Archive pour le 13 février, 2015

Gesù guarisce il lebbroso

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Publié dans:immagini sacre |on 13 février, 2015 |Pas de commentaires »

MESSAGGIO…PER LA 60a GIORNATA MONDIALE DEI MALATI DI LEBBRA (2013)

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/hlthwork/documents/rc_pc_hlthwork_doc_20130125_lebbra_it.html

MESSAGGIO DEL PRESIDENTE DEL PONTIFICIO CONSIGLIO PER GLI OPERATORI SANITARI

PER LA 60a GIORNATA MONDIALE DEI MALATI DI LEBBRA

(Domenica, 27 gennaio 2013)

Una « occasione propizia per intensificare la diaconia della carità » [1]

Domenica 27 gennaio 2013 si celebra la 60a edizione della Giornata Mondiale di lotta alla Lebbra, male tanto antico quanto grave per le sofferenze, l’esclusione sociale e la povertà che il morbo di Hansen comporta. Questa ricorrenza costituisce, per tutti i cristiani, gli enti benefici e le persone di buona volontà, una preziosa occasione per rilanciare l’impegno in favore di quanti sono colpiti direttamente dal Mycobacterium Leprae o ne sono indirettamente interessati, come i familiari, promuovendo un rinnovato slancio per il reinserimento sociale delle persone che ne portano i segni. Secondo i dati più recenti dell’OMS, circa duecentoventimila fra uomini, donne e bambini hanno contratto la lebbra nel 2011 e molti dei nuovi casi sono stati diagnosticati quando la malattia era in uno stato avanzato. Questi dati mostrano il permanere, nonostante la meritoria azione di realtà internazionali e nazionali, governative e non – come l’OMS e le Fondazioni Raoul Follereau e Sasakawa – di un’ancora insufficiente possibilità di accesso alle strutture diagnostiche e della carenza nella formazione alla prevenzione delle comunità a rischio di contagio, come pure il bisogno di azioni igienicosanitarie mirate. Tutto ciò è fondamentale per la lebbra, ormai senza esito mortale se adeguatamente curata, così come lo è in larga misura per le altre « malattie neglette », che, nella loro totalità, continuano a provocare annualmente centinaia di migliaia fra decessi, gravi invalidità, o comunque compromissioni permanenti dello stato di salute, di adulti, adolescenti e bambini nei Paesi economicamente svantaggiati. Si tratta di patologie che costituiscono degli autentici flagelli in alcune parti del mondo, ma che non riscuotono la sufficiente attenzione da parte della comunità internazionale; tra di esse ritroviamo la dengue, la malattia del sonno, la bilarziosi, l’oncocercosi, la leishmaniosi e il tracoma.
Di fronte ad una tale emergenza sanitaria, anche alla luce dell’Anno della fede, e nel desiderio di impegnarci, sempre più intensamente, come cattolici, nell’adempiere quanto richiesto da Gesù col comandamento « Euntes docete et curate infirmos » (Mt 10, 6-8) e dal nostro Battesimo, desidero rinnovare l’invito ad adoperarsi perché questa 60a Giornata Mondiale di lotta alla lebbra costituisca una nuova « occasione propizia per intensificare la diaconia della carità nelle nostre comunità ecclesiali, per essere ciascuno buon samaritano verso l’altro, verso chi ci sta accanto » [2]. Lasciamo che l’esempio di Santi, Beati, e persone di buona volontà, come san Damiano di Molokai, SS.CC., e santa Marianna Cope, O.S.F., il beato Jan Beyzym, S.I., e la beata Madre Teresa di Calcutta, fondatrice delle Missionarie della Carità, il Servo di Dio Marcello Candia e Raoul Follereau, di cui ricorre quest’anno anche il 110o anniversario della nascita, ci ispirino e ci sostengano nel portare aiuto e conforto a questi nostri fratelli e sorelle malati, ai più piccoli e ai più emarginati.
Ringrazio la Provvidenza divina di aver potuto visitare personalmente, lo scorso anno, sia l’isola di Molokai, dove hanno lavorato san Damiano e santa Marianna, sia il Madagascar, dove ha operato il beato Jan Beyzym. Sono luoghi ricchi di umanità e di fede nei quali ho potuto incontrare persone colpite dalla lebbra e ho avuto modo di pregare per tutti voi malati e per le persone che vi sono accanto.
Un ruolo altrettanto importante spetta anche a tutte le persone vittime della lebbra, che sono chiamate a cooperare per l’affermazione di una società più inclusiva e giusta che permetta il reinserimento di chi è stato guarito, per divulgare e promuovere le possibilità di diagnosi e di cura, per ribadire la necessità di sottoporsi a terapie per esserne curati contribuendo a debellare l’infezione, per diffondere, nelle realtà d’appartenenza, i criteri igienicosanitari indispensabili ad impedirne l’ulteriore propagazione. Come cristiano, chi è stato colpito dalla lebbra ha inoltre la possibilità di vivere la propria condizione in una prospettiva di fede « trovandone il senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore » [3], pregando e offrendo la propria tribolazione per il bene della Chiesa e dell’umanità. Nella consapevolezza che quanto evidenziato è certamente non facile e richiede carità verso se stessi e verso il prossimo, speranza, coraggio, pazienza e determinazione, desidero ricordare – con le parole di san Paolo – che nessuno di noi ha « ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma » che abbiamo « ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: ‘Abbà, Padre!’ ». E, « se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria » (Rm 8,15-17); anche nelle situazioni più avverse, il cristiano ha la certezza che « né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore » (v. 39).
Nel ringraziare infine tutti coloro che si sono adoperati e si adoperano nella lotta alla lebbra, rivolgo la mia più fervida preghiera alla Vergine Maria Salus Infirmorum perché tutti i sofferenti possano trovare sollievo e sostegno nel rapporto con Dio e nell’azione di tante persone che a loro dedicano la vita.

Con la mia vicinanza, preghiera e benedizione.

+ Zygmunt Zimowski

[1] Benedetto XVI, Messaggio per la XXI Giornata Mondiale del Malato 2013, 4.
[2] Ibid.
[3] Benedetto XVI, Lett. enc. Spe salvi, 37.

OMELIA – 15 FEBBRAIO 2015 | 6A DOMENICA T.O.

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/02-annoB/14-15/Omelie/8-Ordinario/6a-Domenica-B/03-06a-Domenica-B-2015-JB.htm

15 FEBBRAIO 2015 | 6A DOMENICA – T. ORDINARIO B | LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA: MT 1,29-39

Continuando la narrazione della prima tappa dell’attività pubblica di Gesù, il vangelo ci presenta il suo incontro con un lebbroso, un malato senza nome del quale conosciamo solo la sua terribile malattia. Non sono frequenti nei vangeli i casi di cura della lebbra; oltre ai racconti paralleli di Mt 8,1-4 e Lc 5,12-16, solo Luca ci offre un altro esempio (Lc 17,11-18). Tipico di Marco è la proibizione finale di Gesù: il miracolo non deve essere divulgato. Non è da rimpiangere che il beneficiato non rispettasse l’ordine ricevuto. La lebbra, quantunque grave indisposizione della pelle, era considerata allora come la malattia più vicina alla morte, per la disintegrazione fisica che la caratterizzava, per il contagio che si temeva e per l’aspetto repulsivo di chi la soffriva. Curare dalla lebbra era considerato un portento simile alla rianimazione di un morto (Nm 12,10-12). Nei giorni di Gesù, il lebbroso, oltre ad essere quasi sempre malato incurabile, era soprattutto per tutta la vita un emarginato sociale: gli era proibita la convivenza coi sani, compresa la sua propria famiglia; viveva trasandato, in posti solitari e, dato che era considerato impuro, non poteva andare nemmeno a pregare al tempio. Il lebbroso non perdeva solo a poco a poco le sue membra a causa della malattia, ma perdeva i suoi esseri cari e la consolazione di visitare il suo Dio, nel Tempio; contava unicamente sulla sua terribile malattia ed un’enorme indigenza. Di esse rimase liberato. Come poteva tacerlo?

In quel tempo, 40si avvicinò a Gesù un lebbroso, supplicandolo in ginocchio: « Se vuoi, puoi purificarmi. » 41Sentendo compassione, stese la mano e lo toccò, dicendo: « Lo voglio, sii purificato » 42La lebbra gli fu tolta immediatamente, e fu purificato. 43E ammonendolo severamente, gli disse: 44″Guarda di non dir niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro ». 45Ma, quando andò via, incominciò a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva entrare oramai apertamente in nessuna città; rimaneva fuori, in luoghi deserti; ed anche lì accorrevano da tutte le parti.

1. LEGGERE:
Capire quello che dice il testo e come lo dice

Durante il primo viaggio di Gesù per la Galilea, predicando il vangelo ed scacciando demoni (Mc 1,39), un lebbroso si avvicina a Gesù. La sua presenza è inaspettata: il lebbroso doveva evitare di entrare in contatto coi sani. Più insolito è ancora il suo comportamento: lo supplica, inginocchiato, per la sua guarigione. L’iniziativa, dunque, parte dal malato; la sua petizione è chiara, benché cortese: se vuoi. Riconosce che può curarlo ed accetta che deve volerlo: sa che ha il potere, non sa che vuole guarirlo. Il malato, non sappiamo bene perché, perché il testo non lo menziona, mette la sua fiducia in Gesù: la sua guarigione dipende dalla buona volontà di Gesù. Portato dalla sua necessità estrema, si mette nelle sue mani.
Prima di curare, Gesù si commuove. E quello che è più è sorprendente, tocca il malato; il male del lebbroso gli ha ferito il cuore, e, toccandolo con la mano, è rimasto esposto al contagio della sua impurità. Prima di volere guarirlo, Gesù ha sentito compassione. E per guarirlo, ha rotto un tabù sociale ed una norma legale. Il miracolo non nasce solo dalla volontà di un taumaturgo, neutrale o distante; si sente infetto personalmente prima di lasciare pulito il lebbroso e rischia di trasgredire la legge.
Il racconto, con tutto ciò, non finisce col miracolo realizzato. Il silenzio imposto l’obbliga ad evitare la testimonianza personale; ma il mandato di presentarsi al sacerdote lo restituisce alla vita sociale e all’obbedienza legale. Il comportamento di Gesù è paradossale. Ma il lebbroso, appena guarito, non può lasciare di proclamare la sua buona sorte: trovarsi con Gesù l’ha guarito e convertito in suo testimone. Lo precede la sua fama di guaritore. Il racconto comincia narrando che gli si avvicinò un lebbroso. E finisce annotando che « accorrevano a lui da tutte le parti. » Dovette guarire un escluso sociale affinché la gente si lanciasse alla sua ricerca, alla ricerca di uno che..

2. MEDITARE:
APPLICARE QUELLO CHE DICE IL TESTO ALLA VITA

Nei miracoli di Gesù si manifesta, efficace e presente, il regno di Dio. Risaltando, inoltre, i sentimenti di Gesù, Marco umanizza il miracolo: la sua pietà verso il malato lo portò a guarirlo; la sua compassione lo liberò della vergogna. Gesù restituisce alla comunità l’uomo emarginato, ma non desidera che si conosca il prodigio; il rispetto della legge segnala qui la meta autentica della cura: solo il sacerdote deve constatare quello che è successo. Ma chi si è avvicinato al regno, non può tacere. E contro lo stesso Gesù, gli fa da testimone. Niente di buono può dire su Cristo chi niente di buono ha sperimentato. Non dovrebbe importarci che ci trovi malati; se riusciamo ad attirare la sua attenzione, ritorneremo curati da lui e con lui gioiremo. E per inopportuno che sia, nonostante la sua ammonizione, gireremo il mondo proclamando il bene che ci ha fatto. Se per percorrere questa strada è necessario solo non sentirsi bene del tutto, con se stesso e col proprio mondo, che cosa ci impedisce di iniziare?
Di questa situazione disperata, senza uscita, ne seppe approfittare il lebbroso del vangelo per la sua salvezza; nel suo gesto, e nella reazione di Gesù, potremmo immaginarci un possibile accesso a Gesù, e la nostra salvezza. Solo così la narrazione che abbiamo sentito sarà per noi parola di Dio, buona notizia, vangelo fatto opportunità di vita e motivo di speranza.
Benché ci sembri logico che un malato cerchi chi possa curarlo, il caso è che, essendo lebbroso, gli era espressamente proibito dalla legge di avvicinarsi a qualunque persona. I lebbrosi erano obbligati a farsi conoscere con urla, per evitare il contatto con chi passava vicino: questo, invece, si avvicina e supplica in ginocchio; non gli interessa quello che era prescritto, per riuscire ad ottenere che Gesù lo esaudisca; prende l’iniziativa e si fida di Gesù che passava da lontano: se vuoi, puoi mondarmi. Il lebbroso si sottomette alla volontà di Gesù, prima di manifestarle la propria; si dichiara d’accordo con Gesù, senza che conosca ancora la sua reazione. Si appoggia più su quello che Gesù vuole che non su ciò che desidera; gli importa di più la volontà di Gesù che la propria. Affidarsi è la migliore maniera di chiedere qualcosa, senza esigerlo.
Bisogna ammirare la fede, sorta da una situazione senza speranza, di questo malato: si ha bisogno di molta fiducia in Gesù per accettare dall’inizio una sua decisione che non sappiamo se ci esaudisca realmente. Ma solo così, la domanda, perfino quella dettata da certe leggi, si fa largo ed è ascoltata. Il lebbroso ha scommesso su Gesù, chissà perché non aveva un altro a cui confidarsi; ma ciò non importa: gli confidò il suo male e la sua disposizione ad accontentarsi di quello che gli desse. Apprenderemo qualche giorno a pregare come il lebbroso? Quando ci stringeremo a Gesù, che cosa ci porta a lui, come gli facciamo presenti le nostre necessità? La fiducia previa, l’audacia di andare alla sua ricerca contro quello che pensino o comandino gli altri, l’accettazione espressa della sua volontà, ci apriranno il suo cuore. Così succedette in quel tempo al lebbroso. Ed a noi potrebbe succederci oggi, in qualunque giorno, se avessimo la fede del lebbroso e mettessimo la nostra fiducia in Cristo.
Fu la sua estrema necessità che diede coraggio al lebbroso per andare, rompendo le norme, in cerca di Gesù; ma fu la simpatia di Gesù, la sua profonda tenerezza davanti ad una terribile malattia, quello che lo portò a toccare, contro ogni logica e contro la legge di allora, il malato contagioso: Gesù lo guarì avvicinandosi al suo male, visibilmente commosso.
Siccome ci manca la fiducia che ebbe il lebbroso, non troviamo Gesù commosso davanti a noi, né riusciamo a sentirci afferrati dalla sua mano. Coloro che vanno a Gesù col proprio male, per terribile che sia, e lo pregano, carichi di fiducia: se vuoi, puoi curarmi, gli sentiranno dire: lo voglio, sii mondato. Perché non abbiamo trovato ancora la mano e la compassione di Gesù? non sarà perché, non avendo accettato il nostro male, non troviamo ragione alcuna per affidarlo a Dio? Che cosa ci fa dubitare del valore del saper pregare, del fidarsi di Dio! abbiamo bisogno di coraggio, non piccolo, per affrontare i nostri mali, se vogliamo uscire in cerca di aiuto. Perdiamo il buon Dio solo perché ci crediamo o già buoni o non sufficientemente ammalati.
Gesù non cura solo il lebbroso, lo restituisce alla società: libera l’uomo dalla sua malattia e dalla sua solitudine. Quando Dio guarisce, non cura solo il nostro male interiore, trasforma anche le nostre relazioni con gli altri, ci guarisce in profondità e ci impone la convivenza: a colui che gli è stata restituita la salute, deve diventare fratello degli altri; a chi guarisce, Gesù lo introduce, già mondo, tra gli uomini che si credono sani. È la sua forma di curare il mondo. Non è per garantire l’incontro con Gesù che non abbiamo ragioni per andare verso gli altri; né lo è una eucaristia che ci salvi solo dai nostri peccati o una vita di fede che ci liberi dai nostri fratelli; e – capiamolo bene – fratelli sono tutti quelli che il male ha reso fratelli con noi. Unicamente chi incontra Gesù per trovarsi con gli altri, è completamente guarito: la solitudine nella quale viviamo la nostra fede che ci fa indifferenti al male degli altri, preoccupati solo del nostro, è segno inequivocabile che non siamo stati curati da Gesù. Per quanto malati ci sentiamo, per quanto glielo chiediamo, se la nostra vita di credenti non ci guarisce interiormente e non ci integra di più nella vita degli altri, a poco servono i nostri incontri con Gesù.
Chi trova Gesù, come il lebbroso, si converte, nonostante contro lo stesso comando di Gesù, nel suo testimone più efficace: non si può tacere la propria guarigione, non si può tacere la grazia ricevuta. Il riconoscimento è opera del cuore e le labbra non hanno la forza per tacere i sentimenti; così l’antico lebbroso si trasformò inopinatamente in profeta loquace: crea intorno a sé un movimento di simpatia verso Gesù, fino al punto che gli fu difficile la sua vita giornaliera ed il suo riposo; costa ben poco al malato, in altri tempi escluso, parlare bene, e molto di chi l’ha guarito.
E noi? Se è vero che non vediamo troppi entusiasmi per Gesù intorno a noi, nel nostro mondo, in famiglia,.. non sarà perché non siamo riusciti ancora a sentirci guariti da Gesù? O se egli ha fatto già la sua parte, se ci ha presi già tante volte per mano e ha detto si lo voglio, sii mondato, non sarà perché non vogliamo dire con la nostra vita il bene che ci ha fatto Dio? Se Egli è per noi la cosa più importante, la cosa migliore che abbiamo, perché tacerlo?; perché occultarlo agli altri? Non sarà che non siamo ancora convinti del tutto della bontà di Gesù, che può e vuole curarci? Ci mancherà, a noi credenti di oggi, quello che eccedé al lebbroso di ieri: fiducia nel potere, fede nella buona volontà di Gesù?

JUAN J. BARTOLOME sd

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