I / NON AVRAI ALTRO DIO FUORI DI ME II / NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO – GIANFRANCO RAVASI

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I / NON AVRAI ALTRO DIO FUORI DI ME II / NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO

(non trovo il seguito, ma trattandosi di uno studio di Ravasi, anche se tratta solo dei due primi comandamenti, lo posto ugualmente)

Quel creatore « geloso » che libera la sua creatura

Dalla legge divina alla fedeltà umana.

Autore: Gianfranco Ravasi

Tratto da: Famiglia Cristiana del 29/02/2004

«Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio» (Esodo 31,18). È suggestiva questa immagine del dito divino che incide sulla pietra, quasi fosse un’epigrafe perenne, la sua parola. Essa s’incarna per eccellenza nelle « dieci parole » o precetti – tale è appunto il significato del termine di origine greca « Decalogo » usato per indicarle – che la Bibbia offre in due redazioni segnate da lievi variazioni: una è nel capitolo 20 del libro dell’Esodo, mentre l’altra è nel capitolo 5 del Deuteronomio, il quinto libro dell’Antico Testamento.
Ora noi cercheremo di illustrare i primi due comandamenti, omogenei tra loro perché hanno al centro la figura di Dio. Inizieremo col primo, che è quasi l’architrave di tutta l’architettura spirituale del Decalogo. Esso si apre con una dichiarazione in cui il Signore si presenta come persona che proclama un « io », ossia un’identità, e che agisce intervenendo nella storia: «Io sono il Signore tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù». Il Dio che entra in scena, parla e si rivela: è, perciò, un liberatore ed è a questo primo suo atto, che precede ogni nostra azione, che dobbiamo dare una risposta di adesione.
Ecco, allora, l’impegno del primo comandamento, che nel testo biblico ha una formulazione ben più vasta del sintetico: «Non avrai altro dio fuori di me» usato dalla tradizione. Tre, infatti, sono le descrizioni del nostro impegno di fedeltà al Signore. Innanzi tutto dobbiamo riconoscere la sua unicità assoluta contro ogni tentazione politeistica. È quello che si definisce come un « monoteismo affettivo »: non è tanto il riconoscere in sede teorica che non ci sono altri dèi, bensì «avere un Dio a cui il cuore si abbandona totalmente», come aveva giustamente commentato Lutero.
C’è, poi, un’altra definizione del comandamento: «Non ti farai idolo né immagine alcuna…». Il pensiero corre alla scena del vitello d’oro, che subito dopo è narrata dall’Esodo (cap. 32). In realtà essa rappresentava la tentazione di un popolo nomadico-agricolo di raffigurare la divinità, sorgente della vita, nell’immagine di un toro fecondo. L’appello del Decalogo è chiaro e tagliente: Dio non è riducibile a un oggetto o a un segno magico, la sua è una realtà infinita ed eterna che travalica spazio e tempo e, se proprio si vuole pensare a una sua immagine, c’è una sua creatura particolarmente amata: «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò» (Genesi 1,27).
Ecco, infine, un’ultima formulazione del primo comandamento: «Non ti prostrerai davanti agli idoli e non li servirai». L’atto di culto dev’essere riferito solo al Signore, come replicherà Cristo a Satana che, mostrandogli il fascino del potere e del possesso, gli aveva suggerito di « prostrarsi e adorarlo »: «Vattene, Satana! Sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto!» (Matteo 4,9-10). E a questo punto il comandamento ricorda che il Signore è «un Dio geloso», un simbolo vivace per evocare la passione divina nei confronti della sua creatura, libera nel respingerlo ma anche nella scelta di essere legata a lui da un nodo d’amore.
Possiamo, così, concludere la riflessione sul primo comandamento, il più ampio, invitando a leggerlo nella sua stesura completa in Esodo 20,1-6: esso è un forte appello alla purezza della fede nei confronti di un Dio vivo e personale, esigente ma anche amoroso, tant’è vero che, se ricorda il peccato punendolo «fino alla quarta generazione», perdona chi è pentito e svela il suo amore «fino alla millesima generazione», come è scritto nella stessa pagina biblica del primo precetto.
Il secondo comandamento, molto più lapidario, aggiunge un’altra pennellata a questo ritratto divino: «Non nominare il nome di Dio invano» è per noi spontaneamente la condanna della bestemmia. E questo ha un suo fondo di verità perché essa incarna un’aggressione carica di odio e di disprezzo nei confronti della realtà di Dio: il « nome » nel linguaggio biblico è appunto la persona. Spesso, soprattutto nel mondo occidentale, la bestemmia è ridotta a un intercalare volgare e miserabile e perde la sua violenza, rimanendo pur sempre un’offesa impotente alla divinità.
Tuttavia, nel mondo semitico ove la bestemmia in questo senso è ignota, il significato primario del comandamento è un altro ed è legato al termine « invano ». In ebraico la parola usata (shaw’) indica qualcosa di « falso, vuoto, vano, inutile » ed era il vocabolo con cui si indicava spregiativamente l’idolo. Scopriamo, allora, un altro senso da attribuire al secondo precetto, un senso che lo collega al primo. La vera bestemmia è scambiare il nome-persona di Dio col nome « vano » delle cose cui ci aggrappiamo e che consideriamo come un tesoro al quale tutto sacrificare. È l’auto-adorazione dell’uomo o la sostituzione di una cosa (denaro, potere, piacere, successo) al Dio vivente.
Risuona, allora, la voce del Salmista che idealmente commenta il nostro comandamento: «Non vogliate affidarvi alla forza, le rapine non portano frutto; pur se abbonda la ricchezza, mai ponete in essa il vostro cuore… Solo in Dio il mio cuore riposa, da lui viene la mia speranza. È mia rupe e mia salvezza lui solo, la mia roccia: io più non vacillo» (Salmo 62,2-3.11).

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