Archive pour février, 2015

PIETRA VIVA: LA BELLEZZA DELL’ALTARE LITURGICO

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PIETRA VIVA: LA BELLEZZA DELL’ALTARE LITURGICO

« LE COSE BELLE MANIFESTANO LA FORZA ATTRAENTE DELLA VERITÀ »

DI RANDY STICE

Tu sei bellezza … Tu sei bellezza! esclamava di Dio San Francesco d’Assisi. Dio che è bellezza è anche Essere, colui che ha creato e sostiene ogni cosa (cfr. Col. 1,16-17). La bellezza perciò è una categoria dell’essere e ogni bellezza partecipa in qualche misura della bellezza di Dio, come insegna il Concilio Vaticano II: « Per loro natura, le belle arti hanno relazione con l’infinita bellezza divina che deve essere in qualche modo espressa dalle opere dell’uomo » (Sacrosanctum Concilium, n.122). Poiché la bellezza è una categoria dell’essere, nel determinare la bellezza di qualcosa, si deve prima conoscere la sua natura essenziale. Jacques Maritain lo chiamava « segreto ontologico », da lui definito « l’intimo essere » e « l’essenza spirituale ». Il segreto ontologico delle cose è « l’invisibile realtà spirituale del loro essere oggetti di comprensione ».
La Costituzione sulla Sacra Liturgia offre la chiave per il segreto ontologico delle cose in uso nella sacra liturgia: « le cose appartenenti al culto sacro splendano veramente per dignità, decoro e bellezza, per significare e simbolizzare le realtà soprannaturali » (Sacrosanctum Concilium, n.122). Ecco il loro segreto ontologico: significati e simboli delle realtà soprannaturali. Per questa ragione, lo scopo ultimo è « una nobile bellezza piuttosto che una mera sontuosità » (n. 124). Ecco perché, se si vuole giudicare la bellezza dell’altare liturgico, occorre determinare quanto esso sia segno e simbolo delle realtà soprannaturali, e lo stesso occorre ancor prima determinare per l’edificio chiesa.
Prima di considerare la questione dell’ontologia, dobbiamo specificare la nostra metodologia estetica. A questo scopo ci rivolgiamo a San Tommaso d’Aquino. Egli insegna che le cose belle possiedono tre qualità: ‘integritas, consonantia et claritas’. L’integritas si riferisce alla completezza e alla perfezione: nulla di essenziale manca, nulla di estraneo è presente. La consonantia è la qualità della proporzionalità in relazione a un fine, quello che Dio predispone. La claritas, il terzo elemento, è il potere di un oggetto di rivelare la sua realtà ontologica. Umberto Eco la descrive come « la comunicabilità fondamentale della forma, che si realizza in chi guarda o vede l’oggetto ». Una cosa per essere veramente bella, deve avere tutti e tre gli elementi costitutivi (integritas), proporzionata al suo fine ultimo (consonantia), e manifestare la propria realtà essenziale (claritas).
Parlando del consonante, Umberto Eco descrive pure la differenza importante che esiste tra cose differenti ma interconnesse, che formano quello che egli chiama « una densa rete di relazioni… Infatti siamo liberi di considerare la relazione di tre, quattro o un’infinità di cose proporzionate tra loro e proporzionate anche rispetto a un intero unificante ». « In breve, si tratta di una duplice relazione delle parti tra loro e con l’intero di cui sono parte ». Applicato a un edificio ecclesiale e alle sue suppellettili, ciò descrive una moltitudine di relazioni: dal presbiterio alla navata, dall’altare al persbiterio, dall’altare al tabernacolo, dall’ambone alla cattedra del celebrante, e così via.
Chiarita la metodologia, passiamo ora alla questione del segreto ontologico dell’edificio chiesa e dell’altare. L’ontologia dell’edificio ecclesiale deriva dall’ontologia della Chiesa. La Lumen Gentium descrive la Chiesa come segue: « Questo edificio viene chiamato in varie maniere: casa di Dio, nella quale cioè abita la sua famiglia, la dimora di Dio nello Spirito, la dimora di Dio con gli uomini, e soprattutto tempio santo, il quale, rappresentato da santuari di pietra, è l’oggetto della lode dei santi Padri ed è paragonato a giusto titolo dalla liturgia alla Città santa, la nuova Gerusalemme » (Lumen Gentium, n.6).
Notare come la frase leghi la natura della Chiesa alla natura dell’edificio chiesa, leghi le immagini bibliche che descrivono la dimora di Dio con il suo popolo ai luoghi di culto di pietra che sono « paragonati dalla liturgia alla Città santa, la nuova Gerusalemme ». Ontologicamente quindi, l’edificio chiesa è un’immagine del Tempio, e la Città santa immagine della nuova Gerusalemme descritta nel libro dell’Apocalisse.
Figura centrale nella nuova Gerusalemme è l’Agnello (cfr. Ap. 21, 22-23; 22,1.3), che offre il contesto per l’ontologia dell’altare liturgico. Esso è simbolo del Cristo, centro del ringraziamento attualizzato nell’Eucaristia, l’altare del sacrificio e mensa del Signore. Per prima cosa, l’altare è simbolo di Cristo, come affermava Sant’Ambrogio nel IV secolo: « L’altare è l’immagine del corpo di Cristo e il corpo di Cristo sta sull’altare ». Il Catechismo della Chiesa Cattolica riassume tale importante simbolismo: « l’altare cristiano è il simbolo di Cristo stesso, presente in mezzo all’assemblea dei suoi fedeli sia come la vittima offerta per la nostra riconciliazione, sia come alimento celeste che si dona a noi » (1383).
Se l’altare è il simbolo di Cristo, deve per forza anche essere « il centro dell’assemblea, al quale si deve la massima venerazione » (Eucharisticum Mysterium). L’Istruzione Generale riafferma l’insegnamento dell’Eucharisticum Mysterium, quando lo descrive come « il centro del rendimento di grazie compiuto nell’Eucaristia ». Terzo, l’altare è « il luogo nel quale si compiono i misteri salvifici », l’altare del sacrificio. E’ il luogo, dice l’Istruzione Generale al Messale Romano, « sul quale si rende efficace il Sacrificio della Croce attualizzato nei segni sacramentali ». Quarto, è la mensa della cena sacrificale, « la mensa del Signore alla quale è convocato il Popolo di Dio per partecipare alla Messa ». Unendo questi due ultimi aspetti, il Catechismo dice: « l’altare, attorno al quale la Chiesa è riunita nella celebrazione dell’Eucaristia, rappresenta i due aspetti di uno stesso mistero: l’altare del sacrificio e la mensa del Signore » (n.1383). Un altare che « serva con la sua dignità e bellezza al decoro del culto » (Sacrosanctum Concilium n.122), rivelerà questa quadruplice ontologia.
Benché i documenti del Magistero non usino la terminologia dell’Aquinate, mostrano di conoscere implicitamente i suoi tre elementi. Riguardo alle specificazioni dell’altare, i documenti della Chiesa parlano dei suoi vari elementi, della sua ‘integritas’, la sua interezza o completezza. L’Istruzione Generale al Messale Romano sottolinea la centralità dell’altare: « l’altare sia collocato in un luogo che veramente sia il centro verso il quale l’attenzione dell’intera assemblea dei fedeli si volge in modo naturale ». Il libro della Conferenza Episcopale Americana « Built of Living Stones », fa riferimento ad altri due elementi, l’altare del sacrificio e la mensa del pasto sacrificale: « la forma e la dimensione devono riflettere la natura dell’altare come luogo del sacrificio e la mensa attorno alla quale Cristo riunisce la comunità per nutrirla ». Ciascuno di questi passaggi si riferisce all’integritas dell’Aquinate.
Il concetto di consonantia, proporzionalità a un fine, trova riscontro allo stesso modo nei documenti del Magistero. L’Introduzione all’Ordine della Messa stabilisce che « dimensione e proporzioni dell’altare devono essere adeguati alla normale celebrazione eucaristica festiva per ospitare le patene, le pissidi e i calici per la Comunione dei fedeli ». Anche la consonantia come « densa rete di relazioni » è presente. Ad esempio l’Esortazione ‘Eucharisticum Mysterium’ dice: « I Pastori siano consapevoli che la disposizione della chiesa contribuisce grandemente a una degna celebrazione e a un’attiva partecipazione dei fedeli ». Fa eco ‘Built of Living Stones’: « Considerando le dimensioni dell’altare, i parroci si assicurino che le principali suppellettili nel presbiterio siano armonicamente propozionate all’altare … L’altare sia collocato centralmente nel presbiterio e sia al centro dell’attenzione nella chiesa ». Un altare che abbia consonantia sarà appropriato alla funzione liturgica e in armonia con le altre suppellettili sacre.
Il terzo elemento dell’Aquinate, claritas, si riferisce al potere di un oggetto di rivelare la sua realtà ontologica. Una cosa può possedere consonantia e integritas, ma se non si rendono percepibili, non sarà bella. E’ quanto dice l’Istruzione Generale quando specifica che « la natura e la bellezza del luogo e delle suppellettili favoriscano la devozione ed esprimano visivamente la santità dei misteri ivi celebrati ». Secondo l’Eucharisticum Mysterium, l’altare sia « collocato e costruito in modo tale che sia sempre visto segno di Cristo stesso ». Un aspetto chiave dell’altare come simbolo di Cristo è l’altare di pietra. L’Istruzione Generale dispone che « vi sia un altare fisso in ogni chiesa, affinché sia più chiaramente e permanentemente significato Gesù Cristo, la pietra viva (1 Pt. 2,4; Ef. 2,20) ». Benché negli Stati Uniti gli altari di legno siano permessi, un altare « con la mensa di pietra naturale » rafforzerà la ‘claritas’ dell’altare, « poiché rappresenta Cristo Gesù, la Pietra Viva ». Da questi riferimenti, risulta bene come l’altare debba mostrare chiaramente la sua realtà ontologica.
Le cose belle rivelano più facilmente e completamente la loro realtà ontologica e manifestano la forza attraente della Verità. La bellezza di un edificio chiesa rifletterà la sua ontologia come Tempio e nuova Gerusalemme, e un bell’altare mostrerà la sua realtà di immagine di Cristo stesso, l’altare del sacrificio, la tavola del banchetto celeste e del ringraziamento. I tre elementi costitutivi della bellezza secondo San Tommaso d’Aquino – integritas, consonantia, claritas – costituiscono una utile metodologia per far sì che quanto è destinato alla sacra liturgia sia degno, bello e in grado di far volgere le menti con devozione verso Dio. La fedeltà alle realtà ontologiche produrranno un edificio chiesa che sarà « veicolo per portare la presenza del Trascendente » (Evdokimov), in cui « ogni altare…dal più grande al più piccolo, sia illuminato dall’altare d’oro del Cielo (Ap. 8,3), e divenga la sua replica sulla terra, la rappresentazione di Cristo stesso » (G. Webb).

The Institute for Sacred Architecture, n. 21 – Primavera 2012
http://www.sacredarchitecture.org/articles/living_stone_the_beauty_of_the_liturgical_altar/
trad. it. di d. Giorgio Rizzieri

(29/01/2013)

Publié dans:liturgia, LITURGIA: STUDI |on 24 février, 2015 |Pas de commentaires »

«IL CRISTIANESIMO È UN INCONTRO, UN AVVENIMENTO» – JOSEPH RATZINGER

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«IL CRISTIANESIMO È UN INCONTRO, UN AVVENIMENTO»

JOSEPH RATZINGER

PRIMO PIANO – DON GIUSSANI – ARCHIVIO

Riproponiamo il testo dell’omelia dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, presente al funerale di don Giussani a nome di Giovanni Paolo II, davanti alle oltre 40.000 persone che gremivano il Duomo di Milano e la piazza, il 24 febbraio 2005

Cari fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio, «i discepoli al vedere Gesù gioirono». Queste parole del Vangelo ora letto ci indicano il centro della personalità e della vita del nostro caro don Giussani.
Don Giussani era cresciuto in una casa – come disse lui stesso – povera di pane, ma ricca di musica, e così sin dall’inizio era toccato, anzi ferito, dal desiderio della bellezza, non si accontentava di una bellezza qualunque, di una bellezza banale: cercava la Bellezza stessa, la Bellezza infinita; così ha trovato Cristo, in Cristo la vera bellezza, la strada della vita, la vera gioia.
Già da ragazzo ha creato con altri giovani una comunità che si chiamava Studium Christi. Il loro programma era parlare di nient’altro se non di Cristo, perché tutto il resto appariva come perdita di tempo. Naturalmente ha saputo poi superare l’unilateralità, ma la sostanza gli è sempre rimasta. Solo Cristo dà senso a tutto nella nostra vita; sempre don Giussani ha tenuto fisso lo sguardo della sua vita e del suo cuore verso Cristo. Ha capito in questo modo che il cristianesimo non è un sistema intellettuale, un pacchetto di dogmi, un moralismo, ma che il cristianesimo è un incontro, una storia di amore, è un avvenimento.
Questo innamoramento in Cristo, questa storia di amore che è tutta la sua vita era tuttavia lontana da ogni entusiasmo leggero, da ogni romanticismo vago. Vedendo Cristo realmente ha saputo che incontrare Cristo vuol dire seguire Cristo. Questo incontro è una strada, un cammino, un cammino che attraversa – come abbiamo sentito nel salmo – anche la “valle oscura”. Nel Vangelo, abbiamo sentito proprio l’ultimo buio della sofferenza di Cristo, della apparente assenza di Dio, dell’eclisse del Sole del mondo. Sapeva che seguire è attraversare una “valle oscura”, andare sulla via della croce, e tuttavia vivere nella vera gioia.
Perché è così? Il Signore stesso ha tradotto questo mistero della croce, che in realtà è il mistero dell’amore, con una formula nella quale si esprime tutta la realtà della nostra vita. Il Signore dice: «Chi cerca la sua vita, la perderà e chi perde la propria vita, la troverà».
Don Giussani realmente voleva non avere per sé la vita, ma ha dato la vita, e proprio così ha trovato la vita non solo per sé, ma per tanti altri. Ha realizzato quanto abbiamo sentito nel Vangelo: non voleva essere un padrone, voleva servire, era un fedele servitore del Vangelo, ha distribuito tutta la ricchezza del suo cuore, ha distribuito la ricchezza divina del Vangelo, della quale era penetrato e, servendo così, dando la vita, questa sua vita ha portato un frutto ricco – come vediamo in questo momento – è divenuto realmente padre di molti e, avendo guidato le persone non a sé, ma a Cristo, proprio ha guadagnato i cuori, ha aiutato a migliorare il mondo, ad aprire le porte del mondo per il cielo.
Questa centralità di Cristo nella sua vita gli ha dato anche il dono del discernimento, di decifrare in modo giusto i segni dei tempi in un tempo difficile, pieno di tentazioni e di errori, come sappiamo. Pensiamo agli anni ’68 e seguenti, un primo gruppo dei suoi era andato in Brasile e qui si trovò a confronto con la povertà estrema, con la miseria. Che cosa fare? Come rispondere? E la tentazione fu grande di dire: adesso dobbiamo, per il momento, prescindere da Cristo, prescindere da Dio, perché ci sono urgenze più pressanti, dobbiamo prima cominciare a cambiare le strutture, le cose esterne, dobbiamo prima migliorare la terra, poi possiamo ritrovare anche il cielo. Era la tentazione grande di quel momento di trasformare il cristianesimo in un moralismo, il moralismo in una politica, di sostituire il credere con il fare. Perché, che cosa comporta il credere? Si può dire: in questo momento dobbiamo fare qualcosa. E tuttavia, di questo passo, sostituendo la fede col moralismo, il credere con il fare, si cade nei particolarismi, si perdono soprattutto i criteri e gli orientamenti, e alla fine non si costruisce, ma si divide.
Monsignor Giussani, con la sua fede imperterrita e immancabile, ha saputo che, anche in questa situazione, Cristo, l’incontro con Lui rimane centrale, perché chi non dà Dio, dà troppo poco e chi non dà Dio, chi non fa trovare Dio nel volto di Cristo, non costruisce, ma distrugge, perché fa perdere l’azione umana in dogmatismi ideologici e falsi.
Don Giussani ha conservato la centralità di Cristo e proprio così ha aiutato con le opere sociali, con il servizio necessario l’umanità in questo mondo difficile, dove la responsabilità dei cristiani per i poveri nel mondo è grandissima e urgente.
Chi crede deve attraversare anche la “valle oscura”, le valli oscure del discernimento, e così anche delle avversità, delle opposizioni, delle contrarietà ideologiche che arrivavano fino alle minacce di eliminare i suoi fisicamente per liberarsi da questa altra voce che non si accontenta del fare, ma porta un messaggio più grande, così anche una luce più grande.
Monsignor Giussani, nella forza della fede, ha attraversato imperterrito queste valli oscure e naturalmente, con la novità che portava con sé, aveva anche difficoltà di collocazione all’interno della Chiesa. Sempre se lo Spirito Santo, secondo i bisogni dei tempi, crea il nuovo, che in realtà è il ritorno alle origini, è difficile orientarsi e trovare l’insieme pacifico della grande comunione della Chiesa universale. L’amore di don Giussani per Cristo era anche amore per la Chiesa, e così sempre è rimasto fedele servitore, fedele al Santo Padre, fedele ai suoi Vescovi.
Con le sue fondazioni ha anche interpretato di nuovo il mistero della Chiesa.
Comunione e Liberazione ci fa subito pensare a questa scoperta propria dell’epoca moderna, la libertà, e ci fa pensare anche alla parola di sant’Ambrogio: «Ubi fides ibi libertas». Il cardinale Biffi ha attirato la nostra attenzione sulla quasi coincidenza di questa parola di sant’Ambrogio con la fondazione di Comunione e Liberazione. Mettendo in rilievo così la libertà come dono proprio della fede, ci ha anche detto che la libertà, per essere una vera libertà umana, una libertà nella verità, ha bisogno della comunione. Una libertà isolata, una libertà solo per l’io, sarebbe una menzogna e dovrebbe distruggere la comunione umana. La libertà per essere vera, e quindi per essere anche efficiente, ha bisogno della comunione, e non di qualunque comunione, ma ultimamente della comunione con la verità stessa, con l’amore stesso, con Cristo, col Dio trinitario. Così si costruisce comunità che crea libertà e dona gioia.
L’altra fondazione, i Memores Domini, ci fa pensare di nuovo al secondo Vangelo di oggi: la memoria che il Signore ci ha dato nella santa Eucaristia, memoria che non è solo ricordo del passato, ma memoria che crea presente, memoria nella quale Egli stesso si dà nelle nostre mani e nei nostri cuori, e così ci fa vivere.
Attraversare valli oscure. Nella ultima tappa della sua vita don Giussani ha dovuto attraversare la valle oscura della malattia, dell’infermità, del dolore, della sofferenza, ma anche qui il suo sguardo era fissato su Gesù, e così rimase vero in tutta la sofferenza, vedendo Gesù, poteva gioire, era presente la gioia del Risorto, che anche nella passione è il Risorto e ci dà la vera luce e la gioia e sapeva che – come dice il salmo – anche attraversando questa valle, «non temo alcun male perché so che Tu sei con me e abiterò nella casa del Padre». Questa era la sua grande forza: sapere che «Tu sei con me».
Miei cari fedeli, cari giovani soprattutto, prendiamo a cuore questo messaggio, non perdiamo di vista Cristo e non dimentichiamo che senza Dio non si costruisce niente di bene e che Dio rimane enigmatico se non riconosciuto nel volto di Cristo.
Adesso il vostro caro amico don Giussani è arrivato nell’altro mondo e siamo convinti che si è aperta la porta della casa del Padre, siamo convinti che adesso pienamente si realizza questa parola: vedendo Gesù gioirono, gioisce con una gioia che nessuno gli toglie. In questo momento vogliamo ringraziare il Signore per il grande dono di questo sacerdote, di questo fedele servitore del Vangelo, di questo padre. Affidiamo la sua anima alla bontà del suo e del nostro Signore.
Vogliamo in quest’ora pregare anche particolarmente per la salute del nostro Santo Padre, ricoverato di nuovo in ospedale. Il Signore lo accompagni, gli dia forza e salute. E preghiamo perché il Signore ci illumini, ci doni la fede che costruisce il mondo, la fede che ci fa trovare la strada della vita, la vera gioia.
Amen.

San Policarpo

 San Policarpo dans immagini sacre polycarp

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S. POLICARPO di SMIRNE (ca. 70-156) – 23 FEBBRAIO

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S. POLICARPO di SMIRNE (ca. 70-156) – 23 FEBBRAIO

S. Policarpo, secondo S. Girolamo, fu ordinato vescovo di Smirne dallo stesso S. Giovanni evangelista, al quale sarebbe succeduto verso l’anno 100. Per oltre cinquant’anni, con zelo e fortezza, governò la sua diocesi, e non è improbabile che esercitasse una certa autorità e un certo prestigio su più vaste zone dell’Asia minore, in quanto egli fu l’ultimo testimone dell’età apostolica.
Nulla sappiamo della patria e della giovinezza di Policarpo che nacque, con tutta probabilità, da genitori cristiani verso il 70. Tranne le notizie fornite dalle lettere di S. Ignazio di Antiochia, e dalla lettera di S. Policarpo ai Filippesi, conosciamo alcuni dettagli della vita di lui da S. Ireneo, vescovo di Lione, che verso il 140 fu suo discepolo, ascoltò le sue istruzioni, raccolse le sue parole, e ne conservò fedelmente il ricordo. Nella lettera che egli mandò al prete Fiorino, che aveva aderito all’eresia dello gnosticismo, scrisse difatti: « Potrei ancora indicare il luogo, il posto preciso dove il beato Policarpo sedeva e insegnava; potrei descrivere come veniva e come andava, ritrarre le fattezze del suo corpo, esporre i discorsi che teneva al popolo, raccontare la familiarità che aveva con l’apostolo Giovanni e con gli altri discepoli che avevano udito il Signore; io potrei dirti infine come ripeteva i loro racconti, e quanto essi avevano udito dalla bocca stessa di Gesù » (Eusebio, St. Eccl., V, 24,16).
S. Policarpo, secondo S. Girolamo, fu ordinato vescovo di Smirne dallo stesso S. Giovanni evangelista, al quale sarebbe succeduto verso l’anno 100. Per oltre cinquant’anni, con zelo e fortezza, governò la sua diocesi, e non è improbabile che esercitasse una certa autorità e un certo prestigio su più vaste zone dell’Asia minore, in quanto egli fu l’ultimo testimone dell’età apostolica.
S. Girolamo afferma difatti che « Policarpo fu il capo di tutta l’Asia ». Quando S. Ignazio d’Antiochia, nel 107. passò da Smirne diretto a Roma per essere sbranato dalle fiere alle quali era stato condannato, fu ricevuto con cuore di vescovo dal giovane Policarpo. Da Troade S. Ignazio gli scrisse una lettera di addio con saggi consigli, come già S. Paolo aveva fatto con Timoteo e Tito: « Abbi cura dell’unità della Chiesa, di cui non vi è nulla di meglio; sopporta tutti come il Signore sopporta te; abbi pazienza e carità con tutti, come del resto fai. Non stancarti nella preghiera; domanda a Dio una sapienza maggiore di quella che hai; vigila con uno spirito insonne; ai singoli parla secondo il metodo di Dio, addossati le infermità di tutti, a somiglianza di un perfetto atleta… Per te io offro a Dio in sacrificio me stesso e le mie catene, quelle catene che tu hai baciato ».
S. Policarpo fece tesoro dei saggi ammaestramenti. Come S. Ignazio, anch’egli scrisse parecchie lettere a privati cristiani e alle chiese asiatiche in difesa della vera fede. A noi è giunta soltanto quella che diresse alla chiesa di Filippi, nella quale egli chiese a quei buoni fedeli notizie riguardo al passaggio del suo amico Ignazio in quella città, ed al martirio di lui. Insieme con la propria lettera egli mandò agli abitanti di Filippi « quante lettere poté avere » del condannato alle belve di cui gli avevano pressantemente fatto richiesta. Nello scritto S. Policarpo insiste specialmente sull’ubbidienza dovuta « ai presbiteri e ai diaconi » che in quel tempo, con probabilità, reggevano collegialmente la piccola comunità.
Nell’ultimo anno di vita il Santo vescovo di Smirne si recò a Roma per accordarsi con il Sommo Pontefice S. Aniceto (+166) sulla data della celebrazione pasquale, che gli asiatici festeggiavano due giorni dopo la Pasqua ebraica, e i romani invece nella domenica seguente, al 14 del mese di Nisan. L’accordo non fu raggiunto, e siccome si trattava di una questione puramente disciplinare, non ne fu turbata la carità, anzi, papa e vescovo si scambiarono vicendevolmente il bacio di pace. Aniceto, per tributare pubblicamente onore a Policarpo, gli permise di celebrare il santo sacrificio nella comunità in vece sua.
A Roma la presenza del vescovo venerando contribuì alla conversione di molti erranti alla verità e all’unità. Dovette avvenire in quell’occasione il famoso incontro con Marcione, scaltro e ricco capo degli gnostici. Quando questi chiese a S. Policarpo se lo conoscesse, egli lo investì aspramente: « O sì, io riconosco il primogenito di Satana ».
Al principio della persecuzione che scoppiò a Smirne sotto il proconsole Stazio Quadrato, S. Policarpo, in seguito a delle pressioni dei fedeli, si ritirò in una casa di campagna non facendo altro giorno e notte che pregare per tutti gli uomini. Tre giorni prima che fosse arrestato, in visione, vide il suo guanciale bruciato dal fuoco. Egli disse a coloro che si trovavano con lui: « Bisogna che io sia arso vivo ». Fu scoperto in seguito alla confessione estorta ad un suo servo mediante la tortura. Il Santo vegliardo, alle guardie che a tarda sera irruppero nella sua casa per arrestarlo, fece servire la cena, e per due ore pregò « per tutta la chiesa cattolica che è nel mondo ». Durante il tragitto egli resistette alle pressioni dell’irenarco Erode che gli diceva: « Che male c’è a dire: Signore Cesare, e sacrificare e compiere le altre cerimonie che si connettono al sacrificio, e così uscire felicemente salvo? ».
All’entrata di Policarpo nello stadio, mentre il popolo gridava, i cristiani udirono dal cielo la voce: « Sii forte, o Policarpo, e d’animo virile ». Condotto davanti al proconsole, il vecchio atleta consentì volentieri a gridare: « Abbasso gli atei », ma si rifiutò di giurare per la divinità dell’imperatore. « Giura e ti libero – insistette il proconsole; – bestemmia Cristo ». Policarpo rispose: « Da ottantasei anni lo servo e in nulla mi ha fatto ingiuria; e come posso bestemmiare il mio rèe, che mi ha salvato? ». Stazio Quadrato mandò il suo banditore a gridare tre volte in mezzo allo stadio: « Policarpo ha confessato di essere cristiano ». La folla dei gentili e dei giudei con rabbia furiosa si pose allora a gridare; « Costui è il maestro dell’Asia, il padre dei cristiani, il distruttore dei nostri dèi, che insegna a molti a non sacrificare, né adorare ».
Condannato ad essere bruciato vivo, Policarpo pregò, legato come un malfattore sulla catasta di legna: « Signore, Dio onnipotente… ti benedico per avermi fatto degno di questo giorno e di questa ora, di prendere parte al numero dei Martiri, mediante il calice del tuo Cristo, alla risurrezione della vita eterna dell’anima e del corpo nell’incorruttibilità dello Spirito Santo ». Le fiamme del rogo lo avvolsero a spira senza ferirlo; il carnefice lo uccise con una pugnalata il 23 febbraio dell’anno 155.
Il Martirio di Policarpo è il più antico tra gli atti dei Martiri che possediamo, e fu scritto in forma di lettera subito dopo la morte del Santo, dalla comunità di Smirne alla chiesa di Filomelio in Frigia.
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Sac. Guido Pettinati SSP,

Publié dans:Santi, santi martiri |on 23 février, 2015 |Pas de commentaires »

AMARE DIO

http://www.clerus.org/clerus/dati/1999-06/14-2/AMAREDIO.rtf.html

AMARE DIO

Chi non sente il desiderio di attuare la propria vocazione, qualunque essa sia, e vivere la vita in pienezza? Chi non ha mai sognato di giungere alla piena identità con se stesso, con il proprio essere? Acquistare la piena maturità in Cristo è l’anelito segreto di ogni cristiano. E proprio questo desiderio di pienezza di vita che spinge l’uomo a porsi in cammino e a intraprendere il « santo viaggio » verso la completa attuazione di ciò a cui è chiamato.
Come riamare Dio da cui ci scopriamo immensamente amati? Ci sarà un modo semplice e attuale per compiere l’itinerario di crescita spirituale a cui il Vangelo ci chiama, e così giungere a rispondere all’Amore con quella pienezza di amore a Dio che è la santità e l’integrale maturità umana di tutta la persona.
Sì, il modo c’è! Ed e semplice e sicuro e attuale oggi più che mai. È racchiuso in una parola del Vangelo: « Non chiunque mi dice, Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli,, (Mc 13, 31). In questo conformarsi al volere del Padre si attua la risposta d’amore. « Chi osserva la sua parola – scrive Giovanni riferendosi alla rivelazione di Gesù -, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto » ( 1 Gv 2, 5). Non conta tanto dire di sì a parole. Importano i fatti, come ci insegna Gesù nella parabola dei due figli (cf. Mc 21, 28-31). Si mostra l’amore facendo la volontà di Dio nel presente, vivendo con interezza il quotidiano, compiendo per amore e con sincerità, per Iddio, quanto attimo per attimo ci è suggerito dallo Spirito attraverso la Parola di Dio, le circostanze di ogni giorno, i doveri e le condizioni della nostra vita, i piccoli gesti abituali… Scegliere Dio è scegliere ciò che lui vuole.
È qui che forse possiamo ritrovare finalmente la semplicità del vivere evangelico. È questo anche l’insegnamento dei più grandi mistici che, pur sperimentando fenomeni spirituali straordinari, sapevano bene che la perfezione non consiste nel far miracoli o nell’operare in modo straordinario, ma – come scrive ad esempio san Paolo della Croce – « in essere perfettissimamente unito alla santissima volontà di Dio, e chi è più unito e trasformato in questo divinissimo beneplacito, quello è il più umile, il più povero di spirito, il più perfetto, il più santo ».
Con la semplicità e la profondità che gli sono proprie, anche il Curato d’Ars non esitava ad affermare che « la santità non consiste nel fare grandi cose, ma nel compiere fedelmente i comandi di Dio e nell’adempiere i doveri dello stato in cui il buon Dio ci ha messi ». Ed ancora recentemente, Paolo Vl confermava la validità di questa strada per l’uomo di oggi, quando diceva: « La santità a noi richiesta non è quella dei miracoli, cioè dei fenomeni straordinari, ma quella della volontà buona e ferma che, in ogni vicenda ordinaria del vivere comune, cerca la dirittura logica della ricerca della volontà di Dio ».
Come riamare l’Amore? Facendo cio che a lui piace! Santità e volontà di Dio sono quindi sinonimi, anche se il termine volontà di Dio va compreso in tutta la sua profondità. Come tante altre parole del vocabolario cristiano, anche questa espressione ha perduto il suo smalto, divenendo spesso scialba, antiquata, fino ad assumere una patina opaca. Spesso è purtroppo sinonimo di rassegnazione o ha fatto da copertura all’ingiunzione autoritaria della volontà di un uomo su altri uomini. Occorre riscoprirla per quello che veramente è: l’incontro tra Dio e l’uomo, la manifestazione che Dio fa di se stesso, e la piena conformazione dell’uomo, in tutto il suo essere, al Dio che rivelandosi si comunica.
Dio ha su ciascuno un disegno d’amore: da sempre l’ha pensato, voluto, amato. Un disegno che si svela progressivamente nel tempo attraverso un rapporto dialogico nel quale, a mano a mano che si aderisce al suo progetto d’amore, si prende coscienza di come Dio ci ha pensati. Creati nel Figlio, ognuno di noi è, nel profondo della sua persona, verbo nel Verbo, parola nella Parola. Per conoscersi occorre quindi rispecchiarsi nella Parola, che si è dispiegata nelle parole del Vangelo. Vivendo il Vangelo, rievangelizzandoci, entriamo in comunione con la Parola originaria e archetipa, e anche la nostra parola prende consistenza. La volontà di Dio non è allora un’imposizione esteriore, arbitraria. È piuttosto il fiorire della nostra più autentica personalità fino a diventare quel verbo d’amore che il Padre da sempre ha pronunciato nel suo Verbo divino. È un rapporto con Dio, un dialogo. Lui mi parla, si svela e mi svela. Io gli rispondo adeguandomi a lui, divenendo come mi ha pensato nel suo disegno d’amore. Si intesse così tutto un legame, sempre più profondo, attraverso il quale io mi realizzo pienamente in una crescita continua che mi porta a diventare quel capolavoro che Dio da sempre ha visto e custodito in sé. Fare la volontà di Dio è l’opposto dell’alienazione: è il pieno ritrovamento di se stessi.
La parola di Dio che sono io, proprio perché parola nella Parola, non è mai disgiunta dalle altre parole che Dio ha pronunciato nel suo amore fecondo e inesauribile. II mio disegno è parte di un disegno più vasto che mi pone in rapporto con gli altri, con le persone con cui vivo, con l’umanità intera, ma anche con gli angeli e con i santi che già dimorano nel seno del Padre. Quando infatti Dio ci pensa, non ci pensa separati dagli altri: ci vede tutti come membri della sua grande famiglia, legati gli uni agli altri, in dono gli uni verso gli altri. Così la vocazione a riamare l’Amore ci pone in dialogo di comunione con gli altri, cos) come ci pone in dialogo di comunione con Dio. Donandoci e accogliendoci, in una costante reciprocità, « usciamo » fuori da noi e diventiamo ciò che siamo chiamati ad essere: il capolavoro pensato da Dio.

VIVERE LA DIVINA AVVENTURA
L’uomo è il culmine della creazione e tutta la riassume in sé.
Fra tutti gli esseri della terra è il solo fatto a immagine e somiglianza di Dio e ha un rapporto personale con lui: un rapporto di conoscenza, di amore, di amicizia, di comunione. Aderendo a ciò che Dio vuole da lui, l’uomo stesso si realizza come uomo e il suo essere trova felicità e pienezza.
Ma fin dal principio l’uomo rifiuta il rapporto con il Creatore; vuole affermare se stesso e diventare Dio, prescindendo da lui, anzi contro di lui.
Anche di fronte al peccato del primo uomo Dio non lo abbandona, lo punisce, ma lo salva. Egli lo caccia dal giardino, ma gli lascia la vita e la speranza di una redenzione.
Con la chiamata di Abramo, l’umanità dice di nuovo il suo « sì » a Dio, e ha inizio così l’avventura di un nuovo cammino morale, spirituale e sociale.
Dopo avere stretto l’alleanza con Abramo e la sua discendenza, Dio rivela a Mosè sul Monte Sinai la propria volontà nel Decalogo, che aiuta l’uomo ad essere più uomo sia in rapporto con Dio che con i suoi simili.
Per mostrare all’uomo tutto il suo amore Dio manda il Figlio Gesù nel quale tutti possono trovare un modello della piena conformità al volere del Padre.
Gesù mostra agli uomini tutta la volontà di Dio, attraverso la sua vita e i suoi insegnamenti, ma soprattutto con il Comandamento Nuovo: « Come io ho amato voi, così anche voi amatevi gli uni gli altri » (Gv 13, 34).
Per il cristiano, fare la volontà di Dio significa « vivere come Gesù », cioè vivere quel rapporto d’amore di figlio col Padre, che si attua nel fare la sua volontà.
Questo amore totale a Dio e agli uomini che Gesù chiede agli altri, egli lo ha vissuto prima di tutti, fino a dare la sua vita per noi.
La volontà di Dio, come ce la mostra il Nuovo Testamento con la vita, la morte e la risurrezione di Gesù, non è l’osservanza di un codice di precetti, ma è tutta e solo Amore, perché è soltanto sull’amore che saremo giudicati.
Se ci incamminiamo per la strada della volontà di Dio, egli ci guida lungo sentieri pensati attimo per attimo dal suo amore, inventati dalla sua fantasia e suggeriti dalla sua provvidenza.
Vivendo cosi, si acquista una grande elasticità nel comprendere la volontà di Dio e si compone un disegno magnifico di cui forse non si capisce subito il senso, ma di cui si sa di certo che è proposto da un Padre che ci vuole bene.
Scriveva Chiara Lubich nel 1946: « Far da Gesù sulla terra, prestare a Dio la nostra umanità affinché la usi per farvi rivivere il suo Figlio diletto. Per questo far come Gesù: solo la Volontà del Padre.
« E la Volontà del Padre è racchiusa nel Vangelo ed è: essere una sola cosa con Dio Padre per mezzo e con l’esempio di Gesù ed essere una sola cosa con tutti i fratelli: « Ut omnes unum sint »".
Nel Vangelo vissuto fu trovata dunque la chiave per comprendere la Volontà di Dio. E, per attuare quello che Gesù chiama il suo Comandamento, Chiara e le sue prime compagne fecero un patto di amore scambievole.
La guerra, che faceva da sfondo al Movimento nascente, aiutò a far capire un’altra cosa fondamentale, e cioè che la Volontà di Dio va fatta subito perché un momento dopo sarebbe troppo tardi.
« L’unico tempo che avevamo nelle nostre mani – ricorda Chiara – era il momento presente. Il passato non era più, il futuro non sapevamo se ci sarebbe mai stato: vivendo il presente, si vivrà bene il futuro quando sarà presente.
« Come un viaggiatore non cammina avanti e indietro nel treno, per affrettare la corsa, ma sta seduto al suo posto, così noi dobbiamo star fermi nel presente.
« Il treno del tempo cammina da sé e, presente dopo presente, arriveremo al momento dal quale dipende l’eternità ».
Un altro esempio è quello del sole con i raggi. « Ognuno di noi cammina nella vita su un raggio distinto da quello del fratello ma pur sempre su un raggio di sole e cioè nella Volontà di Dio.
« Cosi ognuno si sente, per l’unica Volontà che ci lega fra noi e al Padre in Gesù, uno col fratello, con Gesù, col Padre ».
Bisogna camminare sempre in quel raggio e rimanere costantemente nella Volontà di Dio dell’attimo presente. E per rimanerci occorre far tacere la nostra Volontà, facendo solo la sua.
Quando ci accorgiamo di aver trascorso qualche attimo nella Volontà nostra, « fuori dal raggio », nelle tenebre, l’unico modo per migliorarci è rimettersi a far subito in quell’attimo la Volontà divina.
E mentre gli attimi in cui si vive fuori del raggio possono sembrare come i tanti nodi di un disegno intricato e senza senso, quando si crede alla misericordia di Dio, e si vedono le cose con gli occhi suoi, tutto appare come una magnifica trama, che è il disegno di Dio su ciascuno di noi.

* * *
Tutti i santi non fanno che esortarci a vivere la Volontà di Dio:
Per san Francesco di Sales: « L’anima che ama Iddio è tanto trasformata nella divina Volontà da meritare di essere chiamata « Volontà stessa di Dio »".
« L’anima corre come un cavallo sfrenato – dice Caterina da Siena – di grazia in grazia velocemente e di virtù in virtù, ‘ché non ha alcun freno che la trattenga dal correre, perché ha tagliato in se ogni disordinato appetito e desiderio della propria Volontà, i quali sono i freni e i legami che non lasciano correre le anime degli uomini spirituali ».
« Non dimenticatelo mai – dice Teresa d’Avila – perché è importantissimo. L’unica brama di chi vuol darsi all’orazione deve essere di fare il possibile per risolversi a conformare la sua Volontà a quella di Dio ».
« La somma perfezione non sta nelle dolcezze interiori, nei grandi rapimenti, nelle visioni e nello spirito di profezia, bensì nella perfetta conformità del vostro volere a quello di Dio ».
« Mentre pensavo se non avessero ragione di vedermi di malocchio uscir di clausura per fondare monasteri e se non fosse meglio darmi con maggior impegno all’orazione, intesi queste parole: « Finché si è sulla terra, il profitto non consiste nel maggiormente godermi, ma nel fare la mia Volontà »".
Una regola d’oro che tutti i santi ci confermano è di vivere bene l’oggi, l’affanno di ogni giorno, il momento presente.
Caterina da Siena diceva: « La fatica che è passata, noi non l’abbiamo, però che è fuggito il tempo; quella che è a venire non l’abbiamo però che non siamo sicuri di avere il tempo ».
E Antonio Abate: « Ricominciare oggi di nuovo, nella purezza di cuore e nell’obbedienza alla Volontà di Dio ».
Maestra del vivere il presente è Teresa di Lisieux: « Approfittiamo del nostro unico momento di sofferenza, badiamo solo all’attimo che passa; un attimo è un tesoro ».
« La mia vita è un baleno, un’ora che passa, è un momento che presto mi sfugge e se ne va.
Tu lo sai, mio Dio, che per amarti sulla terra non ho altro che l’oggi ».
I1 completo abbandono alla Volontà di Dio, Teresa d’Avila l’ha espresso con una bellissima poesia:
« Vita o morte, trionfo oppure infamia, infermità o salute, sia in pace che tu mi voglia o in orride pene continue e acute, tutto accetta e gradisce questo cuore: Dimmi che vuoi da me, dimmi, Signore.
« Dammi ricchezza o in povertade astringimi, inferno dammi o cielo, vita sepolta fra più dure tenebre o senza velo: a tutto mi sottometto, o dolce Amore: Dimmi che vuoi da me, dimmi, Signore.
« L’Alma, se vuoi, di gioia inalterabile oppure d’assenzio inonda; divozione, orazione, ratti ed estasi o siccità profonda; nel tuo volere trova pace il cuore: Dimmi che vuoi da me, dimmi, Signore ».
La tensione fra Volontà umana e Volontà divina è vissuta da Gesù stesso nell’Orto degli Ulivi:
« Padre, se è possibile, si allontani da me questo calice… Tuttavia sia fatto non ciò che voglio io, Padre, ma ciò che vuoi tu ».
« Soffri e non vorresti lamentarti – dice José Maria Escrivà – Non importa se ti lamenti. È la reazione naturale della nostra povera carne. Purché la tua Volontà voglia, ora e sempre, quello che vuole Dio ».
Ma poi vengono i frutti: « La piena accettazione della Volontà di Dio porta necessariamente la gioia e la pace: la felicità nella croce ».
La Chiesa ha illuminato sempre con la sua dottrina il cammino dell’uomo verso Dio, chiarendogli i misteri del suo volere.
Il Concilio Vaticano II ci ricorda la consolante affermazione di Paolo: « Dio vuole che tutti gli uomini si salvino e arrivino alla conoscenza della verità ».
Con chiarezza poi il Concilio ci ricorda: « Il Padre vuole che noi riconosciamo ed efficacemente amiamo Cristo in ciascuno dei nostri fratelli. Ma vi è anche la vita di tutti i giorni, con le sue vicende che, se vengono prese con fede dalla mano del Padre celeste, servono a santificarci, perché sono il mezzo per cooperare alla Volontà divina ».
La voce di Dio parla anche attraverso i Vescovi, dice il Concilio: « Essi fanno le parti dello stesso Cristo, Maestro, Pastore e Pontefice ».
C’è poi la voce di Dio che parla nel nostro cuore. Per chi la sa ascoltare essa diventa come il faro che guida sulla rotta dell’esistenza.
Nel Concilio si è parlato spesso anche di segni dei tempi nei quali bisogna imparare a scorgere con la luce della fede il progetto di Dio nel cammino della storia. Fra questi segni dei tempi vi è la ricerca dell’unità fra le Chiese separate.
« La Volontà di Cristo – dice Giovanni Paolo II – ci stimola a lavorare seriamente e costantemente per l’unità con tutti i nostri fratelli cristiani ».
* * *
Ma come va fatta la Volontà di Dio? « Con estrema fiducia e senza riserva », dice Giovanni Paolo II. « La nostra resa alla Volontà di Dio deve essere totale, il Sì detto una volta per sempre ».
Di fronte alla morte che vede giungere, Paolo VI ci apre il suo animo: « Non più guardare indietro, ma fare volentieri, semplicemente, umilmente, fortemente la Tua Volontà. Fare presto, fare tutto, fare bene. Fare lietamente ciò che ora tu vuoi da me, anche se supera immensamente le mie forze e se mi chiede la vita ».
Papa Giovanni nel suo « Giornale dell’anima » scriveva: « La mia vera grandezza consiste nel fare totalmente e con perfezione la Volontà di Dio.
Tutto il creato compie la Volontà di Dio. I cieli, mossi dalla sua Volontà, gli stanno sottomessi in pace – scrive Papa Clemente Romano -: Il giorno e la notte percorrono il corso da lui prescritto senza ostacolarsi a vicenda. Il sole e la luna e i cori delle stelle girano come egli ha ordinato, in armonia, e senza deviare dall’orbita da lui segnata. L’immenso mare ricurvo, che per l’opera sua creatrice si raccolse nei suoi alvei, non oltrepassa mai i confini che gli pose intorno ».
Nel « Padre Nostro » chiediamo: « Sia fatta la tua Volontà come in cielo così in terra ».
« Quando questo sarà compiuto, allora tutto sarà cielo – esclama Pietro Crisologo -. Allora tutti saranno una cosa sola, anzi uno solo, il Cristo, tutti, quando in tutti vivrà l’unico Spirito di Dio ».
Scriveva Chiara Lubich nel Natale ’46 alle sue prime compagne: « Sì, sì, sì virile, fortissimo, totalitario, attivissimo alla Volontà di Dio… …Se tutte faremo la Volontà di Dio saremo prestissimo quella perfetta unità che Gesù vuole in terra come nel Cielo. E questo non è il nostro sogno? Se poi tutta la nostra vita, nell’attimo presente, sarà questo « sì » ripetuto con uguale intensità, vedremo veramente avverato quello che abbiamo chiesto e tanto desiderato come dono di Natale: essere Gesù. Questo vi invito a fare tutte. Perché su tutte Iddio ha posto una magnifica stella, la sua particolare Volontà su ciascuna di noi, seguendo la quale arriveremo unite al Paradiso e vedremo dietro la nostra luce camminare molte stelle! ».

Publié dans:meditazioni |on 23 février, 2015 |Pas de commentaires »

Gesù Misericordioso della chiesa di Lavarone (TN)

GesùMisericordioso_diLavarone

 

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Publié dans:immagini sacre |on 21 février, 2015 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO: LA SPERANZA, QUESTA SCONOSCIUTA

https://w2.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2013/documents/papa-francesco-cotidie_20131029_vivere-nella-speranza.html

PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

LA SPERANZA, QUESTA SCONOSCIUTA

Martedì, 29 ottobre 2013

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 249, Merc. 30/10/2013)

La speranza è la più umile delle tre virtù teologali, perché nella vita si nasconde. Tuttavia essa ci trasforma in profondità, così come «una donna incinta è donna» ma è come se si trasformasse perché diventa mamma. Della speranza Papa Francesco ha parlato questa mattina, martedì 29 ottobre, durante la messa celebrata a Santa Marta riflettendo sull’atteggiamento dei cristiani in attesa della rivelazione del Figlio di Dio.
A questo atteggiamento è legata la speranza, una virtù, ha detto all’inizio dell’omelia, che si è rivelata più forte delle sofferenze, così come scrive san Paolo nella lettera ai romani (8, 18-25). «Paolo — ha notato il Pontefice — si riferisce alle sofferenze del tempo presente, e dice che non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi». L’apostolo parla di «ardente aspettativa», una tensione verso la rivelazione che riguarda tutto il creato. «Questa tensione è la speranza — ha detto ancora — e vivere nella speranza è vivere in questa tensione», nell’attesa della rivelazione del Figlio di Dio, quando cioè tutta la creazione, «e anche ognuno di noi», sarà liberata dalla schiavitù «per entrare nella gloria dei figli di Dio».
«Paolo — ha poi proseguito — ci parla della speranza. Anche nel capitolo precedente della lettera ai romani aveva parlato della speranza. Ci aveva detto che la speranza non delude, è sicura». Tuttavia essa non è facile da capire; e sperare non vuol dire essere ottimisti. Dunque «la speranza non è ottimismo, non è quella capacità di guardare alle cose con buon animo e andare avanti», e non è neppure semplicemente un atteggiamento positivo, come quello di certe «persone luminose, positive». Questa, ha detto il Santo Padre «è una cosa buona, ma non è la speranza».
Si dice, ha spiegato il Santo Padre, che sia «la più umile delle tre virtù, perché si nasconde nella vita. La fede si vede, si sente, si sa cosa è; la carità si fa, si sa cosa è. Ma cos’è la speranza?». La risposta del Pontefice è stata chiara: «Per avvicinarci un po’ possiamo dire per prima cosa che è un rischio. La speranza è una virtù rischiosa, una virtù, come dice san Paolo, di un’ardente aspettativa verso la rivelazione del Figlio di Dio. Non è un’illusione. È quella che avevano gli israeliti» i quali, quando furono liberati dalla schiavitù, dissero: «ci sembrava di sognare. Allora la nostra bocca si riempì di sorriso e la nostra lingua di gioia».
Ecco, ha spiegato, questo è quanto avverrà quando ci sarà la rivelazione del Figlio di Dio. «Avere speranza significa proprio questo: essere in tensione verso questa rivelazione, verso questa gioia che riempirà la nostra bocca di sorriso». E ha esclamato: «È bella questa immagine!». Poi ha raccontato che «i primi cristiani la dipingevano come un’ancora. La speranza era un’ancora»; un’ancora fissata nella riva dell’aldilà. La nostra vita è come camminare sulla corda verso quell’ancora. «Ma dove siamo ancorati noi?» si è domandato il vescovo di Roma. «Siamo ancorati proprio là, sulla riva di quell’oceano tanto lontano o siamo ancorati in una laguna artificiale che abbiamo fatto noi, con le nostre regole, i nostri comportamenti, i nostri orari, i nostri clericalismi, i nostri atteggiamenti ecclesiastici — non ecclesiali, eh? —. Siamo ancorati là dove tutto è comodo e sicuro? Questa non è la speranza».
Paolo, ha aggiunto Papa Francesco, «cerca poi un’altra icona della speranza, quella del parto. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione, e anche noi con la creazione, “geme e soffre le doglie del parto fino a oggi”. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello spirito, gemiamo — pensate alla donna che partorisce — gemiamo interiormente aspettando. Siamo in attesa. Questo è un parto». La speranza, ha aggiunto, si pone in questa dinamica del dare la vita. Non è una cosa visibile anche per chi vive «nella primizia dello Spirito». Ma sappiamo che «lo Spirito lavora. Il Vangelo — ha precisato il Papa riferendosi al brano di Luca (13, 18-21) — dice qualcosa su questo. Lo Spirito lavora in noi. Lavora come se fosse un granello di senape, piccolino ma dentro è pieno di vita e di forza e va avanti sino all’albero. Lo Spirito lavora come il lievito che è capace di lievitare tutta la farina. Così lavora lo Spirito».
La speranza «è una grazia da chiedere»; infatti «una cosa è vivere nella speranza, perché nella speranza siamo salvati, e un’altra cosa è vivere come buoni cristiani e non di più; vivere in attesa della rivelazione, o vivere bene con i comandamenti»; essere ancorati sulla riva del mondo futuro «o parcheggiati nella laguna artificiale».
Per spiegare meglio il concetto il Pontefice ha indicato come è cambiato l’atteggiamento di Maria, «una ragazza giovane», quando ha saputo di essere mamma: «Va’ e aiuta e canta quel cantico di lode». Perché, ha spiegato Papa Francesco, «quando una donna è incinta, è donna» ma è come se si trasformasse nel profondo perché ora «è mamma». E la speranza è qualcosa di simile: «cambia il nostro atteggiamento». Per questo, ha aggiunto, «chiediamo la grazia di essere uomini e donne di speranza».
Alla conclusione, rivolgendosi a un gruppo di sacerdoti messicani che celebravano il venticinquesimo anniversario del loro sacerdozio, il Papa, indicando l’immagine mariana che gli avevano portato in dono, ha detto: «Guardate alla vostra Madre, figura della speranza dell’America. Guardate, è dipinta incinta. È la Madonna d’America, è la Madonna della speranza. Chiedete a lei la grazia affinché gli anni a venire siano per voi anni di speranza», la grazia «di vivere come preti di speranza» che donano speranza.

L’arche de Noé et l’alliance cosmique, Noah and the ark

 L'arche de Noé et l'alliance cosmique, Noah and the ark dans immagini sacre 13%20NOAH%20AND%20THE%20ARK
http://www.artbible.net/1T/Gen0601_Noah_flood/pages/13%20NOAH%20AND%20THE%20ARK.htm

Publié dans:immagini sacre |on 20 février, 2015 |Pas de commentaires »

BRANO BIBLICO SCELTO: 1 PIETRO 3,18-22

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=1%20Pietro%203,18-22

BRANO BIBLICO SCELTO

1 PIETRO 3,18-22

Carissimi, 18 Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti per ricondurvi a Dio, messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito.
19 E in spirito andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione; 20 essi avevano un tempo rifiutato di credere, quando la magnanimità di Dio pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua.
21 Figura, questa, del battesimo, che ora salva voi; esso non è rimozione di sporcizia del corpo, ma invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo, 22 il quale è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze.

COMMENTO
1 Pietro 3,18-22
Battesimo e salvezza in Cristo
La Prima lettera di Pietro è uno scritto cristiano della fine del I secolo che si presenta come opera del grande apostolo di cui porta il nome, ma che secondo gli studiosi moderni è una raccolta di tradizioni che al massimo potrebbero risalire in qualche modo a Pietro o al suo ambiente. In mancanza di chiari riferimenti epistolari nel corpo dello scritto e a motivo del suo carattere esortativo si ritiene oggi che esso non sia una lettera vera e propria, ma un’omelia inserita in una cornice epistolare. Alcuni studiosi, basandosi sugli accenni al battesimo che vi sono contenuti, affermano che si tratti di una predica battesimale, forse organizzata in modo da riflettere la celebrazione di un battesimo comunitario.
Il brano preso in considerazione fa parte della sezione centrale dello scritto, nella quale si danno direttive per la partecipazione dei cristiani alla vita sociale (2,11-4,11). Questo tema è enunciato in 2,11-12 e poi viene sviluppato in tre momenti: a) Codice di comportamento familiare e sociale (2,13-3,12); b) Vita cristiana e sofferenza (3,13-22); c) Rinunzia alle passioni e servizio dei fratelli (4,1-11). Nel brano intermedio (3,13-22) l’autore esorta anzitutto i credenti, fatti oggetto di vessazioni da parte dei loro connazionali, perché siano sempre pronti a dare ragione della speranza che è in loro (vv. 13-17); nei successivi vv. 18-22, che sono riportati nel testo liturgico, egli accenna prima alla risurrezione di Cristo (v. 18), poi spiega il significato della sua discesa agli inferi (vv. 19-20) e infine affronta il tema del battesimo (vv. 21-22).
La risurrezione di Cristo (v. 18)
Ai cristiani perseguitati (cfr. 3,13-17) l’autore ricorda che essi devono ispirare la loro vita al modello di Cristo e associarsi alle sue sofferenze e alla sua morte dolorosa (cfr. 2,21-24). Pietro non si limita però a richiamare le sofferenze di Cristo, ma ne mette in luce il significato. Anzitutto Cristo è morto «una volta per sempre» (apax), cioè con il suo gesto ha raggiunto pienamente, una volta per tutte, il suo scopo. Inoltre egli è morto «per i peccati» (peri amartiôn) cioè per liberare l’uomo dai peccati che lo tengono schiavo. Proprio lui, che era giusto, ha dato la vita per uomini ingiusti, attuando così il compito di ricondurli a Dio: costoro sono identificati con i destinatari dello scritto, i quali sono stati liberati dai peccati e hanno sperimentato l’amicizia di Dio.
Infine Pietro sottolinea che l’opera di Cristo si è attuata secondo la dialettica carne-Spirito. Cristo è stato messo a morte «nella carne», cioè nella sua realtà umana, povera e limitata, che lo accomuna a tutta l’umanità, ma è stato reso «vivo nello Spirito», cioè in forza della potenza stessa di Dio che egli possiede nella sua pienezza. In altre parole l’autore vuole dire che, dopo e in forza della morte che lo ha colpito come ogni altro essere umano, lo Spirito di Dio ha attuato in lui una vita nuova, che si manifesta mediante la sua resurrezione, e da lui si estende a tutti i credenti (cfr. Rm 1,4).
La discesa di Cristo agli inferi (vv. 19-20)
Pietro prende lo spunto dalla morte di Cristo per parlare della sua discesa agli inferi. Egli collega questa nuova riflessione con la precedente mediante l’espressione «nel quale» (en hôi). Questo pronome relativo può riferirsi in generale agli eventi di cui ha appena parlato, cioè alla sua morte e risurrezione: anche la discesa agli inferi fa parte degli eventi fondamentali con cui Cristo ha concluso la sua vita. Ma il relativo può riferirsi anche allo Spirito, che è stato appena nominato: Cristo sarebbe quindi disceso agli inferi «in forza di esso», cioè con la potenza dello Spirito. Questa interpretazione è più probabile in quanto l’autore dimostra la tendenza a riferirsi, col relativo, a un sostantivo espresso immediatamente prima (cfr. 1,6.8; 2,4, ecc.).
La discesa di Cristo negli inferi è così descritta: «Andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione; essi avevano un tempo rifiutato di credere quando la magnanimità di Dio pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua» (vv. 19-20). L’autore allude qui allo Sheol, che era considerato come il regno dei morti, nel quale vanno a finire le anime dei trapassati, per i sadducei senza alcuna speranza di cambiamento, per i farisei in attesa della risurrezione finale. Secondo la terminologia ebraica “andare agli inferi” era semplicemente una circonlocuzione per indicare la morte. Pietro invece la interpreta come una visita in quella regione tenebrosa, nella quale secondo lui erano tenuti come prigionieri tutti coloro che erano vissuti al tempo del diluvio universale (cfr. Gen 6-9). Costoro, pur vedendo che Noè costruiva l’arca, invece di approfittare dell’ultima possibilità che veniva loro concessa dalla pazienza di Dio, non avevano creduto in modo da essere salvati. In altre parole si tratterebbe dell’umanità che è stata sterminata per la sua malvagità al tempo di Noè. Ma forse l’autore pensa più in generale a tutta l’umanità vissuta prima di Cristo, che egli vede contrassegnata dallo stesso peccato che ha provocato la distruzione del diluvio.
A questi spiriti racchiusi nello Sheol come in una prigione Cristo andò a «predicare» (kêryssô). Come oggetto di questo annunzio le traduzioni mettono la parola «salvezza», ma il testo greco non dice che cosa ha annunziato Gesù. Secondo una interpretazione egli non ha annunziato la salvezza, ma la condanna definitiva. Ma è più probabile che si tratti invece di un’offerta di salvezza, una liberazione vera e propria, riferita ai giusti dell’Antico Testamento. È questa l’opinione di Agostino, seguito dalla maggior parte dei Padri e degli esegeti moderni.
Il battesimo (vv. 21-22)
Nell’ultima parte del brano l’acqua del diluvio è presentata come la «figura» (antitypon) del battesimo: l’autore intravede una qualche analogia tra il diluvio e il battesimo cristiano. È vero che l’acqua del diluvio è stata soprattutto strumento di morte, mentre quella del battesimo porta la salvezza; ma bisogna riconoscere che ambedue hanno in comune l’effetto di purificare dal contagio del peccato. Il battesimo è presentato anzitutto come un mezzo di salvezza che opera «ora»: questo avverbio, più che riferirsi al momento liturgico del battesimo, indica l’attualità presente della salvezza battesimale, contrapposta alla sua figura, l’acqua del diluvio, che ha operato in un remoto passato.
L’autore precisa che il battesimo non è un mezzo per togliere la sporcizia del corpo, ma una «invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza», cioè la richiesta a Dio perché mantenga l’impegno da lui preso in favore di chi lo riceve con retta intenzione. La preghiera che accompagna il rito battesimale, non può non essere esaudita se chi la pronunzia non ha una «coscienza buona», cioè le disposizioni del cuore che sono richieste per ritornare a Dio. Queste disposizioni non vengono dalla buona volontà dell’uomo, ma sono anch’esse un dono di Dio, che le opera «in virtù della risurrezione di Gesù Cristo».
Il brano termina con una professione di fede cristologica: questo Cristo che è risorto «è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze». Questa frase riprende le affermazioni delle lettere deuteropaoline circa l’esaltazione di Cristo (cfr. Ef 1,20-21; Col 2,15), alle quali Luca ha dato forma narrativa nel racconto dell’ascensione (At 1,9), facendole poi enunciare da Pietro nella sua prima predica dopo la Pentecoste. In esse si esprime la sovranità cosmica di Cristo, in forza della quale egli diventa il salvatore universale.

Linee interpretative
La morte di Cristo non è stata dunque un incidente di percorso, ma un evento accettato volontariamente da lui perché era l’unico che gli permetteva di manifestare pienamente la sua fedeltà al Padre e la solidarietà con l’uomo limitato e peccatore. Solo accettando fino in fondo il suo destino Gesù poteva esprimere la radicalità della sua scelta a favore degli uomini, soprattutto gli ultimi, i più poveri e diseredati. Proprio per la sua radicalità questo gesto ha un impatto profondo su coloro che ne vengono a conoscenza e li spinge a sopportare le proprie sofferenze con lo stesso spirito e per lo stesso scopo.
Nel contesto del mistero pasquale, Cristo ha dunque ricevuto la pienezza dello Spirito per proporre la salvezza a tutti gli uomini, anche a quelli che erano vissuti prima di lui, non esclusi i peccatori più pervertiti, come quelli del tempo di Noè. Con questa immagine di tipo mitologico e leggendario, propria delle concezioni cosmologiche di allora, l’autore vuole affermare che la salvezza portata da Cristo opera misteriosamente a favore di tutti gli uomini, anche di coloro che sono vissuti prima di lui. Infatti nella sua esperienza personale si rende visibile, in modo chiaro e urgente, quella spinta che ha portato uomini di ogni razza e religione a dare la vita per i loro fratelli.
Il coinvolgimento nell’esperienza di Cristo ha la sua radice nel rito del battesimo, che produce in chi lo riceve effetti di purificazione dal male e di rinnovamento interiore. Chi lo riceve si impegna a vivere come figlio di Dio, in conformità a Cristo. Ma questa partecipazione non dipende dalla buona volontà del soggetto, bensì da un dono di Dio che viene chiesto nel rito del battesimo e si attua in forza dell’influsso salvifico di Cristo risorto e asceso al cielo. Il battesimo è dunque un rito accompagnato da una preghiera con cui viene portata a termine la salvezza inaugurata da Dio nell’Antico Testamento.

Publié dans:BIBBIA, Bibbia - Nuovo Testamento |on 20 février, 2015 |Pas de commentaires »

OMELIA I DOMENICA DI QUARESIMA B

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22 FEBBRAIO2015 | 1A DOMENICA – T. QUARESIMA B | OMELIA

1A DOMENICA – T. QUARESIMA 2015

Per cominciare
Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel vangelo » è il messaggio di questa prima domenica di quaresima. Un messaggio che ci è stato consegnato già mercoledì scorso, quando il sacerdote ha posto sul nostro capo la cenere della penitenza, come segno visibile della nostra volontà di prendere sul serio questo periodo forte dell’anno liturgico.

La Parola di Dio
Genesi 9,8-15. Ci viene raccontata la fine del diluvio. Iahvè conferma l’alleanza con Noè e con l’umanità. Noè è come un nuovo Adamo: Dio gli promette che non distruggerà più l’umanità e pone nel cielo suggestiva l’ »icona » dell’arcobaleno.
1ª Pietro 3,18-22. Pietro ricorda che il battesimo è come un diluvio di purificazione e ci trasmette la salvezza di Cristo risorto. Come cristiani siamo scampati anche noi al diluvio. Ci presenta poi la glorificazione di Gesù, che ora siede alla destra di Dio, nella pienezza della sua sovranità.
Marco 1,12-15. Il vangelo presenta le tentazioni di Gesù, i quaranta giorni vissuti nella penitenza, prima di iniziare la vita pubblica. È la sua quaresima. Poi rinnovato e deciso inizia la sua predicazione.

Riflettere…
o Gesù si sottopone alla prova del deserto immediatamente dopo il suo battesimo, che lo ha proclamato Figlio di Dio e lo ha « intronizzato » ufficialmente agli occhi dei presenti come messia.
o Gesù è spinto dallo stesso Spirito che si è posato su di lui nel momento del battesimo, e inizia con quaranta giorni di penitenza e di duro deserto la sua vita pubblica. È anche il suo modo di vivere la propria identità messianica, il voler evitare sin dall’inizio ogni trionfalismo.
o Gesù, secondo il racconto di Marco, nel deserto viene tentato da Satana e vive in armonia con gli animali selvatici. È chiara nell’intenzione di chi scrive fare riferimento ad Adamo, il primo uomo uscito dalle mani di Dio. Gesù è l’Adamo definitivo, dopo che Dio ha riproposto inutilmente la sua alleanza con l’umanità attraverso Noè, Abramo e Mosè. Nella prima lettura si ricorda quella di Noè. Gesù riprende il progetto iniziale di Dio e dà alla storia la svolta che si attendeva il Creatore.
o Marco non presenta in dettaglio le tentazioni di Gesù, come fanno Matteo (4,1-11) e Luca (4,1-13). Gesù non viene nemmeno presentato come un « superuomo », ma come qualcuno da imitare nella normalità apparente di chi rifiuta di sottomettersi alle lusinghe del male.
o Il sottoporsi alla tentazione, sottolinea anche l’umanità di Gesù. Come scrive Paolo ai Filippesi: « Pur essendo nella condizione di Dio, Cristo non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini… » (2,6-8).
o Gesù lascia il deserto quando Giovanni Battista viene imprigionato, ma si mette sulla stessa scia, entrando senza paura nella mischia, nonostante i rischi legati alla sua missione, soprattutto da parte dei potenti del tempo.
o Un dottore della legge farà questo elogio di Gesù: « Maestro, sappiamo che tu sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno » (Mt 22,16-17). Questa schiettezza e libertà di parola Gesù la manifesterà anche nei confronti delle autorità e degli avversari, senza alcun complesso. Quando gli dicono che Erode ha intenzione di farlo uccidere, sembra raccogliere la sfida ed esclama: « Andate a dire a quella volpe… » (Lc 13,31). Erode non gli fa paura.
o Gesù evita la grande città e proclama la venuta del regno di Dio nella Galilea. Gesù conosce la sua gente sin da ragazzo. È stato anche lui una volta uno di questi artigiani che si avvicinano per ascoltarlo, e conosce molto bene le condizioni di vita di questa gente. Per questo le sue parole partono dalla vita e giungono al cuore. « Nelle sue parole c’è l’odore del sudore della vita » (Endo Shusaku).
o Gesù predica il regno di Dio. Che è qualcosa da costruire, un tempo di fraternità nuova, una società di pace e di diritti riconosciuti. Qualcosa dunque da annunciare, tenendo presenti i progetti di Dio sull’umanità.
o Gesù dirà del regno di Dio: « A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra » (Mc 4,30-32). Il regno di Dio è come un seme che un uomo getta sul terreno, « che germoglia e cresce, come, egli stesso non lo sa » (Mc 4,26-29).
o Il regno di Dio appartiene a un futuro ancora e sempre da costruire, ma che ci coinvolge nel presente. Infatti dipende dalla nostra volontà di conversione.
o L’impegno di conversione non va visto però soltanto negli aspetti faticosi e pesanti: non così lo presenta Gesù. Il regno di Dio che viene a noi, se è accolto come un dono inaspettato, diventa la « buona notizia » che ti cambia la vita e ti riempie di gioia.
o Gesù non è prima di tutto come lo ha dipinto Giovanni il Battista, un rigido riformatore, un fustigatore dei costumi, ma sin dall’inizio predica progetti pieni di novità, di gioia inattesa e di speranza.

Attualizzare
* Le letture invitano alla conversione, ad approfittare del « tempo compiuto » quaresimale per riscoprire la salvezza giunta a noi attraverso il battesimo e realizzare una vita cristiana più convinta e piena.
aIl diluvio è stato il grande battesimo dell’umanità, un battesimo di purificazione radicale. La conversione è la risposta personale ai doni di Dio, la risposta dell’uomo al desiderio di Dio di entrare in dialogo con l’umanità.
* La quaresima è tempo di deserto, di riflessione su di sé e sulla vita, tempo di silenzio. Un tempo abbastanza lungo per un cammino di conversione personale serio. La prima conversione a cui siamo chiamati è probabilmente quella di prendere sul serio questa quaresima.
* Dalla prova dei quaranta giorni del diluvio nasce con Noè la nuova umanità, un’alleanza nuova con Dio. Anche noi potremo uscire da questa quaresima diversi. Viviamo in tempi messianici, lo sposo è già venuto: è il momento che aspettavamo, è il momento giusto per noi.
* Gesù, prima di farsi travolgere dalla vita pubblica, ha vissuto quaranta giorni di prove e privazioni nel deserto. Quaranta giorni pieni di simboli: da quelli di Noè, ai giorni di Elia verso il monte di Dio, a quelli di Giona (« Quaranta giorni e Ninive sarà distrutta »). Il numero quaranta fa riferimento anche ai quaranta giorni di Mosè sul Tabor per ricevere i dettati della Legge, e anche ai quarant’anni di marcia nel deserto degli ebrei verso la terra promessa.
* Tutti siamo chiamati alla conversione. Probabilmente gli ebrei al tempo di Gesù hanno colto con stupore e sorpresa l’invito di Gesù alla conversione. Secondo le loro convinzioni secolari, erano i pagani che avrebbero dovuto convertirsi, non la stirpe eletta, il popolo dell’alleanza.
* Soprattutto i capi religiosi hanno colto tutta la rottura che veniva a rappresentare l’invito di Gesù. Eppure loro più di altri avevano bisogno di cambiare il cuore. Loro più di altri faranno fatica a farsi piccoli per il regno, a entrare seriamente in un atteggiamento di disponibilità. Gesù stesso ha trovato meno difficoltà a « convertire » i peccatori pubblici e incalliti, che a indirizzare i « giusti » del suo tempo verso una mentalità più evangelica.
* Sarà forse anche il nostro caso, di noi che ci troviamo a messa e ci riteniamo tutto sommato cristiani praticanti e migliori di altri, ma che a volte facciamo perfino fatica a dare a Dio il momento della messa della domenica, giorno della risurrezione del Signore.
* A molti le parola quaresima richiama momenti di penitenza e di riti speciali. In realtà si tratta soprattutto di cambiare l’orientamento di fondo della nostra vita, modificare il nostro modo di riflettere sulle cose. È ciò che esprime la parola metànoia (« conversione »), che in greco significa « cambiare la mente », il proprio punto di vista, cambiare il cuore. Oppure la parola ebraica shûb, un verbo molto usato nella Bibbia, che significa « volgersi, tornare, ritornare », tipico di chi ha sbagliato strada, e deve fare un’inversione a « u » per ritrovare il proprio sentiero.
aCambiare cuore, ritrovare il sentiero, ma come manifestare poi la vita ritrovata? Tradizionalmente tre sono gli orientamenti che i cristiani assumono nel tempo della quaresima per raggiungere e manifestare la propria volontà di conversione: il deserto (penitenza, digiuno, silenzio), la preghiera, la carità.
* Deserto. Papa Luciani (il papa dei 33 giorni) ricordava un facchino di Milano che dormiva tranquillo non distante dai binari, nonostante il gran rumore dei treni, e del via vai continuo di gente. Diceva papa Luciani: « C’è bisogno ogni tanto di riposare, di rifarsi per tornare al proprio lavoro, che è monotono, stressante e faticoso ».
* Quanto al digiuno, non proprio popolare nel nostro tempo, a meno che non si tratti di diete per dimagrire o per salvarsi da una malattia, il documento dei vescovi italiani « Il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza » (1994) afferma che appartengono da sempre alla vita della chiesa, e rispondono al bisogno del cristiano di conversione. Ma rientrano anche in quelle forme di comportamento religioso che sono soggette alla mutazione dei tempi. Le attuali trasformazioni sociali e culturali rendono problematici, se non addirittura anacronistici e superati, usi e abitudini fino a ieri da tutti accettati. Diventa allora necessario ripensarli.
* La proposta tradizionale è di privarsi o di moderarsi non solo del cibo, ma anche di tutto ciò che può essere di qualche ostacolo alla vita spirituale, alla meditazione, alla preghiera e alla disponibilità al servizio del prossimo.
* Il nostro tempo è caratterizzato dallo spreco, da una corsa sfrenata verso spese voluttuarie, e, insieme, da diffuse e gravi forme di povertà, o addirittura di miseria. In questo contesto, ogni persona è sollecitata ad assumere uno stile di vita improntato a una maggiore sobrietà e talvolta anche ad austerità, che inducano a gesti generosi.
* Quanto alla Preghiera, essa funziona e ci cambia il cuore, e arriva lontano, anche dove noi non ci aspetteremmo. André Frossard, autore del libro Dio esiste, io l’ho incontrato, racconta come avvenne la sua conversione. Alle cinque del pomeriggio entra in una chiesa, stanco di aspettare un amico che ritardava. Entra in chiesa, dove c’erano delle suore che pregavano davanti a Gesù eucaristico esposto. « Forse quelle sorelle parlavano di me al Signore, senza conoscermi », scrisse.
* Infine la Carità. Madre Teresa entra in una capanna buia e sporca. Chiede all’ammalato: « Posso pulirla? ». « Io sto bene così », risponde quell’uomo. In un angolo vede una grossa lampada abbandonata, piena di polvere. « Non l’accendete mai questa lampada? ». « E per chi? Sono anni che nessuno viene a trovarmi ». « E se venissimo noi, accendereste la lampada? ». Egli non disse no e le suore andarono. Tre anni dopo le suore dicono a Madre Teresa: « Quell’uomo ci ha detto che da quel giorno la lampada è sempre stata accesa ».

Il senso del digiuno
« Ecco come tu dovrai praticare il digiuno: durante il giorno di digiuno tu mangerai solo pane e acqua; poi calcolerai quanto avresti speso per il tuo cibo durante quel giorno e tu offrirai questo denaro a una vedova, a un orfano o a un povero; così tu ti priverai di qualche cosa affinché il tuo sacrificio serva a qualcuno per saziarsi. Egli pregherà per te il Signore. Se tu digiunerai in questo modo, il tuo sacrificio sarà gradito a Dio » (il Pastore d’Erma).
« Noi vi prescriviamo il digiuno, ricordandovi non solo la necessità dell’astinenza, ma anche le opere di misericordia. In questo modo, ciò che voi avrete risparmiato sulle spese ordinarie si trasforma in alimento per i poveri » (san Leone Magno).

Fonte autorizzata : Umberto DE VANNA: Giorno di Festa, Anno B

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