Archive pour le 9 mars, 2015

Raffaello, La disputa del Sacramento, Stanza della Segnatura, Palazzi Vaticani, Roma

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« LA GIOIA INTIMA DI SCOPRIRSI AMATI »

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« LA GIOIA INTIMA DI SCOPRIRSI AMATI »

di Fabio Ciardi

Chissà quante idee e immagini ti frullano in testa quando senti questa parola un po’ misteriosa: vocazione. A me fa subito venire in mente una cosa semplice e straordinaria: un rapporto di amore intimo e concreto che si intesse tra Dio e me, un colloquio che si va svolgendo tra lui e me giorno per giorno, con accenti sempre nuovi. Ogni uomo, ogni donna è chiamato a questo incontro con l’Amore: siamo fatti costitutivamente per amare, per incontrarci con la sorgente stessa dell’Amore. Siamo fatti per vivere in rapporto di comunione con lui. La realtà più bella e profonda della nostra umanità è la capacità di stare davanti a Dio a tu per tu: è nostro padre e noi siamo figli e figlie suoi.
L’iniziativa di questo rapporto è certamente di Dio stesso che, liberamente e mosso solo dall’amore, da sempre si prende cura di noi e ci chiama alla comunione con sé. Dio infatti –ci ricorda il Concilio- « nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con Sé » (DV 2). Il popolo d’Israele ha sperimentato l’amore di Dio in modo così forte che l’ha paragonato ad uno sposo e lui, il popolo, si è paragonato ad una sposa.
Dio si apre e si rivela, chiama e si comunica. Quanti, raggiunti da tale amore, rispondono – e a loro volta si aprono e si donano-, si trovano coinvolti in un rapporto con lui che tende alla comunione più piena. Il senso profondo della vocazione, prima di ogni altra ulteriore esplicitazione, è racchiuso in questo fecondo dialogo d’amore: è questo stesso dialogo d’amore.
In questo dialogo l’iniziativa è di chi ama di più, ed è l’Amore stesso che si protende verso di noi. « In questo sta l’amore –ci ricorda l’apostolo Giovanni-: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi » (1Gv 4,10). È lui che per primo, come lo sposo del Cantico dei Cantici, ci viene incontro e ci chiama: « Alzati amica mia, mia bella, e vieni » (Ct 2,10). L’iniziativa è sempre sua. È suo il primato d’amore. « Come possiamo amare, se prima non siamo stati amati? » si domandava s. Agostino. Se « noi amiamo », ci ricorda ancora l’apostolo Giovanni, è « perché egli ci ha amato per primo » (1Gv 4,19).
Incontrarsi con Dio è incontrarsi con l’Amore ed essere avvolti dall’amore. Ogni rapporto con lui ha in questo amore il suo inizio e il suo compimento. È la grande luce che brilla nel cuore di colui che crede e che gli fa gridare: sono amato dall’Amore! È quella prima autentica illuminazione interiore di cui parla la lettera agli Ebrei: « Richiamate alla memoria quei primi giorni nei quali foste illuminati » (10,32). Da essa parte l’autentica vita cristiana. È la scoperta gioiosa di avere un Padre che ci ama al punto « da dare il suo Figlio, l’Unigenito » (Gv 3,16). La scoperta che il Figlio, fattosi uomo per amore, ci ama fino a dare « la sua vita per noi » (1Gv 3,16). La scoperta che lo Spirito si riversa in noi come amore (cf. Rm 5,5): Dio è Amore! E perché amore… ci ama, personalmente, uno per uno. S. Paolo comunicava con gioia ai suoi cristiani della Galizia la scoperta che aveva rivoluzionato interamente la sua vita dandole finalmente un senso vero: il Figlio di Dio « mi ha amato e ha dato se stesso per me » (2,20).
Paolo non è certo rimasto indifferente davanti alla scoperta di essere amato personalmente da Cristo, suo Signore e suo Dio. Si è buttato a riamarlo con tutto se stesso. Amore chiama amore. La rivelazione di Dio Amore non lascia inerte o indifferente nessuno. Essa coinvolge la persona in tutta la sua interezza. Fa appello al cuore, alla mente, alla volontà.
Quando Giovanni nella sua prima lettera scriveva: « noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore » (4,16), esprimeva la sua adesione totale e incondizionata al dono ricevuto. Il dialogo che si instaura tra Dio e l’uomo è intrinsecamente coinvolgente. « Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre », gridava Geremia (20,7) incapace di resistere alla forza travolgente dell’amore di Dio.
Allo svelamento che Dio fa di sé è così legata intrinsecamente una chiamata. Rivelazione di Dio e chiamata si postulano a vicenda. La luce brillando illumina. Il fuoco bruciando riscalda. Così la manifestazione che Dio fa di sé come Amore è comunicazione dell’Amore e nello stesso tempo appello a rispondere all’amore con l’adesione di tutto se stesso. È come venire rapiti dall’amore di Dio, in quell’incanto che fa esclamare, con la sposa del Cantico dei Cantici: « Come sei bello, mio diletto » (Ct 1,16). In lui si scopre la pienezza della luce, della vita, della bellezza, l’appagamento di ogni anelito più profondo. È un ritrovarsi pienamente in lui. È l’illuminazione, il primo amore, l’inizio della fede cristiana.
Parlando di questo amore s. Bernardo scriveva che « l’amore basta a se stesso; si compiace di se stesso e per se stesso. L’amore in se stesso è un merito, ed è la ricompensa a se stesso. Al di là di sé, non cerca nessuna causa e nessun effetto: il suo effetto è tutt’uno con la sua pratica. Amo, perché amo; amo perché posso amare… Quando Dio ama, non vuole altro che essere amato; perché egli ama con il solo scopo di poter essere amato,sapendo che coloro che lo amano sono benedetti da quello stesso amore » (Commento al Cantico dei Cantici, 83,4).
La vocazione è prima di tutto questa gratuità dell’amore: scoprire di essere amati e sentirsi chiamati a rispondere all’amore con l’amore.

(da « Se vuoi »)

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LE DONNE ANZIANE NELLA BIBBIA

http://www.usminazionale.it/9-2002/sebastiani.htm

LE DONNE ANZIANE NELLA BIBBIA

DI LILIA SEBASTIANI

Riflettere su questo argomento presenta qualche difficoltà di metodo. E’ difficile soprattutto identificare i materiali utili: cioè decidere in modo attendibile quando la Scrittura parli di donne anziane, ovvero quando il fatto di essere anziana abbia qualche peso nella fisionomia e nel ruolo della persona di cui si parla. Si rende perciò necessario disporre di un criterio, sia pure approssimativo ed elastico.
Il primo caso che consideriamo è quello delle donne che la Bibbia ricorda esplicitamente come avanzate negli anni; ed è piuttosto raro. Il secondo caso, più frequente, è quello in cui, benché dell’età nulla venga detto, le circostanze sembrano suggerire l’idea che si tratti di una donna non giovane. (Magari semplicemente perché non se ne parla in senso più o meno direttamente inteso alla riproduzione; o perché i figli sono adulti).
C’è però una discontinuità di fondo tra il mondo della Bibbia e il nostro, ed è necessario esserne consapevoli. Per noi ‘anziano’ è spesso sinonimo ed eufemismo per ‘vecchio’. L’idea di vecchiaia varia secondo le epoche e gli ambienti: nella Bibbia – come in molte civiltà antiche e, in certe culture, ancora oggi -, una donna che sia suocera e nonna, perciò ascrivibile alla classe degli anziani in senso sociale e culturale se non biologico, potrebbe anche essere sui trent’anni.
La vecchiaia – diciamo anzi “la maturità”, e non per volontà eufemistica, ma perché arrivare alla vecchiaia come noi la intendiamo non era poi facilissimo – è l’età in cui, con figli adulti e nipoti, la donna si trova di solito affrancata dal suo ruolo riproduttivo e in cui può esercitare finalmente una qualche autorità, seppure circoscritta. Ben diverso, certo, il caso in cui le sia toccata in sorte la sterilità, intesa come maledizione e vergogna e sempre indiscutibilmente colpa sua, anche qualora la biologia fosse di parere diverso: se il ruolo attivo nella generazione dei figli è riconosciuto solo all’uomo e a lui appartengono i figli, la sterilità o, poco meno grave, la sventura di partorire solo femmine, è a carico della donna.
La vedovanza, considerazioni affettive a parte, poteva rendere migliore o peggiore la condizione femminile. Una vedova ricca di una certa età è talvolta quanto di più simile a una donna indipendente si possa trovare nell’antichità: emancipata dalla soggezione diretta a un uomo e dal controllo della propria famiglia (infatti se troppo giovane, senza figli ecc., era spesso costretta dai parenti a riprendere marito), in certi casi può amministrare i beni del marito in nome dei figli, o anche possedere dei beni a titolo personale. Invece la vedova povera resta completamente affidata al buon cuore dei figli adulti se ci sono, o si trova ridotta alla miseria e alla mendicità con i figli piccoli.

PRIMO TESTAMENTO
Le mogli dei patriarchi sono le prime figure femminili su cui la Bibbia si soffermi con qualche attenzione alla fisionomia individuale. Per l’argomento di cui ci occupiamo, è Rebecca a suscitare maggiore interesse.
Non Sara – benché della sua età avanzata si faccia esplicita menzione -: anche se la maternità tardiva per dono divino è importante nella storia della salvezza, aspirazioni, caratteristiche e ruolo di Sara sono interamente circoscritti dalla tradizionale funzione materna. Rebecca ha un ruolo molto più attivo.

La saggia Rebecca
Presentata dapprima come bella e saggia fanciulla nel momento in cui il servo di Abramo va a prenderla nel paese di suo padre, poi come madre (con le solite difficoltà iniziali) dell’aspettata discendenza, acquista un ruolo singolarmente incisivo in età matura, quando i suoi figli Esaù e Giacobbe sono cresciuti.
Le viene attribuita dall’autore sacro una preoccupazione ricorrente nel Primo Testamento: il dolore e lo sdegno perché Esaù ha sposato due donne hittite1. Il movente non è etnico-razziale, ma religioso (antiidolatrico). L’autore sacro evidentemente collega con questo fatto la sua preferenza per il secondogenito Giacobbe. Rebecca lo consiglia e lo aiuta a carpire la benedizione paterna, che spetterebbe a Esaù. Il suo ruolo nella vicenda è fondamentale anche rispetto allo sposo Isacco, qui presentato non solo come anziano e cieco ma, quantunque venerabile, lievemente rimbambito.
… Ora Rebecca ascoltava, mentre Isacco parlava al figlio Esaù. (…) Rebecca disse al figlio Giacobbe: «Ecco, ho sentito tuo padre dire a tuo fratello Esaù: Portami la selvaggina e preparami un piatto, così mangerò e poi ti benedirò davanti al Signore prima della morte. Ora, figlio mio, obbedisci al mio ordine: Va’ subito al gregge e prendimi di là due bei capretti; io ne farò un piatto per tuo padre, secondo il suo gusto. Così tu lo porterai a tuo padre che ne mangerà, perché ti benedica prima della sua morte». Rispose Giacobbe a Rebecca sua madre: «Sai che mio fratello Esaù è peloso, mentre io ho la pelle liscia. Forse mio padre mi palperà e si accorgerà che mi prendo gioco di lui e attirerò sopra di me una maledizione invece di una benedizione». Ma sua madre gli disse: «Ricada su di me la tua maledizione, figlio mio! Tu obbedisci soltanto e vammi a prendere i capretti». Allora egli andò a prenderli e li portò alla madre, così la madre ne fece un piatto secondo il gusto di suo padre. Rebecca prese i vestiti migliori del suo figlio maggiore, Esaù, che erano in casa presso di lei, e li fece indossare al figlio minore, Giacobbe; con le pelli dei capretti rivestì le sue braccia e la parte liscia del collo. Poi mise in mano al suo figlio Giacobbe il piatto e il pane che aveva preparato. … (Gen 27,5-17 passim).
In una cultura per cui l’autorità del padre sulla moglie e sui figli costituisce un assioma, è certo singolare il fatto che l’agire di Rebecca sia riferito senza alcuna sfumatura di disapprovazione. Rebecca è entrata nella tradizione cristiana come modello di saggezza. Nell’antichità i confini tra saggezza e astuzia non sono molto netti.
Ancora decisivo sarà poi il ruolo di lei nel salvare Giacobbe dalla vendetta di Esaù, inviandolo a casa del proprio fratello Labano in Paddan-Aram e assicurando per lui la scelta di una sposa che non sia hittita; anche in questo caso Isacco non farà altro che ratificare con la propria autorità e la propria benedizione quanto Rebecca ha già organizzato (Gen 27,41-28,4).

Miriam, atto terzo
Miriam sorella di Mosè ha da giovane il suo ruolo fondamentale nella storia della salvezza: è lei a salvare il fratellino dalla morte che gli sarebbe decretata dal Faraone d’Egitto, lei ad assicurare, dopo che il bambino è stato raccolto dalla figlia del Faraone, che venga allattato dalla donna stessa che lo ha partorito.
Compare di nuovo al centro della scena molti anni dopo: nel momento in cui il popolo d’Israele esce dall’Egitto grazie all’aiuto del Signore, Miriam, guidando i cori delle donne, interpreta in chiave teologica ed epica quanto è avvenuto: il suo cantico (“Cantate al Signore perché ha mirabilmente trionfato”) ha una forza e uno sviluppo superiori a quelli del cantico di Mosè.
Più difficile e strano, meno noto, interessante anche se presentato dall’autore sacro in una luce implicitamente negativa, il terzo momento: nel corso della traversata dell’Esodo, secondo una tradizione biblica, Miriam e Aronne, sdegnati contro Mosè a causa del suo matrimonio con una straniera etiope (in fondo la stessa ragione per cui Rebecca aveva tolto il suo appoggio a Esaù), insidiano l’esclusività della sua leadership: “Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?” (Nm 12,2). Il Signore li punisce perché hanno parlato contro il suo servo e amico; di fatto la punizione colpisce solo Miriam, che istantaneamente si ammala di lebbra e sarà poi risanata dall’intercessione di Mosè.
Troppi elementi mancano per una lettura corretta dell’episodio, ma è chiaro che qui è in gioco un problema di autorità, che l’autorità di Miriam (o l’importanza della profezia femminile) è anche maggiore di quanto comunemente si creda e che Miriam, nonostante questo o forse proprio per questo, viene penalizzata nella lettura patriarcale della memoria d’Israele. Interessante un passaggio del profeta Michea in cui a Miriam viene attribuito lo stesso ruolo di guida dei suoi fratelli nell’Esodo:

Popolo mio, che cosa ti ho fatto?
In che cosa ti ho stancato? Rispondimi.
Forse perché ti ho fatto uscire dall’Egitto,
ti ho riscattato dalla casa di schiavitù
e ho mandato davanti a te
Mosè, Aronne e Miriam? (Mi 3,3-4)

Debora, profeta e giudice
Nel libro dei Giudici c’è un’interessante figura femminile, assai poco nota ai non specialisti: Debora, che riunisce in sé le caratteristiche di giudice e di profeta.
Il suo collaboratore Barak si trova rispetto a lei in posizione nettamente subordinata: è, per così dire, il suo braccio armato; ma il personaggio autorevole e carismatico è Debora. Tanto è vero che, dovendo affrontare i nemici, Barak esce in queste stupefacenti parole rivolte alla donna: “Se vieni anche tu con me, andrò; ma se non vieni, non andrò”.
In quel tempo era giudice d’Israele una profetessa, Debora, moglie di Lappidot. Essa sedeva sotto la palma di Debora, tra Rama e Betel, sulle montagne di Efraim, e gli Israeliti venivano a lei per le vertenze giudiziarie. Essa mandò a chiamare Barak, figlio di Abinoam, da Kades di Nèftali, e gli disse: «Il Signore, Dio d’Israele, ti dà quest’ordine: Va’, marcia sul monte Tabor e prendi con te diecimila figli di Nèftali e figli di Zàbulon. Io attirerò verso di te al torrente Kison Sisara, capo dell’esercito di Iabin, con i suoi carri e la sua numerosa gente, e lo metterò nelle tue mani». Barak le rispose: «Se vieni anche tu con me, andrò; ma se non vieni, non andrò». Rispose: «Bene, verrò con te; però non sarà tua la gloria sulla via per cui cammini; ma il Signore metterà Sisara nelle mani di una donna». (Gdc 4,4-9a)
All’inizio dell’episodio, si trova la presentazione dell’eroina in termini apparentemente convenzionali: “Debora, moglie di Lappidot”. La donna è sempre x di y, sempre definita in relazione a qualcun altro – anche quando, come in questo caso, la donna sia importante e gloriosa e il marito un perfetto sconosciuto. Ma è proprio il marito? L’espressione ebraica eshet lappidoth viene abitualmente tradotta “donna (= moglie) di Lappidot”, benché questo strano nome proprio non appaia altrove. E’ stato osservato che potrebbe tradursi “donna coraggiosa” o “donna animosa”… E qui viene in primo piano la natura profondamente ideologica delle traduzioni. Sentiamo ancora come suona convenzionale e casalingo (non del tutto, visto che si parla comunque di una donna che è giudice e profeta) l’inizio in questi termini: “A quel tempo era giudice in Israele una profetessa, Debora, moglie di Lappidot”. Confrontiamolo con quest’altro inizio: “A quel tempo era giudice in Israele la profetessa Debora, una donna valorosa”. Non sembra differenza da poco.
Dopo la vittoria su Sìsara (in cui assume un certo rilievo l’agire di un’altra donna, Giaele), il senso provvidenziale e salvifico di quanto è avvenuto viene interpretato dal cantico di Debora, in cui predominano le espressioni di riconoscenza al Signore, ma non mancano tratti di orgogliosa consapevolezza di sé:

… Era cessata ogni autorità di governo,
era cessata in Israele,
fin quando sorsi io, Debora,
fin quando sorsi come madre in Israele. (Gdc 5,7)

Giudice e profeta, Debora non è ricordata come madre, non si sa se abbia generato figli (neppure, abbiamo visto, se avesse un marito), ma è “come madre in Israele”: la sua funzione materna, protettrice e ispiratrice, si estende a tutto intero il suo popolo.

Noemi
La giovane straniera Rut, così mite, affettuosa e coraggiosa, può considerarsi senz’altro la protagonista del libro omonimo, con il suo attaccamento alla suocera Noemi e la sua scelta affettiva di far parte del popolo d’Israele, lei che è moabita; ma l’ispiratrice degli eventi è Noemi, la suocera. Forse vi entra il fatto che ebrea è Noemi, non Rut. E’ Noemi a volere una sistemazione per Rut, Noemi a decidere quale sposo è giusto in ogni senso per lei, Noemi infine a dare a Rut le ‘istruzioni seduttive’ nei confronti di Booz.
Il comportamento di Rut potrebbe considerarsi alquanto spregiudicato anche per i criteri attuali; ma nella Scrittura il suo agire non riceve neppure un’ombra di biasimo.
Noemi, sua suocera, le disse: «Figlia mia, non devo io cercarti una sistemazione, così che tu sia felice? Ora, Booz, con le cui giovani tu sei stata, non è nostro parente? Ecco, questa sera deve ventilare l’orzo sull’aia. Su dunque, profumati, avvolgiti nel tuo manto e scendi all’aia; ma non ti far riconoscere da lui, prima che egli abbia finito di mangiare e di bere. Quando andrà a dormire, osserva il luogo dove egli dorme; poi va’, alzagli la coperta dalla parte dei piedi e mettiti lì a giacere; ti dirà lui ciò che dovrai fare». Rut le rispose: «Farò quanto dici». Scese all’aia e fece quanto la suocera le aveva ordinato. (Rt 3,1-6)
Tutto andrà come stabilito, e Rut sarà la bisnonna del re David (quindi, per noi, antenata di Gesù stesso). In questa storia al femminile, nel rapporto delle due donne colpisce l’affetto profondo e disinteressato, la solidarietà, l’assenza totale dei soliti schemi familiari e di potere.

Giuditta ‘post clamores’
Giuditta è una delle figure femminili più gloriose e positive presenti nella tradizione ebraica. Tutti la conoscono, per così dire, in azione: quando cioè, giovane vedova bellissima, ricchissima, virtuosissima…, insomma donna fatta di superlativi, si introduce nell’accampamento del comandante nemico, lo seduce e lo uccide, ottenendo per questa via la salvezza di Betulia. A noi però ora non interessa tanto questa Giuditta nel fiore degli anni. Anche perché, pur se non ignoriamo il significato teologico di fondo a cui l’autore sacro vuole rinviare (il Signore si serve di ciò che è debole, come appunto una donna, per abbattere la superbia dei forti), restiamo sempre soggetti ad anacronistiche reazioni personali: così non possiamo del tutto ignorare la sensazione di fondo che sia poco simpatico e nemmeno tanto eroico fare uso della menzogna e di quelle che sono – secondo gli uomini – le più tradizionali arti femminili, per uccidere a tradimento un uomo inerme e ubriaco, per di più dopo avergli fatto balenare la prospettiva di tutt’altro.
Nel libro di Giuditta è importante anche la conclusione, in cui l’eroina viene presentata di scorcio negli anni successivi, fino ad età avanzatissima (nella Bibbia la longevità è la ricompensa dei giusti), volontariamente sola, senza figli né nipoti eppure amata e rispettata da tutti come una gloria nazionale, come un’istituzione, come vivente difesa del suo popolo.
Dopo quei giorni, …Giuditta tornò a Betulia e dimorò nella sua proprietà e divenne famosa in tutta la terra durante la sua vita. Molti ne erano anche invaghiti, ma nessun uomo potè avvicinarla per tutti i giorni della sua vita (…). Essa andò molto avanti negli anni protraendo la vecchiaia nella casa del marito fino a centocinque anni: alla sua ancella preferita aveva concesso la libertà. Morì in Betulia e la seppellirono nella grotta sepolcrale del marito Manàsse e la casa d’Israele la pianse sette giorni. (…) Né vi fu più nessuno che incutesse timore agli Israeliti finché visse Giuditta, e per un lungo periodo dopo la sua morte. (Gdt 16,21-25 passim).

SECONDO TESTAMENTO
Elisabetta e Anna
All’inizio e alla fine del vangelo dell’infanzia secondo Luca si incontrano due coppie di vecchi santi: il sacerdote Zaccaria e sua moglie Elisabetta, la profetessa Anna e il vecchio Simeone. Nelle intenzioni dell’evangelista esprimono le attese e la fede d’Israele all’inizio dei tempi nuovi.
Sterile da sempre, Elisabetta diventerà madre nella sua vecchiaia per l’intervento di Dio. Il suo sposo Zaccaria è destinatario del relativo annuncio recato dall’angelo, e inoltre è un sacerdote, quindi ‘mediatore del sacro’ per eccellenza; ma Elisabetta viene presentata come superiore a lui nella fede. Se Zaccaria ha accolto l’annuncio non proprio con incredulità, ma con difficoltà palese, chiedendo all’angelo le sue credenziali (“Come conoscerò questo?”), di Elisabetta vengono ricordate nel vangelo solo fede, accoglienza e gratitudine e, come effetto di queste cose, la sua calma, autorevole, armoniosa lettura profetica degli eventi. Nel momento in cui si incontrano Maria ed Elisabetta – la giovane e l’anziana, entrambe in attesa di un figlio umanamente impossibile -, sarà Elisabetta a mettere in parole il senso salvifico di quanto si sta compiendo.
… Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore». (Lc 1,41-45)
Qui Elisabetta ha senz’altro un ruolo profetico: invasa dalla forza dello Spirito, legge i fatti umani alla luce delle intenzioni di Dio, e proclama il proprio entusiastico riconoscimento “a gran voce”. La sua intuizione diventa annuncio.
In rapporto con la sua fede e il suo ruolo profetico è poi il fatto che, contro l’uso abituale, sia lei a dare il nome al figlio quando nasce. Nella cultura d’Israele, dare il nome significa interpretare e prefigurare il destino del nominato.
… All’ottavo giorno vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo col nome di suo padre, Zaccaria. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta, e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. (Lc 1,59-64)
Nel capitolo successivo del terzo vangelo, dopo la nascita di Gesù, viene raccontata la sua presentazione al Tempio: in questo episodio, fondamentale come anticipazione simbolica e misterica della vicenda terrena di Gesù e di tutta la storia della salvezza, ha grande importanza la figura di una donna anziana di nome Anna.
C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. (Lc 2,36-38)
Si deve all’inserimento della figura di Anna se l’episodio della presentazione di Gesù al Tempio non si conclude in modo del tutto tragico e negativo con la seconda profezia di Simeone (le parole rivolte a Maria: “anche a te una spada trapasserà l’anima”).
Il personaggio di Anna – è stato spesso osservato, e del resto è evidente – appare in parte ricalcata sull’immagine ideale della vedova cristiana dei primi tempi della Chiesa. Ma c’è qualcosa di più: ancora una volta spicca in lei, fondamentale, la dimensione profetica. Anna è l’unica donna a cui, nel Nuovo Testamento, sia dato il titolo di profeta2. Anche nel fatto che di lei vengano specificati il nome del padre e la tribù, cosa insolita per le donne, riconosciamo l’intenzione dell’evangelista di conferirle una speciale dignità.
Ricordiamo che nel Primo Testamento il nome di due donne che vengono chiamate ‘profetesse’ è rimasto associato a due cantici (cantico di Miriam; cantico di Debora). Elisabetta e Anna non proferiscono cantici, ma sia l’una che l’altra vengono presentate nella luce di un cantico: cioè il Benedictus per Elisabetta, per Anna il Nunc dimittis. Non sembra del tutto fuori posto, anche se mancano argomenti risolutivi per sostenerlo, che in origine i cantici fossero piuttosto associati con le due figure femminili, e siano stati attribuiti a Zaccaria e a Simeone in seguito, allo scopo di acquistare maggiore autorevolezza.

Le donne intorno a Gesù
Le donne, lo sappiamo, sono molto presenti nell’evento di Gesù e nell’esperienza della prima Chiesa. Anche qui però si deve ripetere quanto detto per la Scrittura in genere: se ben riconoscibili sono i casi in cui la donna compare o viene nominata come madre effettiva o futura, scarse sono le altre determinazioni, anche perché i testi biblici sono molto parchi di tutte quelle informazioni accessorie – di contorno, di coloritura psicologica, di atmosfera – che dal nostro punto di vista sembrano, se non proprio fondamentali, tanto importanti. Come non si dice nulla dell’aspetto fisico delle persone (salvo il caso in cui siano molto malate e l’aspetto fisico lo manifesti, perché in tal caso il dato è importante come punto di partenza), così non si parla dell’età, e sono poche le informazioni biografiche in genere.
Anche sull’età di Gesù gli evangelisti sono estremamente vaghi, perciò non può stupirci il fatto di ignorare l’età della maggior parte delle persone che sono intorno a lui.

Maria sua madre
A cominciare dalla madre. Un’età approssimativa di Maria è stata congetturata tradizionalmente a partire dal fatto noto – non però assolutamente fisso – che le fanciulle ebree potevano venir promesse in sposa dopo i dodici anni e sposate dopo i tredici. Così si ritiene di solito che Maria fosse sui quarantacinque-cinquant’anni durante la vita pubblica di Gesù. A quel tempo, un’età considerevole.
Maria è molto presente nei vangeli dell’infanzia – solo in quello di Luca, veramente; il racconto di Matteo è condotto nella prospettiva di Giuseppe -, molto meno durante la vita pubblica di Gesù. Ha un rilievo forte nell’opera di salvezza solo in due luoghi giovannei: il racconto delle nozze di Cana (Gv 2,1-11) e il racconto della morte di Gesù in croce (Gv 19,25-27). Sappiamo che tre evangelisti su quattro non la ricordano presente alla morte di Gesù. Nessuno la ricorda fra le testimoni della Resurrezione. Comunque la sua non è importanza ‘materna’ nel senso tradizionalmente inteso. Anzi, Gesù nel corso di tutta la sua vita pubblica parla poco a sua madre e pochissimo di sua madre; in diverse occasioni le sue parole e il suo atteggiamento sembrano rivolti a relativizzare l’importanza dei legami familiari, quale era intesa nel suo tempo e nel suo ambiente, sottolineando che nella logica del Regno l’unico legame forte e vincolante è piuttosto quello che si stabilisce sulla base della scelta discepolare.
L’episodio giovanneo delle nozze di Cana è il più importante per riflettere sulla fisionomia ‘matura’ di Maria, non certo in senso biografico (il vangelo non autorizza né supporta simili speculazioni), ma storico-salvifico. E’ un episodio noto ed enigmatico, in cui proprio la fisionomia ovvia di Maria, cioè quella materna, sembra in qualche modo respinta da Gesù, o meglio ‘ridisegnata’ in funzione di un’altra fisionomia. E’ valorizzato il ruolo di Maria in quanto discepola: le sue parole ai servi: “fate quello che vi dirà”, che sembrano modeste e circoscritte, vibrano di una totalità misteriosa e alludono all’atteggiamento discepolare nel suo insieme.
Sul piano umano, storico – comunque difficilmente raggiungibile a partire dai racconti evangelici, soprattutto quando la trasposizione teologico-spirituale sia tanto forte – l’agire di Maria è abbastanza atipico. Una comune donna ebrea di quel tempo, dinanzi a una risposta recisa anzi brusca quale “che ho da fare con te, o donna?” data dal proprio figlio maschio adulto (che si deve supporre capo della famiglia, se il padre è morto), non avrebbe osato replicare. Invece Maria agisce con tranquilla autorità proprio come se Gesù avesse acconsentito; anche questo testimonia da parte sua una singolare penetrazione profetica.
Maria appare qui come una donna attenta alle urgenze: alle urgenze del quotidiano come a quelle della salvezza. Solo nella mentalità patriarcale incline alle divisioni i due piani sono nettamente contrapposti. Addirittura la sua comprensione profetica qui giova a far cambiare idea a Gesù, che sembra avere della propria missione un’idea ancora un po’ astratta e teorica. La tranquilla autorevolezza di Maria sembra trasformare il quasi-rifiuto di Gesù in un consenso che va oltre la richiesta e oltre il bisogno cosciente.

La suocera di Pietro
Una donna ‘anziana’ sempre secondo i criteri detti prima, che compare solo per un momento nel primo vangelo, è la suocera di Pietro. E’ a letto con la febbre (che però non è una malattia, bensì un sintomo), e parecchio è stato scritto nei nostri tempi sul possibile significato spirituale e simbolico di questa infermità inespressa, che sembra piuttosto uno stato di disagio esistenziale connesso con una difficile fase di passaggio. Quali saranno state le reazioni della famiglia di Pietro in seguito alla sua scelta di sequela, che ovviamente metteva in discussione tutti gli equilibri precedenti? Il vangelo dice solo che Gesù risana istantaneamente la donna per mezzo del contatto: “Le toccò la mano e la febbre scomparve; poi essa si alzò e si mise a servirlo” (Mt 8,15). Il verbo ‘servire’ è importante nei vangeli (seguire e servire insieme caratterizzano l’agire del discepolo) e sembra sottintendere tutta una maturazione liberante avvenuta in questa donna in seguito all’incontro con Gesù. Non è più solo suocera, nel senso di madre postuma e intensificata; la famiglia non è più al centro dei suoi pensieri.

La madre dei figli di Zebedeo
Considerazioni non inutili ci vengono ispirate da una delle donne del gruppo discepolare, l’unica a cui possiamo attribuire (sempre molto approssimativamente) un’età matura, in quanto i suoi figli sono adulti e discepoli di Gesù: la madre dei figli di Zebedeo.
Sulle prime, ciò che soprattutto colpisce in lei è proprio questa denominazione in obliquo, per noi così strana: va bene che nella Bibbia una donna è molto più spesso la madre o la moglie o la figlia o la sorella di qualcuno, che non una persona a tutto tondo, con un nome proprio e un significato autonomo; ma perché non dire almeno “la moglie di Zebedeo”? Oppure “la madre di Giovanni e Giacomo”? La denominazione indiretta e obliqua all’orecchio moderno suona artificiosa, come se i figli di suo marito non fossero anche suoi, come se fossero passati attraverso lei solo incidentalmente.
Si trova solo nel vangelo secondo Matteo ed è ricordata solo come madre. E’ passata nella tradizione come personaggio familiare e simpatico, ma di secondo piano. Eppure questa donna non è un tipo comune. Altre madri avrebbero avversato la scelta dei figli di mettersi alla sequela di un rabbi itinerante e irregolare, lasciando un’esistenza sicura e ben avviata. Lei invece sembra compiere una scelta simile alla loro, anche se possiamo domandarci: segue Gesù o segue i suoi figli, all’inizio? (Ci piacerebbe anche sapere che cosa pensasse Zebedeo di tutta la faccenda; ma è noto che con certe nostre curiosità i Vangeli non sono compiacenti).
La scena narrata da Matteo ha qualcosa di strano e ‘predisposto’:
… Allora gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedeo con i suoi figli, e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse: «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Di’ che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno». Rispose Gesù: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?». Gli dicono: «Lo possiamo». Ed egli soggiunse: «Il mio calice lo berrete; però non sta a me concedere che vi sediate alla mia destra o alla mia sinistra, ma è per coloro per i quali è stato preparato dal Padre mio». (Mt 20,20-23)
Insomma, questa donna chiede una collocazione privilegiata e un ruolo onorifico per i suoi figli nel Regno, da lei evidentemente concepito con caratteri molto terreni: secondo il cerimoniale e l’iconografia dell’antico Oriente, alla destra e alla sinistra del re in trono sedevano i più alti dignitari. E’ fin troppo facile rilevare che sul Regno ha perlomeno le idee alquanto confuse.
E, come sempre, la laconicità del racconto evangelico fa germogliare una piccola selva di interpretazioni di scarsa utilità. L’iniziativa è davvero della donna?3 Forse è già d’accordo con i figli? Forse Giovanni e Giacomo (da Gesù soprannominati con un certo umorismo i “figli del tuono” a causa del loro temperamento esplosivo), erano in qualche modo gelosi di Pietro, del suo ruolo di capo e portavoce? Non possiamo dirlo, ma è chiaro – e affiora anche nei vangeli – che nel gruppo discepolare qualche attrito e qualche conflitto di potere dovette delinearsi fin dai giorni della vita terrena di Gesù. Essere discepoli non significa automaticamente essere santi, né d’altra parte essere santi coincide con l’impeccabilità.
La tradizione ha visto sovente nella madre dei figli di Zebedeo il modello della “madre del prete”. Irreprensibile e pia, ma focalizzata con devoto egoismo sul proprio figlio – prolungamento di se stessa -, e inoltre con un debole per il potere, come modello suscita perplessità. Nella Riforma è stata considerata modello della virtuosa e austera madre protestante. Dal che si evince che le confessioni religiose cambiano e gli stereotipi restano.
Questa madre patriarcalmente esemplare vive solo nei suoi figli, davvero si potrebbe dire che “dimentica se stessa” nel chiedere, eppure la sua richiesta manca del tutto il bersaglio e, proprio nella logica del Regno, risulta di una stoltezza sconcertante. Gesù non le dà una risposta diretta: si rivolge solo ai figli. Le non-risposte di Gesù sono sempre eloquenti, ma spesso non chiare. Se in questo caso si tratti di un silenzioso rimprovero, oppure di un modo d’ignorare generosamente la meschinità della richiesta, è difficile dirlo. Certo è che Gesù sembra dire alla madre dei figli di Zebedeo, e non a lei soltanto, che “non sa quello che chiede”; che non la vuole così, brava madre dimentica di sé, ma vuole lei come persona autentica e intera.
Comunque siano andate le cose in questa circostanza, non dobbiamo dimenticare che la madre dei figli di Zebedeo più tardi giunge ad affrancarsi dalle strettoie della sua mentalità e della sua cultura. Sempre secondo il racconto di Matteo, infatti, si trova presente alla crocifissione di Gesù,4 insieme a Maria di Magdala e a un’altra discepola. Tutti i discepoli maschi hanno dato pessima prova di sé: uno ha consegnato Gesù, uno lo ha rinnegato, tutti l’hanno abbandonato e sono fuggiti. Solo alcune donne sono lì, a condividere e testimoniare: “da lontano”5, ma vicine nello spirito. E fra loro c’è la madre dei figli di Zebedeo, senza i suoi figli questa volta. Alla destra e alla sinistra di Gesù, in quel momento supremo, si trovano due ladri, due disgraziati condannati alla stessa pena. E certo lei ha compreso finalmente che cosa significa, nell’ottica del Regno, la collocazione privilegiata.

Per concludere
Alle figure qui rapidamente considerate potremmo aggiungere ancora (benché, secondo il solito, della loro età nulla si dica) alcune delle donne nominate nel libro degli Atti e nelle lettere di Paolo come apostole, come animatrici di chiese domestiche: e ogni comunità ecclesiale è ‘domestica’, nella primissima Chiesa!
Questo argomento è uno di quelli che rendono superflua la conclusione aggiunta. Solo una semplice osservazione che emerge dal Primo e dal Secondo Testamento: nella Bibbia sembra assente o quasi, e comunque ben poco importante, anche nell’immaginario, la figura della brava vecchietta occupata solo da incombenze domestiche/affettive e prodiga di consigli. Se c’è un aspetto che accomuna le donne pensabili come anziane, è semmai il fatto che la dimensione familiare, senza essere azzerata, è molto meno centrale di quanto lo sia per altre donne o per altre fasce di età: queste donne acquistano maggiore libertà di movimento, maggiore iniziativa e una fisionomia individuale più precisata.

In Gen 26, 34-35, questo sentimento è attribuito a lei e a suo marito Isacco insieme; in Gen 27,46 è ripetuto in modo più vibrato in riferimento a Rebecca sola.
2. Più generica la menzione delle quattro figlie di Filippo, “nubili, che avevano il dono della profezia”. In At 21,9.
3. Il passo parallelo, Mc 10,35-45, racconta l’episodio in esclusivo riferimento a Giovanni e Giacomo e ignora la madre; un episodio corrispondente, ma in termini più generali, viene narrato da Luca nel contesto dell’ultima cena. E’ ben possibile che l’iniziativa fosse stata dei figli, in origine, e che poi qualcuno avesse trasmesso così il fatto, nella primissima Chiesa, per evitare una brutta figura a quelli che erano ormai i capi venerati della comunità. (E’ vero che in compenso si faceva fare una brutta figura a una donna; ma le donne non contano…).
4. Mt 27, 55-56: “C’erano anche là molte donne che stavano a osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo. Tra costoro Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedèo”.
5. Solo il quarto evangelista colloca i dolenti “presso la croce”, però con intento teologico: realisticamente è certo più probabile che a parenti e amici dei condannati non venisse concesso di avvicinarsi troppo.

Publié dans:BIBBIA: TEMI VARI, DONNE (le) |on 9 mars, 2015 |Pas de commentaires »

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