Archive pour le 6 mars, 2015

Finestra con le Sante Perpetua e Felicita

Finestra con le Sante Perpetua e Felicita    dans immagini sacre

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SANTE PERPETUA E FELICITA MARTIRI – 7 MARZO – † CARTAGINE, 7 MARZO 203

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SANTE PERPETUA E FELICITA MARTIRI

7 MARZO - † CARTAGINE, 7 MARZO 203

Chiusa in carcere aspettando la morte, una giovane tiene una sorta di diario dei suoi ultimi giorni, descrivendo la prigione affollata, il tormento della calura; annota nomi di visitatori, racconta sogni e visioni degli ultimi giorni. Siamo a Cartagine, Africa del Nord, anno 203: chi scrive è la colta gentildonna Tibia Perpetua, 22 anni, sposata e madre di un bambino. Nella folla carcerata sono accanto a lei anche la più giovane Felicita, figlia di suoi servi, e in gravidanza avanzata; e tre uomini di nome Saturnino, Revocato e Secondulo. Tutti condannati a morte perché vogliono farsi cristiani e stanno terminando il periodo di formazione; la loro «professione di fede» sarà il martirio nel nome di Cristo. Le annotazioni di Perpetua verranno poi raccolte nella «Passione di Perpetua e Felicita», opera forse di Tertulliano, testimone a Cartagine. (Avvenire)

Etimologia: Perpetua = fede immutabile, dal latino – Felicita = contenta, dal latino

Emblema: Palma
Martirologio Romano: Memoria delle sante martiri Perpetua e Felicita, arrestate a Cartagine sotto l’imperatore Settimio Severo insieme ad altre giovani catecumene. Perpetua, matrona di circa ventidue anni, era madre di un bambino ancora lattante, mentre Felicita, sua schiava, risparmiata dalle leggi in quanto incinta affinché potesse partorire, si mostrava serena davanti alle fiere, nonostante i travagli dell’imminente parto. Entrambe avanzarono dal carcere nell’anfiteatro liete in volto, come se andassero in cielo.
Chiusa in carcere aspettando la morte, tiene una sorta di diario dei suoi ultimi giorni, descrivendo la prigione affollata, il tormento della calura; annota nomi di visitatori, racconta sogni e visioni degli ultimi giorni. Siamo a Cartagine, Africa del Nord, anno 203: chi scrive è la colta gentildonna Tibia Perpetua, 22 anni, sposata e madre di un bambino. Nella folla carcerata sono accanto a lei anche la più giovane Felicita, figlia di suoi servi, e in gravidanza avanzata; e tre uomini di nome Saturnino, Revocato e Secondulo. Tutti condannati a morte perché vogliono farsi cristiani e stanno terminando il periodo di formazione; la loro “professione di fede” sarà la morte nel nome di Cristo. Le annotazioni di Perpetua verranno poi raccolte nella Passione di Perpetua e Felicita, opera forse del grande Tertulliano, testimone a Cartagine. Il racconto segnala le pressioni dei parenti (ancora pagani) su Perpetua e su Felicita, che proprio in quei giorni dà alla luce un bambino. Per aver salva la vita basta “astenersi”. Ma loro non si piegano.
Questo accade regnando l’imperatore Settimio Severo (193-211), anche lui di origine africana, che è in guerra continua contro i molti nemici di Roma, e perciò vede ogni cosa in funzione dell’Impero da difendere; e tutto vorrebbe obbediente e inquadrato come l’esercito. Con i cristiani si è mostrato tollerante nei primi anni. Ma ora, in questa visione globale della disciplina, che include pure la fede religiosa, scatena una dura lotta contro il proselitismo cristiano e anche ebraico. Cioè contro chi ora vuole abbandonare i culti tradizionali. Per questo c’è la pena di morte: e morte-spettacolo, spesso, come appunto a Cartagine. Perpetua, Felicita e tutti gli altri entrano nella Chiesa col martirio che incomincia nell’arena, dove le belve attaccano e straziano i morituri. E poi c’è la decapitazione.
Perpetua vive l’ultima ora con straordinarie prove di amore e di tranquilla dignità. Vede Felicita crollare sotto i colpi, e dolcemente la solleva, la sostiene; zanne e corna lacerano la sua veste di matrona, e lei cerca di rimetterla a posto con tranquillo rispetto di sé. Gesti che colpiscono e sconvolgono anche la folla nemica, creando momenti di commozione pietosa. Ma poi il furore di massa prevale, fino al colpo di grazia.
Nei Promessi sposi, il Manzoni ha chiamato Perpetua la donna di servizio in casa di don Abbondio; e il nome di quel personaggio letterario così fortemente inciso è passato poi a indicare una categoria: quella, appunto, delle “perpetue”, addette alla cura delle canoniche. Cesare Angelini, il grande studioso del Manzoni, ritiene che egli abbia tratto quel nome dal Canone latino della Messa, « dov’è allineato con quelli dell’altre donne del romanzo: Perpetua, Agnese, Lucia, Cecilia… ».

Autore: Domenico Agasso

Publié dans:santi martiri |on 6 mars, 2015 |Pas de commentaires »

I / NON AVRAI ALTRO DIO FUORI DI ME II / NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO – GIANFRANCO RAVASI

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I / NON AVRAI ALTRO DIO FUORI DI ME II / NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO

(non trovo il seguito, ma trattandosi di uno studio di Ravasi, anche se tratta solo dei due primi comandamenti, lo posto ugualmente)

Quel creatore « geloso » che libera la sua creatura

Dalla legge divina alla fedeltà umana.

Autore: Gianfranco Ravasi

Tratto da: Famiglia Cristiana del 29/02/2004

«Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio» (Esodo 31,18). È suggestiva questa immagine del dito divino che incide sulla pietra, quasi fosse un’epigrafe perenne, la sua parola. Essa s’incarna per eccellenza nelle « dieci parole » o precetti – tale è appunto il significato del termine di origine greca « Decalogo » usato per indicarle – che la Bibbia offre in due redazioni segnate da lievi variazioni: una è nel capitolo 20 del libro dell’Esodo, mentre l’altra è nel capitolo 5 del Deuteronomio, il quinto libro dell’Antico Testamento.
Ora noi cercheremo di illustrare i primi due comandamenti, omogenei tra loro perché hanno al centro la figura di Dio. Inizieremo col primo, che è quasi l’architrave di tutta l’architettura spirituale del Decalogo. Esso si apre con una dichiarazione in cui il Signore si presenta come persona che proclama un « io », ossia un’identità, e che agisce intervenendo nella storia: «Io sono il Signore tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù». Il Dio che entra in scena, parla e si rivela: è, perciò, un liberatore ed è a questo primo suo atto, che precede ogni nostra azione, che dobbiamo dare una risposta di adesione.
Ecco, allora, l’impegno del primo comandamento, che nel testo biblico ha una formulazione ben più vasta del sintetico: «Non avrai altro dio fuori di me» usato dalla tradizione. Tre, infatti, sono le descrizioni del nostro impegno di fedeltà al Signore. Innanzi tutto dobbiamo riconoscere la sua unicità assoluta contro ogni tentazione politeistica. È quello che si definisce come un « monoteismo affettivo »: non è tanto il riconoscere in sede teorica che non ci sono altri dèi, bensì «avere un Dio a cui il cuore si abbandona totalmente», come aveva giustamente commentato Lutero.
C’è, poi, un’altra definizione del comandamento: «Non ti farai idolo né immagine alcuna…». Il pensiero corre alla scena del vitello d’oro, che subito dopo è narrata dall’Esodo (cap. 32). In realtà essa rappresentava la tentazione di un popolo nomadico-agricolo di raffigurare la divinità, sorgente della vita, nell’immagine di un toro fecondo. L’appello del Decalogo è chiaro e tagliente: Dio non è riducibile a un oggetto o a un segno magico, la sua è una realtà infinita ed eterna che travalica spazio e tempo e, se proprio si vuole pensare a una sua immagine, c’è una sua creatura particolarmente amata: «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò» (Genesi 1,27).
Ecco, infine, un’ultima formulazione del primo comandamento: «Non ti prostrerai davanti agli idoli e non li servirai». L’atto di culto dev’essere riferito solo al Signore, come replicherà Cristo a Satana che, mostrandogli il fascino del potere e del possesso, gli aveva suggerito di « prostrarsi e adorarlo »: «Vattene, Satana! Sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto!» (Matteo 4,9-10). E a questo punto il comandamento ricorda che il Signore è «un Dio geloso», un simbolo vivace per evocare la passione divina nei confronti della sua creatura, libera nel respingerlo ma anche nella scelta di essere legata a lui da un nodo d’amore.
Possiamo, così, concludere la riflessione sul primo comandamento, il più ampio, invitando a leggerlo nella sua stesura completa in Esodo 20,1-6: esso è un forte appello alla purezza della fede nei confronti di un Dio vivo e personale, esigente ma anche amoroso, tant’è vero che, se ricorda il peccato punendolo «fino alla quarta generazione», perdona chi è pentito e svela il suo amore «fino alla millesima generazione», come è scritto nella stessa pagina biblica del primo precetto.
Il secondo comandamento, molto più lapidario, aggiunge un’altra pennellata a questo ritratto divino: «Non nominare il nome di Dio invano» è per noi spontaneamente la condanna della bestemmia. E questo ha un suo fondo di verità perché essa incarna un’aggressione carica di odio e di disprezzo nei confronti della realtà di Dio: il « nome » nel linguaggio biblico è appunto la persona. Spesso, soprattutto nel mondo occidentale, la bestemmia è ridotta a un intercalare volgare e miserabile e perde la sua violenza, rimanendo pur sempre un’offesa impotente alla divinità.
Tuttavia, nel mondo semitico ove la bestemmia in questo senso è ignota, il significato primario del comandamento è un altro ed è legato al termine « invano ». In ebraico la parola usata (shaw’) indica qualcosa di « falso, vuoto, vano, inutile » ed era il vocabolo con cui si indicava spregiativamente l’idolo. Scopriamo, allora, un altro senso da attribuire al secondo precetto, un senso che lo collega al primo. La vera bestemmia è scambiare il nome-persona di Dio col nome « vano » delle cose cui ci aggrappiamo e che consideriamo come un tesoro al quale tutto sacrificare. È l’auto-adorazione dell’uomo o la sostituzione di una cosa (denaro, potere, piacere, successo) al Dio vivente.
Risuona, allora, la voce del Salmista che idealmente commenta il nostro comandamento: «Non vogliate affidarvi alla forza, le rapine non portano frutto; pur se abbonda la ricchezza, mai ponete in essa il vostro cuore… Solo in Dio il mio cuore riposa, da lui viene la mia speranza. È mia rupe e mia salvezza lui solo, la mia roccia: io più non vacillo» (Salmo 62,2-3.11).

OMELIA III DOMENICA DI QUARESIMA B

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/02-annoB/14-15/Omelie/6-Quaresima/3a-Domenica-B-2015/10-03a-Quaresima-B-2015-UD.htm

8 MARZO 2015 | 3A DOMENICA – T. QUARESIMA B | OMELIA

3A DOMENICA – T. QUARESIMA 2015

Per cominciare
La Quaresima che stiamo vivendo ci chiama a una verifica in profondità su come viviamo l’alleanza con Dio, alleanza che è stato il momento centrale dei quarant’anni passati nel deserto dagli ebrei in fuga dall’Egitto. Ma siamo invitati anche a riflettere sulla genuinità dei nostri atti di culto. Proprio perché l’esteriorità dei gesti non si sostituisca all’atteggiamento del cuore e questi non rimangano dei puri gesti esteriori.

La Parola di Dio
Esodo 20,1-17. Il popolo d’Israele in marcia verso la terra promessa riceve la legge, che farà di un gruppo di nomadi il popolo di Dio; e di Dio, il Dio d’Israele. Il Decalogo è un codice di vita che tocca da vicino la vita personale e sociale di tutti. « Dieci parole » che rimangono sempre attuali in ogni epoca della storia.
1 Corinzi 1,22-25. Gli ebrei cercano i miracoli, la riuscita, il potere; i Greci si fidano solo della propria sapienza, della logica, della razionalità: noi cristiani teniamo fisso lo sguardo verso un Dio crocifisso, su Gesù, nostra norma di vita.
Giovanni 2,13-25. Un episodio singolare che Giovanni pone all’inizio della vita pubblica di Gesù. Un gesto clamoroso e profetico, per sottolineare che è Gesù il nuovo tempio e il cuore della nuova fede evangelica.,

Riflettere…
o La parola di Dio quest’oggi ci presenta nella prima lettura il momento in cui Mosè consegna al popolo d’Israele in viaggio verso la terra promessa la legge, che sarà poi sintetizzata nel Decalogo. Un documento d’intesa che doveva regolare i rapporti di alleanza tra Iahvè e il suo popolo.
o Con questa legge Dio chiede al popolo d’Israele di avere verso lui una fede genuina (monoteistica); di avere rispetto per lui, per il suo nome (non tanto il nostro « non bestemmiare », cosa impensabile nel mondo ebraico); e poi di santificare il giorno del riposo di Dio, per dedicarlo a lui e alla sua gloria.
o La legge regola nella seconda parte il rapporto degli uomini tra di loro: verso il padre e la madre, verso ogni uomo; evitando ogni forma di violenza, la falsa testimonianza, una vita sessuale irregolare e sfrenata, la bramosia del possesso.
o La legge diventerà l’espressione culminante dell’alleanza tra Iahvè e il suo popolo. Sarà per loro motivo di orgoglio, ne diventeranno addirittura fanatici. Finendo quasi per idolatrarla, codificandola in gesti rituali obbliganti, schiavizzanti.
o I profeti interverranno per purificare questa osservanza puramente esteriore: Gioele: « Laceratevi il cuore e non le vesti… » (2,13); Isaia: « È forse questo il digiuno che bramo, il giorno in cui l’uomo si mortifica? Piegare come un giunco il proprio capo, usare sacco e cenere per letto, forse questo vorresti chiamare digiuno e giorno gradito al Signore? Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? (58,5-7); Zaccaria: « Praticate una giustizia vera: abbiate amore e misericordia ciascuno verso il suo prossimo. Non frodate la vedova, l’orfano, il forestiero, il misero e nessuno nel cuore trami il male contro il proprio fratello » (7,9-10). Gesù molte volte, e Paolo, dovranno precisare l’ipocrisia di un certo tipo di osservanza della legge ritenuta per se stessa salvifica.
o Quanto all’episodio narrato dal vangelo, si tratta sicuramente di un fatto singolare, ci presenta un Gesù inedito. Perché Gesù è abitualmente calmo, anche nei momenti di maggior tensione. Sempre padrone di se stesso, equilibrato, non ama i gesti teatrali. Eppure questa volta si dà a un gesto clamoroso, violento, pubblico.
o Quello di Gesù è un gesto polemico verso i guardiani del tempio, che lo hanno trasformato in una specie di mercato. Gesù parla così perché è facile approfittare delle cose di Dio, per trarne vantaggi dal punto di vista economico o per il prestigio personale o sociale.
o Giovanni pone questo episodio all’inizio del suo vangelo come a dire che è questo l’obiettivo di tutta l’attività pastorale di Gesù: purificare la religiosità degli ebrei, soprattutto quella ufficiale, che con il tempo si era trasformata in varie forme di formalità e dipendenza.
o Gli altri evangelisti collocano l’episodio nell’ultima settimana della vita di Gesù. Fino a quel momento, Gesù non è mai stato « ufficialmente » a Gerusalemme. Nel loro racconto, l’episodio sarà determinante per condannarlo a morte, perché con questo gesto si presenta come un rivoluzionario sociale e rischia di creare spaccature profonde fra il popolo e l’autorità religiosa.
o Dice Gesù: « Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato! ». Parole che sono una chiara allusione a quelle del libro del profeta Zaccaria. Proprio nell’ultimo capitolo vi si legge: « Ecco, viene un giorno per il Signore… e in quel giorno non vi sarà neppure un mercante nella casa del Signore degli eserciti » (Zc 14,1.21). Gesù compie questo gesto come un oracolo profetico: egli è il Figlio che viene, nel giorno del Signore, nella casa del Padre suo.
o Se attorno al tempio era sorto un mercato in qualche misura inevitabile, anzi necessario al culto (le offerte al tempio andavano fatte unicamente con monete ebraiche, ed è chiaro che gli animali non si potevano portare con sé da lontano…), Gesù sente tutto lo stridore tra l’esigenza della preghiera e quell’urlare, quel mercanteggiare. Come vedere in quel baccano, nel suono delle monete, nel contrattare feroce le espressioni dell’alleanza? Gesù sapeva che il tempio si era trasformato in un « centro di magia, di superstizione e di oscuri interessi » (G. Ravasi).
o La pagina di Giovanni cita appunto il salmo 69, che al versetto 10 dice: « Mi divora lo zelo per la tua casa ». Un versetto che apre ad altre considerazioni importanti. Chi prega nel salmo è un giusto in difficoltà. Anche Gesù si sente chiamato a purificare il tempio a costo della sua vita. Sarà proprio questo zelo, questa pietà per il tempio che si rivolterà contro di lui. Gesù adempirà perfettamente le Scritture.
o Il tempio di Gerusalemme era la massima espressione della gloria del popolo di Israele, il centro di unità del paese, in qualche modo l’incarnazione di Iahvè. Nel vangelo di Giovanni, Gesù molte volte si troverà a Gerusalemme e svolgerà la sua attività nei dintorni del tempio, proprio per il significato simbolico che il tempio rappresentava per la religiosità dei Giudei.
o Ma Gesù con il suo gesto clamoroso intende richiamare alla sostanza del culto, e invita a vedere in lui il cuore della nuova religiosità. Tutto il complesso di riti e sacrifici, e la stessa alleanza, che aveva il suo centro nel tempio, ora la si trova nella persona di Gesù: è lui il vero tempio di Dio nel quale può avvenire l’incontro fra Dio l’uomo.
o Per questo Gesù sfida i Giudei parlando della risurrezione del suo corpo. Ma essi intendono quelle parole come un’offesa contro il tempio, e questa era considerata sacrilegio, offesa grave, punibile persino con la morte. Le oscure parole di Gesù spingono i Giudei a chiedergli prima un segno e poi una spiegazione. La costruzione del tempo di Gerusalemme era cominciata durante regno di Erode il Grande nell’anno 20-19 a.C. e si era conclusa nel 27 d.C., più o meno nel momento di questa controversia. Gesù parla del suo corpo, della sua risurrezione, ma queste dichiarazioni saranno capite a suo tempo soltanto dai suoi discepoli.
o Il brano termina con la dichiarazione che, vedendo i segni che Gesù compiva molti cominciarono a credere in lui. La stessa cosa è avvenuta dopo il miracolo delle nozze di Cana. Ma si dice anche che Gesù non si fidava di loro, perché li conosceva troppo bene. Tutto vangelo sarà caratterizzato da questo duplice atteggiamento nei confronti di Gesù: molti hanno verso di lui una fede iniziale, e nello stesso tempo ne prenderanno le distanze.

Attualizzare
* Una domanda sarebbe legittima: chi sono oggi i « mercanti del tempio »? Coloro verso cui Gesù prenderebbe la frusta? Si diceva in passato: i fabbricanti di armi, gli spacciatori di droga, camorristi e mafiosi, i violentatori di donne e bambini.
* È certo che Gesù avrebbe molto da dire a costoro. Ma sembra più corretto domandarci perché la chiesa propone a noi questo brano, a noi che facciamo già qualcosa di meglio di tanti altri che trascurano, per esempio, l’impegno di santificare la domenica andando a messa.
* Possiamo chiederci quale tipo di religiosità ci caratterizza, se siamo delle persone che si lasciano prendere il cuore, o se si danno ai riti per tradizione, senza metterci l’anima.
* Possiamo pensare alla religiosità popolare, a quella che circola nei grandi santuari. Una religiosità che rischia di trasformarsi in puro turismo religioso, o addirittura in una forma di superstizione.
* Certe forme di religiosità in cui i gesti esteriori sono sfacciatamente prevalenti, non si sa dove conducano. Alcune feste religiose paesane, in cui il trasporto di statue e di enormi carri e candelabri, il suono della banda e le chiacchiere di chi partecipa fanno pensare più a qualcosa di folcloristico, che di religioso; più esibizione di una certa forza muscolare di chi si misura orgoglioso con il peso della statua e del carro, che non a un atteggiamento di fede. Non si può non porre un grosso punto interrogativo su tutte queste forme esteriori di culto. Anche se molta gente semplice riesce probabilmente a trasformare anche queste forme di religiosità in gesti di fede e di sincera preghiera.
* Gesù afferma che non è più il tempio il luogo dell’incontro con Dio, non è più il tempio quella significativa « tenda del convegno » che permetteva il dialogo con Dio. « È finito il tempo in cui Dio sia assegnato a una residenza sacra, prigioniero delle pietre e delle mura degli uomini: Dio non abita dentro, ma fuori, libero, sulle strade del mondo » (L. Pozzoli).
* Come ha detto Gesù alla samaritana, ora Dio vuole che « i veri adoratori lo adorino in spirito e verità » (Gv 4,23). Ai sacrifici del passato, ai gesti di culto compiuti come per una tassa da pagare, c’è ora l’unico sacrificio di Cristo che si è offerto per noi sulla croce, ed è rimasto tra noi fino alla fine dei tempi nella cena eucaristica e nella comunità ecclesiale, fatta di fratelli da amare. « Voi siete il tempio di Dio », dice Paolo (1Cor 3,16).
* La pagina di vangelo si conclude amaramente con una frase un po’ oscura: Gesù non si fidava di loro, perché conosceva tutti fino in fondo. Quanto stenta ad affermarsi la fede schietta attorno a Gesù! Fino all’ultimo gli starà vicina gente dalla fede piccola e incerta.
* Quanto alla prima lettura, è inevitabile in questo tempo di Quaresima, in cui tante volte siamo esortati a rendere la nostra religiosità meno esteriore e più personale, fare una riflessione anche su come viviamo i dieci comandamenti. Perché se la nostra fede quaresimale non è supportata dalla vita vissuta, i nostri atti di culto rischiano di diventare qualcosa di chiuso in se stesso, senza alcuna efficacia e senza rendere gloria a Dio.
* Gesù che ha preso talvolta distanza dalla legge, ne ha anche confermata la validità. Il Decalogo infatti è la legge di Dio scolpita dentro di noi, ed è per tutti un punto di riferimento fondamentale. Chi trascura uno dei comandamenti deve presumere di aver infranto l’alleanza con Dio e aver peccato. Ci si può illudere, a volte la coscienza stessa può essere mal formata, ma chi uccide, chi ruba, chi calunnia… può ben pensare di amare Dio: in realtà nel fondo del suo cuore compie delle scelte contro di lui.
* È inutile quindi fare quaresima in chiesa, se poi ci comportiamo da violenti e vendicativi, se abbandoniamo i nostri genitori nella loro vecchiaia, se viviamo di menzogna e di furbizie, se ci diamo a una vita sessuale disordinata e senza freni. Se non accettiamo alcune regola per la nostra vita e ci costruiamo una personalità dove per Dio non c’è posto. Se invece tutti ci lasciamo abitare dai comandamenti, vivremmo in una società profondamente diversa, costruiremmo il regno di Dio.

Un gesto profetico?
Un parroco di Rivarolo di Toscana era un tipo originale e un po’ « carismatico ». Evangelicamente esigente, era molto radicale, ma riusciva a farsi accettare dai suoi parrocchiani, che lo trovavano gradito ed efficace. Raccoglieva frutti. Ecco che un giorno lo si vide arrivare in chiesa con l’apparecchio televisivo e mandarlo in frantumi scagliandolo a terra li, davanti a tutti. E spiegava: « Così tutti avete visto che io non ho più il televisore… ».

In origine la chiesa
« All’inizio la chiesa era la casa. I gesti significativi non sono i riti, il sacrificio di animali, ma lo spezzare il pane. Niente di più semplice, di più quotidiano e coinvolgente. « Gesù non li manda a compiere un ministero religioso, a spargere benedizioni, a costruire templi, ad alzar statue, a fare processioni… li manda a realizzare la pace » (padre Ernesto Balducci).

Fonte autorizzata : Umberto DE VANNA

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