Giovanni Bellini, St. Jerome in the Desert, c. 1455;

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20020924_agostino-trinity_it.html
DIO È VERITÀ
AGOSTINO, LA TRINITÀ, 8,2
« Questo Dio, se ci sforziamo di pensarlo, nella misura in cui ce lo concede e permette, non pensiamolo in contatto con lo spazio, abbracciante lo spazio, come una specie di essere costituito da tre corpi. Non si ha da immaginare in lui nessuna unione di parti congiunte, come in quel Gerione [nella mitologia greca, figlio di Crisaore e Callinoe, dotato di tre corpi uniti per il ventre; Dante ne farà il simbolo della frode (Inferno XVI e XVII)] dai tre corpi, di cui parlano le favole; ogni immagine per cui tre sarebbero più grandi di uno solo, uno più piccolo di due, cacciamola senza esitazione dalla nostra anima: così infatti respingiamo ogni elemento corporeo. Nell’ordine spirituale, nulla di ciò che ci si presenta come sottoposto al mutamento, dobbiamo ritenere che sia Dio.
Non è una piccola conoscenza quando, da questo abisso, elevandoci a quella vetta riprendiamo lena, il poter conoscere che cosa Dio non è, prima di sapere che cosa è. Egli non è certamente né terra né cielo; nulla che assomigli alla terra o al cielo, nulla di uguale a ciò che vediamo in cielo, nulla di uguale a ciò che in cielo non vediamo e forse vi si trova. Tu potrai accrescere con l’immaginazione la luce del sole quanto ti sarà possibile, sia in volume, sia in splendore, mille volte di più o all’infinito, nemmeno questo sarà Dio. E se ci rappresentassimo gli angeli, puri spiriti che animano i corpi celesti, li muovono e li dirigono secondo un volere che è al servizio di Dio; anche se questi angeli, che sono migliaia di migliaia, venissero riuniti tutti per formare un solo essere, Dio non sarebbe nulla di simile. E lo stesso discorso varrebbe anche se si giungesse a rappresentarsi questi spiriti senza corpi, cosa assai difficile per il nostro pensiero carnale.
Comprendi dunque, se lo puoi, o anima tanto appesantita da un corpo soggetto alla corruzione e aggravata da pensieri terrestri molteplici e vari; comprendi, se lo puoi, che Dio è Verità. È scritto infatti che Dio è luce (1Gv 1,5), non la luce che vedono i nostri occhi, ma quella che vede il cuore, quando sente dire: è la Verità. Non cercare di sapere cos’è la verità, perché immediatamente si interporranno la caligine delle immagini corporee e le nubi dei fantasmi e turberanno la limpida chiarezza, che al primo istante ha brillato al tuo sguardo, quando ti ho detto: Verità. Resta, se puoi, nella chiarezza iniziale di questo rapido fulgore che ti abbaglia, quando si dice: Verità. Ma non puoi, tu ricadi in queste cose abituali e terrene. Qual è dunque, ti chiedo, il peso che ti fa ricadere, se non quello delle immondezze che ti hanno fatto contrarre il glutine della passione e gli sviamenti della tua peregrinazione? »
SANTA MESSA, BENEDIZIONE E IMPOSIZIONE DELLE CENERI
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica di Santa Sabina
Mercoledì, 18 febbraio 2015
Come popolo di Dio incominciamo il cammino della Quaresima, tempo in cui cerchiamo di unirci più strettamente al Signore, per condividere il mistero della sua passione e della sua risurrezione.
La liturgia di oggi ci propone anzitutto il passo del profeta Gioele, inviato da Dio a chiamare il popolo alla penitenza e alla conversione, a causa di una calamità (un’invasione di cavallette) che devasta la Giudea. Solo il Signore può salvare dal flagello e bisogna quindi supplicarlo con preghiere e digiuni, confessando il proprio peccato.
Il profeta insiste sulla conversione interiore: «Ritornate a me con tutto il cuore» (2,12).
Ritornare al Signore “con tutto il cuore” significa intraprendere il cammino di una conversione non superficiale e transitoria, bensì un itinerario spirituale che riguarda il luogo più intimo della nostra persona. Il cuore, infatti, è la sede dei nostri sentimenti, il centro in cui maturano le nostre scelte, i nostri atteggiamenti. Quel “ritornate a me con tutto il cuore” non coinvolge solamente i singoli, ma si estende all’intera comunità, è una convocazione rivolta a tutti: «Radunate il popolo, indite un’assemblea solenne, chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera e la sposa dal suo talamo» (v. 16).
Il profeta si sofferma in particolare sulla preghiera dei sacerdoti, facendo osservare che va accompagnata dalle lacrime. Ci farà bene, a tutti, ma specialmente a noi sacerdoti, all’inizio di questa Quaresima, chiedere il dono delle lacrime, così da rendere la nostra preghiera e il nostro cammino di conversione sempre più autentici e senza ipocrisia. Ci farà bene farci la domanda: “Io piango? Il Papa piange? I cardinali piangono? I vescovi piangono? I consacrati piangono? I sacerdoti piangono? Il pianto è nelle nostre preghiere?”. E proprio questo è il messaggio del Vangelo odierno. Nel brano di Matteo, Gesù rilegge le tre opere di pietà previste nella legge mosaica: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. E distingue, il fatto esterno dal fatto interno, da quel piangere dal cuore. Nel corso del tempo, queste prescrizioni erano state intaccate dalla ruggine del formalismo esteriore, o addirittura si erano mutate in un segno di superiorità sociale. Gesù mette in evidenza una tentazione comune in queste tre opere, che si può riassumere proprio nell’ipocrisia (la nomina per ben tre volte): «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro…Quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti…Quando pregate, non siate simili agli ipocriti, che…amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. … E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti» (Mt 6,1.2.5.16). Sapete, fratelli, che gli ipocriti non sanno piangere, hanno dimenticato come si piange, non chiedono il dono delle lacrime.
Quando si compie qualcosa di buono, quasi istintivamente nasce in noi il desiderio di essere stimati e ammirati per questa buona azione, per ricavarne una soddisfazione. Gesù ci invita a compiere queste opere senza alcuna ostentazione, e a confidare unicamente nella ricompensa del Padre «che vede nel segreto» (Mt 6,4.6.18).
Cari fratelli e sorelle, il Signore non si stanca mai di avere misericordia di noi, e vuole offrirci ancora una volta il suo perdono – tutti ne abbiamo bisogno – , invitandoci a tornare a Lui con un cuore nuovo, purificato dal male, purificato dalle lacrime, per prendere parte alla sua gioia. Come accogliere questo invito? Ce lo suggerisce san Paolo: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor5,20). Questo sforzo di conversione non è soltanto un’opera umana, è lasciarsi riconciliare. La riconciliazione tra noi e Dio è possibile grazie alla misericordia del Padre che, per amore verso di noi, non ha esitato a sacrificare il suo Figlio unigenito. Infatti il Cristo, che era giusto e senza peccato, per noi fu fatto peccato (v. 21) quando sulla croce fu caricato dei nostri peccati, e così ci ha riscattati e giustificati davanti a Dio. «In Lui» noi possiamo diventare giusti, in Lui possiamo cambiare, se accogliamo la grazia di Dio e non lasciamo passare invano questo «momento favorevole» (6,2). Per favore, fermiamoci, fermiamoci un po’ e lasciamoci riconciliare con Dio.
Con questa consapevolezza, iniziamo fiduciosi e gioiosi l’itinerario quaresimale. Maria Madre Immacolata, senza peccato, sostenga il nostro combattimento spirituale contro il peccato, ci accompagni in questo momento favorevole, perché possiamo giungere a cantare insieme l’esultanza della vittoria nel giorno della Pasqua. E come segno della volontà di lasciarci riconciliare con Dio, oltre alle lacrime che saranno “nel segreto”, in pubblico compiremo il gesto dell’imposizione delle ceneri sul capo. Il celebrante pronuncia queste parole: «Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai» (cfr Gen 3,19), oppure ripete l’esortazione di Gesù: «Convertitevi e credete al Vangelo» (cfr Mc 1,15). Entrambe le formule costituiscono un richiamo alla verità dell’esistenza umana: siamo creature limitate, peccatori sempre bisognosi di penitenza e di conversione. Quanto è importante ascoltare ed accogliere tale richiamo in questo nostro tempo! L’invito alla conversione è allora una spinta a tornare, come fece il figlio della parabola, tra le braccia di Dio, Padre tenero e misericordioso, a piangere in quell’abbraccio, a fidarsi di Lui e ad affidarsi a Lui.
PONTIFICIA COMMISSIONE PER I BENI CULTURALI DELLA CHIESA
OMELIA DI S.E. MONS. MAURO PIACENZA
Basilica di S. Marco a Firenze, 18 febbraio 2004
IL BEATO GIOVANNI DA FIESOLE – “BEATO ANGELICO” 18 FEBBRAIO
“Chi fa cose di Cristo, con Cristo deve stare sempre”. Vero discepolo del Santo Patriarca Domenico che o parlava con Dio o parlava di Dio. Questo è il motto che amava ripetere Fra Giovanni da Fiesole insignito dell’epiteto di “Beato Angelico” per la perfetta integrità di vita e per la bellezza quasi divina delle immagini dipinte, e in grado superlativo quelle della Beata Vergine Maria.
Queste parole non sono mie ma del Santo Padre, Giovanni Paolo II e accompagnano le Lettere apostoliche emanate di propria autorità quando concesse nel 1982 a tutto l’Ordine dei Frati Predicatori il culto liturgico con il titolo di “Beato” in onore di Fra Giovanni da Fiesole.
Onoriamo nella celebrazione liturgica di questa sera: Guido di Pietro di Dino, toscano di origine e dell’ordine domenicano, con il nome di Giovanni da Fiesole, meglio conosciuto come Beato Angelico.
La Colletta di questa Santa Messa ci ha ricordato che il Beato Angelico, ispirato dalla paterna provvidenza divina, ha saputo raffigurarci la pace e la dolcezza del paradiso a cui tutti noi tendiamo, perché come dice San Paolo nella lettera ai Romani quelli che vivono secondo lo Spirito pensano alle cose dello Spirito.
“Pittore Angelico” si dirà del Beato Giovanni, l’Angelico, epiteto che gli rimarrà per sempre, formulato dal confratello Domenico da Corella.
Tale attributo del secolo XV è stato avvalorato da Giovanni Paolo II che, in sintonia con il vivissimo desiderio dei venerati predecessori Pio XII e di Paolo VI, avendo anch’egli “nutrito sempre grande simpatia per questo uomo eccellente in spiritualità e arte”, il 3 ottobre 1982 gli riconobbe il titolo, da secoli acquisito, di “Beato”. Inoltre, nella chiesa domenicana di Santa Maria sopra la Minerva in Roma, il 18 febbraio 1984, lo proclamò Patrono universale dei cultori delle arti belle, particolarmente dei pittori. Era la prima volta che il Papa celebrava la Messa in onore del Beato, cui partecipavano cultori d’arte in concomitanza con il 1950º anno della redenzione.
Il vostro Patrono, carissimi fedeli, che sapete porre in evidenza il vero del bello e il bello del vero, è professore peritissimo (“pingendi arte. Peritissimus”) di grazia e bellezza umana e sovrumana: perché il Pittore Angelico con il pennello fatto penna del Dottore Angelico, insegna che “la grazia di Dio non distrugge, ma perfeziona la natura”.
Fra Giovanni, il cui nome significa “Dio fa grazia” è “maestro meraviglioso” (giudizio del fiorentino Antonio Manetti), che illustra i massimi momenti dell’azione della grazia riconciliante.
Nel Salmo 72 abbiamo pregato che il nostro bene è stare vicino a Dio, porre nel Signore Dio il nostro rifugio, per narrare tutte le sue opere. Il Beato Angelico ha mirabilmente narrato le opere del Signore attraverso le sue creazioni che muovono il nostro animo alla contemplazione dei divini misteri.
I suoi capolavori d’arte sono finalizzati ai capolavori della divina opera di salvezza.
Le Annunciazioni hanno nel registro interiore la grazia iniziale, di cui è autore il Figlio divino concepito; le Crocifissioni parlano della grazia effusa mediante il suo sangue, da dove scaturisce l’efficacia dei sacramenti; le Incoronazioni contemplano la grazia consumata o sublimata nella gloria.
In simbiosi, l’Angelico è pittore della bellezza divino-umana, seguendo lo stesso ritmo della storia della salvezza.
La preghiera sulle Offerte ci ricorderà che il Signore ha reso insigne il Beato Angelico nel commemorare la passione di Cristo, passione della quale facciamo in questa Santa Eucarestia memoria salvifica.
Nella Deposizione dalla Croce, che si ammira nel museo di San Marco, in un’atmosfera di pacata luce primaverile, Gesù viene accolto, contemplato, adorato nella sua bellezza d’amore, bellezza di sapienza.
Nell’Incoronazione della Vergine contempliamo invece la visione ultraterrena ed escatologica. Cristo “il più bello tra i figli dell’uomo” (Salmo 44), pieno di grazia e di soavità, depone un diadema finissimo sul capo della Madre: leggermente e delicatamente inchinata, in atteggiamento di umiltà, purezza, ubbidienza, come nel momento dell’Annunciazione. Tutta candida e tutta bella.
Con Gesù e Maria e con gli eletti che li attorniano, il pittore degli angeli apre la visione del paradiso. Beata pacis visio!
E’ dunque visione di paradiso e invito al paradiso: è la grazia consumata nella gloria che fa l’uomo santo e bello per sempre.
Pio XII nel discorso commemorativo del 50° centenario della morte di Fra Angelico, nota: “La sua opera diventa un messaggio perenne di cristianesimo vivo e, sotto un certo aspetto, altresì un messaggio altamente umano: fondato sul principio del potere trasumanante della religione, in virtù del quale ogni uomo, che viene a contatto diretto con Dio e i suoi misteri, torna ad essere simile a lui nella santità, nella bellezza, nella beatitudine… un tipo di uomo modello, non dissimile dagli angeli, in cui tutto è equilibrato, sereno e perfetto: modello di uomini e di cristiani forse rari nelle condizioni della vita terrena, ma da proporre all’imitazione del popolo”.
Oggi vogliamo proporre a noi stessi questo modello da imitare. Si possa dire di noi quanto Michelangelo ebbe a dire del Beato ammirando l’Annunciazione e l’Incoronazione in San Domenico di Fiesole: “Io credo che questo Frate vada in Cielo a considerare quei volti beati e poi li venga a dipingere qua in terra”. Contemplazione ed azione. Contemplata aliis tradere. Ecco la nostra azione missionaria; ecco perché i beni culturali della Chiesa non sono oggetti da museo, ma oggetti vivi, pregni di apostolicità.
Sembra quasi che il Beato Angelico si sia accostato alla Gerusalemme celeste e abbia contemplato “i primogeniti inscritti nei cieli”, come se avesse conversato con i Santi del cielo. Le sue pitture esprimono la profonda comunione spirituale che l’Angelico aveva con le realtà celesti. La sua pittura era testimonianza e preghiera, comunione profonda con i Santi Misteri che, anche questa sera, qui vengono celebrati.
Le sue pitture sono composizioni nella luce, non solo per tecnica, ma per principio di fede e di grazia; la fede è luce, la grazia è forza. Sono esse compagne nel nostro cammino sul quale ci è accanto l’artista.
“Religioso osservante e innamorato del divino, visse la religione trasfondendola nelle pitture, contemplando le quali la mente e il cuore sono tratti a pensieri e propositi santi. Per questo l’Angelico è un artista cristiano completo, è il modello insuperato di quell’armonia di vita e di arte che ogni artista cristiano, degno di questo nome, può proporsi” (cfr. S.E. Mons. Giovanni Fallani, in occasione della riapertura della Biblioteca d’arte “Beato Angelico”, presso il Convento di Santa Maria sopra la Minerva, 1963).
Mauro Piacenza
Presidente
Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa
MATERIALITÀ E SIMBOLOGIA BIBLICA DELL’ACQUA
di GIANFRANCO RAVASI –
L’Osservatore Romano 2 settembre 2011
È questa la stagione nella quale riusciamo a comprendere in pienezza il valore di quella tetrade aggettivale che san Francesco ha dedicato nel suo Cantico a “sor’acqua”: “utile et humile et pretiosa et casta”. Tanti sono i profili che questa realtà presenta, soprattutto a livello sociale, come vediamo ininterrottamente nelle “lotte per l’acqua”, nelle tragedie legate alla siccità, nelle stesse politiche: si pensi, per stare vicino a noi, anche alla recente vicenda del referendum che l’aveva proprio per tema.
Si tratta, infatti, di una realtà veramente “utile et pretiosa”, principio della nostra composizione organica e della stessa sopravvivenza. Noi ora ci accontenteremo di lasciare spazio alla Bibbia che ci parlerà non solo della “materialità” dell’acqua ma anche e soprattutto della sua “simbolicità”. … Un panorama assolato, una steppa arida, un’oasi verdeggiante incastonata in una valle, una pista che si dipana negli spazi solitari, qualche raro albero e cespuglio: può sembrare uno stereotipo paesaggistico orientale, ma è effettivamente questo l’habitat prevalente dell’uomo della Bibbia ed è così che l’acqua costituisce, ieri e oggi, il cardine dei desideri e delle contese, l’archetipo dei simboli e delle idee del nomade e del sedentario.
La parola majim, “acqua”, risuona oltre 580 volte nell’Antico Testamento, come l’equivalente greco hydor ritorna un’ottantina di volte nel Nuovo (metà di queste occorrenze sono nel solo Vangelo di Giovanni); circa 1.500 versetti dell’Antico e oltre 430 del Nuovo Testamento sono “intrisi” d’acqua, perché oltre ai vocaboli citati c’è una vera e propria costellazione di realtà che ruotano attorno a questo elemento così prezioso, a partire dal pericoloso jam, il “mare”, o dal più domestico Giordano, passando attraverso le piogge (con nomi ebraici diversi, se autunnali, invernali o primaverili), le sorgenti, i fiumi, i torrenti, i canali, i pozzi, le cisterne, i serbatoi celesti, il diluvio, l’oceano e così via. Per non parlare poi dei verbi legati all’acqua come bere, abbeverare, aver sete, dissetare, versare, immergere (il “battezzare” nel greco neotestamentario), lavare, purificare…. Un filo d’acqua scorre idealmente attraverso le pagine delle Sacre Scritture, testimoniando una sete ancestrale, legata a coordinate geografiche ed ecologiche segnate dall’aridità.
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Non per nulla la Bibbia si apre con la creazione della luce e dell’acqua (Genesi, 1, 3-10) e con le piogge e la canalizzazione delle sorgenti (Genesi, 2, 4-6) e si chiude con “unfiume d’acqua viva limpida come cristallo che scaturisce dal trono di Dio e dell’Agnello” (Apocalisse, 22, 1). E in mezzo c’è sempre l’ansiosa ricerca dell’acqua e la sete. Basti solo pensare a Israele nel deserto e al suo grido: “Dateci acqua da bere!” (Esodo, 17, 2), o alla siccità vista come una maledizione celeste pronunziata dal profeta in nome di Dio: “Per la vita del Signore, Dio d’Israele, alla cui presenza io sto – minaccia Elia – non ci sarà né rugiada né pioggia se non quando lo dirò io” (1 Re, 17, 1).
Geremia ci ha lasciato uno dei più vivaci e drammatici ritratti di questa piaga endemica del Vicino Oriente: “I ricchi mandano i loro servi in cerca d’acqua; essi si recano ai pozzi ma non la trovano e tornano coi recipienti vuoti. Sono delusi e confusi e si coprono il capo. Per il terreno screpolato, perché non cade pioggia nel paese, gli agricoltori sono delusi e confusi. La cerva partorisce nei campi e abbandona il parto perché non c’è erba. Gli onagri si fermano sulle alture e aspirano l’aria come sciacalli; i loro occhi languiscono perché non si trovano erbaggi” (14, 3-6)…. È per questo che, quando s’affacciano le nubi e cade la pioggia, si è convinti di ricevere una benedizione divina, come si legge nel Deuteronomio: “Il Signore apre per te il suo benefico tesoro, il cielo, per dare alla tua terra la pioggia a suo tempo e per benedire tutto il lavoro delle tue mani” (28, 12).
Tuttavia il Creatore, che è Padre di tutti, si preoccupa di ogni sua creatura prescindendo dal merito, come dirà Gesù: “Il Padre vostro celeste fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Matteo, 5, 45). E quando arriva la primavera con le sue piogge, il Salmista – in un dipinto poetico di straordinaria fragranza (65, 10-14) – immagina che il Signore passi col suo carro delle acque “dissetando la terra, gonfiando i fiumi, irrigando i solchi, amalgamando le zolle, bagnando il terreno con la pioggia: al suo passaggio stilla l’abbondanza, stillano i pascoli del deserto (…) e tutto canta e grida di gioia”.
L’uomo dà il suo contributo con le canalizzazioni e la tecnica idraulica: basti solo visitare nella fortezza di Meghiddo in Galilea l’imponente acquedotto o seguire la galleria (di 540 metri) scavata nell’VIII secolo prima dell’era cristiana, dal re Ezechia per portare l’acqua dalla sorgente di Ghicon fino alla riserva di Siloe a Gerusalemme (una lapide, conservata ora al museo archeologico di Istanbul evoca il momento emozionante della caduta dell’ultimo diaframma e dell’incontro delle due squadre di operai che da lati opposti avevano condotto lo scavo)…. Proprio perché è al centro della esistenza fisica, l’acqua diventa un simbolo dei valori assoluti, della vita anche nella sua dimensione spirituale, della stessa trascendenza.
Melville in quel particolare “romanzo d’acqua” che è Moby Dick scriveva: “Perché gli antichi Persiani consideravano sacro il mare? Perché i Greci gli assegnarono un dio a sé, fratello di Giove? Certo tutto questo non è senza significato. E ancora più profondo è il senso della favola di Narciso che, non potendo afferrare la tormentosa, dolce immagine che vedeva nella fonte, vi si immerse e annegò. Ma quella stessa immagine anche noi la vediamo in tutti i fiumi e oceani. È l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita, e questa è la chiave di tutto”. La stessa chiave è, dunque, adottata anche nella Bibbia e secondo uno spettro molto variegato di significati, non solo positivi. Pensiamo solo al segno del diluvio come atto giudiziario divino compiuto attraverso l’acqua e allo stesso esodo nel mar Rosso che si chiude come un sepolcro di morte sugli Egiziani oppressori o al citato jam, il “mare”, che meriterebbe una trattazione a sé stante, essendo per Israele il simbolo del caos, del nulla e persino del male: per questo Cristo cammina sulle onde e fa piombare i porci, animali impuri, nel mare e riesce a sostenere su quelle acque anche il discepolo impaurito, Pietro (Matteo, 14, 24-31)….
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L’acqua è, però, prima di tutto e sopra tutto segno di vita e di trascendenza. Noi ora ci accontenteremo di mettere quasi in fila, in una sorta di elenco, alcuni dei tanti valori metaforici che le acque acquistano: esse, infatti, nella Bibbia non sono mai dolcemente contemplate come “chiare fresche dolci acque” alla maniera petrarchesca, ma sono celebrate come rimandi a realtà nascoste più alte. Così, l’acqua è per eccellenza simbolo di Dio, sorgente di vita. Basti solo evocare l’indimenticabile comparazione geremiana: “Essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne screpolate che non tengono l’acqua” (2, 13). L’acqua è segno della Parola divina senza la quale si soffoca e si è aridi: “Verranno giorni – dice il Signore – in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane né sete d’acqua, ma di ascoltare la parola del Signore… Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca” (Amos, 8, 11 e Isaia, 55, 10-11)….
L’acqua è simbolo della sapienza divina effusa in Israele: “Essa trabocca come il Tigri nella stagione dei frutti nuovi, fa dilagare l’intelligenza come l’Eufrate e come il Giordano nei giorni della mietitura, espande la dottrina come il Nilo, come il Ghicon nei giorni della vendemmia (…) Io sono come un canale derivante da un fiume e come un corso d’acqua sono uscita verso un giardino. Ho detto: Innaffierò il mio giardino e irrigherò la mia aiuola! Ed ecco il mio canale è divenuto un fiume e il mio fiume un mare” (Siracide, 24, 23-25.28-29).
L’acqua annunzia l’era messianica e la rinascita dell’umanità: “Scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa; la terra bruciata diventerà una palude e il suolo riarso si muterà in sorgenti d’acqua” (Isaia, 35, 6-7). Anzi, l’acqua diventa l’emblema di Cristo, come si intuisce nel celebre dialogo con la Samaritana: “Chi beve dell’acqua che io gli darò non avrà più sete, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” (Giovanni, 4, 14). È per questo che l’evangelista testimonia con insistenza che dal costato del Cristo crocifisso “uscì sangue e acqua” (19, 34). E come si intuisce nelle parole destinate alla donna di Samaria, l’acqua diventa anche il segno della vita nuova del credente nel quale è effuso lo Spirito di Dio. Gesù, durante la festa ebraica delle Capanne (che comprendeva proprio un rituale con l’acqua di Siloe), aveva esclamato: “Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno. Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui” (Giovanni, 7, 7-39).
L’acqua, allora, è immagine della vita nuova del fedele che con essa si purifica il cuore del male (“Lavami da tutte le mie colpe”, Salmi, 51, 4), secondo quel rito lustrale che è presente in quasi tutte le culture religiose. Essa rappresenta, così, anche la rigenerazione interiore, destinata a dare frutti di giustizia: “Il giusto sarà come albero piantato lungo corsi d’acqua; darà frutti a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai” (Salmi, 1, 3).
Ma l’acqua rimane soprattutto il simbolo supremo di quel Dio di cui l’uomo ha sempre sete ed è questa la costante preghiera di tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero: “Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia (letteralmente “la mia gola”) ha sete di Dio, del Dio vivente (…) O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua…” (Salmi, 42, 2-3; 63, 2).
http://www.cistercensi.info/monari/1999/m19990226.htm
COMMENTO AL SALMO 51 (50) MISERERE
Stazione quaresimale
26 febbraio 1999
«Al maestro del coro. Salmo. Di Davide.
Quando venne da lui il profeta Natan dopo che aveva peccato con Betsabea.
Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
nella tua grande bontà cancella il mio peccato.
Lavami da tutte le mie colpe,
mondami dal mio peccato.
Riconosco la mia colpa,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto;
perciò sei giusto quando parli,
retto nel tuo giudizio.
Ecco, nella colpa sono stato generato,
nel peccato mi ha concepito mia madre.
Ma tu vuoi la sincerità del cuore
e nell’intimo m’insegni la sapienza.
Purificami con issopo e sarò mondo;
lavami e sarò più bianco della neve.
Fammi sentire gioia e letizia,
esulteranno le ossa che hai spezzato.
Distogli lo sguardo dai miei peccati,
cancella tutte le mie colpe.
Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non respingermi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.
Rendimi la gioia di essere salvato,
sostieni in me un animo generoso.
Insegnerò agli erranti le tue vie
e i peccatori a te ritorneranno.
Liberami dal sangue, Dio, Dio mia salvezza,
la mia lingua esalterà la tua giustizia.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode;
poiché non gradisci il sacrificio
e, se offro olocausti, non li accetti.
Uno spirito contrito è sacrificio a Dio,
un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi.
Nel tuo amore fa grazia a Sion,
rialza le mura di Gerusalemme.
Allora gradirai i sacrifici prescritti,
l’olocausto e l’intera oblazione,
allora immoleranno vittime sopra il tuo altare» (Sal 51, 1-21).
“Tu non hai ancora considerato seriamente quanto sia grave il peso del peccato”, sono parole di sant’Anselmo di Aosta quando s’interrogava sul perché sia stato necessario che Dio si facesse uomo per la redenzione dell’umanità. Il Miserere, che insieme abbiamo pregato, ci vuole aiutare in questa stazione quaresimale a fare nostra la meditazione dolorosa sul peccato, ma che sia anche piena di speranza sulla misericordia e la bontà del Signore. Il cammino quaresimale ha nella sua prima parte un colore fortemente penitenziale. Poi c’è una seconda parte che è invece piuttosto di contemplazione del mistero e dell’identità del Signore. Ma innanzitutto bisogna passare dalla meditazione sulla gravità del nostro peccato.
1. La richiesta di perdono
Di fatto, ad un certo punto il Miserere dice: «Ecco, nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre». Vuole dire: il peccato è inciso profondamente nella mia vita. Non è come un vestito che io indosso e che posso togliere quando lo desidero, ma, diceva il profeta Geremia, è piuttosto come una pelle: “Può forse il Moro cambiare la sua pelle o la pantera cambiare il suo mantello? E voi potete forse fare il bene, abituati come siete a fare il male?» (Ger 13, 23). Il Miserere esprime questa dimensione di profondità con un’immagine temporale: «nel peccato mi ha concepito mia madre». Vuole dire: se io ritorno indietro fino all’inizio della mia vita trovo ugualmente il peccato. È come se io, disgustato dalla mia condizione di egoismo attuale, volessi andare indietro nella mia vita nel tempo passato per trovare un’epoca in cui il mio cuore era puro e la mia mente era sana. Ma non riesco a trovarlo, perché fin dal primo istante della mia vita mi sento segnato dalla realtà negativa del peccato. Per questo il Miserere dice: «il mio peccato mi sta sempre dinanzi». È come se fosse un tormento, una presenza scomoda e inquietante, alla quale vorrei sfuggire ma senza mai riuscirci, perché mi sta davanti come un’ossessione, come un incubo, poiché molti sono i crimini contro di te e i nostri peccati ci accusano. Diceva il profeta: «Siamo diventati tutti come una cosa impura e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia» (Is 64, 5a).
Ma che cos’è il peccato? Perché è così pesante da portare? Il Salmo lo dice attraverso una serie di immagini che cercano di introdurci e di accostarci alla comprensione di una realtà che rimane fondamentalmente incomprensibile (non si riesce a comprendere con la ragione, perché il peccato è un’espressione di irrazionalità, è la smentita della sanità del cuore e della mente dell’uomo).
La prima immagine è della macchia, quando dice: «Lavami… cancella il peccato». Dietro c’è quest’idea del peccato come una macchia che rovina la bellezza dell’uomo. Secondo il Libro della Genesi, Dio ha fatto l’uomo bello: «lo ha fatto a sua immagine e somiglianza» (Gen 1, 26), tanto che il Salmo può dire con stupore: «che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, lo hai coronato di gloria e di onore» (Sal 8, 5-6). È proprio questa gloria, che Dio ha messo sul volto dell’uomo, che è offuscata e macchiata con il peccato.
La seconda immagine è il debito. Il peccato è un debito, perché è una ribellione contro quel rapporto di alleanza che Dio ha voluto stabilire con l’uomo: «Dio è il nostro Dio, e noi siamo il suo popolo» (Sal 95, 7). Dio ha fatto di noi dei figli, c’è quindi un impegno, un debito di reciprocità; all’amore e alla generosità di Dio deve rispondere la fedeltà e l’obbedienza dell’uomo. Il peccato è una ribellione contro questo debito che abbiamo con Dio. Diceva il profeta Isaia: «Figli ho allevato e cresciuto, ed essi si sono ribellati contro di me. Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo non capisce» (Is 1, 2b-3). Quell’amore che Dio ha donato con generosità al suo popolo, per farlo suo popolo, è stato rifiutato, non compreso da un Israele ribelle. Tanto che – di fronte alla ribellione d’Israele Dio rimane sgomento – si chiede ancora nel profeta Isaia: «Che cosa dovevo fare… che io non abbia fatto?» (Is 5, 4). Che cosa potevo offrire che io non abbia donato al mio popolo? Perché, mentre io mi aspettavo giustizia, ho trovato oppressione, falsità e menzogna?
La terza immagine è del fallimento di un progetto che aveva suscitato delle speranze e che in realtà è miseramente fallito, si è ripiegato su se stesso. Uno potrebbe pensare (perché questo è l’immagine che sta sotto ad un verbo del miserere) che ha l’arco allentato. Un arco allentato può cercare di gettare la freccia, ma non riesce a farla arrivare al bersaglio, perché cade prima di quella che è la sua meta, il suo obiettivo.
Ebbene, il peccato è questo: è la condizione dell’uomo che dovrebbe avere una meta e un obiettivo da raggiungere, e che invece si perde per la strada, cade e fallisce la sua vocazione, la sua chiamata. Il salmista del Miserere riconosce questo peccato con sincerità, perché dice: «Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi». E quel “riconosco” non vuole dire semplicemente: so di essere peccatore. Ma significa: sperimento tutto il dolore e l’avvilimento, e la vergogna del mio peccato mi pesa. È una conoscenza per l’esperienza che suscita dolore e nasce davanti a Dio per quello che viene riconosciuto come offesa a Dio: «Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto». Non c’è dubbio che il peccato è contro l’uomo, è offesa e distruzione del tessuto sociale, è umiliazione della persona umana. Ma in realtà si può comprendere la gravità del peccato solo quando si riconduce a Dio e ritrovo, nella mia menzogna verso il fratello, il mio rifiuto radicale di quel Dio da cui viene il mondo e la mia esistenza. Nel momento in cui io riconosco la mia colpa proclamo nello stesso tempo la giustizia di Dio. A questo non ci siamo molto abituati, ma nella Scrittura, nei Salmi, ritorna fuori abbastanza spesso, perché dice: «Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto; perciò sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio». Per capire un’espressione di questo genere bisogna pensare a Dio non solo come ad un giudice, ma come ad una parte lesa, che è in gioco; in quello che è il gioco della vita e della storia sono coinvolto io e Dio. C’è un patto, un’alleanza; ebbene di fronte alla realtà del peccato c’è qualcosa che in questo patto non ha funzionato. Gli Israeliti del tempo dell’esilio, che abbiamo ascoltato nel cap. 18° di Ezechiele, davano la colpa a Dio, proclamavano che quella punizione, quell’esperienza di esilio, era immeritata: è Dio che è venuto meno al suo impegno di proteggere Israele. Quando noi riconosciamo il nostro peccato, proclamiamo che Dio ha avuto ragione, che Dio è giusto, che se qualche cosa non ha funzionato è dalla nostra parte. Vuole dire: se il mondo non è così bello come dovrebbe, e se la Chiesa non è così santa come dovrebbe, non posso dare la colpa a Dio, la colpa la debbo assumere e portare io, «perché tu sei giusto quando parli», perché tu appaia giusto nel tuo comportamento e nelle tue parole, non sei venuto meno alla fedeltà; l’infedeltà è mia. Quando l’uomo proclama il suo peccato implicitamente proclama la giustizia di Dio; è una confessione della santità e della verità di Dio.
Ma questa confessione di colpa si manifesta nel modo più pieno, proprio negli imperativi che aprono la preghiera del Miserere. Il Miserere è fatto in ebraico con 17 imperativi, sono verbi che esprimono la richiesta, l’attesa e la speranza dell’uomo: «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio peccato. Lavami da tutte le mie colpe». In ebraico sono tre verbi. In italiano la parola “pietà” sembra un sostantivo, ma in realtà non è il nome “pietà, è il verbo “abbi pietà”: «Guarda con benevolenza me, o Dio, secondo la tua misericordia». Quindi ci sono tre imperativi: “abbi pietà” – “cancella” – “lava”; sono il grido di chi si sente affondare nella morte e può solo chiamare aiuto. Perché l’uomo è in grado di produrre il peccato, ma non è in grado di uscire dal peccato. Per questo ha bisogno di Dio, di un aiuto, di una grazia, di un sostegno che gli venga dalla potenza e dalla misericordia di Dio.
Anzi soprattutto dalla misericordia, perché dice il Miserere: «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; secondo la tua grande bontà cancella il mio peccato». In questo modo vengono richiamati alcuni termini che sono l’immagine fondamentale di Dio. Nel Libro dell’Esodo, quando Mosè vuole vedere il volto di Dio, Dio gli si rivela passandogli davanti proclamando il suo nome: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34, 6). Così si è presentato Dio e sono esattamente le parole del Miserere: «Pietà di me» – «Dio pietoso»; «secondo la tua misericordia» – «Dio misericordioso».
Ed è significativo come «nella tua grande bontà», voglia dire: «nel tuo grande amore viscerale cancella il mio peccato». Cosa dice questo? Che, quando Dio cancella il peccato dell’uomo, manifesta quello che lui è. Certamente, quello che Dio è, si manifesta nella creazione, quando Dio fa dal mondo il sole, la luna, le stelle, le piante… manifesta quello che è, cioè la sua potenza. Ma in realtà non c’è una manifestazione così vera e piena dell’identità di Dio come il perdono dei peccati. Perché l’identità di Dio, quella che Dio ha manifestato a Mosè, è questa: «Dio misericordioso e pietoso». Noi vediamo il Dio misericordioso e pietoso proprio nel perdono dei peccati. Dio non è mai così Dio (questo è un modo barbaro di parlare, ma intendete cosa voglio dire) come quando perdona. Una preghiera dell’Eucaristia dice: “O Dio, che manifesti la tua potenza, soprattutto con la misericordia e il perdono”. Sant’Ambrogio, quando spiegava l’“Hexaemeron”, i sei giorni della creazione, si chiedeva: «Come mai solo al sesto giorno Dio si è riposato? Perché leggo che Dio nel primo giorno ha separato la luce dalle tenebre, ma non leggo che si sia riposato. E dopo il secondo giorno non leggo che si sia riposato, nemmeno dopo il terzo e neanche dopo il quarto… Solo dopo il sesto giorno si è riposato, perché nel sesto giorno aveva creato l’uomo, e quindi aveva qualcuno a cui rimettere i peccati». Dio cercava qualcuno a cui rimettere i peccati, nei cui confronti manifestare la sua misericordia, la bontà, la fedeltà e il suo amore paterno. E quando lo ha trovato nella creazione dell’uomo, Dio ha potuto riposarsi perché la creazione era completa, non mancava più niente.
Per questo il Miserere nello stesso tempo è proclamazione del peccato dell’uomo e della misericordia di Dio; anzi la consapevolezza del proprio peccato nasce dalla conoscenza della misericordia di Dio. Quando ci guardiamo allo specchio non possiamo comprendere bene il nostro peccato, anche se sulla nostra faccia vediamo tutti i nostri difetti, quello che non funziona e non è bello; questo è solo un inizio, una propedeutica al senso del peccato. Il senso del peccato scaturisce quando la misericordia di Dio è misurata in tutta la sua grandezza. Allora appare, in tutta la sua gravità, l’infedeltà e la mancata risposta dell’uomo.
Questa consapevolezza del peccato diventa una supplica: «Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato». Ma questo chiedere il perdono è espresso nel Miserere anche in un altro modo, come la domanda di una richiesta di gioia: «Fammi sentire gioia e letizia, esulteranno le ossa che hai spezzato». E un po’ più avanti: «Rendimi la gioia di essere salvato, sostieni in me un animo generoso». “Le ossa spezzate” sono il simbolo di una vita fiaccata, di un’esistenza che non ha più sostegno. Le ossa danno al corpo umano la sua solidità e il suo sostegno, ma è venuto meno: la mia esistenza si è ripiegata su se stessa. Allora ho bisogno che Dio mi ridia la vita, la dignità di creatura e di suo figlio. Per questo chiedo il perdono secondo la sua misericordia, perché la mia vita possa rifiorire e rinascere la gioia.
Per questo bisogna che Dio distolga lo sguardo dai miei peccati: «Distogli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe»; cioè che tiri via la faccia dal mio egoismo e dal mio orgoglio. Però qui c’è un aspetto sorprendente e paradossale, perché il versetto 11 dice: «Distogli lo sguardo dai miei peccati». Invece il versetto 13 dice: «Non respingermi dalla tua presenza». Allora mi chiedo: io debbo stare o no davanti a Dio? Dio deve guardare da un’altra parte o deve accogliermi alla sua presenza? Tutte e due le cose! è necessario che Dio mi accolga, e per me stare alla presenza di Dio, altrimenti non si vive. Dio è sorgente di vita e di gioia, non è possibile andarlo a cercare da un’altra parte: «Non respingermi dalla tua presenza», perché se tu non mi parli la mia vita precipita nell’oscurità della notte. Ho bisogno dello sguardo di Dio, ma che nello stesso tempo sia benevolo e accogliente; e che non stia misurando a valutare e a pesare il mio peccato, altrimenti lo sguardo di Dio diventerebbe di distruzione, di annientamento. Allora «distogli lo sguardo dai miei peccati», vuole dire: io chiedo a Dio di “non guardare il peccato, ma il peccatore” (cfr. Ez 33, 11), perché se il peccato ha bisogno di essere cancellato, il peccatore, cioè io, ho bisogno di essere accolto e di ritrovare dallo sguardo di Dio la mia gioia.
2. La richiesta di una nuova creazione
Ma il perdono è ancora di più. Il Miserere è fatto più o meno di due sezioni, la prima è questa richiesta di perdono che abbiamo tentato di esprimere. La seconda incomincia così: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo». Sottolineate quel verbo, quell’imperativo iniziale, “crea”, che non è messo lì a caso. Il verbo che è usato si ritrova nella Bibbia sempre con Dio come soggetto. In italiano diciamo che gli artisti creano, un poeta crea. Nella Bibbia questo verbo è riservato a Dio, è il suo; dice un’azione da Dio quale lui solo è in grado di compiere.
Proprio perché il peccato è radicato profondamente nel mio cuore, ho bisogno di un’azione che non può essere semplicemente umana di purificazione; ho bisogno di un’azione divina che è niente meno una creazione: «Crea in me, o Dio, un cuore puro». Il cuore è il centro della coscienza da cui escono i pensieri, i sentimenti e le decisioni dell’uomo. Nell’antropologia biblica il cuore è la sede della libertà. Allora “un cuore puro” vuole dire: una libertà pulita non deformata dall’interesse o dall’egoismo, che non vede le cose secondo il proprio vantaggio, che non decide secondo le sue preferenze ma sa vedere la realtà e la sa accettare e riconoscere così com’è; cioè un cuore pulito che non ha doppi fini né maschere.
Insieme al cuore l’altra richiesta fondamentale è lo spirito, che è ricordato tre volte. In italiano se ne vedono due, ma in realtà il testo ne ha tre: «rinnova in me uno spirito saldo»; «non privarmi del tuo santo spirito»; «sostieni in me uno spirito (non un animo) generoso». Ed è quello che gli esegeti chiamano una triplice epìclesi. “Epìclesi” vuole dire: invocazione dello Spirito. Che facciamo nella Messa quando invochiamo lo Spirito, perché “il pane e il vino diventino il corpo e il sangue del Signore”. Poi invochiamo lo Spirito, perché la gente che è a Messa diventi “il corpo e il sangue del Signore”. È l’epìclesi, è il momento più solenne della celebrazione, perché è quello dell’intervento di Dio che dona, non qualche cosa, ma lo Spirito, cioè se stesso.
Dunque il perdono non consiste solo nel cancellare il male; questo sarebbe ancora troppo poco. Perché il perdono sia autentico bisogna che ci sia una creazione nuova, che si esprime nel cuore e soprattutto nello spirito.
Il quale spirito deve essere prima di tutto «uno spirito saldo». Anche questo è un po’ strano, perché la parola “spirito” in ebraico o in greco è la parola stessa che indica il vento; e se c’è qualche cosa di poco saldo, fermo e stabile è il vento. È invece no, è uno spirito che ha la leggerezza e la libertà del vento, ma che è stabile e fermo e di cui ci si può fidare, che non cambia capricciosamente il suo atteggiamento e che deve essere forte nella sua perseveranza e costanza. È quello che chiediamo al Signore, perché siamo così incostanti che se il Signore non ci dona lo Spirito noi non ce la caviamo. Diceva Osea: «La vostra pietà è come la nube del mattino, come la rugiada che svanisce presto» (Os 6, 4); vi entusiasmate, fate delle grandi celebrazioni penitenziali e poi durano per qualche istante, poi si ritorna alla propria inconsistenza. Ebbene «uno spirito saldo», consistente e fermo.
Poi «uno spirito santo». “Santo” vuole dire quello che il Signore aveva promesso e donato ad Israele, quando ha proposto l’alleanza al suo popolo: «Voi sarete per me… una nazione santa» (Es 19, 6); cioè una nazione che appartiene integralmente e totalmente a Dio, che non ha due o tre padroni, ma ha un unico Signore. «Li chiameranno popolo santo, redento dal Signore» (Is 62, 12a); «siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo» (Lv 11, 45). La somiglianza con lui, che mi permette di assomigliare a Dio e di essere santi come lui è santo, è solo il suo Spirito: «non privarmi del tuo santo spirito».
«Sostieni in me un animo generoso». Questa è la traduzione, ma il testo dice: «uno spirito principesco», cioè da principe. “Da principe” vuole dire: padrone; non uno spirito da schiavo, che fa le cose per timore e sottomesso a chissà quali condizionamenti. No, questo è un principe, è un re, che si muove liberamente e spontaneamente, che opera con generosità e con un animo – spirito – nobile. Dentro è ricco della libertà e dignità che vengono dal Signore: «quelli che sono guidati dallo spirito di Dio, costoro sono figli di Dio» (Rm 8, 14), quindi quelli che nei loro desideri sono suscitati e animati dallo spirito e dalla generosità ricca di Dio. Non è una legge esterna che possa guidare l’esistenza dell’uomo, ma è lo Spirito che mette nel cuore la connaturalità con la volontà di Dio, per cui la volontà di Dio diventa nostra. Questo è il centro del Miserere, l’aspetto più bello e sorprendente, quello che richiama l’insegnamento dei profeti, in particolare nel profeta Ezechiele (bisognerebbe leggere anche Geremia). Ezechiele nel cap. 36° fa esattamente questa promessa: «Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi» (Ez 36, 24-27). Qui corrisponde esattamente al Miserere, in tutto il suo dinamismo: 1) La purificazione: «Vi aspergerò con acqua pura… vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli». 2) Poi la nuova creazione: «vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo». Anzi questo spirito nuovo che metto dentro di voi è il mio spirito: «Porrò il mio spirito dentro di voi», perché voi impariate ad avere i desideri e i pensieri di Dio, quindi anche i suoi comportamenti.
Questa esperienza del perdono e il dono dello spirito costituiscono il salmista, una volta perdonato, in testimone: «Insegnerò agli erranti le tue vie e i peccatori a te ritorneranno. Liberami dal sangue, Dio, Dio mia salvezza, la mia lingua esalterà la tua giustizia. Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode». Che cosa significhi quel “liberami dal sangue” è misterioso (forse dalla punizione della vita che mi toccherebbe), ma il significato globale si capisce. Sino a che sono in questa condizione di peccato le mie labbra sono sigillate: non possono lodare, benedire e ringraziare. E il non poterlo fare vuole dire: non posso vivere. Non esiste una vita gioiosa, degna di questo nome, se non quella per la quale si può ringraziare e dire: Signore è bello, ringrazio. Ma nella condizione di peccato questa lode è inaridita, esprime l’inaridimento della vita. Ma quando il Signore farà fiorire il perdono, rinascerà anche la lode e il ringraziamento. E la lode non sarà privata e nascosta, ma proclamata davanti a tutti gli uomini, perché tutti possano partecipare della mia gioia e della mia salvezza: «Insegnerò agli erranti le tue vie e i peccatori a te ritorneranno».
Tradizionalmente la lode, il sacrificio di ringraziamento, era accompagnata da sacrifici veri e propri: dall’offerta di un capretto o di un vitello, secondo le situazioni diverse. Questo adesso è impossibile: il Salmo è nato probabilmente al tempo dell’esilio, quando il tempio era distrutto e la possibilità di fare dei sacrifici era tolta a Israele. Allora vuole dire che il ringraziamento non è completo, perché ci manca l’aspetto sacrificale? No, dice il nostro Salmo: il sacrifico ha solo cambiato prospettiva, anzi il vero sacrificio, che può e deve accompagnare la lode, è la vita, non dei capretti o vitelli o animali: «tu non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi». Siamo ancora nell’insegnamento dei profeti, quando hanno aiutato Israele a comprendere che il sacrifico esterno non può altro che essere il segno di un cuore che diventa lui stesso sacrificio, di un cuore spezzato e donato al Signore.
Secondo molti autori gli ultimi due versetti dovrebbero essere un’aggiunta, ma in ogni modo danno al Salmo una prospettiva più ampia. Abbiamo commentato che il Salmo si presenta come la preghiera di un singolo: è un peccatore che davanti a Dio presenta la sua angoscia e il pentimento; e proprio per questo il titolo attribuisce il Salmo a Davide (gli esperti dicono che non è probabilmente di Davide, perché dovrebbe appartenere al tempo dell’esilio). Infatti, è significativo che sia stato messo questo titolo, perché vuole dire che l’esperienza di Davide, peccatore e condotto al pentimento, si esprime meglio in questo Salmo: «Quando venne da lui il profeta Natan dopo che aveva peccato con Batsabea». Ricordate come il profeta racconta a Davide una storiella, perché non capisca che si sta parlando di lui, e quando Davide ha dato un giudizio di condanna nei confronti del protagonista di questa storiella il profeta gli ha detto: «Sei tu quell’uomo!» (2 Sam 12, 7), il peccato è tuo. E Davide ha risposto chiedendo il perdono di Dio: «Pietà di me, o Dio». Per questo il Miserere si taglia bene sull’esperienza di Davide. Ma gli ultimi due versetti l’allargano: non è più Davide che parla, è Gerusalemme, è il popolo intero che ha conosciuto tutto il peccato e chiede il perdono e la rinascita. È Israele del dopo esilio che attende da Dio di potere ritornare in patria e di riprendere tutta quell’esperienza di culto, di sacrificio religioso, che aveva accompagno la sua storia. In questo senso anche gli ultimi due versetti sono preziosi perché ci permettono di leggere il Miserere, come preghiera della Chiesa, di ciascuno di noi, ma della comunità nel suo complesso.
Conclusione
Il Miserere fino al versetto 11 è fondamentalmente una richiesta di perdono: la consapevolezza e la gravità del peccato, la supplica a Dio e soprattutto alla misericordia e alla bontà di Dio.
Quindi il versetto dal 12 in poi è la richiesta di una nuova creazione: non solo il perdono come cancellazione del male, ma il perdono come una nuova esistenza, un nuovo cuore, e soprattutto un nuovo spirito. Lo spirito di Dio come sorgente di un’esistenza nuova: «Se qualcuno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove» (2 Cor 5, 17).
Credo che riprendendolo con pazienza, imparandolo un po’ a memoria, facendolo entrare dentro al cuore, il Miserere ci possa davvero fare entrare nello spirito penitenziale della Quaresima. È il testo più bello che c’è nel Salterio per cogliere la dimensione penitenziale e di conversione del nostro cammino quaresimale.
* Documento rilevato dalla registrazione, adattato al linguaggio scritto, non rivisto dall’autore.
http://www.30giorni.it/articoli_id_839_l1.htm
UNA CONVERSAZIONE DI LUCIANI VESCOVO
«Io non sono un mistico»
«Di contemplazione non me ne intendo. Mi fermo alla semplice orazione, quella umile, quella delle anime semplici. Certa povera gente non ha imparato a meditare, ma dice bene le preghiere, con cuore, le preghiere vocali. Santa Bernadette è diventata santa solo per questo. Diceva bene il rosario, ubbidiva alla sua mamma»
una conversazione di Albino Luciani vescovo
Il Signore ci fa tante raccomandazioni, nel Vangelo, sulla preghiera. L’insistenza. Non basta domandare una volta. Non è come suonare il pianoforte: tocchi il tasto, ne esce il suono. «Signore, dammi questa grazia». Pronti, servito! A tamburo battente. Non è così. Il Signore stesso ha detto che non è così. Voglio che domandiate. Ha raccontato anche la parabola. C’era un giudice iniquo in una città. Non gliene importava niente né di Dio né dei poveri mortali. Una vedova andava ogni giorno da lui: «Rendimi giustizia, rendimi giustizia!». «Via, Via! Non ho tempo, non ho tempo». Ma la vedova tornava. Finalmente un giorno il giudice ha detto tra sé: «Anche se non temo Dio e non ho nessun riguardo per gli uomini, poiché questa vedova viene sempre ad importunarmi e non mi lascia più in pace, le voglio fare giustizia, così non l’avrò più tra i piedi». Conclusione di Gesù Cristo: questo lo fa un giudice iniquo e per un motivo egoistico, e il Padre vostro, quando voi insisterete nel domandargli che vi faccia giustizia, il Padre vostro dei cieli, che vi ama, non ve lo farà? E abbiamo già sentito dal Concilio: Bisogna pregare sempre: pregare senza interruzione.
Il nostro primo dovere è di insegnare alla gente a pregare, perché quando abbiamo dato loro questo mezzo potente, si arrangiano anche loro ad ottenere le grazie del Signore. Io non posso fare un trattato sulla preghiera, anche perché forse ne sapete più di me. Accennerò solo a qualche cosa. Forse battiamo molto sulla preghiera di petizione: «Signore, ricordati di me; Signore perdonami!». Bellissimo! Però Gesù quando ci ha insegnato il Pater noster, ci ha detto: «Pregate così», e la sua preghiera l’ha divisa in due parti. La prima: «Sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà». È questa la parte che riguarda il nostro rapporto con Dio. Solo dopo si passa alla seconda: «Dacci il nostro pane, ecc.». Quindi anche nelle proprie preghiere si deve seguire questo metodo: fare prima la preghiera di adorazione, di lode, di ringraziamento; e solo dopo quella di domanda. Nelle epistole di san Paolo: «Gratias agamus, Deo gratias, Deo autem gratias…». Queste espressioni, non le ho contate io, ricorrono più di centocinquanta volte. San Paolo rende grazie continuamente. Ma osservate anche le altre preghiere: «Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te». Dopo viene la domanda: «Prega per noi, peccatori». Prima si fa un bel complimento alla Madonna. Bisogna essere diplomatici: si fa una lode, e poi si chiede. Anche gli oremus antichi, non quelli moderni, hanno tutti all’inizio la lode, il complimento. «Deus qui corda fidelium Sancti Spiritus illustratione docuisti…», fatta una bella lode: «da nobis quaesumus…», viene la domanda. Invece: «Concede nobis, famulis tuis…», questo è un oremus moderno; comincia subito col domandare qualcosa. Non ha capito niente, non ha capito niente, chi lo ha composto. E anche le litanie della Madonna: «Mater purissima», l’elogio, «ora pro nobis», la domanda; tutte così. Questo metodo dobbiamo usarlo nelle nostre preghiere. Preoccuparsi un po’ anche… Non ha bisogno il Signore delle nostre preoccupazioni, ma gli fa certamente piacere che ci occupiamo un po’ di lui. C’è un libro molto bello di padre Faber: Tutto per Gesù; non è “alto”, cose umili; e dice proprio che bisogna preoccuparsi degli interessi di Dio, prima che degli interessi nostri. Dicevo: l’adorazione: «Tu sei lassù, o Dio immenso onnipotente, e io sono qui, piccolo piccolo, Signore», questo senso di adorazione di stupore davanti a Dio. «Ti devo tutto, Signore!». Il ringraziamento. Il sentirsi sempre piccoli, miseri, davanti a Dio. Bisogna aiutarli, i fedeli, ad adorare, a ringraziare il Signore. Nessuno è grande davanti a Dio. Davanti a Dio anche la Madonna s’è sentita guardata, piccola. È importantissimo sentirci guardati da Dio. Sentirci oggetto dell’amore che Dio ci porta. San Bernardo, quand’era piccolissimo, in una notte di Natale, s’è addormentato in chiesa e ha sognato. Gli è parso di vedere Gesù bambino che diceva, additandolo: «Eccolo là, il mio piccolo Bernardo, il mio grande amico». S’è svegliato, ma l’impressione di quella notte non si è più cancellata e ha avuto un’enorme influenza sulla sua vita. Sentiamoci piccoli, perché siamo piccoli. Se non ci sentiamo piccoli è impossibile la fede. Chi alza la cresta, chi si vanta troppo, non ha fiducia in Dio. Tu sei grandissimo, Signore, io, di fronte a te, piccolissimo. Non mi vergogno di dirlo. E farò volentieri quello che mi chiedi. Tanto più che non chiedi per prendere, ma per dare, non chiedi a vantaggio tuo, ma nell’interesse mio! Manzoni dice: «L’uomo, mai è più grande di quando si inginocchia davanti a Dio». Nelle preghiere che si fanno manca sempre di più quello che è il senso dell’adorazione. È invece uno degli attegiamenti fondamentali di tutta la religione cristiana.
Albino Luciani a Lourdes durante la processione eucaristica
Albino Luciani a Lourdes durante la processione eucaristica
Quali preghiere e con quale metodo? Voi siete maestri in Israele; sapete che la preghiera più bella è, per sé, quella passiva, dove ci si abbandona all’azione della grazia. Così è di qualche anima che viene addirittura catturata da Dio, lavorata, dominata, santificata. È la cosiddetta preghiera mistica, di quelli che si danno alla contemplazione. E su questo non posso dirvi niente, perché sinceramente io non sono un mistico. Mi dispiace. L’ho insegnato anche a scuola, ho studiato i vari sistemi, le varie tendenze, i carmelitani di qua, i gesuiti di là… Però santa Teresa, che era una donna molto esperta, dice: «Io ho conosciuto dei santi, dei veri santi, che non erano contemplativi, e ho conosciuto dei contemplativi che avevano grazie di orazione superiore, che però non erano santi». Il che vuol dire che, «salvo meliore iudicio», non sarebbe necessaria la contemplazione alla santità. Sulla contemplazione quindi non posso perciò intrattenervi, perché sinceramente non me ne intendo, anche se ho letto qualche libro. Perciò mi fermo alla semplice orazione, quella umile, quella delle anime semplici. Io mi spiego di solito con un esempio molto semplice e pratico. Sentite: c’è il papà che festeggia l’onomastico: in casa hanno organizzato un po’ di festicciola. Arriva il momento: lui sa già di che si tratta, e dice: «Adesso vediamo cosa mi fanno di bello!». Per primo viene il più piccolo dei suoi bambini: gli hanno insegnato la poesia a memoria. Povero piccolo! È lì di fronte al papà, recita la sua poesia. «Bravo!», dice il papà, «ho tanto piacere, ti sei fatto onore, grazie, caro». A memoria. Va via il piccolino, e si presenta il secondo figliolo, che fa già le medie. Ah, non si è mica degnato di imparare una poesiola a memoria; ha preparato un discorsetto, roba sua, farina del suo sacco. Magari breve, ma si impanca da oratore. «Non avrei mai creduto», il papà, «che tu fossi così bravo a far discorsi, caro». È contento il papà: ma guarda che bei pensieri!… Non sarà un capolavoro, ma… Terza, la signorina, la figliola. Questa ha preparato semplicemente un mazzetto di garofani rossi. Non dice niente. Va davanti al papà, neanche una parola: però è commossa, è così rossa che non si sa se sia più rossa lei o i garofani. E il papà le dice: «Si vede che mi vuoi bene, sei così emozionata». Ma neanche una parola. Però i fiori li gradisce, specialmente perché la vede tanto commossa e così piena di affetto. Poi c’è la mamma, c’è la sposa. Non dà niente. Lei guarda suo marito e lui guarda lei: semplicemente uno sguardo. Sanno tante cose. Quello sguardo rievoca tutto un passato, tutta una vita. Il bene, il male, le gioie, i dolori della famiglia. Non c’è altro. Sono i quattro tipi di orazione. Il primo è l’orazione vocale: quando dico il rosario con attenzione, quando dico il Pater noster, l’Ave Maria; allora siamo dei bambini. Il secondo, il discorsetto, è la meditazione. Penso io e faccio il mio discorso col Signore: bei pensieri e anche profondi affetti, intendiamoci. Il terzo, il mazzo di garofani, è l’orazione affettiva. La ragazzina tanto emozionata e tanto affettuosa. Qui non occorrono molti pensieri, basta lasciar parlare il cuore. «Mio Dio, ti amo». Se uno fa anche solo cinque minuti di orazione affettiva, fa meglio che la meditazione. Quarto, la sposa, è l’orazione della semplicità o di semplice sguardo, come si dice. Mi metto davanti al Signore, e non dico niente. In qualche maniera lo guardo. Sembra che valga poco, questa preghiera, invece può essere superiore alle altre. Fate qualche considerazione su ciascuna di queste forme di preghiera. Anche la prima. Si dice: è un bambino, comincia appena. Ma santa Teresa scrive: si può diventar santi con la prima orazione. Certa povera gente non ha imparato a meditare, ma dice bene le preghiere, con cuore, le preghiere vocali. Santa Bernadette è diventata santa solo per questo. Diceva bene il rosario, ubbidiva alla sua mamma. È diventata santa.
Ed ora lasciate che vi raccomandi la devozione alla Madonna, giacché devo fare un cenno al rosario, che in parte è una preghiera vocale. Il rosario è anche la Bibbia dei poveri. Mai tralasciare il rosario, e recitarlo bene. Io sono molto preoccupato dei miei fedeli: ce ne sono ancora di quelli che fanno la preghiera in casa, ma non dicono più il rosario. Quando i figli in famiglia vedono il papà che prega, che prega insieme a tutti, questo ha un effetto sull’educazione, che le nostre prediche non avranno mai, siatene certi. Quindi nella visita pastorale faccio anche questa domanda: «Recitano la preghiera in casa?». Purtroppo pregano poco. Peccato! Allora lo dico in chiesa: «Fate il piacere! Dovete guardare la televisione, capisco. Ma se non potete dire il rosario, tutte le cinque poste, ditene almeno una, dieci Ave Maria, un mistero solo. Vi raccomando tanto, almeno questo. E anche voi insistete sulla devozione alla Madonna. Un giorno mi hanno anche chiesto, sono curiose queste pie anime: «Lei quale Madonna preferisce? Quella del Carmine? Perché, vede, io sono devota della Madonna del Carmine». È gente piuttosto alla buona e io ho risposto: «Se lei mi permette un consiglio, io le suggerirei la Madonna dei piatti, delle scodelle e delle minestre». Guardate che la Madonna si è fatta santa senza visioni, senza estasi, si è fatta santa con queste piccole cose di lavoro quotidiano. Volevo dire: molta devozione alla Madonna. Sì al rosario, la fiducia in lei, ma anche l’imitazione delle sue virtù. Quindi non stancatevi di raccomandare la devozione a Maria.