San Basilio, « pazzo in Cristo »

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PAZZI IN CRISTO
INTRODUZIONE
COSA SONO I PAZZI IN CRISTO
Olivier Clement
(ho messo solo tre « personaggi », ma ce ne sono altri)
La novità del cristianesimo, così fortemente sottolineata da san Paolo quando parla dello scandalo della croce, è la rivelazione della pazzia di Dio. Dio è pazzo, poiché esce dalla sua impassibile trascendenza per mescolarsi alle nostre gioie, alle nostre pene, alla nostra disperazione. Il tema dell’amore ‘folle’ di Dio affiora dovunque nel Nuovo Testamento. Se la creazione rivela la sapienza di Dio, l’incarnazione per la nostra salvezza rivela il suo amore pazzo per noi. Il Crocifisso per amore è il segreto di ogni follia. Il Dio incarnato discende nella morte per prendere tutti gli uomini nella follia del suo amore. Con gli occhi bendati, schiaffeggiato, schernito, coperto di sputi, rivestito di una porpora da beffa, coronato di spine, re per burla, ecce homo, ecce deus: un pazzo in verità!
Il « pazzo in Cristo » è l’uomo che risponde con tutto il suo essere alla follia di Dio, che entra anche lui nella «stoltezza della croce», che diventa pazzo per amore di Cristo. «Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani» (1 Cor 1, 23). «Ciò che nel mondo è stolto, Dio l’ha scelto per confondere i sapienti» (1 Cor 1, 27). «Noi siamo stolti a causa di Cristo» (1 Cor 4, 10). Per questo «insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifIuto di tutti» (1 Cor 4,12-13).
Il pazzo in Cristo s’identifica con Cristo oltraggiato, crocifisso, eppure risorto: egli vive già nel Regno e denuncia l’orgoglio, l’odio e la menzogna di ‘questo mondo’. Prende alla lettera le Beatitudini e il Discorso della montagna, tutta quella insopportabile follia: la terra donata ai miti, la gioia ai perseguitati e I’offrire la guancia sinistra quando siamo colpiti sulla destra, in tre parole: amare i nemici. Il pazzo in Cristo rivela possibile l’impossibilità del cristianesimo. E’ un massimalista cristiano, è uno che sotto l’apparenza di una finta pazzia vive il Vangelo alla lettera, povero e senza un rifugio. Non entra nelle le chiese se non per farvi scandalo, vive nei rifiuti della città, nella sua più compromettente o più pericolosa marginalità, con i cattivi e le donne di cattiva condotta…il pazzo è il Cristo oltraggiato e, simultaneamente, il Risorto, libero da ogni compromesso col mondo, e «completa nella (sua) carne quello che manca ai patimenti di Cristo» (Col 1,24).
Gli antenati dei « pazzi in Cristo » sono i profeti dell’Antico Testamento, inviati da Dio per riportare sulla retta via il popolo ebreo « dalla dura cervice ». A questo scopo il profeta è spesso obbligato ad adottare un comportamento eccentrico, strano, che gli reca più noie che gloria.
Il Profeta Isaia fu costretto a passeggiare per tre anni nudo e scalzo per servire da segno e presagio ai prigionieri in Egitto e in Assiria (Is 20, 2-4); Geremia portò un giogo sul collo come una bestia da soma (Ger 28, 10…); Ezechiele, steso davanti a una tavoletta d’argilla rappresentante Gerusalemme assediata, doveva mangiare pane cotto su degli escrementi umani (Ez 4); Osea fu costretto ad unirsi ripetutamente ad una prostituta e sposarla dandole dei figli per simboleggiare l’infedeltà d’Israele verso Jahvè (Os 3).
E’ in questa scia che vanno collocate tutte quelle azioni compiute dai Santi, anche nostrani, e che agli occhi del mondo sembrano strane, ridicole, insensate. E’ la pazzia della croce che si oppone alla sapienza del mondo.
(Olivier Clement nell’introduzione a: Irina Gorainoff, I Pazzi in Cristo nella tradizione Ortodossa, ed. Àncora-Milano)
ISAAC
Il primo pazzo in Cristo russo si chiamava Isaac. La sua storia ci è narrata dal celebre scrittore di cronache, Nestore, monaco come lui alla fine del secolo XI nel Monastero delle Grotte, a Kiev.
Ricco mercante, Isaac si era liberato dei suoi beni terreni e si era messo alla rude scuola dell’eremita Antonio, che aveva preso lezioni d’ascetismo al Monte Athos e viveva in una caverna vicino a Kiev. Come residenza Antonio assegnò al suo discepolo una grotta larga quattro cubiti e come cibo gli passava ogni due giorni, attraverso una stretta apertura, una pagnotta e un po’ d’acqua.
Isaac era vestito di una pelle di capro, da poco scuoiato, che aveva incollato al suo cilicio e lasciato seccare sulla nuda pelle. Tutte le sere e a notte tarda cantava dei salmi e faceva prostrazioni finché, vinto dalla fatica, si permetteva di sedersi per dormire, poiché non si coricava mai. Questo genere di vita durò sette anni.
Una notte, mentre si riposava in questo modo e spentasi ormai la candela, una luce brillante illuminò la grotta e due giovani entrarono, con volti risplendenti come soli. «Isaac» dissero «noi siamo angeli e veniamo ad annunciarti la visita di Cristo. Eccolo che viene».
Senza riflettere un secondo, senza neppure fare il segno della croce, il disgraziato si prosternò davanti all’apparizione. Un clamore infernale salutò il suo gesto. Isaac si vide circondato da una sarabanda di diavoli. «Tu sei nostro!» urlavano. «Tu hai salutato il nostro capo». E per tutta la notte lo fecero danzare con loro.
Quando, all’alba, dopo aver pronunziato la preghiera d’uso, Antonio batté alla porta non ebbe nessuna risposta. Isaac era morto? Mandò ad avvertire il superiore che era allora il grande Teodosio. La porta fu forzata e si trovò Isaac steso per terra, inanimato. «E’ opera del demonio», disse Teodosio. Isaac non era morto, ma era divenuto sordo e muto, incapace, come un piccolo bambino, di provvedere ai suoi più elementari bisogni.
Teodosio lo fece trasportare nella propria cella, lo curò e per due anni lo lavò, lo nutrì, gli insegnò a parlare e a camminare. Poi lo condusse, sebbene recalcitrante, in chiesa, di cui esitava a varcare la soglia. Il terzo anno lo condusse in refettorio, ma Isaac rifiutava di mangiare se prima un monaco non gli metteva un pezzo di pane in mano. Teodosio disse: «Bisogna che impari a mangiare da solo». Smisero di nutrirlo e, a poco a poco, «guardando gli altri», imparò.
Guarito, Isaac non volle più vivere sotto terra e scelse di lavorare nella cucina. Veniva considerato un debole di spirito. Imbacuccato in una pelle di capro ricoperta di stracci, le gambe infilate nei cenci, arrivava sempre primo al mattutino e restava immobile, anche se d’inverno i suoi piedi nudi gelavano sul pavimento. Terminata la salmodia, correva in cucina ad accendere il fuoco e a portare l’acqua. I monaci lo prendevano in giro. «Guarda, Isaac» gli disse un giorno il cuciniere «un corvo passeggia nel cortile: prendilo». In segno d’obbedienza, Isaac salutò il cuciniere prostrandosi fino a terra, uscì e portò il corvo. I monaci si guardarono stupiti e il disprezzo verso Isaac si tramutò in rispetto.
Allora, per non esser preso per santo, cominciò a fare l’idiota. Talvolta stuzzicava lo stesso superiore, talvolta, con una buona dose d’umorismo, andava in città a cercare fanciulli e con loro grande gioia li faceva recitare in piccole commedie in cui si parodiavano i difetti dei religiosi, i quali apprezzavano ben poco tale genere di spettacolo: Isaac si faceva bastonare sia dal superiore, sia dai monaci, sia dai suoi parenti.
Dopo la morte di Antonio, Isaac ridiscese sotto terra, installandosi nella grotta, divenuta libera, del grande asceta. I demoni si precipitarono a tormentarlo. Ma questa volta «non li temeva più delle mosche». Verso la fine della vita il suo dominio su di loro era completo. «Mi avete ingannato una volta», diceva loro, «perché non conoscevo ancora le vostre malizie; ma adesso ho con me nostro Signore Gesù Cristo e la preghiera del mio padre Teodosio». I demoni potevano bene invadere la grotta sotto forma di animali selvaggi e di rettili ripugnanti, armarsi di badili e zappe, minacciando di seppellire vivo il recluso, ma questo non serviva a niente. «Tu ci hai vinto, Isaac» dissero prima di scomparire definitivamente dopo tre anni di lotta.
SERAPIONE
Serapione, chiamato il ‘Sindonita’ perché il suo unico indumento era una ‘sindone’, cioè una camicia di lino, è il primo a indossare la livrea della pazzia in Cristo: la nudità.
Monaco, nella sua gioventù imparò a memoria le Sacre Scritture. Ma preferendo alla sicurezza di una cella monastica la fame, la sete, I’insicurezza delle grandi strade, scelse la vita errante e vagabonda.
Seduto un giorno sul bordo della strada, vide un mendicante che tremava dal freddo e gli diede la sua ‘sindone’. «Chi ti ha svestito così?» chiese un passante. «E’ lui» rispose Serapione, indicando il Vangelo che aveva tra le mani.
A Roma intese parlare di una vergine che da vent’anni viveva da reclusa senza ricevere né parlare a nessuno. Riuscì a vederla. «Cosa fai» – chiese «seduta lì tutta sola?». «Io non sono seduta» – rispose «io sono in cammino». «In cammino verso chi?». «In cammino verso Dio». «Sei morta o viva?». «Spero di essere morta al mondo e viva in Dio». «In questo caso» disse Serapione «scendi in strada e vieni a passeggio». Ella protestò. Ma il ‘pazzo’ le fece capire che dicendosi morta al mondo doveva dimostrarlo. Ella si arrese ai suoi argomenti. Arrivati accanto a una chiesa, Serapione disse: «E ora, se vuoi convincermi che sei morta al mondo, spogliati nuda come faccio io e seguimi». Scandalizzata, la vergine rifiutò. «La gente penserà che io sono pazza». «E allora? Se sei morta al mondo, ti riguarda quel che gli altri pensano?». Ella rifiutò. «Vedi, sorella – disse Serapione, – fa’ attenzione a non gloriarti della tua santità e di proclamare che tu sei morta al mondo. Io sono forse più morto di te e lo provo passeggiando nudo senza vergogna».
Di tutti i pazzi in Cristo si dice che sono nudi, senza rifugio, sofferenti per il caldo e il freddo, la sete e la fame. Nudo, il pazzo in Cristo non risveglia la concupiscenza: è l’uomo come Dio l’ha fatto.
Tutta la vita di Serapione trascorse nel soccorrere il prossimo. Si vendette come schiavo a degli attori ambulanti che convertì e a un manicheo che ricondusse alla fede cattolica. Per impedire loro di vendere il corpo, dava denaro alle prostitute.
SIMEONE
Simeone aveva circa sessant’anni quando si fece buffone e pagliaccio per amor di Dio. I primi trent’anni della sua vita li aveva passati presso i suoi genitori «nobili e ricchi». Si era ritirato poi nel deserto, dove, presso il mar Morto, durante un’altra trentina d’anni, si era dedicato, in compagnia del suo amico diacono Giovanni, ai rigori di una esistenza severamente ascetica. Ma, per Simeone, il soggiorno nel deserto era stato soltanto una preparazione a un ministero di carità. «Non ci è utile, fratello, restare qui» e si volge verso il mondo.
Simeone comincia a giocare la commedia, fare delle farse, essere strano fino a diventare colui che, come il clown nel circo, «riceve gli schiaffi».
Il suo ingresso a Emesa, oggi Homs in Siria, vicino ad Antiochia, fu trionfale. Il beato trovò su un letamio fuori città un cane morto. Si tolse la cintura, attaccò il cane per le zampe e lo trascinò così all’interno della città. Dei ragazzacci lo videro e si misero a gridare: «Un monaco pazzo! Un monaco pazzo!». E cominciarono a gettargli pietre e a colpirlo coi bastoni. L’incidente ricorda quello del profeta Eliseo che, andando a Bethel, incontrò una banda di ragazzi che lo seguirono gridando: «Vieni su, pelato!». Si voltò indietro e li maledisse. Due orsi uscirono dal bosco e ne uccisero una quarantina. Simeone non maledice nessuno. Al contrario. Con la sua condotta sembra incoraggiare quelli che lo colpiscono e lo urtano. Talvolta zoppicava, strisciava per terra e prendeva per i piedi i passanti, o battendo per terra coi piedi affermarva di essere posseduto dal demonio, facendo molte cose spiacevoli e comportandosi come un alienato, affinché nessuno potesse crederlo santo».
Frequentava le taverne, passeggiava nudo, senza vergogna, al mercato, mangiando salame il Venerdì Santo.
Durante la liturgia eucaristica, in chiesa, bombardava le donne con nocciole ed entrava nei bagni loro riservati, come per inavvertenza. «Come ti sei sentito là dentro?» chiedeva il diacono Giovanni. «Come un albero tra gli alberi. Non avvertivo il mio corpo. Il mio spirito era occupato da Dio».
Una visita misteriosa che fece a una prostituta diede luogo ai peggiori sospetti prima che si sapesse, dalla bocca della stessa interessata, che il santo vecchio, scoprendo che era rimasta tre giorni senza cibo, le aveva portato di nascosto, pane, vino e carne.
Quanti uomini, con la sua finta pazzia, ha convinto dei loro peccati non confessati: alcuni di impurità, altri di furto, altri ancora di falsa testimonianza. Alcuni li prendeva in disparte, altri pubblicamente, rivolgendosi a loro in parabole, per svegliare la loro coscienza.
Simeone era un pazzo in Cristo completo. Ora attore stuzzicante che adescava il suo pubblico, ora veggente, ora profeta. Nel 588 Simeone predisse il terribile sisma che scosse le città di Beyrut, Biblos e Tripoli. Munito di una frusta, passeggiava tra le colonne degli edifici dicendo ad alcune: «Resistete. Dio ve l’ordina», ad altre invece: «Non cadete, pur senza restare dritte». Le prime resistettero al terremoto, le altre, sebbene lese, non crollarono, mentre il resto sprofondò.
Il pazzo aveva a Emesa una bicocca ricoperta di giunchi nella quale passava le sue notti in preghiera. Solo davanti a Dio, Simeone non era più un vecchio clown ridicolo, ma un bambino che sulla terra aveva soltanto il diacono Giovanni per confidente.
Alcuni giorni prima della sua morte, gli confidò: «Ho visto qualcuno di glorioso che mi diceva: ‘Vieni, pazzo, vieni a ricevere non una sola corona, ma parecchie, per aver salvato molte anime umane’». Dopo di che non lasciò più la sua capanna. Inquieti, i suoi amici mendicanti andarono a vedere se non fosse malato. Lo trovarono morto, steso sotto un tetto di giunchi. Due di loro presero il suo corpo per portarlo «senza canti, né ceri, né incenso» nel luogo dove si seppelliscono i vagabondi. Due giorni dopo, il diacono Giovanni arrivò e pianse amaramente. Andò al cimitero per seppellire il suo amico «in un luogo conveniente», ma aprendo il sarcofago lo trovò vuoto. Gli angeli, pensò, avevano preso i resti di Simeone. Quanto agli abitanti di Emesa, compresero che il « pazzo » non era stato un pazzo, ma un grande santo.
Simeone morì il 21 luglio del 590. Aveva circa settant’anni.
http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/b_maggioni_la_passione1.htm
I RACCONTI DELLA PASSIONE DI GESÙ CRISTO
Bruno Maggioni
Prefazione di p. Massimo Casaro, 1996
Prefazione
La fede cristiana è un passaggio, simile al concentrarsi progressivo e sempre più intenso della luce in un raggio. Fino a raggiungere un punto, un solo punto luminosissimo. Il punto luminosissimo è Cristo e la sua luce filtra attraverso lo spessore della croce. Non è luce pervasiva, totale. E’ luce che geme « per le doglie del parto ».
Luce che non può illuminare, che non sa promettere se non filtrando attraverso quello spessore, quell’ombra. Infatti c’è sempre, e sempre ci sarà, la tentazione di: scegliere la gloria senza la carne, la risurrezione senza la croce, la libertà senza i costi della liberazione, i frutti senza la fatica del lavoro… di negare, ignorare o sottovalutare la Sua carne. Ma è il limite dell’uomo, che Dio si è preso per manifestarsi a lui.
Cardo salutis caro! La concretezza della persona di Gesù – la debolezza della sua carne – è lo scandalo ineliminabile della fede in un Dio che è amore, simpatia e solidarietà totale con noi. Ma insieme è anche l’unica salvezza possibile della nostra storia concreta (SILVANO FAUSTI, « LETTERA A SILA »).
La proposta che, in questo libro, il biblista don Bruno Maggioni rivolge al lettore, con l’immediatezza e la concretezza che gli sono abituali è, allora, un fissare lo sguardo su Gesù, un guardare, un ascoltare, per vivere e attendere. Inoltre, per ogni « stazione », abbiamo cercato qualcosa che ampliasse l’eco suscitata dalla passione di Gesù Cristo nel cuore del credente, che rendesse ogni sosta ancora più vera, intensa e fruttuosa.
Una serie di testimonianze letterarie di grandi credenti, dunque, fanno da contrappunto ai passi di Gesù perché diventino il più possibile i passi di ogni discepolo.
p. Massimo Casaro
I testi proposti e commentati in quest’opera sono affrontati, in modo più ampio e approfondito, nel libro di don Bruno Maggioni « I racconti evangelici della passione », ed. Cittadella, Assisi, 1995.
LO SCANDALO DELLA CROCE
La croce: compimento della rivelazione
Prima di entrare nel vivo dell’analisi dei racconti della passione, occorre fare alcune premesse, necessarie non solo per definire il metodo con cui affrontare i testi, ma anche per anticipare alcune convinzioni che sono alla base di tutto il discorso.
Il primo quesito che sorge spontaneo è perché i racconti della passione sono così ampi e simili tra loro. La risposta è significativa: la croce è l’evento più alto e anche più imprevedibile, luogo denso di contraddizioni. E’ qui che i cristiani possono comprendere fino in fondo chi è il loro Dio e che senso ha il compimento messianico.
Nel Nuovo Testamento troviamo diversi modi di parlare della croce, che si possono raggruppare in tre diverse accentuazioni.
Il primo è lo « schema del contrasto ». Si trova, per esempio, negli Atti degli Apostoli, in particolare nei discorsi missionari: gli ebrei hanno appeso il Cristo al legno, ma Dio lo ha fatto risorgere. Con questo schema non solo si cercava di risolvere lo scandalo della croce, ma, soprattutto, si sottolineava la grande importanza della risurrezione, riducendo la passione a un momento di passaggio, non particolarmente carico di significato.
Emerge, dunque, il contrasto tra il modo di pensare degli uomini e il modo di pensare di Dio. Sono due modi opposti di « immaginare » Dio.
Alcuni, guardando Gesù, hanno dichiarato che lì non poteva esserci Dio; altri lo riconoscono proprio per quel tipo di morte e risurrezione. La conversione cristiana, dunque, è prima di tutto una conversione « teologica » che, cioè, riguarda l’idea di Dio, l’immagine di Dio.
Il secondo schema è quello contenuto nell’inno cristo logico della lettera ai Filippesi (2,5 ss.). Paolo, raccontando in questo inno l’intera storia di Gesù, vuole mostrare l’identità del Cristo – vero uomo e vero Dio, due nature in una persona – la cui originalità consiste nel modo in cui si è rivelato. Ecco, allora, che mette in luce soprattutto la logica che ha guidato le varie tappe della vita di Gesù. E la croce rientra in questa logica: ne è il punto culminante. A Paolo interessa dimostrare che la croce di Gesù non è altro che la realizzazione piena, l’andare fino in fondo di un ragionamento partito in Dio. Volendo Dio diventare uomo, ha condiviso la condizione dell’uomo, non un’umanità all’altezza della sua divinità, ma simile a quella di un uomo qualunque. La croce è il punto culminante sia dell’ obbedienza di Gesù, sia della sua condivisione con l’umanità che ha assunto.
Il terzo schema è quello dei testi eucaristici, in cui emerge la dimensione salvifica della croce. La costante di tutti i racconti eucaristici è il « per »: per le moltitudini, per voi, a favore di…
C’è un’altra premessa che fa da pilastro all’ analisi che stiamo per intraprendere. Paolo sia al primo capitolo (dove parla delle due sapienze), sia all’undicesimo (dove è riportato il più antico testo eucaristico) della prima lettera ai Corinti, parla della croce.
Nel primo brano (1 Cor 1,17 ss) Paolo se la prende con i predicatori missionari che non hanno il coraggio di esporre la passione e la croce nella loro chiarezza e cercano di sorvolare questo punto nevralgico con delle attenuanti.
L’apostolo ha davanti agli occhi due tipologie di missionari: quella dei giudei e quella dei pagani. I primi vogliono scolorire lo scandalo della croce, per conciliare insieme la gratuità della salvezza con la necessità delle opere. I secondi valorizzano maggiormente la risurrezione per salvaguardare la potenza di un Dio che è già scandaloso per il semplice fatto di essersi fatto uomo, rinunciando alla sua immagine di essere infinito, assoluto, immobile, immateriale. Il tentativo, dunque, è quello di far apparire la croce un incidente felicemente superato.
Ma c’è anche un’astuzia ancora più sottile che consiste nel voler sostituire la croce con lo slogan « Dio è amore », che si può conciliare con il credo di qualunque altra religione: parliamo di Dio amore e… l’ecumenismo è fatto! Solo che, così, l’evento di Gesù passa in secondo piano. Paolo vuole restituire il primato al crocifisso (scandalo e stoltezza), senza neppure citare la risurrezione, se non implicitamente.
Nel secondo brano (1 Cor 11,23 ss) Paolo, che pure è ben convinto della risurrezione di Gesù, mette bene in risalto la sua morte, e la morte di croce, per invitare i cristiani a fermarsi e a riflettere. Questo perché è fondamentale non vedere la passione e la croce solo come salvezza, ma anche e soprattutto come rivelazione.
Se si sottolinea solo la salvezza è come dire che Gesù è morto esclusivamente per riparare un peccato. Ma la croce è di più, ha un’altra funzione: rivelare fino a che punto Dio si è inserito nella storia dell’uomo, fino a che punto Dio ama l’uomo, condividendone la sua esperienza. Dunque il luogo più rivelatore è la croce, e la risurrezione serve a confermare che il crocifisso è proprio Dio.
Quando un giusto viene condannato, siamo portati a pensare che si ripete la solita storia: i furbi trionfano e gli onesti sono uccisi. L’attenzione si concentra sullo scandalo della giustizia sconfitta. E Gesù è stato condannato. Se dopo tre giorni si sa che quel giusto è risorto, la reazione è immediata: «Meno male che lui ce l’ha fatta». L’attenzione va sulla risurrezione.
Ma se, dopo qualche giorno ancora, si viene a sapere che quello è il Figlio di Dio, questa volta il fatto che stupisce è che un Dio abbia deciso di morire come un uomo qualunque. La meraviglia, dunque, non è tanto che un Dio sia risorto (ci mancherebbe altro che Dio non risorgesse), quanto che un Dio abbia deciso di morire come me.
Questa è la verità della croce, la novità del Figlio di Dio crocifisso. Crocifisso con due ladroni, poi! A dimostrazione del fatto che non solo è morto per i peccatori, ma insieme ai peccatori, confuso con loro, come un ladrone. E’ una novità sconcertante.
Allo stesso modo vanno interpretati la passione e i miracoli. Avendo Gesù fatto i miracoli, la gente era portata a chiedersi: Ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo (Mc 15,31-32). Allora, se Gesù non scende dalla croce, pur potendo farlo, significa che ci sarà un motivo, che non è quello della debolezza.
A questo punto, vorrei introdurre una riflessione: questo Dio crocifisso che sconcerta, in realtà è il Dio dell’ amore di cui parlano tutti. Infatti sulla croce è vissuta fino in fondo, nella sua verità, la logica dell’amore. E l’amore, per sua natura, è debole, perché non vuole sopraffare l’altro. Se Dio fosse sceso dalla croce, non avrebbe compiuto fino in fondo il suo gesto d’amore. Ecco come questo Dio, che sembrava così diverso, lo ritrovo familiare, amico. Immaginate che disastro sarebbe stato se Gesù fosse sceso dalla croce! Si sarebbe dimostrato un dio pagano, il dio della potenza, del terremoto, il dio che vuole convincere a ogni costo.
Quando parliamo della futura venuta di Gesù, preannunciamo che sarà « in potenza e gloria ». Ma bisogna intendere bene questa frase, altrimenti si potrebbe pensare che Gesù, visti i risultati deludenti ottenuti con la sua prima venuta nell’amore, abbia deciso di tornare con potenza. Ma così si stravolge la logica del Signore. A questo proposito Luca ci racconta una parabola escatologica: quella del padrone e dei servi. Quando il padrone tornerà, se troverà i servi al lavoro, li farà sedere a tavola e si metterà a servirli. Questa è la natura di Dio: servizio e amore che si dona.
L’attesa del Messia coincide con l’attesa del compimento della storia e noi crediamo che Gesù abbia compiuto questa attesa. Ma quando ci guardiamo intorno e vediamo che le cose continuano come prima, come sempre, ci chiediamo come si deve intendere questo compimento.
Forse si potrebbe dire che il compimento è tutto nell’altra vita. Ma adesso?
Forse si potrebbe dire che il compimento, così come lo ha realizzato Gesù, è il compimento della rivelazione: Gesù ha rivelato fino a che punto Dio ama l’uomo. E più di così, più che rivelarlo dentro la nostra storia, non poteva fare.
Se Dio condivide la storia dell’uomo, vuol dire che la storia ha un valore, benché siano molti i segni che dicono il contrario, e che la storia può essere migliorata attraverso la trasformazione dell’ uomo e delle sue azioni.
Ma il compimento di Gesù parla anche del lato nascosto di Dio. E’ abbastanza naturale che un uomo muoia per Dio, come per la patria, la bandiera, un’idea; è del tutto impensabile invece, anche se noi ce ne siamo un po’ abituati, che Dio muoia per l’uomo. Questa è la novità radicale: il Figlio di Dio è venuto nel mondo per rivelarmi questo aspetto impensabile di Dio, il lato in ombra della luna, quello che gli uomini, con tutta la loro buona volontà, il loro acume, non possono scoprire. Il vangelo, infatti, racconta di più quello che Dio ha fatto e fa per noi, piuttosto che quello che noi dobbiamo fare per lui. Allora il cristiano, il testimone, non deve mostrare al mondo come amare Dio, quanto è disposto a fare per Dio, ma deve mostrare al mondo come Dio lo ama e come Egli ama il mondo, ogni uomo, tutti gli uomini. Solo così morire per i fratelli sarà un vero martirio, una testimonianza.
Crudeltà senza limiti
Ho visto altre impiccagioni, ma non ho mai visto un condannato piangere, perché già da molto tempo questi corpi inariditi avevano dimenticato il sapore amaro delle lacrime.
Tranne che una volta. L’Oberkapo del 52° commando dei cavi era un olandese: un gigante di più di due metri… Aveva al suo servizio un ragazzino, un pipe/, come li chiamavamo noi. Un bambino dal volto fine e bello, incredibile in quel campo. Questo piccolo servitore dell’olandese era adorato da tutti. Aveva il volto di un angelo infelice.
Un giorno la centrale elettrica di Buna saltò. Chiamata sul posto la Gestapo concluse trattarsi di sabotaggio. Si scoprì una traccia: portava al blocco dell’Oberkapo olandese. E lì, dopo una persecuzione, fu trovata una notevole quantità di armi! L’Oberkapo fu arrestato subito. Fu torturato per settimane, ma inutilmente: non fece alcun nome. Venne trasferito ad Auschwitz e di lui non si sentì più parlare. Ma il suo piccolo pipe/ era rimasto nel campo, in prigione. Messo alla tortura restò anche lui muto. Allora le S.S. lo condannarono a morte, insieme a due detenuti presso i quali erano state scoperte altre armi.
Un giorno che tornavamo dal lavoro, vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell’appello: tre corvi neri. Appello. Le S.S. intorno a noi con le mitragliatrici puntate: la tradizionale cerimonia. Tre condannati incatenati, e fra loro il piccolo pipe/, l’angelo dagli occhi tristi.
Le S.S. sembravano più preoccupate, più inquiete del solito. Impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco. » capo del campo lesse il verdetto. Tutti gli occhi erano fissati sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si mordeva le labbra. L’ombra della forca lo copriva. Il Lagerkapo si rifiutò questa volta di servire da boia. Tre S.S. lo sostituirono. I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi.
«Viva la libertà!» gridarono i due adulti. Il piccolo, lui, taceva.
«Dov’è il Buon Dio? Ma dov’è?», domandò qualcuno dietro di me. Ad un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte. Silenzio assoluto. All’orizzonte il sole tramontava.
«Scopritevi!» urlò il capo del campo. La sua voce sembrava rauca. Quanto a noi, noi piangevamo. «Copritevi!».
Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente, il bambino viveva ancora… Per più di mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare: «Dov’è dunque Dio?».
E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: «Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…».
E. Wiesel, «La notte», Giuntina, Firenze, 1993
L’ebreo Elie Wi esel (1928, vivente), premio Nobel per la pace nel 1986, giornalista e docente all’Università di Boston, non potrà mai dimenticare la sua fanciullezza. Nato nel 1928 in Transilvania, durante la Seconda guerra mondiale viene deportato ad Auschwitz. E’ solo un adolescente, ma non gli viene risparmiato nulla, neppure di assistere all’impiccagione di un coetaneo. Nel suo librodiario « La notte » rievoca l’agghiacciante episodio riportato.