Christ in the Wilderness – Awaking

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NON NOMINARE TROPPO DIO
JESUS, maggio 2014 – Rubrica La bisaccia del mendicante 3
di ENZO BIANCHI
Annota il vangelo secondo Matteo: «Gesù parlava di molte cose in parabole» (Mt 13,3). Sì, parlava di molte cose e in parabole. “Di molte cose” significa che Gesù non consegnava formule, verità codificate, ma parlava della realtà, di ciò che è quotidiano, di ciò che accade nella vita di uomini e donne. Mai nei vangeli sinottici Gesù consegna agli altri delle formule su Dio, anzi di Dio parla poco…
Ne parla solo perché emerga un’immagine diversa da quella preconfezionata trasmessa dai dottori della legge: un’immagine che si potesse riscontrare, leggere, decifrare nella sua vita umanissima e quotidiana, mai straordinaria, mai volta a incantare o a sedurre.Gesù parlava di Dio “in parabole” senza nominarlo. Non aveva in bocca la parola «Dio», utile in ogni dialogo, non aveva l’ansia di nominarlo a tutti i costi, parlando di Dio alla terza persona.
Nelle parabole, possiamo dire, si trova una parola «non religiosa», una parola che indicava alla mente degli ascoltatori cose ed eventi umanissimi, terrestri: un fico che mette i germogli in primavera, del lievito che fa lievitare la pasta, un padre che attende e perdona il figlio perduto, un pastore che perde e ritrova una pecora, una donna che ritrova la moneta perduta, un agricoltore che semina il grano, un uomo che pianta una vigna, un altro che assume lavoratori nella sua vigna…
Racconti, narrazioni in cui Dio non è il protagonista né uno dei personaggi, ma che, una volta ascoltati con gli orecchi e meditati nel cuore, potevano comunque far capire qualcosa dei sentimenti, delle attese, delle azioni di Dio, di quello che Gesù chiamava il Regno di Dio.Possiamo pensare che a volte venissero rivolte a Gesù delle domande su Dio, eppure egli non consegnava in risposta delle formule, non forniva certezze, ma rimandava all’esperienza umana, alla storia e alla microstoria in cui gli uomini e le donne sono coinvolti.
Non c’era mai in Gesù l’ansia di fornire risposte catechetiche, di annunciare dogmi, di indicare leggi morali ferree: parlava in parabole, parlava di molte cose… «Non parlava come gli scribi», annotano i vangeli, ma «parlava con autorità» (cf. Mc 1,22 e par.), non come gli incaricati della religione, istituiti e muniti di potere, senza far uso di un linguaggio religioso, ma con l’autorevolezza che gli veniva dalla sua coerenza tra il dire e il fare. Tra le cause dell’opposizione a Gesù di scribi e sacerdoti va annoverato anche questo suo linguaggio umanissimo che sconcertava in bocca a un predicatore, perché egli non diceva quello che tutti dicevano e non ripeteva quello che era stato detto e che veniva chiamato tradizione.
Mai in Gesù un ricorso al «sovraumano»! Egli chiedeva invece di ripensare l’idea che quasi tutti avevano di Dio, mostrava di non disprezzare mai ciò che è umano e tanto meno gli uomini, a qualunque cultura, gente o religione appartenessero. Gesù non parlava di un Dio grande, onnipotente, vittorioso e che sa imporsi sugli uomini, lo accolgano o non lo accolgano: parlava di un Padre che chiamava Abinu, «Padre nostro», che chiamava confidenzialmente Abba (Mc 14,36), «Papà»; un Dio che conosce solo l’onnipotenza dell’amore, un Dio che desidera dare amore a chi non lo merita, un Dio che vuole salvare chi è perduto e si sente tale.
Proprio per questo Gesù «si è perduto», è stato annoverato tra i malfattori, giudicato amico di peccatori pubblicamente riconosciuti, impuro perché non ossessionato dalla purità e dall’ansia immunitaria.La sua carne era parola umana, come la carne di ciascuno di noi è una parola d’uomo. Anziché parlare di Dio alla terza persona, Gesù preferisce nella sua preghiera, sovente solitaria, dargli del tu, invocarlo, lodarlo, ringraziarlo. Voleva che noi comprendessimo che la sua vita era narrazione in mezzo a noi uomini del Dio invisibile. E nella sua umanità quotidiana, nel suo avvicinarsi e prendersi cura di chi era nel bisogno Gesù “parlava” di Dio e lo faceva conoscere: non faceva discorsi su Dio, ma lo rivelava nella sua pratica di umanità. Sicché si poté dire: “Hai visto Gesù? Hai visto un vero uomo, hai visto Dio!”.
Pubblicato su: Jesus
http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2005/documents/hf_ben-xvi_aud_20050817.html
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo
Mercoledì, 17 agosto 2005
SALMO 125
Dio nostra gioia e nostra speranza
Vespri – Mercoledì 3a settimana
1. Ascoltando le parole del Salmo 125 si ha l’impressione di vedere scorrere davanti agli occhi l’evento cantato nella seconda parte del Libro di Isaia: il «nuovo esodo». È il ritorno di Israele dall’esilio babilonese alla terra dei padri in seguito all’editto del re persiano Ciro nel 538 a.C. Allora si ripeté l’esperienza gioiosa del primo esodo, quando il popolo ebraico fu liberato dalla schiavitù egiziana.
Questo Salmo acquistava particolare significato quando veniva cantato nei giorni in cui Israele si sentiva minacciato e impaurito, perché sottomesso di nuovo alla prova. Il Salmo comprende effettivamente una preghiera per il ritorno dei prigionieri del momento (cfr v. 4). Esso diventava, così, una preghiera del popolo di Dio nel suo itinerario storico, irto di pericoli e di prove, ma sempre aperto alla fiducia in Dio Salvatore e Liberatore, sostegno dei deboli e degli oppressi.
2. Il Salmo introduce in un’atmosfera di esultanza: si sorride, si fa festa per la libertà ottenuta, affiorano sulle labbra canti di gioia (cfr vv. 1-2).
La reazione di fronte alla libertà ridonata è duplice. Da un lato, le nazioni pagane riconoscono la grandezza del Dio di Israele: «Il Signore ha fatto grandi cose per loro» (v. 2). La salvezza del popolo eletto diventa una prova limpida dell’esistenza efficace e potente di Dio, presente e attivo nella storia. D’altro lato, è il popolo di Dio a professare la sua fede nel Signore che salva: «Grandi cose ha fatto il Signore per noi» (v. 3).
3. Il pensiero corre poi al passato, rivissuto con un fremito di paura e di amarezza. Vorremmo fissare l’attenzione sull’immagine agricola usata dal Salmista: «Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo» (v. 5). Sotto il peso del lavoro, a volte il viso si riga di lacrime: si sta compiendo una semina faticosa, forse votata all’inutilità e all’insuccesso. Ma quando giunge la mietitura abbondante e gioiosa, si scopre che quel dolore è stato fecondo.
In questo versetto del Salmo è condensata la grande lezione sul mistero di fecondità e di vita che può contenere la sofferenza. Proprio come aveva detto Gesù alle soglie della sua passione e morte: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).
4. L’orizzonte del Salmo si apre così alla festosa mietitura, simbolo della gioia generata dalla libertà, dalla pace e dalla prosperità, che sono frutto della benedizione divina. Questa preghiera è, allora, un canto di speranza, cui ricorrere quando si è immersi nel tempo della prova, della paura, della minaccia esterna e dell’oppressione interiore.
Ma può diventare anche un appello più generale a vivere i propri giorni e a compiere le proprie scelte in un clima di fedeltà. La perseveranza nel bene, anche se incompresa e contrastata, alla fine giunge sempre ad un approdo di luce, di fecondità, di pace.
È ciò che san Paolo ricordava ai Galati: «Chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna. E non stanchiamoci di fare il bene; se infatti non desistiamo, a suo tempo mieteremo» (Gal 6,8-9).
5. Concludiamo con una riflessione di san Beda il Venerabile (672/3-735) sul Salmo 125 a commento delle parole con cui Gesù annunziava ai suoi discepoli la tristezza che li attendeva e insieme la gioia che sarebbe scaturita dalla loro afflizione (cfr Gv 16,20).
Beda ricorda che «piangevano e si lamentavano quelli che amavano Cristo quando lo videro preso dai nemici, legato, portato in giudizio, condannato, flagellato, deriso, da ultimo crocifisso, colpito dalla lancia e sepolto. Gioivano invece quelli che amavano il mondo…, quando condannavano a morte turpissima colui che era per loro molesto anche solo a vederlo. Si rattristarono i discepoli della morte del Signore, ma, conosciuta la sua risurrezione, la loro tristezza si mutò in gioia; visto poi il prodigio dell’ascensione, con gioia ancora maggiore lodavano e benedicevano il Signore, come testimonia l’evangelista Luca (cfr Lc 24,53). Ma queste parole del Signore si adattano a tutti i fedeli che, attraverso le lacrime e le afflizioni del mondo, cercano di arrivare alle gioie eterne, e che a ragione ora piangono e sono tristi, perché non possono vedere ancora colui che amano, e perché, fino a quando stanno nel corpo, sanno di essere lontani dalla patria e dal regno, anche se sono certi di giungere attraverso le fatiche e le lotte al premio. La loro tristezza si muterà in gioia quando, terminata la lotta di questa vita, riceveranno la ricompensa della vita eterna, secondo quanto dice il Salmo: “Chi semina nelle lacrime, mieterà nella gioia”» (Omelie sul Vangelo, 2,13: Collana di Testi Patristici, XC, Roma 1990, pp. 379-380).