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Uultima udienza Benedetto XVI: « Non abbandono la croce »

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Publié dans:PAPA BENEDETTO DIMISSIONI |on 2 mars, 2015 |Pas de commentaires »

I DUE ALBERI DEL GIARDINO DI EDEN: L’ALBERO DELLA CONOSCENZA DEL BENE E DEL MALE E L’ALBERO DELLA VITA (RAV LUCIANO CARO)

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I DUE ALBERI DEL GIARDINO DI EDEN: L’ALBERO DELLA CONOSCENZA DEL BENE E DEL MALE E L’ALBERO DELLA VITA

(RAV LUCIANO CARO)

Voglio fare un approccio al testo biblico, come messaggio di origine divina indirizzato a tutti gli uomini che credono, ebrei o non ebrei. Vediamo cosa insegna questo messaggio all’uomo. Tutta la prima parte del libro della Genesi appartiene a quelle parti del testo biblico che sono le più pericolose; io li chiamo capitoli trappola. Dico questo nel senso che sono talmente interessanti e semplici nella loro esposizione, che possono portarci fuori strada; sembrano solo delle belle storielle (la creazione del mondo, il paradiso terrestre, l’arca di Noè, ecc.), che noi leggiamo con un certo sorriso di compiacimento, credendoci molto più avanti. Secondo me, invece, dietro questa esposizione così semplice, c’è un bagaglio di significati che molto spesso non riusciamo a vedere. Quando il testo ci dice che Dio creò il mondo in sei giorni, o che creò il cielo e la terra, non è vero, perché le cose non sono andate così, ma nessuno sa come sono andate in realtà. Dietro questo modo così elementare, apparentemente puerile della descrizione, ci sia una provocazione rivolta ad ognuno di noi, perché cerchiamo di approfondire e di capire il messaggio divino insito in quelle pagine.
Volevo anche sottolineare che la Genesi non è stata prodotta in un ambiente completamente vergine; cioè non è che Mosè un bel giorno ha detto: « Adesso scrivo la creazione, il diluvio, i patriarchi, ecc. », ma il testo è stato prodotto in un ambiente già saturo di miti, storie, leggende che circolavano. Di questi miti di ambiente mesopotamico, egiziano, numerico, ecc. lascia alcune cose così come si trovano, mentre altre le manipola, per cercare di presentarci un racconto dal quale noi possiamo cercare di ricavare un insegnamento, così come si fa con i bambini. Se voglio parlare di Dio a un bambino piccolo, non posso adoperare un linguaggio teologico, che non sarebbe in condizione di capire, ma devo utilizzare dei raccontini, che gli permettano di ricavare lui il significato. Così tutto quello che il testo biblico ci dice della creazione, è ripreso da miti più antichi, ma sono raccontati in modo tale da togliere dalla mente della gente determinati elementi negativi, per fare cogliere loro degli elementi positivi. Il racconto sulla creazione, ad es., a mio avviso vuole insegnarci che tutte quelle forze della natura, che anticamente erano divinizzate, non sono altro che il prodotto di una volontà superiore. Il mare, dunque, non è più il dio del mare, ma un qualcosa creato da qualcuno che è al di sopra; lo stesso per le piante e così via. Viene così insinuato in noi il concetto che tutto è nato da una volontà superiore imperscrutabile. La Torah non vuole insegnarci il come e il perché Dio abbia creato il mondo, ma vuole solo dirci che c’è un creatore che ha creato le forze della natura.
La cosa ha particolare significato per quanto attiene ai passi che dovremo considerare oggi. Il testo ci racconta che Dio, tra le cose che ha fatto, ha piantato un giardino in una località chiamata Eden; un giardino a oriente dell’Eden, nel quale ha collocato l’uomo, dandogli l’ordine di non mangiare un certo frutto. Si parla della mela, perché tutti i pittori di tutti i tempi hanno rappresentato Adamo ed Eva nel giardino sempre con la mela; doveva essere un frutto, ma nell’immaginario collettivo il frutto è un qualche cosa di rotondo e quindi questa cosa tonda, per noi, è la mela. Il testo, però, dice solo « il frutto dell’albero », che era bello da vedersi e appetibile da mangiarsi. I nostri maestri si sono sbizzarriti nel trovare tutte le risposte a questo riguardo. Qual è il frutto bello da vedersi e appetibile? Ognuno ha i suoi gusti. Fate attenzione, perché molto spesso le traduzioni ci portano fuori strada.
Dobbiamo abituarci, in queste parti narrative del testo sacro, a cercare di vedere qual è il significato interno; buttare via (è un’espressione usata dai nostri maestri) la buccia, cioè il contorno e guardare qual è l’interno. Da una lettura dei primi capitoli della Genesi, si ricava che Dio ha creato il mondo tov, buono ed è stata la presenza dell’uomo a sottrarre, in un certa misura, questa bontà all’universo, con il suo comportamento.
Nel nostro racconto si parla dell’albero della conoscenza del bene e del male. Ma facciamo attenzione, perché il testo biblico a volte ci prende in giro, ci stimola. Noi traduciamo tov e ra’, con buono e cattivo, bene e male. Non so se vuol dire bene nel senso nostro; quando leggiamo che Dio vide che una cosa era buona, cosa vuol dire? Che è una cosa bella, o utile, o buona dal punto di vista morale ed etico?
Leggendo il testo così con semplicità, ci vengono delle perplessità sulla figura di Dio, il quale crea e, dopo aver creato, vede che è una cosa buona. Prima non lo sapeva? Possiamo farci un’idea sbagliata di Dio. Il succo è che cosa vuol dire buono. Tutto il libro della genesi è focalizzato su questa parola. Dio crea la donna, perché dice: lo tov, cioè non è bene che l’uomo sia solo. Non è cosa buona dal punto di vista morale, etico, oppure non è comodo, cioè l’uomo senza la donna non sta bene? A un certo punto del testo si dice che vennero i figli di Dio (chi sono non lo sa nessuno) e videro le figlie dell’uomo che erano tovòt, buone e si sono prese delle donne, da cui nacquero i giganti. Cosa vuol dire? Che erano belle più delle donne che ci sono tra gli angeli? Buone alla romana, nel senso di formose? E’ evidente che le cose non stanno in questi termini. Analogamente in termine di provocazione, quando si narra della nascita di Mosè, è detto che la mamma non l’ha buttato via, perché era buono; se era cattivo lo buttava, forse? E qual è quella madre che nei confronti del bambino appena nato, trova qualcosa che non funziona?
Lo stesso vale per l’albero della conoscenza del tov e del ra’. Il ra’ è il contrario del tov, ma cos’è?
C’è un altro elemento che vorrei sottoporre alla vostra attenzione; sembra che vada fuori tema, ma soltanto parzialmente. Nel racconto del giardino dell’Eden, compaiono degli altri personaggi. C’è il giardino, le piante, Adamo ed Eva, il serpente e alla fine ci sono i cherubini. Cosa sono? Non lo sappiamo di preciso. Un qualche cosa che sono degli esseri posti da Dio a guardia del giardino per fare in modo che l’uomo, cacciato dal giardino, non ci ritorni. L’immagine che abbiamo noi dei cherubini è quella di angioletti paffuti, dalla forma pseudo umana. Ma è proprio così o vuol dire un’altra cosa? Sembra che questa parola cherubìm fosse chiarissima ai tempi in cui fu scritto il testo. Ritroviamo questo termine nel racconto dell’Esodo, dove si narra della tenda del convegno, in cui vi era una cassetta, che conteneva le tavole della Legge e che aveva sopra un coperchio e su di esso due cherubini, che si guardano. Rimaniamo sbigottiti. Proprio nel momento culminante, in cui si sottolinea il divieto di farsi alcuna immagine per adorarla, compaiono due forme umane. Io credo che nell’antichità, quando la Torah fu emanata, avessero delle idee più chiare delle nostre su cosa fossero questi cherubini.
Un’altra cosa che vorrei suggerire alla vostra attenzione, sempre come provocazione, perché cerchiate di approfondire, è che del giardino dell’Eden se ne parla, in forma piuttosto oscura, in fonti mesopotamiche e anche in altre fonti ebraiche bibliche, in particolare nel libro di Ezechiele, ai capitoli 28 e 31, dove è riproposto in chiave diversa. Non sappiamo nemmeno cosa vuol dirci Ezechiele. Lui ci parla di un cherubino, cherùv, che forse è la personificazione del re di Tiro. Lui sta rivolgendo una petizione al re di Tiro e in modo sarcastico gli dice: « Ma cosa ti credi di essere ancora il cherubino del giardino dell’Eden? ». Inoltre in quella circostanza si fa riferimento al fatto che questo giardino, nella visione di Ezechiele, era in un monte sacro, mentre, viceversa, nel testo della Genesi, di monte non se ne parla per niente. E cosa vuol dire Eden? Nell’ebraico moderno è una radice che vuole dire soavità, dolcezza, delicatezza, ma sembra che in una radice araba più antica abbia il significato o di un nome di luogo oppure sembra che abbia delle attinenze con pianura, quindi il giardino dell’Eden è il giardino della pianura. Ezechiele lo pone, invece, su una montagna. Probabilmente c’erano vari miti che circolavano. La Genesi ce lo propone anche con dei fiumi e delle pietre preziose, mentre Ezechiele ci parla di alberi che invece di frutti, producevano pietre preziose. La stessa cosa troviamo in miti numerici precedenti, dove si parla del giardino collocato in un posto pieno di miniere di pietre preziose.
Se leggete quei capitoli di Ezechiele, troverete che il giardino è chiamato il giardino di Dio, facendoci immaginare che fosse una specie di residenza divina. Sembra che Dio l’avesse preso per abitarci, ma poi ci ha messo l’uomo. Ma cos’è questa storia? Quindi siamo veramente provocati a cercare di capire cosa ci vuole insegnare il testo.
Spero di non deludervi, ma devo dire ancora una cosa. Per cercare di capire bene qual è il significato di questi passi, dobbiamo tenere conto anche della terminologia antica usata nel testo. Ad es. per indicare il nome di Dio, che compare sotto forme diverse. All’inizio della Genesi compare il nome Elohìm, un termine molto generico: divinità. Chiunque sia, qualunque cosa sia. Poi, andando avanti nel testo, si usa il termine tetragrammato, cioè con le quattro lettere sacre, impronunciabile. Come mai l’autore usa questo e quello? In altri passi viene chiamato in tutti e due i modi: il Tetragramma seguito da Elohìm. Una delle interpretazioni che va per la maggiore, è quella che dice che quando si usa Elohìm si vuole indicare Dio dal punto di vista della giustizia, mentre quando si parla di Dio dal punto di vista della bontà e della misericordia, si usa il tetragramma. Ma c’è chi dice esattamente il contrario.
Qualcuno dice che il termine Elohìm viene usato per indicare il Dio in qualche modo trascendente, il Creatore, che non si sa bene cos’è; mentre l’altro termine indica un Dio più personale, che parla con l’uomo in un rapporto più diretto. Sarà vero? Non lo so.
Quello che non riusciamo a capire è cosa sia questa faccenda di Dio che crea il giardino e vi mette dentro l’uomo. Un passo dice che l’ha messo lì « per lavorarlo e per custodirlo ». E noi ci inalberiamo subito. Intanto perché dal punto di vista grammaticale le cose non funzionano, perché se lavorarlo si riferisce al giardino, la parola giardino, in ebraico, è maschile, mentre viene adoperato un suffisso femminile, come se dicessimo in italiano: « Dio creò un giardino e vi mise l’uomo per lavorarla e custodirla »; ma lavorarla e custodirla che cosa? Mosè non sapeva la grammatica? Prima adopera un maschile e poi ci mette un suffisso femminile? Tra l’altro non è nemmeno chiaro se sia un suffisso femminile o no. Qualcuno dice che Mosè volesse intendere la terra e non il giardino, da lavorare. Ma poi non funziona dal punto di vista del significato, perché Dio ha decretato il lavoro dopo che l’uomo aveva peccato. Sembra, da una lettura sommaria, che l’uomo, quand’era nel giardino, passasse il tempo a fare i complimenti a sua moglie, forse, oppure a mangiare i frutti che gli capitavano. Cosa vuol dire custodire il giardino? Custodirlo, proteggerlo da che cosa? Non lo sappiamo. I nostri maestri, adoperando il meccanismo di andare a cercare tutti i significati dei vari termini, sostengono che lavorarlo e custodirlo ha un significato più cultuale, perché la parola avodà vuol dire lavoro, ma anche culto e la parola custodire vuol dire anche osservare. Già nel momento in cui l’uomo è stato collocato lì dentro, Dio aveva lo scopo che l’uomo prestasse una specie di servizio di Dio, osservando quello che Dio gli aveva detto di osservare. Come un segno di riconoscimento che tutte le cose di cui l’uomo stava godendo, venivano da Dio. Ovviamente l’uomo non ha fatto né l’una, né l’altra cosa.
Poi troviamo l’albero della conoscenza del bene e del male collocato proprio nel mezzo del giardino, quasi come una provocazione; qualunque strada l’uomo facesse, si trovava davanti questo albero. Inoltre c’era anche l’albero della vita; però Dio non gliel’ha detto. Lo scopo sembra che sia quello di fare in modo che, prima o poi, l’uomo mangi anche di quell’albero e perciò divenga immortale. Dio dice solo che se mangiano di quell’albero, moriranno; ma cosa vuol dire morire? Fino a quel momento non era ancora morto nessuno e perciò che idea potevano avere Adamo ed Eva della morte? Dio è scorretto! Una delle forme interpretative è quella di considerare l’uomo, in quel momento, come l’uomo bambino. Dio si rivolge a lui come ci si rivolge a un bambino, perché non aveva nessuna esperienza. La provocazione consisterebbe in questo: l’albero della conoscenza del bene e del male è l’albero delle esperienze. L’uomo ha due possibilità davanti a sé: o obbedire a Dio e non mangiare dell’albero della conoscenza e continuare, così, a vivere come un bambino, senza l’esperienza di quello che è buono e cattivo, ma non in senso morale, ma nel senso di quello che è positivo e quello che è negativo nella vita: malattie, dispiaceri, vecchiaia, ecc. Se l’uomo fosse stato lì dentro come un bambino, ubbidendo a Dio, avrebbe continuato a vivere una vita felice inconsapevole, senza particolari problemi. Invece l’uomo ha voluto prescindere da questo avvertimento, scegliendo di conoscere, anche se questa conoscenza è legata alla sofferenza. L’albero della conoscenza del bene e del male diventerebbe l’albero dell’esperienza di quello che la vita può dare, allorché diventiamo consapevoli. L’avere ottenuto questa esperienza, disubbidendo a Dio, ha sottratto all’uomo la possibilità di diventare immortale. Questa disubbidienza dell’uomo era in qualche modo pilotata da Dio, perché gli ha detto quello che era vero in modo che non poteva capire. Gli pone davanti due possibilità: o vivere illimitatamente in modo inconsapevole, oppure vivere limitatamente nel tempo, ma consapevolmente, con tutto quello che la consapevolezza comporta: sofferenza, guai, ecc. ma, in qualche modo, Dio l’avrebbe spinto in quella direzione, perché gli ha messo accanto la donna, che gli ha dato il consiglio, poi gli ha dato il serpente, che ha consigliato la moglie e poi ha collocato questo albero nel punto più strategico, inoltre gli avrebbe detto le cose in modo incomprensibile. Gli dice: « Morirai, se fai questo », ma per Adàm quella parola era incomprensibile, perché è come se voi diceste a un bambino: « Non metterti il dito in bocca, quando hai toccato per terra, perché se non ti ammali! ». E’ vero che gliel’avete detto, ma io ho dei dubbi se lui ha capito. Quand’è che comincia a capirlo? Appena gli hai dato la sberla. Come noi: cerchiamo di lasciare i nostri figli liberi di scegliere, ma un po’ li pilotiamo.
Fermiamoci un attimo su una questione semantica, che riguarda il significato delle parole. In varie parti del testo biblico, la conoscenza del bene e del male è un attributo di Dio. Cosa significa, però, che Dio conosce il bene e il male? Che sa distinguere? Mangiando quel frutto proibito, l’uomo può acquisire quella caratteristica di Dio. Anche la vita eterna è una caratteristica divina, ma ad essa Dio non vuole che l’uomo attinga.
Di nuovo. Bene e male è quello che è utile, non dannoso, o in senso morale? Adoperando lo stesso verbo conoscere, il testo dice che, quando ebbero mangiato il frutto, conobbero che erano nudi. Il fatto di essere nudi era una cosa negativa? E’ questo il male? Dio provvede in prima persona a fare loro i vestiti; è il primo sarto dell’universo. Determinati filoni di interpretazione, soprattutto in campo cristiano, hanno portato a pensare il bene e il male in termini sessuali. Quasi a sottolineare che l’uomo e la donna abbiano cominciato a praticare il sesso, dopo aver mangiato il frutto proibito. Io ho molte perplessità che voglia dire questo. Non so bene cosa vuol dire questa nudità. Forse conoscenza vuol dire esperienza; dopo aver mangiato il frutto, si rendono conto di certo aspetti della realtà, ai quali prima non facevano caso. Come i bambini, che crescono piano piano e acquisiscono una conoscenza oggettiva delle cose.
Qualcuno interpreta che tutta questa storia è stata deliberata; in origine sembra che Dio avesse previsto che l’uomo stesse nel giardino e Dio si sarebbe comportato nei suoi confronti come un padre che pensa a tutto. Fa’ quello che ti dico io, e starai bene. L’uomo si sarebbe ribellato: « No, papà! Io voglio uscire dalla tutela paterna. Sbaglierò, non sbaglierò, ma voglio affrontare la vita come desidero io ».
Dio dice che non voleva che l’uomo diventasse immortale, infatti pone i cherubini a guardia del giardino perché l’uomo non potesse mangiare dell’albero della vita. Ma allora perché ha inventato questo albero e l’ha messo nel giardino?
Il passo biblico è provocatorio, incomprensibile. Sta di fatto che il regista di tutto è Dio: è Lui che ha creato, determina e giudica l’operato dell’uomo. Maimonide dice che c’è qualcosa che non funziona; si chiede: « Come fa Dio a dare degli ordini a chi non è in condizione di sapere che disubbidire è male? ».
Quando Adamo si nasconde nell’albero, dopo il peccato, Dio si rivolge a lui dicendogli: « Dove sei? ». Frase bellissima, con un significato molto preciso e cioè il significato più ampio, come se Dio chiedesse a noi tutti i giorni: « Dove sei? Dove stai andando? Dove sei collocato nell’universo? Ti rendi conto? ». C’è un altro elemento più terra terra ed è che noi da qui impariamo il comportamento di Dio, che non ha accusato direttamente l’uomo, assalendo col rimprovero, ma gli ha posto questa domanda per dargli il tempo di formulare una risposta. Viceversa Dio si rivolge all’uomo, dandogli il tempo di prepararsi una difesa, quasi a prepararlo alla seconda domanda, che sarebbe arrivata subito dopo. Quando dobbiamo accusare qualcuno, dovremmo anche dargli la possibilità di prepararsi una giustificazione. Dobbiamo leggere questi racconti, imparando come Dio si comporta, per imitarlo.
Non lasciamoci trascinare dal fascino che esercitano questi racconti o dalle tradizioni stereotipate che ci portano fuori strada. Le traduzioni fanno molta fatica a rendere ciò che il testo vuole dire, perciò dobbiamo sempre stare attenti, tenendo conto anche che certi termini sembrano molto semplici a tradurli e invece non capiamo bene cosa veramente significano. Per es., cosa significa santificare,

EROS, AGAPE, CARITAS: IL PAPA BENEDETTO SPIEGA L’AMORE

http://www.toscanaoggi.it/Dossier/Speciali/Benedetto-XVI/Enciclica-Deus-Caritas-est/Eros-agape-caritas-il-Papa-spiega-l-amore

EROS, AGAPE, CARITAS: IL PAPA SPIEGA L’AMORE

«Deus Caritas est» (Dio è amore) è il titolo della prima Enciclica di Papa Benedetto XVI, resa nota mercoledì 25 gennaio in Vaticano. Presentata in una edizione di 74 pagine, sin dal titolo si qualifica come «Enciclica sull’amore cristiano» ed è strutturata in due parti: nella prima («L’unità dell’amore nella creazione e nella storia della salvezza») il tema viene affrontato a partire dall’esperienza ed essenza dell’amore umano in rapporto a quello divino, che viene donato in maniera particolare in Cristo.

Eros, agape, caritas: il Papa spiega l’amore
26/01/2006 di Archivio Notizie

di Luigi Crimella
«Deus Caritas est» (Dio è amore) è il titolo della prima Enciclica di Papa Benedetto XVI, resa nota mercoledì 25 gennaio in Vaticano. Presentata in una edizione di 74 pagine, sin dal titolo si qualifica come «Enciclica sull’amore cristiano» ed è strutturata in due parti: nella prima («L’unità dell’amore nella creazione e nella storia della salvezza») il tema viene affrontato a partire dall’esperienza ed essenza dell’amore umano in rapporto a quello divino, che viene donato in maniera particolare in Cristo; nella seconda parte, dal titolo «L’esercizio dell’amore da parte della Chiesa quale Comunità d’amore», si analizzano la carità e l’impegno per la giustizia messi in atto dalla Chiesa sin dai primi secoli, quali forme concrete e comunitarie di risposta al comandamento di Gesù di amare tutti come fratelli.
Nella parte conclusiva, Benedetto XVI evidenzia alcuni insigni esempi di amore cristiano ad opera di Santi e Beati, che si sono tradotti in iniziative di promozione umana e di formazione cristiana.

DALL’«EROS» ALL’«AGAPE»
«Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in Lui»: queste parole del Vangelo di Giovanni aprono la prima, attesa Enciclica di Benedetto XVI; discussa in anticipo sull’uscita, in quanto alcune indiscrezioni della scorsa settimana ne avevano già fatto trapelare passaggi significativi, tra i quali quelli sul rapporto tra «eros» e «agape». «Nella mia prima Enciclica – scrive il Papa – desidero parlare dell’amore, del quale Dio ci ricolma e che da noi deve essere comunicato agli altri». Nella prima parte dell’Enciclica, il Papa ricorda ai fedeli e a tutti i suoi lettori la molteplicità di significati, e quindi la ricchezza semantica della parola «amore». Cita così l’amor di patria, l’amore tra amici, l’amore per il lavoro, quello tra genitori e figli, l’amore per il prossimo fino all’amore per Dio. Si sofferma, in particolare, sull«amore tra uomo e donna» in quanto – scrive – «archetipo di amore per eccellenza, al cui confronto, a prima vista, tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono».
È a questo punto che Benedetto XVI richiama le critiche che vengono talora rivolte alla Chiesa: «La Chiesa – scrive, riferendosi tra l’altro anche al filosofo Nietzsche – con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita? Non innalza forse cartelli di divieto proprio là dove la gioia, predisposta per noi dal Creatore, ci offre una felicità che ci fa pregustare qualcosa del Divino?». Per Benedetto XVI, la risposta è molto profonda, e va oltre una limitata visione emozionale ed egoistica del sentimento umano più diffuso: «L’eros ebbro ed indisciplinato non è ascesa, estasi verso il Divino ma caduta, degradazione dell’uomo. Così diventa evidente che l’eros ha bisogno di disciplina, di purificazione per donare all’uomo non il piacere di un istante, ma un certo pregustamento del vertice dell’esistenza, di quella beatitudine a cui tutto il nostro essere tende».

CORPO E ANIMA
L’uomo, composto «di corpo e di anima» diventa «veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità». Da ciò – per Benedetto XVI – deriva che «l’eros degradato a puro sesso diventa merce, una semplice cosa che si può comprare e vendere, anzi, l’uomo stesso diventa merce». L’amore vero ha, quindi, necessità di «un cammino di ascesa e di purificazione»; necessità di «esclusività» e del suo essere «per sempre» in quanto «mira all’eternità». «L’eros rimanda l’uomo al matrimonio, a un legame caratterizzato da unicità e definitività (…) all’immagine del Dio monoteistico corrisponde il matrimonio monogamico. Il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa». L’amore è definito «estasi», intesa come«cammino, come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé».
Da questa dimensione di «agape», l’amore può poi scalare le vette dell’offerta totale e assoluta non solo a una persona, come è nella normalità del rapporto di coppia, ma a più persone fino all’intera umanità, come avviene nelle famiglie aperte alla vita e all’accoglienza e anche, in altro ambito, nella vocazione presbiterale o religiosa, facendosi «tutto a tutti». L’amore esige una intima compenetrazione e un profondo equilibrio tra corpo e anima, tra l’eros e l’agape, tra l’umano e il divino. Scrive il Papa: «L’uomo non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono». E la «sorgente» primordiale dell’amore è Dio.

LA DIMENSIONE DELLA CARITA’
L’esercizio della carità da parte della Chiesa poggia sulla verità – ricorda Benedetto XVI – che l’amore «è divino perché viene da Dio e ci unisce a Dio e, mediante questo processo unificante, ci trasforma». Da qui sono venute, nel corso della storia, le varie forme di intervento caritativo ecclesiale, definite «espressione di un amore che cerca il bene integrale dell’uomo», con la sottolineatura che «la Chiesa non può trascurare il servizio della carità così come non può tralasciare i Sacramenti e la Parola». Benedetto XVI richiama – in un breve excursus storico – il sorgere della questione sociale, il nascere negli ultimi due secoli della «dottrina cristiana sullo Stato e la dottrina sociale della Chiesa», fino al confronto con il marxismo e alle Encicliche sociali. «L’amore – caritas – sarà sempre necessario, anche nella società più giusta», annota poi il Pontefice.

GLI ESEMPI DA SEGUIRE
I Santi sono coloro che hanno creduto che Dio è amore e che Lui «tiene il mondo nelle sue mani e che nonostante ogni oscurità Egli vince». Ne ricorda diversi, da San Martino di Tours, che condivise il suo mantello con un povero, fino a Francesco d’Assisi, Ignazio di Loyola, San Vincenzo de Paoli, Cottolengo, don Bosco, don Orione, Teresa di Calcutta. «I Santi – scrive il Papa – sono i veri portatori di luce all’interno della storia, perché sono uomini e donne di fede, di speranza e di amore».
Cos’è un enciclica
Quando si parla di enciclica si intende la «lettera circolare apostolica che il Papa indirizza ai vescovi e ai prelati di tutta la chiesa su argomenti di fede o di morale». Voce dotta, deriva dal latino ecclesiale epistola encyclica, «lettera circolare», dall’aggettivo greco enkyklios, «circolare» composto di en, «in» e kyklos, «cerchio»). La raccolta di queste lettere episcopali veniva chiamata Encyclia o Enkyclia: così ci riferisce Pelagio II in una sua lettera ai vescovi dell’Istria. Solo molto tardivamente il vocabolo enciclica ha ricevuto un significato specifico, indicando solo le più importanti comunicazioni che il Romano Pontefice indirizza a tutta la cristianità.
Nella Chiesa greca ancora oggi si chiamano encicliche le lettere che il Patriarca indirizza a tutto il patriarcato, quando riguardano questioni attinenti la propria chiesa e il proprio rito. Il primo Papa che riservò questa denominazione ad una determinata forma di lettera pontificia fu Benedetto XIV nella «Ubi primum» del 3 dicembre 1740 (Epistola encyclica et commonitoria ad omnes episcopos) riguardante i doveri e la funzione dei vescovi. Solitamente tutte le encicliche portano come titolo le parole iniziali del testo in lingua latina (che ancora oggi è la lingua ufficiale della Chiesa).
Lorella Pellis

Parola per parola
Eros
Dal greco éros. Nel mondo antico eros è l’amore inteso nella sua manifestazione diretta e passionale. È l’impulso d’amore che i Greci impersonarono in Eros, figlio di Afrodite, il dio che incarna il desiderio e la gioia che scaturisce dal desiderio stesso. La voce fu introdotta nelle lingue moderne da Freud (1856-1939) che utilizza correntemente eros come sinonimo di pulsione di vita.
Nella lingua dei cristiani il sostantivo conserva il suo significato in relazione all’amore fisico ma entra in rapporto anche con altri tipi di amore e di realtà dell’amore caratteristici dei Vangeli e poi della riflessione dei Padri della Chiesa. Le realtà fisiche vengono così sorpassate da quelle spirituali e la pulsione sessuale viene superata anche in direzione dell’agape.

Agape
Voce dotta dal latino agape, è il «banchetto collettivo e fraterno degli antichi cristiani». In realtà il termine è greco (agàpe) e si riferisce all’offerta che viene da Dio e che i cristiani devono condividere nell’amore fraterno. Il verbo greco agapao è il rispetto fraterno basato su benevolenza, sollecitudine e protezione. È piuttosto il verbo latino diligo che non l’amo.
In un primo tempo l’agape è il «pasto con eucarestia» ma dopo si differenzia e diventa il «pasto che si offre a chi non ne ha» ed è anche un momento conviviale che diventa l’occasione di riconoscersi fratelli.

Caritas
È l’affetto che si prova verso qualcun altro. In realtà il sostantivo significa in prima battuta il «prezzo alto» di qualcosa ed è perfettamente logico se si pensa che in genere rivolgiamo il nostro amore, affetto, tenerezza verso chi per noi vale molto. Il termine caritas non va reso in italiano con «carità» a differenza di quello che molti pensano. La parola italiana carità (dal latino caritate, «benevolenza, amore», da carus, «caro») è l’«amore di Dio e del prossimo, una delle tre virtù teologali», la «disposizione caratteristica di chi tende a comprendere e aiutare ogni persona», la «beneficenza» e l’«elemosina», la «cortesia» e il «favore».
Una curiosità riguarda la locuzione «carità pelosa», «carità non disinteressata». Non è chiara l’origine dell’espressione ma alcuni ipotizzano che alla base di tale «motto» ci sia il soccorso spirituale che intese prestare il pontefice a Giuliano il Bastardo, mentre guerreggiava, e consisteva in un anello con dentro la reliquia di alcuni peli della barba di San Pietro. Ovviamente si tratta di un’invenzione a posteriori. La locuzione «carità pelosa» va invece accostata al modo di dire «avere il cuore con tanto di pelo».
Lorella Pellis

 

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