Archive pour février, 2015

TEMPO DI CONVERSIONE, DI RITORNO A DIO – ENZO BIANCHI

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TEMPO DI CONVERSIONE, DI RITORNO A DIO – ENZO BIANCHI

Uno sforzo compiuto tutti insieme

Ogni anno ritorna la quaresima, un tempo pieno di quaranta giorni da vivere da parte dei cristiani tutti insieme come tempo di conversione, di ritorno a Dio. Sempre i cristiani devono vivere lottando contro gli idoli seducenti, sempre è il tempo favorevole ad accogliere la grazia e la misericordia del Signore, tuttavia la chiesa – che nella sua intelligenza conosce l’incapacità della nostra umanità a vivere con forte tensione il cammino quotidiano verso il Regno – chiede che ci sia un tempo preciso che si stacchi dal quotidiano, un tempo « altro », un tempo forte in cui far convergere nello sforzo della conversione la maggior parte delle energie che ciascuno possiede. E la chiesa chiede che questo sia vissuto silmultaneamente da parte di tutti i cristiani, sia cioè uno sforzo compiuto tutti insieme, in comunione e solidarietà. Sono dunque quaranta giorni per il ritorno a Dio, per il ripudio degli idoli seducenti ma alienanti, per una maggior conoscenza della misericordia infinita del Signore.
La conversione, infatti, non è un evento avvenuto una volta per tutte, ma un dinamismo che deve essere rinnovato nei diversi momenti dell’esistenza, nelle diverse età, soprattutto quando il passare del tempo può indurre nel cristiano un adattamento alla mondanità, una stanchezza, uno smarrimento del senso e del fine della propria vocazione che lo portano a vivere nella schizofrenia la propria fede.
Sì, la quaresima è il tempo del ritrovamento della propria verità e autenticità, ancor prima che tempo di penitenza: non è un tempo in cui « fare » qualche particolare opera di carità o di mortificazione, ma è un tempo per ritrovare la verità del proprio essere. Gesù afferma che anche gli ipocriti digiunano, anche gli ipocriti fanno la carità (cf. Mt 6,1-6.16-18): proprio per questo occorre unificare la vita davanti a Dio e ordinare il fine e i mezzi della vita cristiana, senza confonderli.
La quaresima vuole riattualizzare i quarant’anni di Israele nel deserto, guidando il credente alla conoscenza di sé, cioè alla conoscenza di ciò che il Signore del credente stesso già conosce: conoscenza che non è fatta di introspezione psicologica ma che trova luce e orientamento nella Parola di Dio. Come Cristo per quaranta giorni nel deserto ha combattuto e vinto il tentatore grazie alla forza della Parola di Dio (cf. Mt 4,1-11), così il cristiano è chiamato ad ascoltare, leggere, pregare più intensamente e più assiduamente – nella solitudine come nella liturgia – la Parola di Dio contenuta nelle Scritture. La lotta di Cristo nel deserto diventa allora veramente esemplare e, lottando contro gli idoli, il cristiano smette di fare il male che è abituato a fare e comincia a fare il bene che non fa! Emerge così la « differenza cristiana », ciò che costituisce il cristiano e lo rende eloquente nella compagnia degli uomini, lo abilita a mostrare l’evangelo vissuto, fatto carne e vita.
Il mercoledì delle Ceneri segna l’inizio di questo tempo propizio della quaresima … un gesto che forse oggi non sempre è capito ma che, se spiegato e recepito, può risultare più efficace delle parole nel trasmettere una verità.La cenere, infatti, è il frutto del fuoco che arde, racchiude il simbolo della purificazione, costituisce un rimando alla condizione del nostro corpo che, dopo la morte, si decompone e diventa polvere: sì, come un albero rigoglioso, una volta abbattuto e bruciato, diventa cenere, così accade al nostro corpo tornato alla terra, ma quella cenere è destinata alla risurrezione …
Sì, ricevere le ceneri significa prendere coscienza che il fuoco dell’amore di Dio consuma il nostro peccato; accogliere le ceneri nelle nostre mani significa percepire che il peso dei nostri peccati, consumati dalla misericordia di Dio, è « poco peso »; guardare quelle ceneri significa riconfermare la nostra fede pasquale: saremo cenere, ma destinata alla risurrezione. Sì, nella nostra Pasqua la nostra carne risorgerà e la misericordia di Dio come fuoco consumerà nella morte i nostri peccati.
Nel vivere il mercoledì delle ceneri i cristiani non fanno altro che riaffermare la loro fede di essere riconciliati con Dio in Cristo, la loro speranza di essere un giorno risuscitati con Cristo per la vita eterna, la loro vocazione alla carità che non avrà fine. Il giorno delle ceneri è annuncio della Pasqua di ciascuno di noi.

da: E. Bianchi, Dare senso al tempo. Le feste cristiani,
Edizioni Qiqajon 2003, pg. 41-44

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA QUARESIMA 2015

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/lent/documents/papa-francesco_20141004_messaggio-quaresima2015.html

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA QUARESIMA 2015

Rinfrancate i vostri cuori (Gc 5,8)

Cari fratelli e sorelle,

la Quaresima è un tempo di rinnovamento per la Chiesa, le comunità e i singoli fedeli. Soprattutto però è un “tempo di grazia” (2 Cor 6,2). Dio non ci chiede nulla che prima non ci abbia donato: “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Gv 4,19). Lui non è indifferente a noi. Ognuno di noi gli sta a cuore, ci conosce per nome, ci cura e ci cerca quando lo lasciamo. Ciascuno di noi gli interessa; il suo amore gli impedisce di essere indifferente a quello che ci accade. Però succede che quando noi stiamo bene e ci sentiamo comodi, certamente ci dimentichiamo degli altri (cosa che Dio Padre non fa mai), non ci interessano i loro problemi, le loro sofferenze e le ingiustizie che subiscono… allora il nostro cuore cade nell’indifferenza: mentre io sto relativamente bene e comodo, mi dimentico di quelli che non stanno bene. Questa attitudine egoistica, di indifferenza, ha preso oggi una dimensione mondiale, a tal punto che possiamo parlare di una globalizzazione dell’indifferenza. Si tratta di un disagio che, come cristiani, dobbiamo affrontare.
Quando il popolo di Dio si converte al suo amore, trova le risposte a quelle domande che continuamente la storia gli pone. Una delle sfide più urgenti sulla quale voglio soffermarmi in questo Messaggio è quella della globalizzazione dell’indifferenza.
L’indifferenza verso il prossimo e verso Dio è una reale tentazione anche per noi cristiani. Abbiamo perciò bisogno di sentire in ogni Quaresima il grido dei profeti che alzano la voce e ci svegliano.
Dio non è indifferente al mondo, ma lo ama fino a dare il suo Figlio per la salvezza di ogni uomo. Nell’incarnazione, nella vita terrena, nella morte e risurrezione del Figlio di Dio, si apre definitivamente la porta tra Dio e uomo, tra cielo e terra. E la Chiesa è come la mano che tiene aperta questa porta mediante la proclamazione della Parola, la celebrazione dei Sacramenti, la testimonianza della fede che si rende efficace nella carità (cfr Gal 5,6). Tuttavia, il mondo tende a chiudersi in se stesso e a chiudere quella porta attraverso la quale Dio entra nel mondo e il mondo in Lui. Così la mano, che è la Chiesa, non deve mai sorprendersi se viene respinta, schiacciata e ferita.
Il popolo di Dio ha perciò bisogno di rinnovamento, per non diventare indifferente e per non chiudersi in se stesso. Vorrei proporvi tre passi da meditare per questo rinnovamento.
1. “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono” (1 Cor 12,26) – La Chiesa
La carità di Dio che rompe quella mortale chiusura in se stessi che è l’indifferenza, ci viene offerta dalla Chiesa con il suo insegnamento e, soprattutto, con la sua testimonianza. Si può però testimoniare solo qualcosa che prima abbiamo sperimentato. Il cristiano è colui che permette a Dio di rivestirlo della sua bontà e misericordia, di rivestirlo di Cristo, per diventare come Lui, servo di Dio e degli uomini. Ce lo ricorda bene la liturgia del Giovedì Santo con il rito della lavanda dei piedi. Pietro non voleva che Gesù gli lavasse i piedi, ma poi ha capito che Gesù non vuole essere solo un esempio per come dobbiamo lavarci i piedi gli uni gli altri. Questo servizio può farlo solo chi prima si è lasciato lavare i piedi da Cristo. Solo questi ha “parte” con lui (Gv 13,8) e così può servire l’uomo.
La Quaresima è un tempo propizio per lasciarci servire da Cristo e così diventare come Lui. Ciò avviene quando ascoltiamo la Parola di Dio e quando riceviamo i sacramenti, in particolare l’Eucaristia. In essa diventiamo ciò che riceviamo: il corpo di Cristo. In questo corpo quell’indifferenza che sembra prendere così spesso il potere sui nostri cuori, non trova posto. Poiché chi è di Cristo appartiene ad un solo corpo e in Lui non si è indifferenti l’uno all’altro. “Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui” (1 Cor 12,26).
La Chiesa è communio sanctorum perché vi partecipano i santi, ma anche perché è comunione di cose sante: l’amore di Dio rivelatoci in Cristo e tutti i suoi doni. Tra essi c’è anche la risposta di quanti si lasciano raggiungere da tale amore. In questa comunione dei santi e in questa partecipazione alle cose sante nessuno possiede solo per sé, ma quanto ha è per tutti. E poiché siamo legati in Dio, possiamo fare qualcosa anche per i lontani, per coloro che con le nostre sole forze non potremmo mai raggiungere, perché con loro e per loro preghiamo Dio affinché ci apriamo tutti alla sua opera di salvezza.
2. “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9) – Le parrocchie e le comunità
Quanto detto per la Chiesa universale è necessario tradurlo nella vita delle parrocchie e comunità. Si riesce in tali realtà ecclesiali a sperimentare di far parte di un solo corpo? Un corpo che insieme riceve e condivide quanto Dio vuole donare? Un corpo, che conosce e si prende cura dei suoi membri più deboli, poveri e piccoli? O ci rifugiamo in un amore universale che si impegna lontano nel mondo, ma dimentica il Lazzaro seduto davanti alla propria porta chiusa ? (cfr Lc 16,19-31).
Per ricevere e far fruttificare pienamente quanto Dio ci dà vanno superati i confini della Chiesa visibile in due direzioni.
In primo luogo, unendoci alla Chiesa del cielo nella preghiera. Quando la Chiesa terrena prega, si instaura una comunione di reciproco servizio e di bene che giunge fino al cospetto di Dio. Con i santi che hanno trovato la loro pienezza in Dio, formiamo parte di quella comunione nella quale l’indifferenza è vinta dall’amore. La Chiesa del cielo non è trionfante perché ha voltato le spalle alle sofferenze del mondo e gode da sola. Piuttosto, i santi possono già contemplare e gioire del fatto che, con la morte e la resurrezione di Gesù, hanno vinto definitivamente l’indifferenza, la durezza di cuore e l’odio. Finché questa vittoria dell’amore non compenetra tutto il mondo, i santi camminano con noi ancora pellegrini. Santa Teresa di Lisieux, dottore della Chiesa, scriveva convinta che la gioia nel cielo per la vittoria dell’amore crocifisso non è piena finché anche un solo uomo sulla terra soffre e geme: “Conto molto di non restare inattiva in cielo, il mio desiderio è di lavorare ancora per la Chiesa e per le anime” (Lettera 254 del 14 luglio 1897).
Anche noi partecipiamo dei meriti e della gioia dei santi ed essi partecipano alla nostra lotta e al nostro desiderio di pace e di riconciliazione. La loro gioia per la vittoria di Cristo risorto è per noi motivo di forza per superare tante forme d’indifferenza e di durezza di cuore.
D’altra parte, ogni comunità cristiana è chiamata a varcare la soglia che la pone in relazione con la società che la circonda, con i poveri e i lontani. La Chiesa per sua natura è missionaria, non ripiegata su se stessa, ma mandata a tutti gli uomini.
Questa missione è la paziente testimonianza di Colui che vuole portare al Padre tutta la realtà ed ogni uomo. La missione è ciò che l’amore non può tacere. La Chiesa segue Gesù Cristo sulla strada che la conduce ad ogni uomo, fino ai confini della terra (cfr At 1,8). Così possiamo vedere nel nostro prossimo il fratello e la sorella per i quali Cristo è morto ed è risorto. Quanto abbiamo ricevuto, lo abbiamo ricevuto anche per loro. E parimenti, quanto questi fratelli possiedono è un dono per la Chiesa e per l’umanità intera.
Cari fratelli e sorelle, quanto desidero che i luoghi in cui si manifesta la Chiesa, le nostre parrocchie e le nostre comunità in particolare, diventino delle isole di misericordia in mezzo al mare dell’indifferenza!
3. “Rinfrancate i vostri cuori !” (Gc 5,8) – Il singolo fedele
Anche come singoli abbiamo la tentazione dell’indifferenza. Siamo saturi di notizie e immagini sconvolgenti che ci narrano la sofferenza umana e sentiamo nel medesimo tempo tutta la nostra incapacità ad intervenire. Che cosa fare per non lasciarci assorbire da questa spirale di spavento e di impotenza?
In primo luogo, possiamo pregare nella comunione della Chiesa terrena e celeste. Non trascuriamo la forza della preghiera di tanti! L’iniziativa 24 ore per il Signore, che auspico si celebri in tutta la Chiesa, anche a livello diocesano, nei giorni 13 e 14 marzo, vuole dare espressione a questa necessità della preghiera.
In secondo luogo, possiamo aiutare con gesti di carità, raggiungendo sia i vicini che i lontani, grazie ai tanti organismi di carità della Chiesa. La Quaresima è un tempo propizio per mostrare questo interesse all’altro con un segno, anche piccolo, ma concreto, della nostra partecipazione alla comune umanità.
E in terzo luogo, la sofferenza dell’altro costituisce un richiamo alla conversione, perché il bisogno del fratello mi ricorda la fragilità della mia vita, la mia dipendenza da Dio e dai fratelli. Se umilmente chiediamo la grazia di Dio e accettiamo i limiti delle nostre possibilità, allora confideremo nelle infinite possibilità che ha in serbo l’amore di Dio. E potremo resistere alla tentazione diabolica che ci fa credere di poter salvarci e salvare il mondo da soli.
Per superare l’indifferenza e le nostre pretese di onnipotenza, vorrei chiedere a tutti di vivere questo tempo di Quaresima come un percorso di formazione del cuore, come ebbe a dire Benedetto XVI (Lett. enc. Deus caritas est, 31). Avere un cuore misericordioso non significa avere un cuore debole. Chi vuole essere misericordioso ha bisogno di un cuore forte, saldo, chiuso al tentatore, ma aperto a Dio. Un cuore che si lasci compenetrare dallo Spirito e portare sulle strade dell’amore che conducono ai fratelli e alle sorelle. In fondo, un cuore povero, che conosce cioè le proprie povertà e si spende per l’altro.
Per questo, cari fratelli e sorelle, desidero pregare con voi Cristo in questa Quaresima: “Fac cor nostrum secundum cor tuum”: “Rendi il nostro cuore simile al tuo” (Supplica dalle Litanie al Sacro Cuore di Gesù). Allora avremo un cuore forte e misericordioso, vigile e generoso, che non si lascia chiudere in se stesso e non cade nella vertigine della globalizzazione dell’indifferenza.
Con questo auspicio, assicuro la mia preghiera affinché ogni credente e ogni comunità ecclesiale percorra con frutto l’itinerario quaresimale, e vi chiedo di pregare per me. Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca.

Dal Vaticano, 4 ottobre 2014
Festa di San Francesco d’Assisi

Francesco

Gesù guarisce il lebbroso

Gesù guarisce il lebbroso dans immagini sacre 451223_f520

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Publié dans:immagini sacre |on 13 février, 2015 |Pas de commentaires »

MESSAGGIO…PER LA 60a GIORNATA MONDIALE DEI MALATI DI LEBBRA (2013)

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/hlthwork/documents/rc_pc_hlthwork_doc_20130125_lebbra_it.html

MESSAGGIO DEL PRESIDENTE DEL PONTIFICIO CONSIGLIO PER GLI OPERATORI SANITARI

PER LA 60a GIORNATA MONDIALE DEI MALATI DI LEBBRA

(Domenica, 27 gennaio 2013)

Una « occasione propizia per intensificare la diaconia della carità » [1]

Domenica 27 gennaio 2013 si celebra la 60a edizione della Giornata Mondiale di lotta alla Lebbra, male tanto antico quanto grave per le sofferenze, l’esclusione sociale e la povertà che il morbo di Hansen comporta. Questa ricorrenza costituisce, per tutti i cristiani, gli enti benefici e le persone di buona volontà, una preziosa occasione per rilanciare l’impegno in favore di quanti sono colpiti direttamente dal Mycobacterium Leprae o ne sono indirettamente interessati, come i familiari, promuovendo un rinnovato slancio per il reinserimento sociale delle persone che ne portano i segni. Secondo i dati più recenti dell’OMS, circa duecentoventimila fra uomini, donne e bambini hanno contratto la lebbra nel 2011 e molti dei nuovi casi sono stati diagnosticati quando la malattia era in uno stato avanzato. Questi dati mostrano il permanere, nonostante la meritoria azione di realtà internazionali e nazionali, governative e non – come l’OMS e le Fondazioni Raoul Follereau e Sasakawa – di un’ancora insufficiente possibilità di accesso alle strutture diagnostiche e della carenza nella formazione alla prevenzione delle comunità a rischio di contagio, come pure il bisogno di azioni igienicosanitarie mirate. Tutto ciò è fondamentale per la lebbra, ormai senza esito mortale se adeguatamente curata, così come lo è in larga misura per le altre « malattie neglette », che, nella loro totalità, continuano a provocare annualmente centinaia di migliaia fra decessi, gravi invalidità, o comunque compromissioni permanenti dello stato di salute, di adulti, adolescenti e bambini nei Paesi economicamente svantaggiati. Si tratta di patologie che costituiscono degli autentici flagelli in alcune parti del mondo, ma che non riscuotono la sufficiente attenzione da parte della comunità internazionale; tra di esse ritroviamo la dengue, la malattia del sonno, la bilarziosi, l’oncocercosi, la leishmaniosi e il tracoma.
Di fronte ad una tale emergenza sanitaria, anche alla luce dell’Anno della fede, e nel desiderio di impegnarci, sempre più intensamente, come cattolici, nell’adempiere quanto richiesto da Gesù col comandamento « Euntes docete et curate infirmos » (Mt 10, 6-8) e dal nostro Battesimo, desidero rinnovare l’invito ad adoperarsi perché questa 60a Giornata Mondiale di lotta alla lebbra costituisca una nuova « occasione propizia per intensificare la diaconia della carità nelle nostre comunità ecclesiali, per essere ciascuno buon samaritano verso l’altro, verso chi ci sta accanto » [2]. Lasciamo che l’esempio di Santi, Beati, e persone di buona volontà, come san Damiano di Molokai, SS.CC., e santa Marianna Cope, O.S.F., il beato Jan Beyzym, S.I., e la beata Madre Teresa di Calcutta, fondatrice delle Missionarie della Carità, il Servo di Dio Marcello Candia e Raoul Follereau, di cui ricorre quest’anno anche il 110o anniversario della nascita, ci ispirino e ci sostengano nel portare aiuto e conforto a questi nostri fratelli e sorelle malati, ai più piccoli e ai più emarginati.
Ringrazio la Provvidenza divina di aver potuto visitare personalmente, lo scorso anno, sia l’isola di Molokai, dove hanno lavorato san Damiano e santa Marianna, sia il Madagascar, dove ha operato il beato Jan Beyzym. Sono luoghi ricchi di umanità e di fede nei quali ho potuto incontrare persone colpite dalla lebbra e ho avuto modo di pregare per tutti voi malati e per le persone che vi sono accanto.
Un ruolo altrettanto importante spetta anche a tutte le persone vittime della lebbra, che sono chiamate a cooperare per l’affermazione di una società più inclusiva e giusta che permetta il reinserimento di chi è stato guarito, per divulgare e promuovere le possibilità di diagnosi e di cura, per ribadire la necessità di sottoporsi a terapie per esserne curati contribuendo a debellare l’infezione, per diffondere, nelle realtà d’appartenenza, i criteri igienicosanitari indispensabili ad impedirne l’ulteriore propagazione. Come cristiano, chi è stato colpito dalla lebbra ha inoltre la possibilità di vivere la propria condizione in una prospettiva di fede « trovandone il senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore » [3], pregando e offrendo la propria tribolazione per il bene della Chiesa e dell’umanità. Nella consapevolezza che quanto evidenziato è certamente non facile e richiede carità verso se stessi e verso il prossimo, speranza, coraggio, pazienza e determinazione, desidero ricordare – con le parole di san Paolo – che nessuno di noi ha « ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma » che abbiamo « ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: ‘Abbà, Padre!’ ». E, « se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria » (Rm 8,15-17); anche nelle situazioni più avverse, il cristiano ha la certezza che « né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore » (v. 39).
Nel ringraziare infine tutti coloro che si sono adoperati e si adoperano nella lotta alla lebbra, rivolgo la mia più fervida preghiera alla Vergine Maria Salus Infirmorum perché tutti i sofferenti possano trovare sollievo e sostegno nel rapporto con Dio e nell’azione di tante persone che a loro dedicano la vita.

Con la mia vicinanza, preghiera e benedizione.

+ Zygmunt Zimowski

[1] Benedetto XVI, Messaggio per la XXI Giornata Mondiale del Malato 2013, 4.
[2] Ibid.
[3] Benedetto XVI, Lett. enc. Spe salvi, 37.

OMELIA – 15 FEBBRAIO 2015 | 6A DOMENICA T.O.

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/02-annoB/14-15/Omelie/8-Ordinario/6a-Domenica-B/03-06a-Domenica-B-2015-JB.htm

15 FEBBRAIO 2015 | 6A DOMENICA – T. ORDINARIO B | LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA: MT 1,29-39

Continuando la narrazione della prima tappa dell’attività pubblica di Gesù, il vangelo ci presenta il suo incontro con un lebbroso, un malato senza nome del quale conosciamo solo la sua terribile malattia. Non sono frequenti nei vangeli i casi di cura della lebbra; oltre ai racconti paralleli di Mt 8,1-4 e Lc 5,12-16, solo Luca ci offre un altro esempio (Lc 17,11-18). Tipico di Marco è la proibizione finale di Gesù: il miracolo non deve essere divulgato. Non è da rimpiangere che il beneficiato non rispettasse l’ordine ricevuto. La lebbra, quantunque grave indisposizione della pelle, era considerata allora come la malattia più vicina alla morte, per la disintegrazione fisica che la caratterizzava, per il contagio che si temeva e per l’aspetto repulsivo di chi la soffriva. Curare dalla lebbra era considerato un portento simile alla rianimazione di un morto (Nm 12,10-12). Nei giorni di Gesù, il lebbroso, oltre ad essere quasi sempre malato incurabile, era soprattutto per tutta la vita un emarginato sociale: gli era proibita la convivenza coi sani, compresa la sua propria famiglia; viveva trasandato, in posti solitari e, dato che era considerato impuro, non poteva andare nemmeno a pregare al tempio. Il lebbroso non perdeva solo a poco a poco le sue membra a causa della malattia, ma perdeva i suoi esseri cari e la consolazione di visitare il suo Dio, nel Tempio; contava unicamente sulla sua terribile malattia ed un’enorme indigenza. Di esse rimase liberato. Come poteva tacerlo?

In quel tempo, 40si avvicinò a Gesù un lebbroso, supplicandolo in ginocchio: « Se vuoi, puoi purificarmi. » 41Sentendo compassione, stese la mano e lo toccò, dicendo: « Lo voglio, sii purificato » 42La lebbra gli fu tolta immediatamente, e fu purificato. 43E ammonendolo severamente, gli disse: 44″Guarda di non dir niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro ». 45Ma, quando andò via, incominciò a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva entrare oramai apertamente in nessuna città; rimaneva fuori, in luoghi deserti; ed anche lì accorrevano da tutte le parti.

1. LEGGERE:
Capire quello che dice il testo e come lo dice

Durante il primo viaggio di Gesù per la Galilea, predicando il vangelo ed scacciando demoni (Mc 1,39), un lebbroso si avvicina a Gesù. La sua presenza è inaspettata: il lebbroso doveva evitare di entrare in contatto coi sani. Più insolito è ancora il suo comportamento: lo supplica, inginocchiato, per la sua guarigione. L’iniziativa, dunque, parte dal malato; la sua petizione è chiara, benché cortese: se vuoi. Riconosce che può curarlo ed accetta che deve volerlo: sa che ha il potere, non sa che vuole guarirlo. Il malato, non sappiamo bene perché, perché il testo non lo menziona, mette la sua fiducia in Gesù: la sua guarigione dipende dalla buona volontà di Gesù. Portato dalla sua necessità estrema, si mette nelle sue mani.
Prima di curare, Gesù si commuove. E quello che è più è sorprendente, tocca il malato; il male del lebbroso gli ha ferito il cuore, e, toccandolo con la mano, è rimasto esposto al contagio della sua impurità. Prima di volere guarirlo, Gesù ha sentito compassione. E per guarirlo, ha rotto un tabù sociale ed una norma legale. Il miracolo non nasce solo dalla volontà di un taumaturgo, neutrale o distante; si sente infetto personalmente prima di lasciare pulito il lebbroso e rischia di trasgredire la legge.
Il racconto, con tutto ciò, non finisce col miracolo realizzato. Il silenzio imposto l’obbliga ad evitare la testimonianza personale; ma il mandato di presentarsi al sacerdote lo restituisce alla vita sociale e all’obbedienza legale. Il comportamento di Gesù è paradossale. Ma il lebbroso, appena guarito, non può lasciare di proclamare la sua buona sorte: trovarsi con Gesù l’ha guarito e convertito in suo testimone. Lo precede la sua fama di guaritore. Il racconto comincia narrando che gli si avvicinò un lebbroso. E finisce annotando che « accorrevano a lui da tutte le parti. » Dovette guarire un escluso sociale affinché la gente si lanciasse alla sua ricerca, alla ricerca di uno che..

2. MEDITARE:
APPLICARE QUELLO CHE DICE IL TESTO ALLA VITA

Nei miracoli di Gesù si manifesta, efficace e presente, il regno di Dio. Risaltando, inoltre, i sentimenti di Gesù, Marco umanizza il miracolo: la sua pietà verso il malato lo portò a guarirlo; la sua compassione lo liberò della vergogna. Gesù restituisce alla comunità l’uomo emarginato, ma non desidera che si conosca il prodigio; il rispetto della legge segnala qui la meta autentica della cura: solo il sacerdote deve constatare quello che è successo. Ma chi si è avvicinato al regno, non può tacere. E contro lo stesso Gesù, gli fa da testimone. Niente di buono può dire su Cristo chi niente di buono ha sperimentato. Non dovrebbe importarci che ci trovi malati; se riusciamo ad attirare la sua attenzione, ritorneremo curati da lui e con lui gioiremo. E per inopportuno che sia, nonostante la sua ammonizione, gireremo il mondo proclamando il bene che ci ha fatto. Se per percorrere questa strada è necessario solo non sentirsi bene del tutto, con se stesso e col proprio mondo, che cosa ci impedisce di iniziare?
Di questa situazione disperata, senza uscita, ne seppe approfittare il lebbroso del vangelo per la sua salvezza; nel suo gesto, e nella reazione di Gesù, potremmo immaginarci un possibile accesso a Gesù, e la nostra salvezza. Solo così la narrazione che abbiamo sentito sarà per noi parola di Dio, buona notizia, vangelo fatto opportunità di vita e motivo di speranza.
Benché ci sembri logico che un malato cerchi chi possa curarlo, il caso è che, essendo lebbroso, gli era espressamente proibito dalla legge di avvicinarsi a qualunque persona. I lebbrosi erano obbligati a farsi conoscere con urla, per evitare il contatto con chi passava vicino: questo, invece, si avvicina e supplica in ginocchio; non gli interessa quello che era prescritto, per riuscire ad ottenere che Gesù lo esaudisca; prende l’iniziativa e si fida di Gesù che passava da lontano: se vuoi, puoi mondarmi. Il lebbroso si sottomette alla volontà di Gesù, prima di manifestarle la propria; si dichiara d’accordo con Gesù, senza che conosca ancora la sua reazione. Si appoggia più su quello che Gesù vuole che non su ciò che desidera; gli importa di più la volontà di Gesù che la propria. Affidarsi è la migliore maniera di chiedere qualcosa, senza esigerlo.
Bisogna ammirare la fede, sorta da una situazione senza speranza, di questo malato: si ha bisogno di molta fiducia in Gesù per accettare dall’inizio una sua decisione che non sappiamo se ci esaudisca realmente. Ma solo così, la domanda, perfino quella dettata da certe leggi, si fa largo ed è ascoltata. Il lebbroso ha scommesso su Gesù, chissà perché non aveva un altro a cui confidarsi; ma ciò non importa: gli confidò il suo male e la sua disposizione ad accontentarsi di quello che gli desse. Apprenderemo qualche giorno a pregare come il lebbroso? Quando ci stringeremo a Gesù, che cosa ci porta a lui, come gli facciamo presenti le nostre necessità? La fiducia previa, l’audacia di andare alla sua ricerca contro quello che pensino o comandino gli altri, l’accettazione espressa della sua volontà, ci apriranno il suo cuore. Così succedette in quel tempo al lebbroso. Ed a noi potrebbe succederci oggi, in qualunque giorno, se avessimo la fede del lebbroso e mettessimo la nostra fiducia in Cristo.
Fu la sua estrema necessità che diede coraggio al lebbroso per andare, rompendo le norme, in cerca di Gesù; ma fu la simpatia di Gesù, la sua profonda tenerezza davanti ad una terribile malattia, quello che lo portò a toccare, contro ogni logica e contro la legge di allora, il malato contagioso: Gesù lo guarì avvicinandosi al suo male, visibilmente commosso.
Siccome ci manca la fiducia che ebbe il lebbroso, non troviamo Gesù commosso davanti a noi, né riusciamo a sentirci afferrati dalla sua mano. Coloro che vanno a Gesù col proprio male, per terribile che sia, e lo pregano, carichi di fiducia: se vuoi, puoi curarmi, gli sentiranno dire: lo voglio, sii mondato. Perché non abbiamo trovato ancora la mano e la compassione di Gesù? non sarà perché, non avendo accettato il nostro male, non troviamo ragione alcuna per affidarlo a Dio? Che cosa ci fa dubitare del valore del saper pregare, del fidarsi di Dio! abbiamo bisogno di coraggio, non piccolo, per affrontare i nostri mali, se vogliamo uscire in cerca di aiuto. Perdiamo il buon Dio solo perché ci crediamo o già buoni o non sufficientemente ammalati.
Gesù non cura solo il lebbroso, lo restituisce alla società: libera l’uomo dalla sua malattia e dalla sua solitudine. Quando Dio guarisce, non cura solo il nostro male interiore, trasforma anche le nostre relazioni con gli altri, ci guarisce in profondità e ci impone la convivenza: a colui che gli è stata restituita la salute, deve diventare fratello degli altri; a chi guarisce, Gesù lo introduce, già mondo, tra gli uomini che si credono sani. È la sua forma di curare il mondo. Non è per garantire l’incontro con Gesù che non abbiamo ragioni per andare verso gli altri; né lo è una eucaristia che ci salvi solo dai nostri peccati o una vita di fede che ci liberi dai nostri fratelli; e – capiamolo bene – fratelli sono tutti quelli che il male ha reso fratelli con noi. Unicamente chi incontra Gesù per trovarsi con gli altri, è completamente guarito: la solitudine nella quale viviamo la nostra fede che ci fa indifferenti al male degli altri, preoccupati solo del nostro, è segno inequivocabile che non siamo stati curati da Gesù. Per quanto malati ci sentiamo, per quanto glielo chiediamo, se la nostra vita di credenti non ci guarisce interiormente e non ci integra di più nella vita degli altri, a poco servono i nostri incontri con Gesù.
Chi trova Gesù, come il lebbroso, si converte, nonostante contro lo stesso comando di Gesù, nel suo testimone più efficace: non si può tacere la propria guarigione, non si può tacere la grazia ricevuta. Il riconoscimento è opera del cuore e le labbra non hanno la forza per tacere i sentimenti; così l’antico lebbroso si trasformò inopinatamente in profeta loquace: crea intorno a sé un movimento di simpatia verso Gesù, fino al punto che gli fu difficile la sua vita giornaliera ed il suo riposo; costa ben poco al malato, in altri tempi escluso, parlare bene, e molto di chi l’ha guarito.
E noi? Se è vero che non vediamo troppi entusiasmi per Gesù intorno a noi, nel nostro mondo, in famiglia,.. non sarà perché non siamo riusciti ancora a sentirci guariti da Gesù? O se egli ha fatto già la sua parte, se ci ha presi già tante volte per mano e ha detto si lo voglio, sii mondato, non sarà perché non vogliamo dire con la nostra vita il bene che ci ha fatto Dio? Se Egli è per noi la cosa più importante, la cosa migliore che abbiamo, perché tacerlo?; perché occultarlo agli altri? Non sarà che non siamo ancora convinti del tutto della bontà di Gesù, che può e vuole curarci? Ci mancherà, a noi credenti di oggi, quello che eccedé al lebbroso di ieri: fiducia nel potere, fede nella buona volontà di Gesù?

JUAN J. BARTOLOME sd

Jerusalem, The old city walls near the Jaffa Gate.

Jerusalem, The old city walls near the Jaffa Gate. dans immagini 1280px-Jerusalem_-_Walls_leading_to_Jaffo_Gate

http://en.wikipedia.org/wiki/City_of_David_National_Park

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NEVE SILENZIO E STUPORE

http://web.tiscali.it/pulchritudo/page174/page211/page211.html

NEVE SILENZIO E STUPORE

È diventato famoso il verso di una battuta del poeta francese Francois Villon, nato a Parigi attorno al 1431 e morto dopo il 1463: Mais où sontles neiges d’antan?, « Ma dove sono le nevi di un tempo?”.
Si ripete spesso che non nevica più come accadeva nella nostra infanzia, che il tempo è cambiato e che le stagioni sono trasformate.
Forse è questione di nostalgia del passato, anche se per noi del terzo millennio c’è di mezzo quella devastazione ambientale che abbiamo perpetrato e di cui le grandi nazioni non mostrano segni di pentimento o ravvedimento.
Ebbene, noi ora vorremmo evocare una sorta di quadretto invernale attraverso il rimando a un solenne e vasto inno al Creatore composto da un sapiente biblico vissuto nel Il sec. a.C., il cui nome completo era Gesù Ben Sira, chiamato convenzionalmente il Siracide.
Il suo canto al Creatore si stende dal 42,15 fino a 43,33 del suo libro e si apre con una celebrazione del mistero divino e, dello splendore cosmico: «Quanto sono amabili tutte le sue opere! Eppure solo una scintilla se ne può osservare!… Esse sono a coppia, una di fronte all’altra; nulla ha creato di incompleto…». Ma quest’ultima frase nell’originale ebraico, ritrovato a partire dalla fine dell’Ottocento e a metà del secolo scorso (prima possedevamo solo la versione greca dell’opera eseguita dal nipote del Siracide), suona così: «Ogni creatura è diversa dall’altra; non ne ha fatta nessuna inutile!».
Dopo questa premessa sfilano le creature più affascinanti: il sole che «emette vampe di fuoco, fa brillare i suoi raggi e abbaglia gli occhi»; la luna che è come un orologio cosmico (si ricordi che il calendario ebraico è lunare); le stelle simili a sentinelle nelle loro varie postazioni; l’arcobaleno «teso dalle mani di Dio», «affascinante nel suo splendore»; ecco poi i vari eventi meteorologici, come il guizzare dei fulmini, il volo delle nubi nel cielo, il tuono che fa tremare la terra, il turbinio dei venti.
È a questo punto che si apre la scena dell’inverno con la meraviglia della neve che spesso imbianca i colli su cui si leva Gerusalemme. Il poeta biblico canta così quella stagione: «Scende la neve come uccellini che si posano; la sua discesa sembra quella delle cavallette che si posano. L’occhio contempla la bellezza del suo candore e il cuore stupisce nel vederla fioccare.
Il Signore riversa poi sulla terra la brina come se fosse sale: gelandosi forma come tante punte di spine.
Soffia la gelida tramontana: sulla superficie dell’acqua si condensa il ghiaccio che si depone sull’intera massa delle acque che si rivestono così d’una corazza» (43,18-20).
Subentra poi l’estate; ma lo spazio maggiore è riservato proprio all’inverno, la stagione che più impressiona chi vive in un paesaggio spesso assolato e arido. Tuttavia lo sguardo del poeta biblico non è mai solo “romantico”. Subito dopo, infatti, il Siracide canta: «Potremmo dire tante cose e mai finiremmo se non per dire: Egli è tutto! … Egli, il Grande, sopra tutte le creature! Il Signore è terribile e grandioso, meravigliosa è la sua potenza!» (43,27-29)

Publié dans:meditazioni |on 12 février, 2015 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – GLI APOSTOLI, TESTIMONI E INVIATI DI CRISTO (2006)

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2006/documents/hf_ben-xvi_aud_20060322.html

BENEDETTO XVI – GLI APOSTOLI, TESTIMONI E INVIATI DI CRISTO (2006)

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 22 marzo 2006

Gli Apostoli, testimoni e inviati di Cristo

Cari fratelli e sorelle,

la Lettera agli Efesini ci presenta la Chiesa come una costruzione edificata « sul fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù » (2, 29). Nell’Apocalisse il ruolo degli Apostoli, e più specificamente dei Dodici, è chiarito nella prospettiva escatologica della Gerusalemme celeste, presentata come una città le cui mura « poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello » (21, 14). I Vangeli concordano nel riferire che la chiamata degli Apostoli segnò i primi passi del ministero di Gesù, dopo il battesimo ricevuto dal Battista nelle acque del Giordano.
Stando al racconto di Marco (1, 16-20) e di Matteo (4, 18-22), lo scenario della chiamata dei primi Apostoli è il lago di Galilea. Gesù ha da poco cominciato la predicazione del Regno di Dio, quando il suo sguardo si posa su due coppie di fratelli: Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni. Sono pescatori, impegnati nel loro lavoro quotidiano. Gettano le reti, le riassettano. Ma un’altra pesca li attende. Gesù li chiama con decisione ed essi con prontezza lo seguono: ormai saranno « pescatori di uomini » (cfr Mc 1, 17; Mt 4, 19). Luca, pur seguendo la medesima tradizione, ha un racconto più elaborato (5, 1-11). Esso mostra il cammino di fede dei primi discepoli, precisando che l’invito alla sequela giunge loro dopo aver ascoltato la prima predicazione di Gesù e sperimentato i primi segni prodigiosi da lui compiuti. In particolare, la pesca miracolosa costituisce il contesto immediato e offre il simbolo della missione di pescatori di uomini, ad essi affidata. Il destino di questi « chiamati », d’ora in poi, sarà intimamente legato a quello di Gesù. L’apostolo è un inviato, ma, prima ancora, un « esperto » di Gesù.
Proprio questo aspetto è messo in evidenza dall’evangelista Giovanni fin dal primo incontro di Gesù con i futuri Apostoli. Qui lo scenario è diverso. L’incontro si svolge sulle rive del Giordano. La presenza dei futuri discepoli, venuti anch’essi, come Gesù, dalla Galilea per vivere l’esperienza del battesimo amministrato da Giovanni, fa luce sul loro mondo spirituale. Erano uomini in attesa del Regno di Dio, desiderosi di conoscere il Messia, la cui venuta era annunciata come imminente. Basta ad essi l’indicazione di Giovanni Battista che addita in Gesù l’Agnello di Dio (cfr Gv 1, 36), perché sorga in loro il desiderio di un incontro personale con il Maestro. Le battute del dialogo di Gesù con i primi due futuri Apostoli sono molto espressive. Alla domanda: « Che cercate? », essi rispondono con un’altra domanda: « Rabbì (che significa Maestro), dove abiti? ». La risposta di Gesù è un invito: « Venite e vedrete » (cfr Gv 1, 38-39). Venite per poter vedere. L’avventura degli Apostoli comincia così, come un incontro di persone che si aprono reciprocamente. Comincia per i discepoli una conoscenza diretta del Maestro. Vedono dove abita e cominciano a conoscerlo. Essi infatti non dovranno essere annun-ciatori di un’idea, ma testimoni di una persona. Prima di essere mandati ad evangelizzare, dovranno « stare » con Gesù (cfr Mc 3, 14), stabilendo con lui un rapporto personale. Su questa base, l’evangelizzazione altro non sarà che un annuncio di ciò che si è sperimentato e un invito ad entrare nel mistero della comunione con Cristo (cfr 1 Gv 1,3).
A chi saranno inviati gli Apostoli? Nel Vangelo Gesù sembra restringere al solo Israele la sua missione: « Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d’Israele » (Mt 15, 24). In maniera analoga egli sembra circoscrivere la missione affidata ai Dodici: « Questi Dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti: « Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele »" (Mt 10, 5s.). Una certa critica moderna di ispirazione razionalistica aveva visto in queste espressioni la mancanza di una coscienza universalistica del Nazareno. In realtà, esse vanno comprese alla luce del suo rapporto speciale con Israele, comunità dell’alleanza, nella continuità della storia della salvezza. Secondo l’attesa messianica le promesse divine, immediatamente indirizzate ad Israele, sarebbero giunte a compimento quando Dio stesso, attraverso il suo Eletto, avrebbe raccolto il suo popolo come fa un pastore con il gregge: « Io salverò le mie pecore e non saranno più oggetto di preda… Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore; io, il Signore, sarò il loro Dio e Davide mio servo sarà principe in mezzo a loro » (Ez 34, 22-24). Gesù è il pastore escatologico, che raduna le pecore perdute della casa d’Israele e va in cerca di esse, perché le conosce e le ama (cfr Lc 15, 4-7 e Mt 18, 12-14; cfr anche la figura del buon pastore in Gv 10, 11ss.). Attraverso questa « raccolta » il Regno di Dio si annuncia a tutte le genti: « Fra le genti manifesterò la mia gloria e tutte le genti vedranno la giustizia che avrò fatta e la mano che avrò posta su di voi » (Ez 39, 21).
E Gesù segue proprio questo filo profetico. Il primo passo è la « raccolta » del popolo di Israele, perché così tutte le genti chiamate a radunarsi nella comunione col Signore, possano vedere e credere. Così, i Dodici, assunti a partecipare alla stessa missione di Gesù, cooperano col Pastore degli ultimi tempi, andando anzitutto anche loro dalle pecore perdute della casa d’Israele, rivolgendosi cioè al popolo della promessa, il cui raduno è il segno di salvezza per tutti i popoli, l’inizio dell’universalizzazione dell’Alleanza. Lungi dal contraddire l’apertura universalistica dell’azione messianica del Nazareno, l’iniziale restringimento ad Israele della missione sua e dei Dodici ne diventa così il segno profetico più efficace. Dopo la passione e la risurrezione di Cristo tale segno sarà chiarito: il carattere universale della missione degli Apostoli diventerà esplicito. Cristo invierà gli Apostoli « in tutto il mondo » (Mc 16, 15), a « tutte le nazioni » (Mt 28, 19; Lc 24, 47, « fino agli estremi confini della terra » (At 1, 8). E questa missione continua. Continua sempre il mandato del Signore di riunire i popoli nell’unità del suo amore. Questa è la nostra speranza e questo è anche il nostro mandato: contribuire a questa universalità, a questa vera unità nella ricchezza delle culture, in comunione con il nostro vero Signore Gesù Cristo.

Christ in the Wilderness – Awaking

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http://www.wikiart.org/nl/stanley-spencer/christ-in-the-wilderness-awaking

Publié dans:immagini sacre |on 11 février, 2015 |Pas de commentaires »

NON NOMINARE TROPPO DIO – di ENZO BIANCHI

http://www.monasterodibose.it/priore/articoli/articoli-su-riviste/8460-non-nominare-troppo-dio

NON NOMINARE TROPPO DIO

JESUS, maggio 2014 – Rubrica La bisaccia del mendicante 3

di ENZO BIANCHI

Annota il vangelo secondo Matteo: «Gesù parlava di molte cose in parabole» (Mt 13,3). Sì, parlava di molte cose e in parabole. “Di molte cose” significa che Gesù non consegnava formule, verità codificate, ma parlava della realtà, di ciò che è quotidiano, di ciò che accade nella vita di uomini e donne. Mai nei vangeli sinottici Gesù consegna agli altri delle formule su Dio, anzi di Dio parla poco…
Ne parla solo perché emerga un’immagine diversa da quella preconfezionata trasmessa dai dottori della legge: un’immagine che si potesse riscontrare, leggere, decifrare nella sua vita umanissima e quotidiana, mai straordinaria, mai volta a incantare o a sedurre.Gesù parlava di Dio “in parabole” senza nominarlo. Non aveva in bocca la parola «Dio», utile in ogni dialogo, non aveva l’ansia di nominarlo a tutti i costi, parlando di Dio alla terza persona.
Nelle parabole, possiamo dire, si trova una parola «non religiosa», una parola che indicava alla mente degli ascoltatori cose ed eventi umanissimi, terrestri: un fico che mette i germogli in primavera, del lievito che fa lievitare la pasta, un padre che attende e perdona il figlio perduto, un pastore che perde e ritrova una pecora, una donna che ritrova la moneta perduta, un agricoltore che semina il grano, un uomo che pianta una vigna, un altro che assume lavoratori nella sua vigna…
Racconti, narrazioni in cui Dio non è il protagonista né uno dei personaggi, ma che, una volta ascoltati con gli orecchi e meditati nel cuore, potevano comunque far capire qualcosa dei sentimenti, delle attese, delle azioni di Dio, di quello che Gesù chiamava il Regno di Dio.Possiamo pensare che a volte venissero rivolte a Gesù delle domande su Dio, eppure egli non consegnava in risposta delle formule, non forniva certezze, ma rimandava all’esperienza umana, alla storia e alla microstoria in cui gli uomini e le donne sono coinvolti.
Non c’era mai in Gesù l’ansia di fornire risposte catechetiche, di annunciare dogmi, di indicare leggi morali ferree: parlava in parabole, parlava di molte cose… «Non parlava come gli scribi», annotano i vangeli, ma «parlava con autorità» (cf. Mc 1,22 e par.), non come gli incaricati della religione, istituiti e muniti di potere, senza far uso di un linguaggio religioso, ma con l’autorevolezza che gli veniva dalla sua coerenza tra il dire e il fare. Tra le cause dell’opposizione a Gesù di scribi e sacerdoti va annoverato anche questo suo linguaggio umanissimo che sconcertava in bocca a un predicatore, perché egli non diceva quello che tutti dicevano e non ripeteva quello che era stato detto e che veniva chiamato tradizione.
Mai in Gesù un ricorso al «sovraumano»! Egli chiedeva invece di ripensare l’idea che quasi tutti avevano di Dio, mostrava di non disprezzare mai ciò che è umano e tanto meno gli uomini, a qualunque cultura, gente o religione appartenessero. Gesù non parlava di un Dio grande, onnipotente, vittorioso e che sa imporsi sugli uomini, lo accolgano o non lo accolgano: parlava di un Padre che chiamava Abinu, «Padre nostro», che chiamava confidenzialmente Abba (Mc 14,36), «Papà»; un Dio che conosce solo l’onnipotenza dell’amore, un Dio che desidera dare amore a chi non lo merita, un Dio che vuole salvare chi è perduto e si sente tale.
Proprio per questo Gesù «si è perduto», è stato annoverato tra i malfattori, giudicato amico di peccatori pubblicamente riconosciuti, impuro perché non ossessionato dalla purità e dall’ansia immunitaria.La sua carne era parola umana, come la carne di ciascuno di noi è una parola d’uomo. Anziché parlare di Dio alla terza persona, Gesù preferisce nella sua preghiera, sovente solitaria, dargli del tu, invocarlo, lodarlo, ringraziarlo. Voleva che noi comprendessimo che la sua vita era narrazione in mezzo a noi uomini del Dio invisibile. E nella sua umanità quotidiana, nel suo avvicinarsi e prendersi cura di chi era nel bisogno Gesù “parlava” di Dio e lo faceva conoscere: non faceva discorsi su Dio, ma lo rivelava nella sua pratica di umanità. Sicché si poté dire: “Hai visto Gesù? Hai visto un vero uomo, hai visto Dio!”.

Pubblicato su: Jesus

Publié dans:Enzo Bianchi, meditazioni |on 11 février, 2015 |Pas de commentaires »
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