamo.
Roma, presso S. Pietro, 22 febbraio, nella festa della Cattedra di san Pietro apostolo, dell’anno 1967, quarto del Nostro Pontificato.

PAOLO PP. VI

Publié dans:Papa Paolo VI, San Paolo, San Pietro |on 17 mars, 2015 |Pas de commentaires »

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