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Abramo e i tre angeli, IV-V d.C., Catacombe di Via Latina, Grottaferrata

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TAGORE: LA POESIA COME BISOGNO DI TRASCENDENZA

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TAGORE: LA POESIA COME BISOGNO DI TRASCENDENZA

Una breve monografia del poeta Premio Nobel, fautore dell’incontro tra la cultura occidentale ed orientale

Roma, 25 Febbraio 2015 (Zenit.org) Massimo Nardi

Nell’articolo intitolato Quaresima, il tempo del coraggio, pubblicato su ZENIT nell’ambito dei contributi di riflessione dedicati a questa importante ricorrenza della liturgia cattolica, mons. Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace, cita un pensiero di Gandhi: “È bene confessare i propri errori perché ci si ritrova più forti”.
Una citazione in linea con l’appassionato impegno di Papa Francesco per promuovere il dialogo interreligioso sulla base di valori condivisi. Valori che trovano una nobile incarnazione nella figura del Mahatma Gandhi, il celebre apostolo della non-violenza che improntò la sua vita al culto dell’umiltà e al rispetto delle religioni.
Gandhi, l’uomo di Stato che, avvalendosi delle armi dello spirito e dell’intelligenza, riuscì vittorioso in mille battaglie legali, sociali e politiche, e che ancora oggi viene ricordato con il titolo di “Mahatma” (grande anima) che gli venne attribuito dal suo popolo.
Pensando a Gandhi, il pensiero corre ad un’altra personalità della storia dell’India con la quale il Mahatma intrattenne un rapporto di stima e ammirazione reciproca: Rabindranath Tagore (1861-1941), il grande poeta che nel 1913 vinse il Premio Nobel per la letteratura (primo Nobel letterario non occidentale nella storia del celebre Premio).

Amore, il mio cuore desidera giorno e notte
d’incontrarsi con te – in un incontro simile
alla morte, che tutto consuma.
Abbattimi, come fa la tempesta; prendi
tutto quello che possiedo; invadi il mio sonno
e ruba i miei sogni.
E in quella desolazione, nella nullità dello spirito,
uniamoci nella bellezza.
Ahimé, che vano desiderio! Che speranza c’è
d’essere uniti se non in te, mio Dio?

Abbiamo aperto la nostra riflessione su Tagore con un componimento che ben esprime il fondamento della sua poetica: la ricerca simbolica del viaggiatore che vive di sensazioni inquiete, alternando l’angoscia con la gioia; avvertendo il disagio dell’anima, sempre in attesa del richiamo di Dio.
Nella sua poesia si avverte un bisogno di trascendenza che si manifesta anche nel rapporto con la donna, vissuta come sogno, come ideale di bellezza:

Donna, non sei soltanto l’opera di Dio,
ma anche degli uomini, che sempre ti fanno
bella con i loro cuori.
I poeti ti tessono una tela con fili
d’immagini dorate; i pittori danno alla tua forma
sempre nuove immortalità.
Il mare dona le sue perle, le miniere il loro oro,
i giardini d’estate i loro fiori per ornarti,
per coprirti, per renderti più preziosa.
Il desiderio del cuore degli uomini, stende
la sua gloria sulla tua giovinezza.
Tu sei metà donna e metà sogno.

Tagore nacque a Calcutta da una famiglia dell’alta aristocrazia. Iniziò prestissimo a comporre versi, mosso dalla sua indole ribelle, insofferente d’ogni forma di disciplina scolastica: “La scuola – lascerà scritto – mi appariva come una prigione dell’intelligenza. Dalla finestra spiavo la bellezza del mondo, il mondo della divina libertà”.
Libertà che, nella sua poetica, è anche strumento per la conquista della consapevolezza, sebbene si tratti di un processo graduale, che può apparire, a volte, difficile e oscuro. Come sperimenta il “vagabondo pazzo”, protagonista della poesia che segue, che viaggia alla ricerca della pietra filosofale e non s’accorge d’averla trovata:

Un vagabondo pazzo andava in giro, cercando
la pietra filosofale; coi capelli arruffati,
abbronzato e coperto di polvere, il corpo
ridotto ad un’ombra, le labbra serrate
come le porte chiuse del suo cuore, gli occhi
scintillanti come la luce di una lucciola,
in cerca del compagno.
Davanti a lui rumoreggiava l’immenso oceano.
Le onde ciarliere parlavano instancabili di tesori
nascosti, burlandosi dell’ignoranza,
che non conosce il loro segreto.
Forse a lui non restava più nessuna speranza,
ma non voleva riposarsi, perché la ricerca
era diventata lo scopo della sua vita.
Proprio come l’oceano che alza le braccia al cielo,
per raggiungere l’impossibile.
Proprio come le stelle, che girano in cerchio,
cercando una meta inafferrabile.
Proprio così, sulla spiaggia solitaria, il pazzo,
dagli scuri capelli impolverati, vagava
in cerca della pietra filosofale.
Un giorno un ragazzo di un villaggio gli si accostò
e chiese: “Dimmi, dove hai trovato questa catena
d’oro, che porti intorno alla vita?”
Il pazzo trasalì – la catena che una volta
era di ferro, era diventata proprio d’oro, non sognava,
ma non sapeva quando era avvenuto il cambiamento.
Si colpì con violenza la fronte – dove, oh dove,
senza saperlo, aveva raggiunto la meta? –
Aveva fatto l’abitudine a raccogliere pietre
ed a toccare con esse la catena, ma le gettava
senza osservare se avveniva il cambiamento;
così il pazzo aveva trovato e perso la pietra filosofale.
Il sole tramontava ad occidente, il cielo
era dorato.
Il pazzo ritornò sui suoi passi per cercare
di nuovo il tesoro perduto, ma ormai privo di forze,
il corpo ricurvo, il cuore nella polvere,
come un albero sradicato.

Il ruolo che Tagore svolse nella vita culturale, artistica, religiosa e politica del Bengala fu di grande rilievo. Viaggiò a lungo in Europa, visitando anche l’Italia. Al suo ritorno in India pubblicò Il diario di un viaggiatore in Europa.
Nella sua formazione ebbe un ruolo determinante lo studio della civiltà europea. L’incontro tra la cultura occidentale ed orientale costituì un obiettivo costante della sua attività artistica, pedagogica e culturale. Dopo il conferimento del Premio Nobel, Tagore s’impegnò nella fondazione di una Università a carattere internazionale, devolvendo in essa l’intera somma del Nobel, i diritti d’autore dei suoi libri nonché alcune proprietà personali.
Tra le forme simboliche utilizzate da Tagore per suscitare l’emozione poetica, possiamo citare una ricorrente rappresentazione dell’immagine di Dio, che assume l’aspetto di un viandante, un vagabondo che sosta sotto gli alberi, senza svelare i suoi pensieri…

“Prendo quello che viene dalle tue mani generose,
altro non chiedo”.
“Sì, sì, ti conosco umile mendicante, tu
chiedi tutto quello che si ha”.
“Se vi fosse un fiore smarrito lo porterei
sul mio cuore”.
“Ma se vi fossero delle spine?”
“Le sopporterò”.
“Sì, sì, ti conosco umile mendicante, tu
chiedi tutto quello che si ha”.
“Se una volta sola tu mi guardassi
con occhi pieni d’amore, renderesti la mia vita
felice al di là della morte”.
“Ma se non fossero che sguardi crudeli?”
“Li terrei a trafiggermi il cuore”.
“Sì, sì, ti conosco umile mendicante, tu
chiedi tutto quello che si ha”.

La poesia appena letta ricorda, in qualche modo, una bella frase pronunciata nel 2010 da Papa Francesco: “A volte chiedo a chi si confessa se fa l’elemosina ai mendicanti. Quando mi risponde di sì pongo questa domanda: ‘E guardi negli occhi la persona che la riceve? Le tocchi la mano?’. A questo punto il fedele si sente confuso, perché molti si limitano a gettare i soldi e si girano dall’altra parte…”.
Per completare il nostro breve tratteggio di questa straordinaria personalità della cultura mondiale, non possiamo fare a meno di accennare al suo eclettismo creativo: Tagore fu anche un talentuoso autore di opere dell’arte figurativa, che espose negli Stati Uniti e in Europa. Alla sua morte lasciò più di duemila dipinti e disegni, molti dei quali di elevato valore artistico.
Ma c’è ancora un altro aspetto da sottolineare nella poesia di Tagore: la sostanza autentica del suo stile espressivo che trascende la parola scritta. La sua poesia, infatti, è composta per essere cantata e s’identifica fortemente con la musica, secondo una tradizione che appartiene alla storia letteraria indiana. Chi ha avuto la fortuna di ascoltare le poesie di Tagore cantate in bengalese, afferma d’aver provato un’emozione intensa. Un motivo in più per abbandonarsi al fascino poetico di questo artista d’oriente, che possiamo considerare tra i più raffinati interpreti della poesia d’ispirazione religiosa. 

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ANGELI (GIANFRANCO RAVASI) IN VOLO OLTRE LA NEW AGE

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ANGELI (GIANFRANCO RAVASI) IN VOLO OLTRE LA NEW AGE

Avvenire 18.4.2010

All’improvviso s’incrina il soffitto, le crepe s’allargano e da un varco aperto, in mezzo ai calcinacci s’affaccia un volto radioso: « Un angelo! Pensai.
Tutto il giorno vola verso di me e io, scettico come sono, non lo sapevo. Adesso mi parlerà » . In realtà l’angelo scompare senza proferire parola e Kafka, che incastona questa angelofania nei suoi « Diari » , lascia aperto il dilemma reiterato nei secoli, destinato sia a cogliere il delicato e misterioso « brusio » ( Peter L. Berger) dell’angelo sia a dissolverne la presenza in sogno, anche se con nostalgia e con un rigurgito di fede, come confessava Czeslaw Milosz: « Vi ho tolto le vesti bianche,/ le ali e perfino l’esistenza,/ tuttavia io vi credo, messaggeri » .
L’angelo, però, ha come sua culla generativa per la civiltà occidentale soprattutto le Sacre Scritture. Dalla prima pagina coi « Cherubini dalla fiamma della spada folgorante » , posti a guardia del giardino dell’Eden ( Genesi 3, 24) fino alla folla angelica che popola l’Apocalisse, l’intera Bibbia è animata dalla presenza di queste figure sovrumane ma non divine, la cui realtà era nota anche alle culture circostanti a Israele, sia pure con modalità differenti.
Il nome stesso ebraico, « mal’ak » ( 215 volte nell’Antico Testamento), e greco, « ánghelos » ( 175 volte nel Nuovo Testamento), ne denota la funzione: significa, infatti, « messaggero » . Da qui si riesce a intuire la missione e, per usare un’espressione del filosofo Massimo Cacciari, la « necessità » ( L’Angelo necessario è il titolo di una sua opera) di questa figura biblica, affermata ripetutamente dalla tradizione giudaica e cristiana, confermata dal magistero della Chiesa nei documenti conciliari ( a partire dal Credo di Nicea del IV secolo) e papali e accolta nella liturgia e nella pietà popolare.
Il compito dell’angelo è sostanzialmente quello di salvaguardare la trascendenza di Dio, ossia il suo essere misterioso e « altro » rispetto al mondo e alla storia, ma al tempo stesso di renderlo vicino a noi comunicando la sua parola e la sua azione, proprio come fa il « messaggero » . È per questo che in alcuni casi l’angelo nella Bibbia sembra quasi ritirarsi per lasciare spazio a Dio che entra in scena direttamente. Così nel racconto del roveto ardente ad apparire a Mosè tra quelle fiamme è innanzitutto « l’angelo del Signore » , ma subito dopo è « Dio che chiama dal roveto: Mosè, Mosè! » ( Esodo 3, 2- 4). La funzione dell’angelo è, quindi, quella di rendere quasi visibili e percepibili in modo mediato la volontà, l’amore e la giustizia di Dio, come si legge nel Salterio: « L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono e li salva… Il Signore darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi; sulle loro mani ti porteranno perché non inciampi nella pietra il tuo piede » ( 34, 8; 91, 11- 12). Si ha qui l’immagine tradizionale dell’ « angelo custode » , bene raffigurata nell’angelo Azaria- Raffaele del libro di Tobia.
Il compito dell’angelo è, quindi, quello del mediatore tra l’infinito di Dio e il finito dell’uomo e questa funzione la espleta anche per il Cristo. Come scriveva il teologo Hans Urs von Balthasar, « gli angeli circondano l’intera vita di Gesù, appaiono nel presepe come splendore della discesa di Dio in mezzo a noi; riappaiono nella Risurrezione e nell’Ascensione come splendore della ascesa in Dio » . La loro è ancora una volta la missione di mettersi vicini all’umanità per svelare il mistero della gloria divina presente in Cristo in un modo che non ci accechi come sarebbe con la luce divina diretta. L’angelo può, però, sconfinare paradossalmente in demonio. Il tema della caduta degli angeli, in verità, è molto caro alla tradizione giudaica e cristiana soprattutto popolare ma ha una presenza solo allusiva nella Bibbia: ad esempio, c’è la « Lettera di Giuda » che parla di « angeli che non conservarono lo loro dignità ma lasciarono la propria dimora » ( v. 6); oppure ci si può riferire alla seconda Lettera di Pietro che presenta « gli angeli che avevano peccato, precipitati negli abissi tenebrosi dell’inferno » ( 2, 4). Ciò che è netta è l’affermazione biblica della presenza oscura di Satana che cerca proprio di spezzare quel dialogo di vita e di amore tra Dio e l’umanità che l’angelo, invece, favorisce e sostiene.
Non per nulla il poeta madrileno Pedro Salinas nel suo Angelo smarrito cantava: « Le mani di chi ama/ terminano in angeli » . Ma il tracciato dei voli angelici pervade tutto il cielo del Natale e della Pasqua quasi come una mappa di luce, di salvezza, di speranza.
Una posizione privilegiata è occupata da Gabriele, ministro nel consiglio della corona di Dio: non per nulla Luca ( 1,19) gli mette in bocca una frase che nel linguaggio orientale definisce i ministri ( » Io sono Gabriele che sto al cospetto di Dio » e i ministri erano appunto « coloro che avevano accesso al cospetto del re » ). Ma con Gabriele appaiono altri angeli anonimi nel Natale di Cristo; anzi Luca ( 2,14) in quella notte, come si è visto, introduce « tutta la milizia celeste » , cioè tutto l’esercito di Dio composto da legioni angeliche, pronte a combattere il male e l’ingiustizia. Quelle legioni che Gesù al momento dell’arresto nel giardino del Getsemani dirà di non voler convocare per bloccare il suo destino sacrificale ( Matteo 26,53: « Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? » ). Ma la presenza angelica si era affacciata già prima di quell’ora terribile. Ci sono, infatti, gli angeli che si accostano a Gesù al termine delle tentazioni sataniche per servirlo ( Matteo 4,11). C’è l’angelo che veglia sul piccoli: « Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli » ( Matteo 18,10).
C’è l’angelo consolatore nella sera dell’agonia: « Gli apparve ( nel Getsemani) un angelo del cielo a confortarlo » ( Luca 22,43).
C’è l’angelo che indica il destino dell’uomo oltre la morte: « Alla risurrezione… si sarà come angeli nel cielo » ( Matteo 22,30). Ma, importanti come quelli del Natale, sono gli angeli della Pasqua. Se l’angelo del Natale era simile a un profeta che annunziava l’incarnazione, cioè l’ingresso di Dio nella storia proprio sotto le spoglie di quel bambino nato nella « città di Davide » Betlemme, l’angelo della Pasqua proclama la redenzione piena operata da Cristo e sigillata dalla sua vittoria sulla morte. « Vi fu un grande terremoto: un angelo del Signore, sceso dal cielo, si accostò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. Il suo aspetto era come la folgore e il suo vestito bianco come la neve. Per lo spavento che ebbero di lui le guardie tremarono tramortite. Ma l’angelo disse alle donne: ‘ Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso.
Non è qui. È risorto, come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto.
Presto, andate a dire ai suoi discepoli: È risuscitato dai morti, e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, io ve l’ho detto’ » ( Matteo 28,2- 7). Sulle labbra dell’angelo risuona la professione di fede pasquale della Chiesa: « È risorto! » . È ciò che ripeterà anche l’angelo pasquale di Marco raffigurato come « un giovane vestito di una veste bianca » ( 16,5- 6) o « i due uomini in vesti sfolgoranti » del racconto di Luca ( 24,4- 6).
Essi inaugurano anche la missione della Chiesa quando, nel giorno dell’ascensione di Cristo nella sua gloria celeste, sotto l’aspetto di « due uomini in bianche vesti » ( e il bianco nella Bibbia è simbolo dell’eterno), si rivolgeranno agli apostoli così: « Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?
Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo » ( Atti 1,10- 11). La Chiesa vive da quel momento accompagnata dagli angeli. C’è l’angelo degli apostoli: apre loro le porte del carcere a notte fonda ( Atti 5,19). C’è l’angelo di Pietro: di notte gli scioglie le catene, lo riveste e gli spalanca le porte della prigione ( Atti 2,7- 11). C’è l’angelo del diacono Filippo: mette questo ministro del Vangelo sulla strada di Gaza per incontrare l’eunuco etiope, funzionario della regina Candace, e così convertirlo ( Atti 8,26). C’è l’angelo del centurione romano Cornelio: gli annunzia la via della salvezza attraverso l’incontro con Pietro ( Atti 10,3; 11,13). C’è l’angelo di Paolo: durante la tempesta che colpisce la nave che porta l’apostolo a Roma per essere processato, lo conforta e gli assicura che raggiungerà il tribunale di Cesare per testimoniare Cristo ( Atti 27,23­24). C’è l’angelo di tutti gli annunziatori del Vangelo: assiste alla lotta che il discepolo deve condurre per compiere la sua missione ( 1Corinzi 4,9). C’è l’angelo della liturgia e ce lo presenta lo stesso Paolo nel passo un po’ folcloristico sul velo delle donne ( 1Corinzi 11,10). Come si vede, la presenza angelica popola le strade della Chiesa e della sua storia. E non l’abbandona nel momento estremo, quello dell’approdo alla Gerusalemme celeste. Lo stesso Gesù nel suo « discorso escatologico » , dedicato alla meta ultima della vicenda umana e cosmica, aveva evocato la funzione degli angeli quasi come cerimonieri dell’evento del giudizio finale ( Matteo 13,41- 42; Marco 13,27.32; Luca 16,22). Ma sarà l’Apocalisse ad affollare il cielo di angeli, riflettendo in questo un modello tipico di una letteratura allora popolare, quella chiamata appunto apocalittica e che abbiamo già avuto occasione di evocare per l’Antico Testamento e per il giudaismo. In un trionfo di luce gli angeli dell’Apocalisse cantano, assistono al soglio divino, suonano trombe, scagliano i flagelli del giudizio, scardinano dalle fondamenta Babilonia, la città del male, simbolo della Roma imperiale, incatenano la Bestia infernale, vegliano alle porte della Gerusalemme celeste, la città della gioia, seguono Michele nella lotta estrema tra bene e male. La coreografia dell’Apocalisse ha l’angelo come attore di grande rilievo, nella prospettiva di una palingenesi di tutto l’essere e in particolare dell’umanità, chiamata alla cittadinanza celeste e alla comunione angelica, come ricorda Paolo ( Efesini 1,18; Filippesi 3,20). Ma lo stesso libro nelle sue pagine di apertura, cioè nelle lettere indirizzate ad altrettante comunità cristiane dell’Asia Minore ( capitoli 2- 3), rivela che su ogni Chiesa ancora pellegrina sulla terra veglia un angelo del Signore.
Egli raccoglie il messaggio ora dolce ora aspro che il Cristo rivolge ai fedeli di Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia e Laodicea, divenendo così partecipe delle sorti della comunità che assiste.

Ci rimane un’ultima nota da fare. È facile colmare i cieli di deliziosi angioletti, è ancor più facile bamboleggiare ideologicamente con le « misteriose presenze » alla « New Age » . È pericoloso inoltrarsi nel mondo angelico con intenti esoterico- magici perché questa è idolatria nel caso peggiore o stupidità nel caso dell’ingenuità superstiziosa. Ritornare al rigore e alla sobrietà della fede, in questo come in altri campi, è necessario. Ce lo ricorda soprattutto Paolo. Egli aveva già reagito con veemenza a questa riduzione idolatrica del mistero cristiano quando, scrivendo ai cristiani di Colossi, una città della più profonda provincia dell’Asia Minore, aveva polemizzato con un loro culto angelico esasperato, forse simile a quello che sta ai nostri giorni qua e là affiorando: « Nessuno si compiaccia in pratiche di poco conto e nella venerazione degli angeli, seguendo le proprie pretese visioni » ( 2,18).
« A quale degli angeli Dio ha detto: ‘ Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato’? » , si domanda l’anonimo autore neotestamentario della Lettera agli Ebrei ( 1,5). Al centro dell’autentica fede cristiana non ci sono gli angeli ma il Cristo che è « al di sopra di ogni potenza angelica » e nel cui nome « ogni ginocchio si piega in cielo, sulla terra e sotto terra » ( Filippesi 2,10).
Scriveva il teologo von Balthasar: «Gli enti abitatori del Paradiso circondano l’intera vita di Gesù, appaiono nel presepe come splendore della sua discesa in mezzo a noi; riappaiono nella Risurrezione e nell’Ascensione come fulgore dell’ascesa lassù» La loro missione è mettersi vicini all’umanità per svelare il mistero della gloria presente in Cristo in un modo che non ci accechi come sarebbe con la luce diretta»

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