Archive pour janvier, 2015

NON MI BASTA AMARE DIO SE ANCHE IL MIO PROSSIMO NON LO AMA – SAN VINCENZO DE PAOLI

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20010821_vincenzo-paoli_it.html

NON MI BASTA AMARE DIO SE ANCHE IL MIO PROSSIMO NON LO AMA – SAN VINCENZO DE PAOLI

« La nostra vocazione è di andare ad infiammare il cuore degli uomini,a fare quello che fece il Figlio di Dio, Lui che venne a portare il fuoco nel mondo per infiammarlo dell’amor suo. Che possiamo noi desiderare, se non che arda e consumi tutto?
È dunque vero che sono inviato non solo ad amare Dio, ma a farlo amare.

Non mi basta amare Dio se anche il mio prossimo non lo ama. Devo amare il mio prossimo come immagine di Dio e oggetto dell’amor suo e far di tutto perché a loro volta gli uomini amino il loro Creatore che li riconosce e li considera come suoi fratelli, che li ha salvati; e procurare che, con mutua carità, si amino tra loro per amor di Dio, il quale li ha tanto amati da abbandonare per essi il proprio Figlio alla morte. È dunque questo il mio dovere.
Orbene, se è vero che siamo chiamati a portare lontano e vicino l’amore di Dio, se dobbiamo infiammarne le nazioni, se la nostra vocazione è di andare a spargere questo fuoco divino in tutto il mondo, se così è, dico, se così è, fratelli, quanto devo ardere io stesso di questo fuoco divino!
Come daremo la carità agli altri, se non l’abbiamo tra noi? Osserviamo se vi è, non in generale, ma se ciascuno l’ha in sé, se vi è al grado dovuto; perché se non è accesa in noi, se non ci amiamo l’un l’altro come Gesù Cristo ci ha amati e non facciamo atti simili ai suoi, come potremo sperare di diffondere tale amore su tutta la terra? Non è possibile dare quello che non si ha.
L’esatto dovere della carità consiste nel fare ad ognuno quello che con ragione vorremmo fosse fatto a noi. Faccio veramente al mio prossimo quello che desidero da lui?
Osserviamo il Figlio di Dio. Non c’è che Nostro Signore che sia stato tanto rapito dall’amore per le creature da lasciare il trono del Padre suo per venire a prendere un corpo soggetto ad infermità.
E perché? Per stabilire fra noi, mediante la sua parola e il suo esempio, la carità del prossimo. È questo l’amore che l’ha crocifisso e ha compiuto l’opera mirabile della nostra redenzione.
Se avessimo un poco di questo amore, rimarremmo con le braccia conserte? Oh! no, la carità non può rimanere oziosa, essa ci spinge a procurare la salvezza e il sollievo altrui. »

Dalle “Conferenze ai Preti della Missione” di san Vincenzo de’ Paoli () (Conferenza 207).

Preghiera
O Salvatore, che ci hai dato la legge di amare il prossimo come noi stessi, che l’hai praticata tanto perfettamente verso gli uomini, sii Tu stesso, Signore, il tuo ringraziamento eterno!
O Salvatore, quanto sono fortunato di trovarmi in uno stato d’amore per il prossimo! Fammi la grazia di riconoscere la mia fortuna, di amare questo stato beato e di contribuire perché questa virtù si manifesti ora, domani e sempre. Amen (da S. Vincenzo de’ Paoli)

A cura del « Movimento dei Focolari »

Publié dans:meditazioni, Santi |on 13 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

SANT’AGOSTINO – LA DISCIPLINA CRISTIANA Nella Chiesa i cristiani vengono istruiti da Cristo stesso a vivere bene.

http://www.augustinus.it/italiano/disciplina_cristiana/index2.htm

SANT’AGOSTINO – LA DISCIPLINA CRISTIANA

Nella Chiesa i cristiani vengono istruiti da Cristo stesso a vivere bene.

1. 1. La parola di Dio ci è stata rivolta: è stata pronunciata al fine di esortarci, come dice la Scrittura: Accogliete l’istruzione nella casa dell’istruzione 1. Istruzione viene da istruire, e la casa dell’istruzione è la casa di Cristo. Chiediamoci l’oggetto e il fine di questa istruzione: chi viene istruito e chi impartisce l’istruzione. Si impara a vivere bene, e il fine per cui si impara a vivere bene è di giungere a vivere per sempre. A questo vengono istruiti i cristiani, e Cristo è colui che insegna. Chiariamo con ordine questi punti: in che cosa consista il vivere bene, quale sia il premio di una vita condotta bene; chi siano veramente i cristiani discepoli, chi sia il vero maestro. Noi diremo poche cose, così come il Signore ci farà dono di dirle, e voi abbiate la compiacenza di ascoltare. Premetto che tutti noi siamo nella casa che è scuola di vita cristiana, ma molti non sono disposti a ricevere l’istruzione, e la rifiutano – questo è male – benché appartengano a tale casa. Dovrebbero ricevere qui gli insegnamenti per metterli in pratica anche nelle loro case: ma in queste preferiscono vivere in modo sregolato, e per di più amano portare la stessa sregolatezza anche nella casa dove si insegna la regola di vita. La mia esortazione dunque ad accogliere quello che il Signore vorrà ora suggerirmi di dire, è rivolta a coloro presso i quali non cade invano la parola di Dio e che prestano ascolto con il cuore oltre che con le orecchie. Costoro non sono strada da cui gli uccelli portano via il seme caduto; non sono terreno sassoso in cui il seme non può mettere radice profonda – spunta subito un germoglio che però secca nella calura -; e neppure sono campo coperto di spine – dove il germoglio viene soffocato appena spunta e comincia e crescere -; sono invece terreno buono, pronto a ricevere il seme e a dare frutto abbondante, cento, sessanta o trenta volte in più 2. – Preciso, per coloro che devono ancora imparare, che ho attinto queste immagini dal Vangelo -. Ho elencato chi sono coloro che potranno accogliere quello che il Signore si degna di dire per mezzo di me. Chi semina è il Signore, e io sono appena la cesta in cui il seminatore si degna di mettere i semi da spargere su di voi: non ha valore la cesta, ma grande è il pregio del seme, e grande il potere del seminatore. A questo fate attenzione.

I molti precetti della Legge compendiati nell’unica Parola.
2. 2. Vediamo in che cosa consista quel vivere bene che si impara qui. Nella legge di Dio troviamo molti precetti che definiscono la vita buona, la comandano, la insegnano: sono addirittura innumerevoli, tanto che si stenta a contare le pagine in cui sono contenuti. E poiché molti avrebbero potuto addurre come scuse per la propria inosservanza, o la mancanza di tempo per leggere o la propria incapacità di leggere o di capire bene, Dio non volle che tali scuse valessero nel giorno del giudizio e decise che la sua parola si realizzasse sulla terra in una espressione compendiosa, così come il profeta aveva predetto e noi leggiamo nella Scrittura: Dio darà compimento sulla terra al suo Verbo con pienezza e la farà breve 3. Dio volle esser lui questo Verbo perfetto, breve e chiaro, perché nessuno avesse la possibilità di dire che non aveva tempo di leggere o facoltà di comprendere: le sacre Scritture offrono un grande tesoro di molti mirabili insegnamenti che sono come molte gemme e monili preziosi o grandi vasi di pregiato metallo, ma ci si chiede chi sia in grado di penetrare un tale tesoro traendone profitto e cogliendone tutti i significati. Nel Vangelo il Signore fa questa similitudine: Il regno dei cieli è simile a un tesoro trovato nel campo 4. Ma subito, per timore che qualcuno si ritenga incapace di esplorare tale tesoro, aggiunge di seguito quest’altra similitudine: Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra 5. Si può essere pigri a esplorare un tesoro, non a prendere una sola pietra preziosa che, tenuta sotto la lingua, permette di andare senza timore dove si vuole.

Il precetto di amare Dio e il prossimo. Ogni uomo è prossimo per ogni uomo.
3. 3. Questa è la parola perfetta e compendiosa: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, e: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti 6. Nella scuola dunque di vita cristiana si impara ad amare Dio e ad amare il prossimo: Dio come Dio, il prossimo come te stesso. Non si può trovare qualcuno pari a Dio che possa esserti indicato come misura dell’amore dovuto a Dio. Come regola dell’amore del prossimo ti è invece indicato l’amore di te stesso, che sei riconosciuto di valore pari al tuo prossimo. E per capire come amare il prossimo, sei invitato a fare riferimento a come ti ami, per amare allo stesso modo il tuo prossimo: non puoi sbagliare. Intendo quindi mettere nelle tue mani il prossimo da amare così come ami te stesso, ma mi resta qualche esitazione e desidero chiarire prima bene con te in qual modo devi amare te stesso. Non avertene a male perché, dovendoti affidare il prossimo, non posso farlo alla leggera, in modo sbrigativo. Tu sei una persona, il tuo prossimo è formato da molte persone. Anzitutto non devi intenderlo limitato ai fratelli e alla parentela diretta e indiretta. Ogni uomo è prossimo per ogni altro uomo. Come si riconoscono prossimo padre e figlio, suocero e genero, così l’uomo è prossimo per l’uomo nel senso più stretto. Ma pur limitandoci a riconoscere come prossimo le persone che nascono dallo stesso ceppo, se guardiamo ad Adamo e Eva, ecco che ci ritroviamo tutti fratelli e se siamo fratelli in quanto siamo uomini, a maggior ragione lo siamo in quanto cristiani. In quanto uomini abbiamo tutti Adamo come padre, Eva come madre; in quanto cristiani, abbiamo Dio come unico padre, e come unica madre la Chiesa.

Va chiarito come tu debba amare te stesso.
4. 4. Voi dunque vedete come sia esteso il prossimo di ciascuno: comprende tutte le persone in cui uno si imbatte e tutte quelle alle quali può unirsi. E` dunque cosa da chiarire bene come uno debba amare se stesso, dato che il suo amore deve comprendere un prossimo così esteso. Nessuno dunque se ne abbia a male che io mi soffermi su questo punto: mentre io svolgerò la riflessione, ciascuno esaminerà se stesso. Io parlo proprio perché ciascuno si interroghi e arrivi a una conoscenza chiara di sé, senza nascondersi, e non si butti dietro alle spalle l’immagine di sé, ma fissi bene gli occhi su di essa: mentre io parlerò, ciascuno farà questo esame di sé, senza che io ne sappia nulla. Come dunque ami te stesso? Ti invito a esaminarti mentre qui ora, in questa scuola di vita cristiana, tu mi ascolti e anzi attraverso me ascolti Dio. Alla domanda se ti ami, tu rispondi di si perché – dici – nessuno si odia. E poiché nessuno si odia, tu, amando te stesso, non puoi amare il male. Se infatti amassi il male, ti inviterei ad ascoltare non quello che dico io, ma quello che dice il Salmo: Chi ama l’iniquità odia la propria anima 7. Ma se tu ami l’iniquità, ascolta la verità che senza blandimenti ti dice apertamente che tu ti odi. Hai tanto più odio di te quanto più dichiari di amarti, perché è scritto appunto: Chi ama l’iniquità, odia la propria anima. Mi riferisco all’anima, ma potrei dire lo stesso quanto alla carne, che è la parte di minor valore dell’uomo: chi ama l’iniquità e odia la propria anima, tratta con turpitudine la propria carne. Se poi tu ami l’iniquità e mandi in rovina te stesso, non è possibile che tu pretenda ti sia affidato il prossimo da amare come te stesso, perché come perderesti te stesso con il tuo modo di amarti, così faresti perdere il tuo prossimo amandolo allo stesso modo. Ti proibisco dunque di amare alcuno, perché sia tu solo a perderti. Ti pongo l’alternativa: o correggere il tuo modo di amare o astenerti da ogni rapporto con altri.

Come amare Dio e il prossimo insieme: i due precetti sono un precetto solo.
5. 5. Tu vorrai giustificarti dicendomi che tu ami il tuo prossimo come te stesso. E` vero – io ti rispondo -: tu vuoi amarlo come te stesso per ubriacarti insieme, e lo esorti a godere con te, bevendo quanto potete. Tu attiri a te il tuo prossimo secondo il modo in cui ami te stesso e gli vuoi far fare quello che piace a te. Riveli la bestialità della tua natura piuttosto che la tua umanità, poiché ami quello che amano le bestie. Dio ha fatto le bestie con la testa piegata verso terra perché da terra cerchino di che pascersi; te invece ha fatto poggiare su i due piedi, eretto su da terra, perché vuole che tu tenga alto il tuo volto. E il tuo cuore deve avere lo stesso atteggiamento: non deve stare piegato in giù mentre il volto guarda in alto. Ascolta dunque la verità e mettila in pratica. Sia in alto il tuo cuore : non mentire in questa scuola di vita cristiana. Devi dare una risposta a quello a cui presti ascolto, ma una risposta che sia sincera. Così devi amare te stesso, e amerai il prossimo come te stesso. Infatti tenere in alto il cuore ha lo stesso significato delle parole che ho riferito prima: Ama il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente 8. Due dunque i precetti; ma basta enunciarne uno, purché venga capito. Infatti la Scrittura – precisamente Paolo – dice: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare, e qualsiasi altro comandamento si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. L’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore 9. L’amore è il voler bene. Il testo di Paolo sembra non dica niente del voler bene a Dio, ma afferma che basta voler bene al prossimo per adempiere alla legge. Tutta la sostanza dei comandamenti è ricapitolata in una sola frase e in questa sola ha il suo compimento: Ama il prossimo tuo come te stesso 10. Ecco l’unico comandamento, il quale comprende entrambi i comandamenti su cui sono totalmente fondati Legge e profeti.
6. 5. Vedete come tutto è stato condensato in breve: eppure noi siamo ancora pigri. Di due comandamenti ne è stato fatto uno solo. Dunque ama il prossimo, e questo è sufficiente. Amalo con lo stesso amore che hai per te stesso, non con lo stesso odio. Ma per amare il tuo prossimo come te stesso, importa prima che tu ami veramente te stesso.

Per amare veramente se stesso, l’uomo deve amare Dio.
6. 6. Se chiederai in che modo tu debba amare te stesso, ti sentirai rispondere: Ama il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutta l’anima 11. Come infatti l’uomo non poté crearsi da sé, così non è in grado di darsi da sé la felicità. Da altri, non da sé è stato fatto; da altri, non da sé gli verrà la felicità. L’uomo stesso, facendo esperienza dell’errore, vede di non poter farsi felice da sé e volge l’amore a qualcos’altro da cui attingere felicità. Ama quello che crede possa farlo felice. Per questo fa oggetto del suo amore il denaro, l’oro, l’argento, i beni, il che viene tutto riassunto nel vocabolo pecunia il cui significato, in latino, comprende sia il denaro sia tutto quello che gli uomini possiedono sulla terra, tutto quello di cui sono padroni: servo, vaso, campo, bestiame, tutto è pecunia. E questo si spiega con l’etimologia del vocabolo da pecus che significa bestiame, poiché la ricchezza degli antichi consisteva nel bestiame, e anche dei Patriarchi leggiamo che erano ricchi pastori. Tu dunque, uomo, ami il denaro: credi il denaro possa farti felice, e lo ami fortemente. Ma se ti proponi di amare il prossimo come te stesso, devi dividere con lui i beni che hai. Mentre cercavamo di chiarire che cosa significhi amare il prossimo, tu già hai potuto conoscere te stesso, ti sei visto nel profondo, ti sei vagliato. Non sei disposto a dividere il tuoi beni con il prossimo. La risposta viene dall’avidità che hai in te abbondante. Essa risponde che dividendo i beni con l’altro, sia io che l’altro possediamo meno: diminuirebbero le ricchezze che amo, che non sarebbero più possesso intero né mio né dell’altro. Invece, amando l’altro come me stesso in quanto mio prossimo, io vorrei che la ricchezza di lui uguagli la mia senza che la mia diminuisca.

Cristo si è fatto povero perché tu avessi un povero a cui dare e un compagno di cammino.
7. 7. Mi auguro davvero che tu non subisca perdite e che si verifichi questo che tu dici o speri. Temo che tu provi invidia; non penso infatti che possa essere condivisa con altri una felicità alla quale provoca tormento la felicità altrui. Ti chiedo se non è vero che, quando il tuo vicino comincia ad arricchirsi, a innalzarsi socialmente, avvicinandosi a te, tu non temi che ti raggiunga e ti superi. Eppure tu dici di amare il tuo prossimo come te stesso. Ma io non intendo parlare delle persone invidiose. Dio tenga lontano la peste dell’invidia dall’animo di tutti, e tanto più dei cristiani: è un vizio diabolico di cui solo il diavolo è reo, reo senza possibilità di espiazione. Quando infatti il diavolo fu condannato, non fu accusato di adulterio o furto o rapina ma di invidia, perché, caduto lui in peccato, provò invidia per l’uomo che era ancor saldo nella sua integrità. L’invidia è dunque vizio diabolico, che è però generato dalla superbia: questa è detta madre dell’invidia. E poiché è la superbia a far nascere gli invidiosi, bisogna spegnere la superbia che ne è la madre, per non essere presi dall’invidia che ne è la figlia. Per questo Cristo ha insegnato l’umiltà. Io dunque non mi rivolgo alle persone invidiose, ma a coloro che amano il bene del loro prossimo desiderando che goda di beni pari ai propri: ma mentre desiderano che siano saziati i loro bisogni, non sono tuttavia disposti ad aiutarli con parte di quanto possiedono. Io chiedo a te che sei cristiano, se credi di poterti vantare di un tale atteggiamento, e dico che è ben migliore di te quel mendicante che [al tuo passare] ti augura che s’accresca la tua fortuna, mentre lui non possiede niente. Tu gli ricambi volentieri l’augurio di bene, ma non gli dai nulla. Io ti esorto a dargli qualcosa come ricompensa per l’augurio che ti fa. Che un povero ti auguri bene, ti dovrebbe liberare dal timore. Ti faccio anche considerare che frequenti la scuola di vita cristiana. E aggiungo quello che già ti ho insegnato: è Cristo quel povero che ti fa l’augurio di bene. Chiede a te lui che prima ha dato a te: ne dovresti arrossire. Lui ricco ha voluto farsi povero perché tu avessi il povero a cui dare. Da’ qualcosa a chi è tuo fratello, tuo prossimo, tuo compagno. Tu sei ricco, lui è povero. Questa vita è per entrambi la via su cui siete in cammino insieme.

Non restare impedito dalle ricchezze che porti, ma solleva l’indigenza di Cristo.
8. 8. Ma forse tu dici che nel cammino che fate insieme, davvero tu sei ricco, lui povero. Bisogna però capire che cosa significa questo. Dire che tu sei ricco e lui povero significa solo che, compiendo lo stesso cammino, tu hai un peso da portare, lui procede invece leggero. Quando tu dici: io ricco e lui povero, ricordi il fardello di cui sei carico, vanti il peso che porti. Per di più – e questo è cosa grave – hai legato a te il tuo fardello in modo tale che non puoi neppure porgere la mano. Impedito come sei dal peso e dai lacci, di che cosa ti vai vantando? Sciogli dunque i lacci, alleggerisci il tuo fardello: dando qualcosa a chi ti è compagno di cammino, tu aiuti lui e alleggerisci te. Con il tuo menar vanto del tuo fardello di ricchezze, lasci che Cristo continui a chiedere senza ricevere nulla; e offendi anche il nome stesso di pietà con parole crudeli, quando ti chiedi che cosa lasciare ai tuoi figli. – Io gli pongo davanti il Cristo, e lui mi contrappone i suoi figli. – E` forse vera giustizia che un tuo figlio abbia mezzi così abbondanti da potersi dare ai piaceri, e il tuo Signore resti invece nel bisogno? Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. Hai letto questa frase? e l’hai capita bene? Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me 12. Ti chiedo se non hai letto questa frase e non hai avuto timore. Mentre tu fai il conto dei tuoi figli, c’è qualcuno che è nel bisogno. Non ti dico di non fare il conto dei tuoi figli, ma ad essi aggiungine uno, il tuo Signore. Se hai un solo figlio, lui sarà il secondo; se ne hai due, sarà il terzo; se tre, il quarto. Ma tu rifiuti questo. Il tuo modo di amare il prossimo è di unirlo a te nella tua perdizione.

Non lasciarti persuadere a cercare il piacere e a fondarti sulle ricchezze.
8. 9. E` addirittura inutile che ti chieda se ami il tuo prossimo. La risposta che tu, come uomo avido di beni, vai sussurrando a tutti, figlio o fratello o padre, è che quello che più importa, finché siamo in questa vita, è di avere abbondanza di beni. Abbiamo valore per quello che possediamo 13. Fa’ mutar la luna e fa’ fortuna. Ma codesta risposta che vai sussurrando al tuo prossimo, non l’hai appresa né mai udita nella scuola di vita cristiana.
9. 9. Non voglio assolutamente che tu ami il tuo prossimo in questo modo e, se potessi, ti terrei addirittura separato da tutti, perché: Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi 14. Ma non è possibile tenerti lontano da tutti per impedirti di diffondere questi cattivi principi, che tu non solo non vuoi disimparare, ma che pretendi anche d’insegnare ad altri. Non potendo dunque far sì che gli altri non ti ascoltino, mi rivolgo a quelli da cui ti vuoi far ascoltare per far breccia con le tue parole e arrivare al loro cuore attraverso le orecchie. Mi rivolgo dunque a te che in questa scuola di vita ascolti la parola sana: Chiudi le tue orecchie con siepe spinosa 15. Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi: Chiudi le tue orecchie con siepe spinosa. Ti dico di chiuderle con spine perché, se uno osasse importunamente entrare in esse, sarebbe respinto e anche punito. Respingilo dicendogli che, come cristiani entrambi, non questo avete appreso nella scuola di vita cristiana alla quale si accede gratuitamente e dove si viene istruiti da quel maestro che ha la cattedra in cielo. Digli di non accostarsi a te, di non parlarti. Così è scritto: Poni una siepe di spine alle tue orecchie.

Le ricchezze non si possono vedere né mostrare senza la luce.
9. 10. Ora mi rivolgo a costui che è avaro e ama il denaro. Se desideri – gli dico – essere felice, ama il tuo Dio. Il denaro non ti fa felice: tu gli rendi molto onore, ma il denaro non ti ricambia con la felicità. Amando molto il denaro, non esiti – lo vedo – a spingerti là dove questa passione ti sollecita: io invece ti esorto, nella tua pigrizia, a spingerti là dove ti sollecita la carità. Se ti fermi a guardare, ti accorgi subito quale distanza separi il tuo denaro dal tuo Dio. Già lo stesso sole che vediamo brillare qui, è più bello del tuo denaro: eppure il sole non è il tuo Dio, e più bello della luce è colui che l’ha creata. Certo non pretenderai di paragonare alla luce il tuo denaro: senza la luce non lo puoi neanche vedere, e quando il sole è tramontato, non sei neanche in grado di mostrarmi le tue ricchezze. E` vero che esse brillano, è vero che tu sei ricco, ma, se di notte la lucerna si spegne, tu non puoi né vedere né mostrare le tue ricchezze: dove sono tutti i tuoi beni?
10. 10. Tuttavia i nostri occhi non sanno scorgere la paurosa estensione dell’avidità di cui sono colmi gli animi. Constatiamo che sono avare anche persone cieche, e non si capisce per quale ragione, dal momento che non vedendo si può dire che non possiedono neppure quello che hanno: e tuttavia anche il cieco è avaro. Lo è proprio perché crede di possedere: questa fede lo rende ricco, ricco perché crede di esserlo, non perché lo veda. Meglio certo sarebbe che volgesse la sua fede verso Dio. Tu non vedi quello che possiedi, e io ti annuncio Dio che non vedi. Ma se non lo vedi ancora, amalo, e lo vedrai. Tu – o davvero cieco – ami il denaro che non vedrai mai: lo possiedi senza vederlo e senza vederlo morirai, abbandonando qui quello che possiedi. Ma anche in vita, poiché non vedevi quello che avevi, di fatto non lo possedevi.

Amore del denaro e amore della sapienza. Non basta battersi il petto.
10. 11. Quanto a Dio, la stessa Sapienza nella Scrittura ti dice di amarlo come il denaro 16 può sembrare cosa indegna e offensiva un accostamento fra denaro e Sapienza: ma l’accostamento è fatto tra due amori. Io vedo che voi avete tanto amore per il denaro da esserne spinti a intraprendere fatiche, sopportare digiuni, attraversare mari, affidarvi ai venti e ai flutti. Intendo quindi farvi mutare l’oggetto del vostro amore, non farvi accrescere l’amore che volgete ad esso. Dio vi chiede di amarlo nella stessa misura, non di più: rivolgendosi ai cattivi cristiani che sono avari, chiede loro di amarlo tanto quanto amano il denaro. Non pretende un amore maggiore, anche se Dio vale incomparabilmente più del denaro. Da parte nostra copriamoci almeno di rossore, battiamoci il petto, confessiamoci peccatori, non però stendendovi sopra un pavimento [per proseguire nei nostri peccati]. Chi si batte il petto senza correggersi, si indurisce nei suoi peccati senza cancellarli: noi dobbiamo batterci il petto e impegnarci a correggerci, perché non debba poi punirci lui, il nostro maestro. Abbiamo così detto che cosa impariamo qui da lui; chiediamoci ora perché impariamo.

Tutti ambiscono istruirsi per fini terreni. Temono la morte ma non si preparano.
11. 12. Ti chiedo perché da fanciullo andasti a scuola. In essa subisti bastonature; ti avevano accompagnato i genitori e tu tentasti di fuggire, ma, cercato e ritrovato, vi fosti trascinato di nuovo a forza e, ricondotto là, ti buttasti a terra. Tutte queste pene sopportasti nella tua fanciullezza per apprendere a leggere. Saper leggere era infatti il mezzo per poter acquistare ricchezze e onori e raggiungere le più alte dignità sociali. Vedi che, per un bene perituro, tu che pure sei perituro, hai imparato una cosa peritura, con tanta fatica e fra tante pene; chi ti conduceva a penare tanto, ti amava, anzi proprio amandoti ti conduceva a soffrire e, con il suo amore, ti faceva subire le bastonature. E questo solo al fine che imparassi a leggere. Saper leggere è un bene. A questo punto – lo intuisco – tu mi vorresti chiedere perché non insegniamo noi vescovi a leggere, facendo apprendere le sacre Scritture nello stesso tempo che si insegna a scrivere. Si, si potrebbe fare così, ma non era questo il fine con cui ci mandavano a scuola i nostri genitori. Essi non ci esortavano e imparare a leggere perché potessimo accedere ai codici della parola di Dio: neppure i genitori cristiani dicono questo ai loro figli. Essi volevano che diventassimo uomini, non nel senso che fossimo prima animali, non uomini, ma nel senso che ci volevano uomini importanti. Il criterio è quello del proverbio: Quanto possiedi tanto vali 17. Si vuole possedere quanto possiedono gli altri, o piuttosto quanto pochi altri, o anche più degli altri, più dei pochi, al fine di godere prestigio e avere una buona posizione. Ma ci chiediamo dove finirà tutto questo quando verrà la morte. Guardiamo al modo come la paura della morte ci colpisce, ci interpella. Solo il nominare la morte fa spavento a tutti. Anche voi ora avete manifestato la vostra paura: me ne sono accorto, ho proprio udito da voi un gemito. Avete paura della morte. Mi chiedo perché non state in guardia, se avete paura. Voi temete la morte che non v’è ragione di temere. Essa verrà: questo è un fatto. Deve venire sia che la temiamo sia che non la temiamo. Verrà, presto o tardi. E non possiamo ottenere che non venga perché la temiamo.

La buona morte e la cattiva morte. Bisogna vivere bene per morire bene.
12. 13. Devi temere piuttosto qualcos’altro, qualcosa che la tua volontà può impedire che avvenga. Mi riferisco al peccare. Devi temere di peccare, perché, se ne provassi piacere, precipiteresti in un’altra morte che invece puoi evitare non amando il peccato. Ora, vivendo nella perversione del peccato, tu hai più cara la morte che la vita. Forse ti sembra impossibile che esista un uomo che ami la morte più della vita, ma ti dimostro che questo è vero per te. Tu hai cara la tua veste, e la vuoi buona, hai cara la tua villa, e la vuoi buona, ami il figlio, ami l’amico, e li vuoi buoni, e vuoi buona la casa che hai cara. E vuoi buona anche la morte, e lo domandi ogni giorno: dato che la morte deve venire, – tu dici – Dio me la mandi buona e tenga lontano da me la mala morte. Proprio in questo dimostri di amare la morte più della vita: ti fa paura il morire malamente, non il vivere malamente. Ti sollecito dunque: correggi la tua trista vita e temi una trista morte. Ma non devi neppure aver paura, perché non può morire male chi ha vissuto bene. Oso addirittura dire: Ho creduto, per questo ho parlato 18, e confermo che non può morire male chi è vissuto bene. Tu dirai fra te stesso che molti uomini giusti perirono per naufragio. Eppure non può morire male chi è vissuto bene. Ma – tu dici – non perirono molti giusti sotto la spada del nemico? Eppure non può morire male chi è vissuto bene. Molti giusti non furono uccisi dai briganti? molti non furono dilaniati dalle fiere? Eppure non può morire male chi è vissuto bene. Tutto questo non smentisce la mia affermazione perché finire naufraghi, perire di spada, essere dilaniati dalle fiere non possono essere ritenuti una brutta morte se le subirono i martiri dei quali festeggiamo il giorno natalizio. Essi subirono ogni genere di morte. Eppure noi li celebriamo come beati, se siamo cristiani e se ricordiamo di essere nella scuola di vita cristiana, sia quando ci troviamo qui e ascoltiamo, sia quando ce ne andiamo e non dimentichiamo quello che abbiamo ascoltato qui. Se guardiamo alle morti dei martiri con occhi di carne, diciamo che sono finiti male; se le guardiamo con gli occhi della fede, diciamo: Preziosa agli occhi del Signore la morte dei suoi santi 19. Qualunque sia la causa del tuo spavento della morte, sparirebbe del tutto lo spavento, se tu imitassi costoro. Se farai in modo di condurre una vita buona, qualunque situazione ti condurrà a uscire da questo corpo, ne uscirai per il riposo, per la beatitudine, la quale è libera da ogni timore e non ha mai fine. E` apparentemente una buona morte quella del ricco che avviene tra porpora e bisso, ma è davvero una brutta morte che lo conduce a patire la sete, a bramare una goccia d’acqua tra i tormenti. E` in certo modo brutta la morte del povero che finisce disteso sulla soglia della casa del ricco, leccato dai cani, morendo di fame e di sete nella brama delle briciole della ricca mensa: una morte brutta, da tener lontana. Ma poiché sei cristiano, guarda con l’occhio della fede al finale: Un giorno quel povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo 20. Nessun vantaggio diede il sepolcro marmoreo al ricco che finì a patir la sete nell’inferno, mentre nessun danno le vesti imbevute del marciume delle sue piaghe arrecarono al povero, che finì nel riposo entro il seno di Abramo. Da lontano il ricco vide nel suo riposo colui che egli aveva disprezzato nella sua miseria. Ora scegliti quale morte desiderare, e dimmi chi è morto bene, chi è morto male. Credo sia da preferire la morte del povero a quella del ricco, a meno che tu desideri essere sepolto con gli aromi e patire la sete negli inferi. Tu mi rispondi che ti auguri di starne lontano. Chiara credo dunque sia ormai la tua scelta. Imparerai dunque a morire bene, quando avrai imparato a vivere bene. Ricompensa di una vita buona è la vita eterna.

I cristiani imparino a staccarsi dal mondo e a crescere in Dio.
13. 14. Questi insegnamenti sono destinati ai cristiani. Se uno ascolta, ma non vuole imparare, questo non riguarda il seminatore della parola. Sassi o spine non impediscono alla sua mano di seminare: egli getta il seme che ha da spargere. Se avesse timore di spargere il seme sul terreno cattivo, non potrebbe raggiungere neanche il terreno buono. Noi gettiamo semi spargendoli con la nostra parola. C’è chi ci disprezza, chi ci critica, chi ci deride; ma se ci spaventassimo di costoro, smetteremmo di seminare, e al raccolto ci resterebbe di patire la fame. Consideriamo dunque il seme che cade su terra buona. Io so bene che se uno ascolta, e ascolta bene, in qualcosa muore, in qualcosa cresce: muore al peccato e cresce nella verità, si distacca dal mondo e cresce in Dio.

Qui è maestro il Cristo, che ha la sua cattedra in cielo.
14. 15. Per comprendere questo, consideriamo chi è il maestro che insegna qui. Non è un uomo qualsiasi, è l’Apostolo. Ascoltiamo la voce dell’Apostolo, ma non è lui che insegna. Lo dichiara lui: Volete una prova che Cristo insegna in me? 21. E` dunque Cristo che insegna, lui che, come ho detto, ha la cattedra in cielo. La sua scuola è qui sulla terra, è formata dal suo corpo: il capo insegna alle membra, la lingua parla a chi forma i piedi. Cristo insegna, prestiamogli ascolto, temiamolo, mettiamo in opera quello che dice. Non devi disprezzare Cristo in persona: per te egli è nato nella carne, avvolto in veste mortale, per te ebbe fame e sete, e sedette stanco al pozzo, e si addormentò nella barca per la fatica; per te ascoltò ingiurie che non meritava, e sopportò gli sputi che gli gettarono in faccia, e ricevette schiaffi: per te fu appeso alla croce, per te spirò, per te fu messo nel sepolcro. Come potresti non tener conto di tutte queste prove che il Cristo ti ha dato? E se vuoi sapere chi egli è, medita la frase del Vangelo che hai già ascoltato: Io e il Padre siamo una cosa sola 22.

Preghiera finale.
14. 16. Rivolgendoci ora al Signore, supplichiamolo per noi e per tutto il suo popolo qui presente con noi nella sua casa: si degni di custodirlo e di proteggerlo per Gesù Cristo suo Figlio e nostro Signore che con lui vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.

Scultura lignea di Colomba simbolegiante lo Spirito Santo

Scultura lignea di Colomba simbolegiante lo Spirito Santo dans immagini sacre SpiritoSanto

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PERCHÉ LA GUERRA NON PUÒ ESSERE CONDOTTA NEPPURE “IN NOME” DI DIO. – AMOS LUZZATTO

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LA VIOLENZA NELLA TRADIZIONE BIBLICA

PERCHÉ LA GUERRA NON PUÒ ESSERE CONDOTTA NEPPURE “IN NOME” DI DIO. – AMOS LUZZATTO

La violenza è un’imposizione esterna su individui o su gruppi di individui volta a far loro compiere azioni contro la propria scelta volontaria, o a sposare opinioni o intere teorie che contrastino il loro modo di essere o di comportarsi, o gli stessi loro radicati convincimenti. Questa imposizione può essere dovuta alla sproporzione di forza fra colui che si impone e colui che subisce l’imposizione, oppure alla imprevedibilità dell’evento esterno, che è a tal punto eccezionale, ancorché “possibile”, da non permettere a colui che ne è succube di approntare o escogitare qualsiasi difesa.

Deboli e forti
Non spenderemo troppe parole sulla violenza umana per antonomasia, che è quella della guerra. Ma una considerazione si impone. Quando si descrivono le gesta tattiche di un Alessandro Magno, di un Giulio Cesare, di un Napoleone, si coltiva volentieri l’idea di un singolo genio, tanto abile nelle mosse e contromosse da sconfiggere il più potente e agguerrito degli avversari, che è certamente forte e aggressivo, ma un tantino scemo o almeno goffo. Insomma, il genio contro il bruto. Può darsi anche che qualche volta succeda proprio così.
Credo, però, che il più delle volte il “più debole” (forse più debole numericamente) possieda strumenti bellici superiori (come l’arco lungo degli Inglesi ad Azincourt), giochi sulla sorpresa e sulle condizioni del terreno (come Napoleone ad Austerlitz) o sull’ “evento giudicato impossibile” (come nel caso dei Panzer tedeschi che attraversano il bosco delle Ardenne). La maggiore padronanza dei complessi elementi tecnici rende “più forte” quello che poteva superficialmente essere giudicato il “più debole”, e viceversa. Ma allora, David e Golia?
Golia appare il più forte fisicamente, è armato di spada, di lancia e di picca, mentre David ha da parte sua un bastone, una fionda e cinque pietre. Dietro di sé Golia ha i Filistei, David il Dio di Israele (I Sam 17, 40-46). In realtà, David sa benissimo adoperare la spada, ma la usa soltanto, dopo avere già abbattuto il suo avversario, per mozzargli la testa. Sul piano materiale, il vantaggio di David sta nell’uso appropriato che lui fa delle singole armi. Sul piano morale, nel convincimento di agire a nome di Colui cui “appartiene (o “spetta”?) la guerra”: “ki le H. ha-milchamà wenatan etkhem be-yadenu” (I Sam 17, 47).

Il nome di Dio e la guerra
Che cosa vuol dire, esattamente? Cerchiamo di dedurlo da tre brani biblici nei quali il nome di Dio è posto in parallelo alla parola “guerra”. Il primo è la Cantica del Mare (Es 15,1-19). Traducendo molto alla lettera, e pertanto omettendo in italiano la copula, leggiamo: “Il Signore guerriero, il Signore il Suo nome”. Non sembra esservi un rapporto logico tra il primo e il secondo emistichio. (c) Olympia Sembra quasi che il testo voglia sottolineare il parallelismo tra la parola guerriero e la parola nome. Nel secondo brano è appunto David che dice: “Tu vieni a me con spada, con lancia e con picca ma io vengo a te con il nome del Signore delle moltitudini, che tu hai insultato”.
Infine, il terzo brano (Sal 20,8): “Gli uni giungono con carri, gli altri con cavalli – ma noi ricorderemo il nome del Signore”.
È come se ci si dicesse che la guerra, l’ “arte della guerra”, nella quale l’uomo si sente potente e crede di poter affermare la sua forza, non può essere condotta neppure “in nome” di Dio (Gott mit uns), perché la guerra stessa non gli appartiene, non è uno strumento umano, ma è inclusa nelle facoltà divine (nel “nome” di Dio) che ne dispone come Egli ritiene più giusto – e basta. Sono coerenti con questa concezione varie narrazioni bibliche. A partire dalla guerra inverosimile che muove Abramo con i suoi garzoni contro ben quattro re per liberare suo nipote Lot. Guerra-lampo vittoriosa, mossa per giunta da un mite capostipite di miti e timidi Patriarchi! A continuare con l’annegamento nel Mar Rosso di tutte le truppe del Faraone, per pensare poi all’assedio di Gerusalemme mosso dal terribile re assiro Sancheriv, l’invincibile, sconfitto dalla mano divina. Ciò è coerente, infine, con Zaccaria 4, 6: “Non con la truppa e non con la forza, ha detto il Signore delle moltitudini, bensì con il Mio spirito”.

La “violenza ” di Dio
Se la stessa guerra, che è la maggiore delle violenze umane, non appartiene all’uomo ma a Dio – il quale pertanto la decide, nel suo sorgere, nella sua evoluzione, nelle sue conclusioni – non è influenzata dall’ “arte bellica umana”, anzi spesso la contraddice, che dire delle altre forme di violenza? Appartiene certamente a Dio la violenza della natura. Prima di tutto perché, oltre ad aver creato gli oggetti materiali nella loro sostanza, Egli ne ha prescritto le forme (Sal 26, 10; Pr. 8, 27 e 8, 29; Gb 38, 33) e ne ha stabilito le regole, le leggi di natura, come le chiamiamo noi moderni (Ger. 5, 22; Sal 28, 26 e 148, 6; Pr 8, 29). Le leggi prevedono anche eventi eccezionali, spesso cataclismi micidiali che noi non sappiamo prevedere, che sembrano contraddirle, a meno che queste ultime non siano totalmente espressione della volontà divina che, per definizione, è imprevedibile.
Questi cataclismi hanno a che fare con il comportamento o con la volontà umana?
Se si risponde negativamente, abbandonandosi a un rassegnato fatalismo, si nega nel contempo la Provvidenza divina e ci si colloca inevitabilmente su un terreno religiosamente agnostico. Dio si configura allora come un potere misteriosamente e imprevedibilmente antiumano, crudele e forse addirittura cinico. Alcuni cristiani potrebbero consolarsi dicendo che tale sarebbe propriamente il Dio degli Ebrei e non il Dio dell’Amore. Ma sarebbe una posizione molto debole, anche sul piano logico.
Se, invece, si risponde affermativamente, si accetta la violenza divina nella sua qualità di azione orientata, punitiva nei confronti dei malvagi, che ha lo scopo di salvaguardare dal peccato incombente coloro i quali ne sono ancora esenti. Tale è, ad esempio, il caso del diluvio universale ai tempi di Noè o quello della distruzione di Sodoma e Gomorra ai tempi di Abramo e di Lot. Vi è poi un caso ulteriore: la violenza divina esercitata nei confronti di quegli uomini che usano violenza nei confronti dei propri simili; ed è il caso dell’affogamento dell’esercito faraonico nel Mar Rosso, dopo l’attraversamento all’asciutto da parte degli Ebrei.
Ma è proprio questo modello che richiede un esame più approfondito, perché la violenza dell’uomo sull’uomo non ha nulla a che fare con la “legge del più forte” alla quale parrebbero ispirarsi i lottatori delle Olimpiadi nella antica Ellade. In quel caso, almeno all’apparenza, i contendenti dovrebbero partire da un piano di pari occasioni e possibilità. In altre parole, sarebbe il risultato della contesa l’unico metro possibile per stabilire chi fosse in partenza il più forte. È un modello che serve di bandiera anche ai fautori della libertà d’impresa, della libertà di concorrenza e di altre libertà ancora. È un modello bellissimo, che ha un solo difetto: non si verifica mai nella vita concreta.

Compassione e memoria
Gli Ebrei che attraversano il Mar Rosso sono gerim, che significa residenti precari, ai quali non spettano molti di quei diritti che spettano ai residenti stabili, chiamati nella Bibbia ezrachim. Per queste due categorie umane non esiste il filo di partenza eguale: il ger è, a priori, il più debole. Ora, la schiavizzazione degli Ebrei in Egitto è un modello, tristemente molto diffuso nella storia umana: violenza usata da chi è in partenza più forte nei confronti di chi è, già in partenza, più debole. È una violenza clamorosamente evidente ad Auschwitz; ma esiste anche laddove essa è occultata nei segreti dei conti bancari o nella precarietà del lavoro, e non per questo è meno reale.
La Bibbia respinge questo modello: “… E non opprimere il ger; voi ben conoscete il sentire del ger, perché siete stati gerim in terra d’Egitto” (Es 23,9). È un chiaro invito alla compassione (con-passione) un invito a quella comprensione per il debole che può provare solo colui che si è già trovato (o che è consapevole di potersi trovare) nella medesima situazione di inferiorità. Oggi essa viene chiamata spesso solidarietà.
È chiaro che si tratta di un sentimento al quale si può e si deve educare, ma che trova forti ostacoli nella società umana dove raramente si rinuncia al proprio vantaggio di partenza. Questa solidarietà richiede poi la conservazione della memoria della propria sperimentata inferiorità; e la memoria ha due difetti: si attenua con il passare del tempo ed è selettiva, molto spesso cancella ciò che disturba nel presente. Si può pertanto persino proclamare la memoria e nel contempo praticare l’oblio. E allora?
“Se lo tormenterai ed egli mi invocherà, darò ascolto alla sua invocazione. E mi adirerò, e vi ucciderò per spada; e le vostre donne diventeranno vedove e i vostri figli orfani”. (Es 22, 22-23). Questa è la “violenza di Dio” che sostituisce alla perdita della compassione, nutrita dalla memoria del passato, un avvenire non meno severo. Per molti basta il monito che deriva da questo modello di punizione, senza attendere la punizione stessa. Per molti altri, no: invece di accettare questo monito, essi si faranno pronti paladini di civiltà, vedendo in questo modello la ritorsione propria della Legge del taglione e la crudeltà del divino. Con orgoglio condurranno la loro battaglia per una civiltà più avanzata rispetto a quella della “vecchia” Bibbia. Ma intanto, il ger seguirà il suo destino.

Note
Presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane

Publié dans:ebraismo, STUDI |on 12 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI PER LA CELEBRAZIONE DELLA XLVI GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/messages/peace/documents/hf_ben-xvi_mes_20121208_xlvi-world-day-peace_it.html

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI PER LA CELEBRAZIONE DELLA XLVI GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

1° GENNAIO 2013

BEATI GLI OPERATORI DI PACE

1. Ogni anno nuovo porta con sé l’attesa di un mondo migliore. In tale prospettiva, prego Dio, Padre dell’umanità, di concederci la concordia e la pace, perché possano compiersi per tutti le aspirazioni di una vita felice e prospera.
A 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, che ha consentito di rafforzare la missione della Chiesa nel mondo, rincuora constatare che i cristiani, quale Popolo di Dio in comunione con Lui e in cammino tra gli uomini, si impegnano nella storia condividendo gioie e speranze, tristezze ed angosce [1], annunciando la salvezza di Cristo e promuovendo la pace per tutti.
In effetti, i nostri tempi, contrassegnati dalla globalizzazione, con i suoi aspetti positivi e negativi, nonché da sanguinosi conflitti ancora in atto e da minacce di guerra, reclamano un rinnovato e corale impegno nella ricerca del bene comune, dello sviluppo di tutti gli uomini e di tutto l’uomo.
Allarmano i focolai di tensione e di contrapposizione causati da crescenti diseguaglianze fra ricchi e poveri, dal prevalere di una mentalità egoistica e individualista espressa anche da un capitalismo finanziario sregolato. Oltre a svariate forme di terrorismo e di criminalità internazionale, sono pericolosi per la pace quei fondamentalismi e quei fanatismi che stravolgono la vera natura della religione, chiamata a favorire la comunione e la riconciliazione tra gli uomini.
E tuttavia, le molteplici opere di pace, di cui è ricco il mondo, testimoniano l’innata vocazione dell’umanità alla pace. In ogni persona il desiderio di pace è aspirazione essenziale e coincide, in certa maniera, con il desiderio di una vita umana piena, felice e ben realizzata. In altri termini, il desiderio di pace corrisponde ad un principio morale fondamentale, ossia, al dovere-diritto di uno sviluppo integrale, sociale, comunitario, e ciò fa parte del disegno di Dio sull’uomo. L’uomo è fatto per la pace che è dono di Dio.
Tutto ciò mi ha suggerito di ispirarmi per questo Messaggio alle parole di Gesù Cristo: « Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio » (Mt 5,9).

La beatitudine evangelica
2. Le beatitudini, proclamate da Gesù (cfr Mt 5,3-12 e Lc 6,20-23), sono promesse. Nella tradizione biblica, infatti, quello della beatitudine è un genere letterario che porta sempre con sé una buona notizia, ossia un vangelo, che culmina in una promessa. Quindi, le beatitudini non sono solo raccomandazioni morali, la cui osservanza prevede a tempo debito – tempo situato di solito nell’altra vita – una ricompensa, ossia una situazione di futura felicità. La beatitudine consiste, piuttosto, nell’adempimento di una promessa rivolta a tutti coloro che si lasciano guidare dalle esigenze della verità, della giustizia e dell’amore. Coloro che si affidano a Dio e alle sue promesse appaiono spesso agli occhi del mondo ingenui o lontani dalla realtà. Ebbene, Gesù dichiara ad essi che non solo nell’altra vita, ma già in questa scopriranno di essere fi gli di Dio, e che da sempre e per sempre Dio è del tutto solidale con loro. Comprenderanno che non sono soli, perché Egli è dalla parte di coloro che s’impegnano per la verità, la giustizia e l’amore. Gesù, rivelazione dell’amore del Padre, non esita ad offrirsi nel sacrificio di se stesso. Quando si accoglie Gesù Cristo, Uomo-Dio, si vive l’esperienza gioiosa di un dono immenso: la condivisione della vita stessa di Dio, cioè la vita della grazia, pegno di un’esistenza pienamente beata. Gesù Cristo, in particolare, ci dona la pace vera che nasce dall’incontro fiducioso dell’uomo con Dio.
La beatitudine di Gesù dice che la pace è dono messianico e opera umana ad un tempo. In effetti, la pace presuppone un umanesimo aperto alla trascendenza. È frutto del dono reciproco, di un mutuo arricchimento, grazie al dono che scaturisce da Dio e permette di vivere con gli altri e per gli altri. L’etica della pace è etica della comunione e della condivisione. È indispensabile, allora, che le varie culture odierne superino antropologie ed etiche basate su assunti teorico-pratici meramente soggettivistici e pragmatici, in forza dei quali i rapporti della convivenza vengono ispirati a criteri di potere o di profitto, i mezzi diventano fini e viceversa, la cultura e l’educazione sono centrate soltanto sugli strumenti, sulla tecnica e sull’efficienza. Precondizione della pace è lo smantellamento della dittatura del relativismo e dell’assunto di una morale totalmente autonoma, che preclude il riconoscimento dell’imprescindibile legge morale naturale scritta da Dio nella coscienza di ogni uomo. La pace è costruzione della convivenza in termini razionali e morali, poggiando su un fondamento la cui misura non è creata dall’uomo, bensì da Dio. « Il Signore darà potenza al suo popolo, benedirà il suo popolo con la pace », ricorda il Salmo 29 (v. 11).

La pace: dono di Dio e opera dell’uomo
3. La pace concerne l’integrità della persona umana ed implica il coinvolgimento di tutto l’uomo. È pace con Dio, nel vivere secondo la sua volontà. È pace interiore con se stessi, e pace esteriore con il prossimo e con tutto il creato. Comporta principalmente, come scrisse il beato Giovanni XXIII nell’Enciclica Pacem in terris, di cui tra pochi mesi ricorrerà il cinquantesimo anniversario, la costruzione di una convivenza fondata sulla verità, sulla libertà, sull’amore e sulla giustizia [2]. La negazione di ciò che costituisce la vera natura dell’essere umano, nelle sue dimensioni essenziali, nella sua intrinseca capacità di conoscere il vero e il bene e, in ultima analisi, Dio stesso, mette a repentaglio la costruzione della pace. Senza la verità sull’uomo, iscritta dal Creatore nel suo cuore, la libertà e l’amore sviliscono, la giustizia perde il fondamento del suo esercizio.
Per diventare autentici operatori di pace sono fondamentali l’attenzione alla dimensione trascendente e il colloquio costante con Dio, Padre misericordioso, mediante il quale si implora la redenzione conquistataci dal suo Figlio Unigenito. Così l’uomo può vincere quel germe di oscuramento e di negazione della pace che è il peccato in tutte le sue forme: egoismo e violenza, avidità e volontà di potenza e di dominio, intolleranza, odio e strutture ingiuste.
La realizzazione della pace dipende soprattutto dal riconoscimento di essere, in Dio, un’unica famiglia umana. Essa si struttura, come ha insegnato l’Enciclica Pacem in terris, mediante relazioni interpersonali ed istituzioni sorrette ed animate da un « noi » comunitario, implicante un ordine morale, interno ed esterno, ove si riconoscono sinceramente, secondo verità e giustizia, i reciproci diritti e i vicendevoli doveri. La pace è ordine vivificato ed integrato dall’amore, così da sentire come propri i bisogni e le esigenze altrui, fare partecipi gli altri dei propri beni e rendere sempre più diffusa nel mondo la comunione dei valori spirituali. È ordine realizzato nella libertà, nel modo cioè che si addice alla dignità di persone, che per la loro stessa natura razionale, assumono la responsabilità del proprio operare [3].
La pace non è un sogno, non è un’utopia: è possibile. I nostri occhi devono vedere più in profondità, sotto la superficie delle apparenze e dei fenomeni, per scorgere una realtà positiva che esiste nei cuori, perché ogni uomo è creato ad immagine di Dio e chiamato a crescere, contribuendo all’edificazione di un mondo nuovo. Infatti, Dio stesso, mediante l’incarnazione del Figlio e la redenzione da Lui operata, è entrato nella storia facendo sorgere una nuova creazione e una nuova alleanza tra Dio e l’uomo (cfr Ger 31,31-34), dandoci la possibilità di avere « un cuore nuovo » e « uno spirito nuovo » (cfr Ez 36,26).
Proprio per questo, la Chiesa è convinta che vi sia l’urgenza di un nuovo annuncio di Gesù Cristo, primo e principale fattore dello sviluppo integrale dei popoli e anche della pace. Gesù, infatti, è la nostra pace, la nostra giustizia, la nostra riconciliazione (cfr Ef 2,14; 2 Cor 5,18). L’operatore di pace, secondo la beatitudine di Gesù, è colui che ricerca il bene dell’altro, il bene pieno dell’anima e del corpo, oggi e domani.
Da questo insegnamento si può evincere che ogni persona e ogni comunità – religiosa, civile, educativa e culturale –, è chiamata ad operare la pace. La pace è principalmente realizzazione del bene comune delle varie società, primarie ed intermedie, nazionali, internazionali e in quella mondiale. Proprio per questo si può ritenere che le vie di attuazione del bene comune siano anche le vie da percorrere per ottenere la pace.

Operatori di pace sono coloro che amano, difendono e promuovono la vita nella sua integralità
4. Via di realizzazione del bene comune e della pace è anzitutto il rispetto per la vita umana, considerata nella molteplicità dei suoi aspetti, a cominciare dal suo concepimento, nel suo svilupparsi, e sino alla sua fine naturale. Veri operatori di pace sono, allora, coloro che amano, difendono e promuovono la vita umana in tutte le sue dimensioni: personale, comunitaria e trascendente. La vita in pienezza è il vertice della pace. Chi vuole la pace non può tollerare attentati e delitti contro la vita.
Coloro che non apprezzano a sufficienza il valore della vita umana e, per conseguenza, sostengono per esempio la liberalizzazione dell’aborto, forse non si rendono conto che in tal modo propongono l’inseguimento di una pace illusoria. La fuga dalle responsabilità, che svilisce la persona umana, e tanto più l’uccisione di un essere inerme e innocente, non potranno mai produrre felicità o pace. Come si può, infatti, pensare di realizzare la pace, lo sviluppo integrale dei popoli o la stessa salvaguardia dell’ambiente, senza che sia tutelato il diritto alla vita dei più deboli, a cominciare dai nascituri? Ogni lesione alla vita, specie nella sua origine, provoca inevitabilmente danni irreparabili allo sviluppo, alla pace, all’ambiente. Nemmeno è giusto codificare in maniera subdola falsi diritti o arbitrii, che, basati su una visione riduttiva e relativistica dell’essere umano e sull’abile utilizzo di espressioni ambigue, volte a favorire un preteso diritto all’aborto e all’eutanasia, minacciano il diritto fondamentale alla vita.
Anche la struttura naturale del matrimonio va riconosciuta e promossa, quale unione fra un uomo e una donna, rispetto ai tentativi di renderla giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione che, in realtà, la danneggiano e contribuiscono alla sua destabilizzazione, oscurando il suo carattere particolare e il suo insostituibile ruolo sociale.
Questi principi non sono verità di fede, né sono solo una derivazione del diritto alla libertà religiosa. Essi sono inscritti nella natura umana stessa, riconoscibili con la ragione, e quindi sono comuni a tutta l’umanità. L’azione della Chiesa nel promuoverli non ha dunque carattere confessionale, ma è rivolta a tutte le persone, prescindendo dalla loro affiliazione religiosa. Tale azione è tanto più necessaria quanto più questi principi vengono negati o mal compresi, perché ciò costituisce un’offesa contro la verità della persona umana, una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace.
Perciò, è anche un’importante cooperazione alla pace che gli ordinamenti giuridici e l’amministrazione della giustizia riconoscano il diritto all’uso del principio dell’obiezione di coscienza nei confronti di leggi e misure governative che attentano contro la dignità umana, come l’aborto e l’eutanasia.
Tra i diritti umani basilari, anche per la vita pacifica dei popoli, vi è quello dei singoli e delle comunità alla libertà religiosa. In questo momento storico, diventa sempre più importante che tale diritto sia promosso non solo dal punto di vista negativo, come libertà da – ad esempio, da obblighi e costrizioni circa la libertà di scegliere la propria religione –, ma anche dal punto di vista positivo, nelle sue varie articolazioni, come libertà di: ad esempio, di testimoniare la propria religione, di annunciare e comunicare il suo insegnamento; di compiere attività educative, di beneficenza e di assistenza che permettono di applicare i precetti religiosi; di esistere e agire come organismi sociali, strutturati secondo i principi dottrinali e i fini istituzionali che sono loro propri. Purtroppo, anche in Paesi di antica tradizione cristiana si stanno moltiplicando gli episodi di intolleranza religiosa, specie nei confronti del cristianesimo e di coloro che semplicemente indossano i segni identitari della propria religione.
L’operatore di pace deve anche tener presente che, presso porzioni crescenti dell’opinione pubblica, le ideologie del liberismo radicale e della tecnocrazia insinuano il convincimento che la crescita economica sia da conseguire anche a prezzo dell’erosione della funzione sociale dello Stato e delle reti di solidarietà della società civile, nonché dei diritti e dei doveri sociali. Ora, va considerato che questi diritti e doveri sono fondamentali per la piena realizzazione di altri, a cominciare da quelli civili e politici.
Tra i diritti e i doveri sociali oggi maggiormente minacciati vi è il diritto al lavoro. Ciò è dovuto al fatto che sempre più il lavoro e il giusto riconoscimento dello statuto giuridico dei lavoratori non vengono adeguatamente valorizzati, perché lo sviluppo economico dipenderebbe soprattutto dalla piena libertà dei mercati. Il lavoro viene considerato così una variabile dipendente dei meccanismi economici e finanziari. A tale proposito, ribadisco che la dignità dell’uomo, nonché le ragioni economiche, sociali e politiche, esigono che si continui « a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti » [4]. In vista della realizzazione di questo ambizioso obiettivo è precondizione una rinnovata considerazione del lavoro, basata su principi etici e valori spirituali, che ne irrobustisca la concezione come bene fondamentale per la persona, la famiglia, la società. A un tale bene corrispondono un dovere e un diritto che esigono coraggiose e nuove politiche del lavoro per tutti.
Costruire il bene della pace mediante un nuovo modello di sviluppo e di economia
5. Da più parti viene riconosciuto che oggi è necessario un nuovo modello di sviluppo, come anche un nuovo sguardo sull’economia. Sia uno sviluppo integrale, solidale e sostenibile, sia il bene comune esigono una corretta scala di beni-valori, che è possibile strutturare avendo Dio come riferimento ultimo. Non è sufficiente avere a disposizione molti mezzi e molte opportunità di scelta, pur apprezzabili. Tanto i molteplici beni funzionali allo sviluppo, quanto le opportunità di scelta devono essere usati secondo la prospettiva di una vita buona, di una condotta retta che riconosca il primato della dimensione spirituale e l’appello alla realizzazione del bene comune. In caso contrario, essi perdono la loro giusta valenza, finendo per assurgere a nuovi idoli.
Per uscire dall’attuale crisi finanziaria ed economica – che ha per effetto una crescita delle disuguaglianze – sono necessarie persone, gruppi, istituzioni che promuovano la vita favorendo la creatività umana per trarre, perfino dalla crisi, un’occasione di discernimento e di un nuovo modello economico. Quello prevalso negli ultimi decenni postulava la ricerca della massimizzazione del profitto e del consumo, in un’ottica individualistica ed egoistica, intesa a valutare le persone solo per la loro capacità di rispondere alle esigenze della competitività. In un’altra prospettiva, invece, il vero e duraturo successo lo si ottiene con il dono di sé, delle proprie capacità intellettuali, della propria intraprendenza, poiché lo sviluppo economico vivibile, cioè autenticamente umano, ha bisogno del principio di gratuità come espressione di fraternità e della logica del dono [5]. Concretamente, nell’attività economica l’operatore di pace si configura come colui che instaura con i collaboratori e i colleghi, con i committenti e gli utenti, rapporti di lealtà e di reciprocità. Egli esercita l’attività economica per il bene comune, vive il suo impegno come qualcosa che va al di là del proprio interesse, a beneficio delle generazioni presenti e future. Si trova così a lavorare non solo per sé, ma anche per dare agli altri un futuro e un lavoro dignitoso.
Nell’ambito economico, sono richieste, specialmente da parte degli Stati, politiche di sviluppo industriale ed agricolo che abbiano cura del progresso sociale e dell’universalizzazione di uno Stato di diritto e democratico. È poi fondamentale ed imprescindibile la strutturazione etica dei mercati monetari, finanziari e commerciali; essi vanno stabilizzati e maggiormente coordinati e controllati, in modo da non arrecare danno ai più poveri. La sollecitudine dei molteplici operatori di pace deve inoltre volgersi – con maggior risolutezza rispetto a quanto si è fatto sino ad oggi – a considerare la crisi alimentare, ben più grave di quella finanziaria. Il tema della sicurezza degli approvvigionamenti alimentari è tornato ad essere centrale nell’agenda politica internazionale, a causa di crisi connesse, tra l’altro, alle oscillazioni repentine dei prezzi delle materie prime agricole, a comportamenti irresponsabili da parte di taluni operatori economici e a un insufficiente controllo da parte dei Governi e della Comunità internazionale. Per fronteggiare tale crisi, gli operatori di pace sono chiamati a operare insieme in spirito di solidarietà, dal livello locale a quello internazionale, con l’obiettivo di mettere gli agricoltori, in particolare nelle piccole realtà rurali, in condizione di poter svolgere la loro attività in modo dignitoso e sostenibile dal punto di vista sociale, ambientale ed economico.
Educazione per una cultura di pace: il ruolo della famiglia e delle istituzioni
6. Desidero ribadire con forza che i molteplici operatori di pace sono chiamati a coltivare la passione per il bene comune della famiglia e per la giustizia sociale, nonché l’impegno di una valida educazione sociale.
Nessuno può ignorare o sottovalutare il ruolo decisivo della famiglia, cellula base della società dal punto di vista demografico, etico, pedagogico, economico e politico. Essa ha una naturale vocazione a promuovere la vita: accompagna le persone nella loro crescita e le sollecita al mutuo potenziamento mediante la cura vicendevole. In specie, la famiglia cristiana reca in sé il germinale progetto dell’educazione delle persone secondo la misura dell’amore divino. La famiglia è uno dei soggetti sociali indispensabili nella realizzazione di una cultura della pace. Bisogna tutelare il diritto dei genitori e il loro ruolo primario nell’educazione dei figli, in primo luogo nell’ambito morale e religioso. Nella famiglia nascono e crescono gli operatori di pace, i futuri promotori di una cultura della vita e dell’amore [6].
In questo immenso compito di educazione alla pace sono coinvolte in particolare le comunità religiose. La Chiesa si sente partecipe di una così grande responsabilità attraverso la nuova evangelizzazione, che ha come suoi cardini la conversione alla verità e all’amore di Cristo e, di conseguenza, la rinascita spirituale e morale delle persone e delle società. L’incontro con Gesù Cristo plasma gli operatori di pace impegnandoli alla comunione e al superamento dell’ingiustizia.
Una missione speciale nei confronti della pace è ricoperta dalle istituzioni culturali, scolastiche ed universitarie. Da queste è richiesto un notevole contributo non solo alla formazione di nuove generazioni di leader, ma anche al rinnovamento delle istituzioni pubbliche, nazionali e internazionali. Esse possono anche contribuire ad una riflessione scientifica che radichi le attività economiche e finanziarie in un solido fondamento antropologico ed etico. Il mondo attuale, in particolare quello politico, necessita del supporto di un nuovo pensiero, di una nuova sintesi culturale, per superare tecnicismi ed armonizzare le molteplici tendenze politiche in vista del bene comune. Esso, considerato come insieme di relazioni interpersonali ed istituzionali positive, a servizio della crescita integrale degli individui e dei gruppi, è alla base di ogni vera educazione alla pace.
Una pedagogia dell’operatore di pace
7. Emerge, in conclusione, la necessità di proporre e promuovere una pedagogia della pace. Essa richiede una ricca vita interiore, chiari e validi riferimenti morali, atteggiamenti e stili di vita appropriati. Difatti, le opere di pace concorrono a realizzare il bene comune e creano l’interesse per la pace, educando ad essa. Pensieri, parole e gesti di pace creano una mentalità e una cultura della pace, un’atmosfera di rispetto, di onestà e di cordialità. Bisogna, allora, insegnare agli uomini ad amarsi e a educarsi alla pace, e a vivere con benevolenza, più che con semplice tolleranza. Incoraggiamento fondamentale è quello di « dire no alla vendetta, di riconoscere i propri torti, di accettare le scuse senza cercarle, e infine di perdonare » [7], in modo che gli sbagli e le offese possano essere riconosciuti in verità per avanzare insieme verso la riconciliazione. Ciò richiede il diffondersi di una pedagogia del perdono. Il male, infatti, si vince col bene, e la giustizia va ricercataimitando Dio Padre che ama tutti i suoi fi gli (cfr Mt 5,21-48). È un lavoro lento, perché suppone un’evoluzione spirituale, un’educazione ai valori più alti, una visione nuova della storia umana. Occorre rinunciare alla falsa pace che promettono gli idoli di questo mondo e ai pericoli che la accompagnano, a quella falsa pace che rende le coscienze sempre più insensibili, che porta verso il ripiegamento su se stessi, verso un’esistenza atrofizzata vissuta nell’indifferenza. Al contrario, la pedagogia della pace implica azione, compassione, solidarietà, coraggio e perseveranza.
Gesù incarna l’insieme di questi atteggiamenti nella sua esistenza, fi no al dono totale di sé, fino a « perdere la vita » (cfr Mt 10,39; Lc 17,33; Gv 12,25). Egli promette ai suoi discepoli che, prima o poi, faranno la straordinaria scoperta di cui abbiamo parlato inizialmente, e cioè che nel mondo c’è Dio, il Dio di Gesù, pienamente solidale con gli uomini. In questo contesto, vorrei ricordare la preghiera con cui si chiede a Dio di renderci strumenti della sua pace, per portare il suo amore ove è odio, il suo perdono ove è offesa, la vera fede ove è dubbio. Da parte nostra, insieme al beato Giovanni XXIII, chiediamo a Dio che illumini i responsabili dei popoli, affinché accanto alla sollecitudine per il giusto benessere dei loro cittadini garantiscano e difendano il prezioso dono della pace; accenda le volontà di tutti a superare le barriere che dividono, a rafforzare i vincoli della mutua carità, a comprendere gli altri e a perdonare coloro che hanno recato ingiurie, così che in virtù della sua azione, tutti i popoli della terra si affratellino e fiorisca in essi e sempre regni la desideratissima pace [8].
Con questa invocazione, auspico che tutti possano essere veri operatori e costruttori di pace, in modo che la città dell’uomo cresca in fraterna concordia, nella prosperità e nella pace.

Dal Vaticano, 8 Dicembre 2012

 

QUOTE

La liberté sera toujours plus forte que la barbarie. Notre meilleure arme, c’est notre unité.

Publié dans:STUDI |on 9 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

Icona « Teofania » o Battesimo del Signore

Icona

https://icdacanadasection.wordpress.com/discover/meeting-jesus/

Publié dans:immagini sacre |on 9 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

MEDITAZIONE SU ISAIA 55,1

http://erikaprovinzano.com/2009/02/meditazione-su-isaia-551/

MEDITAZIONE SU ISAIA 55,1

Isaia 55,1
“O voi tutti assetati venite all’acqua, chi non ha denaro venga ugualmente; comprate e mangiate senza denaro e, senza spesa, vino e latte.”

Riconoscere di avere sete.
Sentirsi inadeguati per avvicinarsi.
Non mi avvicinerei mai a un chioschetto dove vedo che vendono bibite se so di non avere nemmeno 1 euro in tasca. Non posso aspettarmi che la mia sete sia un problema del venditore di bibite.
“Chi non ha denaro venga ugualmente”: è come se il Signore prendesse in esame tutte le domande che uno si pone in cuor suo davanti a una vetrina. È come se il Signore fosse dentro al negozio e ti invitasse ad entrare: “Tu! Si proprio tu! Dico a te: tu che non hai denaro… entra comunque! Vieni! Compra senza denaro tutto quello che vuoi.”
Vino e Latte: supefluo e necessario.
Chi ha detto che nel negozio di Dio c’è solo lo stretto indispensabile? In Dio c’è ogni sorta di abbondanza. Lui ha creato ogni cosa. Lui possiede ogni cosa.
Comprare senza denaro. Il denaro ti da il potere di possedere qualcosa.
Quando compri hai la chiara percezione del “legittimo possesso”. Se non hai denaro senti che certe gioie, certe soddisfazioni ti sono precluse. Nel peggiore dei casi, anche le cose necessarie alla sopravvivenza ti sono precluse.
Vino e Latte:
Il vino è la bevanda degli Adulti e il latte è la bevanda dei bambini. Ce n’è per tutti.
Il bambino non conosce il principio alla base dell’acquisto e cioè che ci vogliono i soldi per comprare ad esempio il latte. Per un bambino, il fatto che una cosa sia davanti a lui, è sufficiente perchè ne rivendichi la proprietà.
Ma il Signore non parla solo di latte, ma parla anche di vino: se da adulto, posso accettare che il Signore renda gratuito il “latte” (perchè lo riconosco come alimento indispensabile), il fatto che faccia lo stesso con il “vino” (con una cosa che è per così dire superflua) mi confonde, e in un certo senso mi spiazza.
Come a dire: “capisco che tu mi regali il latte, ma perchè anche la coca-cola? Perchè li poni sullo stesso piano?”
Se entrassi in un negozio dove ogni cosa che voglio comprare è gratuita, diventerebbe il mio negozio preferito! :) Insomma, perchè spendere soldi quando hai trovato un posto in cui c’è tutto ed è anche gratis?
Sembra che il Signore mi dica: “Prendi TUTTO da me”. E quello che mi tenta umanamente, è proprio il fatto che ci sia scritto GRATIS.
Ma ne traggo un altro insegnamento: la scritta “GRATIS”, mi mostra che il Signore è un abile esperto di marketing! :) Conosce cos’è che attira la clientela e cos’è che crea “fidelizzazione della clientela”.
Nell’antico testamento c’è chi si è venduto la primogenitura per un piatto di lenticchie.
Dio conosce le nostre debolezze e per evitare che barattiamo la nostra “regalità” di Figli di Dio, per le cose che a questo mondo vogliono tutti, inventa un sistema per cui è sicuro di non perderci: cioè, ci da lui tutto, a patto che restiamo vicini a Lui.
Una mamma, se vede un figlio che cerca di arrivare a tutti i costi a qualcosa che vuole, che cosa dice? “Fermo! Aspetta! …ora te lo da la mamma!” Questo per la mamma è garanzia che il figlio non corra nessun pericolo, ed è garanzia di stimolare la fiducia del figlio nella “sua grazia”.
In parole povere il Signore ci riempie le tasche di caramelle per evitare che desideriamo quelle degli sconosciuti :)
Ancora una volta “i Suoi pensieri non sono i nostri pensieri”.
I supermercati normalmente, mettono sul banco degli assaggini per fidelizzare la clientela: ti permettono di provare una piccolissima parte dei loro prodotti perchè tu ti convinca di quello che ti possono offrire e finisca per acquistare sempre da loro.
Il negozio di Gesù è differente: gli assaggini sono la gratuità di tutti i prodotti e il vero prodotto che lui vuole che tu abbia, è la sua amicizia. Essere amici di Dio, non solo ti garantisce sempre cibi di prima qualità sulla tua tavola, ma l’onore di ricervere queste primizie direttamente dalle mani di Dio onnipotente, che è l’unico vero proprietario di ogni cosa, perchè l’ha creata.
“Perchè vi affannate per ciò che mangerete e per come vestirete? Il Padre vostro sa che ne avete bisogno”. Ed essendo lui il proprietario di tutto perchè mi preoccupo per come farò?
Ho ancora paura che qualcosa sfugga al suo controllo, ma nulla può sfuggire al controllo di chi ha creato tutto, perchè nulla ci sarebbe se non l’avesse creata Lui.
Prendiamo ad esempio un acquario: immaginiamo che io sia un pesce che Dio ha desiderato tanto; mi ha presa, mi ha messa nell’acquario. Io nuoto dentro l’acquario. Ci sono piante, sassi, oggetti vari… e altri pesci. Tutte cose che sono lì non indipendentemente da Dio, ma sempre e solo perchè Dio le ha prese e ce le ha messe dentro.
Ad un certo punto, incontro un pirana: la mia reazione immediata è quella di scappare, temendo che Dio non sappia quanto male può farmi un pirana essendo io solo un pesce rosso. Ma come posso credere che Dio non sappia che in quell’acquario c’è un pirana? Non ce l’ha forse messo lui?
E mi domando: credo con tutta me stessa che la mia storia è sotto il “controllo” di Dio?
Divido gli eventi della mia vita, passati, presenti e soprattutto futuri: in quanti degli eventi della mia vita, percepisco la Signoria di Cristo? E in quanta della mia vita sono terrorizzata dal credere che sia sotto il dominio della casualità?
“Tutto è stato posto sotto i suoi piedi!”
Se è così, ed è così, ecco allora cosa devo fare: devo organizzare tutta la mia vita di modo che ogni cosa sia posta sotto la Signoria di Cristo.
Ed ecco subito affacciarsi le prime paure: i miei progetti di evangelizzazione! Come farò a realizzare i miei progetti di Evangelizzazione?
Lo faccio per te, è vero, ma credo di essere sola in questo. Se solo riuscissi a ricordare che il progetto di evangelizzazione è prima di tutto il tuo, crederei senza esitare che TU, unico vero proprietario di ogni cosa, puoi provvedermi tutto ciò di cui ho bisogno.
Ecco che ho sete, ho sete di fare qualcosa per te… ma non ho denaro. Tu mi darai l’acqua.
Ecco che ho fame, ho fame di servirti… e tu mi provvedi sia il vino, sia il latte.
Ecco allora come questa Tua Parola, parla oggi al mio cuore:
“O voi tutti che avete una qualunque necessità venite a prendere quello che vi serve, chi non ha denaro venga ugualmente.”
“Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”
Perdona la mia poca fede Signore e permettimi ancora di sedere davanti alla tua Signoria, per contemplarti, adorarti e così permetterti di prendere il posto che ti spetta come Signore della mia vita.

Amen,
Erika.

BATTESIMO DI GESÙ, 11 GENNAIO: « USCENDO DALL’ACQUA VIDE APRIRSI I CIELI E LO SPIRITO DISCENDERE SU DI LUI COME UNA COLOMBA »

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/02-annoB/14-15/Omelie/5-Natale/05-Battesimo-B/12-Battesimo-B-2015-SC.htm

(metto la stessa Omelia che posto sul blog « la pagina di San Paolo » perché mi sembra la migliore)

11 GENNAIO 2015 | BATTESIMO DI GESÙ – ANNO B | APPUNTI PER LA LECTIO

« USCENDO DALL’ACQUA VIDE APRIRSI I CIELI E LO SPIRITO DISCENDERE SU DI LUI COME UNA COLOMBA »

Credo che sarebbe un rimpicciolire la grandiosità e la ricchezza di contenuto della celebrazione liturgica del battesimo del Signore, se la interpretassimo esclusivamente o prevalentemente in chiave di anticipazione « prefigurativa » del nostro battesimo, come il più delle volte avviene. Il battesimo di Gesù ha un significato di « consacrazione » messianica e di proclamazione di lui come « Figlio di Dio » davanti al mondo: qualcosa, dunque, che riguarda soprattutto lui e la sua missione di salvezza in mezzo agli uomini. Il riferimento al nostro battesimo è solo una conseguenza, che dal battesimo di Gesù assume tutta la sua pienezza di significato.
Le riflessioni che seguono saranno perciò orientate a cogliere la dimensione « cristologica » di questo evento pieno di mistero, che ha indubbiamente colpito la curiosità e l’attenzione dei primi cristiani, se di esso fanno parola, sia pure in forma diversa, tutti e quattro i Vangeli e ripetutamente gli Atti degli Apostoli (1,5.22; 13,24, ecc.).
« Io vi ho battezzati con acqua… »
Il brano di Vangelo di Marco ci aiuta a « intravedere » qualcosa del misterioso evento che si è verificato in occasione del battesimo di Gesù: più esatto, però, sarebbe dire che è il battesimo stesso di Gesù, evento salvifico pieno di mistero, che viene come commentato e dilucidato sia dalle parole di Giovanni Battista che dall’irruzione dello Spirito Santo « in forma di colomba » sopra di lui. Centrale perciò rimane il « gesto » di Gesù che domanda di essere battezzato da Giovanni: tutto il resto tende a farci capire e a farci interpretare quel gesto!
Come è facile vedere, il brano di Vangelo, che ci è proposto per questa Domenica, si divide in due parti: la prima ci presenta il Battista che rende la sua testimonianza al Cristo (vv. 7-8); la seconda ci descrive la scena del battesimo di Gesù (vv. 9-11). Però è evidente che la prima è ordinata alla seconda e la seconda è illuminata dalla prima; perciò devono essere studiate congiuntamente.
Precedentemente Marco con rapidi tratti ci aveva presentato il Battista che, vestito alla maniera degli antichi profeti, « predicava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati » (v. 4). L’evangelista sottolinea ancora che moltissimi da tutta la Giudea e da Gerusalemme andavano a farsi « battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati » (v. 5).
A differenza degli altri evangelisti, egli non ci riferisce nulla sulla predicazione del Battista, salvo le parole sul « più forte » che verrà dopo di lui e che battezzerà « con lo Spirito Santo » invece che con l’acqua (vv. 7-8). Secondo il suo stile, Marco è più preso dai fatti che dalle parole: l’insegnamento più valido viene sempre da ciò che si fa, più che da ciò che si dice! E l’insegnamento del Battista è tutto nel « significato » del rito che egli amministrava.
Il giudaismo conosceva in quel tempo più di un rito di purificazione e di bagno sacro. I « monaci » di Qumran si purificavano ogni giorno. Esisteva anche l’uso di « battezzare » i pagani convertiti alla fede nel Dio d’Israele. All’esterno, perciò, il battesimo di Giovanni rassomigliava a tanti altri riti di abluzione in uso presso gli Ebrei del tempo: in realtà, però, il suo significato era fondamentalmente « diverso ». E questo per tre motivi.
Il primo, perché voleva essere una pubblica accusa dei propri peccati ed un impegno pubblico a « convertirsi » e a rinnovarsi interiormente: proprio per questo i sacerdoti e i farisei non vollero sottomettersi a quel rito che, di fatto, contestava le loro sicurezze e la loro chiusura alle nuove esigenze del regno di Dio, che già bussava alle porte.
Il secondo motivo era costituito dalla sua stessa ambientazione geografica: Giovanni amministrava il battesimo in una zona desertica (v. 4), lungo il fiume Giordano (v. 5).
Il « deserto » richiama subito alla mente la lunga peregrinazione degli Ebrei, liberati dalla schiavitù di Egitto, alla ricerca della terra promessa; il Giordano, poi, ricordava la prodigiosa traversata del fiume, che rappresentava l’ultimo ostacolo per l’ingresso d’Israele nella Palestina, sotto la guida di Giosuè che fece erigere un cippo di dodici pietre in ricordo di quel prodigioso avvenimento (Gs 4,21-23).
Con tutto questo Giovanni voleva chiaramente alludere ad un nuovo « esodo » e ad una nuova « salvezza » che si sarebbe realizzata non per opera sua, ma per opera di colui che egli, per disposizione divina, era venuto ad « annunziare » a Israele e al mondo.
« … ma egli vi battezzerà con lo Spirito Santo »
E così veniamo al terzo motivo per cui il battesimo di Giovanni era un rito di purificazione completamente « diverso » da tutti gli altri in uso al suo tempo: esso era ordinato ad annunciare e a « predisporre » la venuta del Messia, di cui delineava allusivamente la missione. Non aveva perciò tanto valore in sé, quanto per quello che preannunciava.
È quanto ricaviamo appunto dalle parole (le uniche che Marco mette in bocca a Giovanni!), con cui il precursore presenta Gesù alla folla che viene a farsi battezzare da lui: « Dopo di me viene uno che è più forte di me e al quale io non son degno di chinarmi per sciogliere i legacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzati con acqua, ma egli vi battezzerà con lo Spirito Santo » (vv. 7-8).
L’immagine del « più forte » evoca le antiche speranze messianiche dell’eroe divino, che in maniera efficace e coraggiosa interviene per liberare gli oppressi: « Si può forse strappare la preda al forte? Oppure può un prigioniero sfuggire al tiranno? Eppure dice il Signore: « Anche il prigioniero sarà strappato al forte, la preda sfuggirà al tiranno. Io avverserò i tuoi avversari; io salverò i tuoi figli »" (Is 49,24-25).
Nella tradizione cristiana primitiva Gesù sarà presentato appunto come « il più forte » che vince l’avversario, Satana, e libera gli oppressi. La missione di Giovanni è precisamente quella di far spazio al « più forte » che, pur venendo « dopo » di lui, gli passerà « avanti » e di fronte al quale egli è poco meno che un servo che « scioglie i legacci dei sandali » al suo padrone.
Proprio perché « più forte », il Messia avrà possibilità di rinnovare e di trasformare il cuore degli uomini molto più di quello che non riuscisse a fare il battesimo di sola « acqua » di Giovanni: « Egli vi battezzerà con lo Spirito Santo » (v. 8).
Queste ultime parole vogliono certamente richiamare a quella « pienezza » trasformante dello Spirito, che i profeti avevano preannunciato per i tempi messianici.
Basti qui ricordare solo due passi: uno di Isaia, in cui si predice che sul futuro Messia « si poserà lo spirito del Signore; spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore » (Is 11,2). L’altro passo è ripreso da Ezechiele, il quale preannuncia per i tempi ultimi una grande « purificazione » nell’acqua e nello Spirito: « Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati… Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei precetti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi » (Ez 36,25-28). Lo Spirito, dunque, secondo il profeta, sarà il nuovo principio « vitale » che dall’interno animerà tutta l’esistenza dei « rinnovati » figli di Dio. Una grande « immersione » nello Spirito: questo è il battesimo nuovo con il quale Gesù « battezzerà » tutti i credenti nel suo nome!
« In quei giorni venne Gesù e fu battezzato nel Giordano da Giovanni »
Alla luce di quanto abbiamo detto è certamente più facile comprendere la seconda parte dell’odierno brano di Vangelo, in cui ci è presentata in termini scarni la scena del battesimo di Gesù: « In quei giorni Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, uscendo dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E si sentì una voce dal cielo: « Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto »" (vv. 9-11).
Prima di tutto, c’è da notare che Gesù viene presentato come un normale Giudeo del suo tempo che va a ricevere il battesimo di Giovanni, che Marco ci ha descritto come « un battesimo di conversione per il perdono dei peccati » (v. 4). Gesù perciò compie un gesto di abbassamento, che lo colloca alla pari di tutti e non ha altra spiegazione se non quella di esprimere la sua « solidarietà » con tutti noi che siamo figli del peccato: un gesto, dunque, che anticipa la sua estrema umiliazione, quella della croce, in cui Cristo, al dire di san Paolo, diventa « maledizione » e « peccato » per tutti noi, perché noi ricevessimo la  » benedizione  » e diventassimo « giustizia di Dio in lui ».
Proprio per questa paradossalità di situazione, in cui volutamente Gesù si pone, il Vangelo di Matteo ci descrive la opposizione di Giovanni che, inizialmente, si rifiuta di battezzarlo: « Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me? ». Gesù però risponde che bisogna « adempiere ogni giustizia » (Mt 3,14-15), cioè il disegno salvifico di Dio in lui.
La « visione » successiva, con la « voce » che viene dall’alto, ricalca alcuni tratti delle « teofanie » dell’Antico Testamento e delle scene di « vocazione profetica » e vuole esprimere sia l’approvazione del cielo al gesto di abbassamento, con cui Cristo inaugura davanti al mondo la sua missione di salvezza, sia il « corroboramento » che viene dall’alto per un compito così difficile che, di fatto, culminerà con la morte di croce. Questo è il significato dei cieli che « si aprono » e che richiama certamente il passo di Isaia (63,15) in cui il profeta supplica Dio, in nome della sua paternità nei riguardi di Israele, di rompere finalmente il suo troppo lungo silenzio e di « scendere » dal cielo per mostrare al popolo il suo volto e salvarlo, inaugurando così i tempi messianici: « Se tu squarciassi i cieli e scendessi! ».
L’immagine poi dello Spirito, che scende « in forma di colomba », evoca la tenerezza amorosa del Padre celeste che si china sul proprio Figlio diletto, allo stesso modo con cui una colomba si avvicina ai suoi piccoli svolazzando attorno a loro. Alcuni esegeti vi vedono un riferimento a Genesi 1,2, dove si parla dello « spirito di Dio » che si muoveva sulle acque primordiali: in tal caso si vorrebbe alludere alla forza rinnovatrice e « plasmatrice » dello Spirito che agisce in Cristo.
 » Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto »
Particolarmente carica di significato è la proclamazione fatta dalla « voce » che viene dall’alto e che, a differenza di Matteo (3,17), è rivolta direttamente a Gesù in seconda persona: « Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto ». Essa è fatta di tre riferimenti biblici, che dànno una risonanza anche più profonda, non appena si ricostruiscono nel loro contesto.
« Tu sei il Figlio mio » è citazione letterale del Salmo 2,7, che è un salmo regale e che già la tradizione giudaica interpretava in senso messianico: applicata a Gesù di Nazaret, la formula esprime il suo particolare ed « unico » rapporto di filiazione con il Padre e la sua dignità messianico-regale.
Una dignità regale, però, quella di Cristo, che passa attraverso la sofferenza e l’umiliazione. È quanto esprime l’aggettivo « prediletto » (agapetós), equivalente di « unico », che richiama automaticamente la figura di Isacco, chiamato così per tre volte nella Genesi (22,2.12.16) proprio quando Dio domanda ad Abramo di offrirglielo in sacrificio, per dimostrare che lo « ama » più di qualsiasi cosa al mondo. È quanto viene espresso, soprattutto, nella terza parte della formula: « In te mi sono compiaciuto » e che è ripresa proprio dall’inizio del primo canto del « Servo sofferente » di Jahvè: « Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto in cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni » (Is 42,1).
Indubbiamente in questa solenne proclamazione della « voce » celeste si riflette la fede della comunità primitiva che, reinterpretando l’inizio della missione pubblica di Gesù, la vede sotto il segno dell’abbassamento e della solidarietà con i peccatori che egli, quale nuovo Mosè e nuovo Giosuè, guida alla libertà « uscendo dall’acqua » (v. 10) del Giordano, simbolo di tutto un vecchio mondo che crolla, per avviarsi verso la nuova terra promessa, che conquisterà per sé e per il suo popolo nella umiltà e nella offerta martoriante di tutta la sua vita.

« O voi tutti assetati, venite all’acqua »
Pur essendo tutto centrato sul significato essenzialmente « cristologico » del battesimo di Gesù, rimane vero che il brano evangelico che abbiamo fin qui esaminato rimanda in qualche maniera anche al nostro battesimo. Infatti quando Giovanni dice di Gesù che egli « vi battezzerà con lo Spirito Santo » (Mc 1,8), certamente allude al battesimo cristiano che Gesù darà mandato agli Apostoli di conferire a coloro che avranno « creduto » in lui (cf Mc 16,16).
Ora, le due letture bibliche odierne, sebbene non contengano riferimenti precisi al battesimo e in qualche maniera siano perciò « adattate », di fatto contengono dei « richiami » che al battesimo cristiano si possono benissimo applicare.
Il primo brano, ad esempio, contiene una esortazione a partecipare ai « beni » della nuova alleanza (Is 55,1-5) e a « convertirsi » mentre c’è ancora tempo (Is 55,6-11).
I « beni » messianici sono espressi dalle immagini più vive ed intense per descrivere il desiderio di cose particolarmente preziose ed appetibili: così l’ »acqua » per chi è assetato, il « pane » per chi è tormentato dalla fame: « O voi tutti assetati, venite all’acqua, / chi non ha denaro venga ugualmente; / comprate e mangiate senza denaro / e, senza spesa, vino e latte. / Perché spendete denaro per ciò che non è pane, / il vostro patrimonio per ciò che non sazia? » (55,1-2).
L’immagine dell’ »acqua » dice un facile riferimento al battesimo, come sorgente « fontale » di tutta la vita cristiana, la quale non può staccarsi mai da ciò che continuamente l’alimenta. E ciò che l’alimenta è soprattutto la « parola » di Dio, che si presenta come realtà sempre nuova perché detta per ogni situazione della vita.
 » Come la pioggia e la neve scendono dal cielo… »
È per questo che l’immagine dell’acqua ritorna anche nella seconda parte, applicata però alla « parola » di Dio: « Come infatti la pioggia e la neve / scendono dal cielo e non vi ritornano / senza avere irrigato la terra, / senza averla fecondata e fatta germogliare, / perché dia il seme al seminatore / e pane da mangiare, / così sarà della parola / uscita dalla mia bocca: / non ritornerà a me senza effetto, / senza aver operato ciò che desidero / e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata » (vv. 10-11).
Sappiamo adesso che cosa è l’acqua che « l’assetato » è invitato non solo a desiderare, ma addirittura a « comprare » (cf v. 1): è la « parola » di Dio. Però l’accento si è spostato dal desiderio intenso di una cosa preziosa all’ »efficacia » di questa « acqua » prodigiosa, che è la parola di Dio: essa scende sotto forma di pioggia o di neve e tutto « feconda » e rinnova, facendo « germogliare » ogni seme e dando grano e « pane » in abbondanza.
Tutto dunque è legato alla « parola » di Dio, che è efficacissima; ma non opera mai secondo progetti meramente umani: « Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, / le vostre vie non sono le mie vie… / Quanto il cielo sovrasta la terra, / tanto le mie vie sovrastano le vostre, / i miei pensieri sovrastano i vostri » (vv. 8-9).
« Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio »
Il secondo brano è più pertinente con il tema del battesimo. E questo per un doppio motivo.
Il primo perché parla della nostra « nascita da Dio »: e noi sappiamo che per san Giovanni tale « nascita » avviene proprio nel battesimo. Si ricordi quanto dichiara solennemente Gesù a Nicodemo: « In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio » (Gv 3,5). E bensì vero che qui il nascere, o 1′ »essere generati », è collegato con il fatto del « credere » in genere, ma lo sfondo è certamente battesimale: « Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato. Da questo conosciamo di amare i figli di Dio: se amiamo Dio e ne osserviamo i comandamenti » (1 Gv 5,1-2).
Come conseguenza della nuova « nascita » da Dio per la fede, espressa nel battesimo, san Giovanni deriva la necessità d’ »amare » tutti i fratelli: non si può fare discriminazione fra i « nati » dallo stesso Padre! Il sacramento del battesimo, perciò, oltre che essere segno di rinnovamento e di rinascita, è anche, proprio per questo, segno di universale fraternità e di amore.
« Questi è colui che è venuto con acqua e sangue »
Il secondo motivo di un più stretto rapporto del nostro brano con il tema della festa odierna è che negli ultimi versetti sembra che si faccia esplicito riferimento al battesimo del Signore. Dopo aver ricordato che la fede in Gesù, come « Figlio di Dio », « vince il mondo » (v. 5), si elencano gli elementi particolarmente significativi che dimostrano questo speciale rapporto di Gesù con il Padre.
« Questi è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che rende testimonianza, perché lo Spirito è la verità. Poiché tre sono quelli che rendono testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue, e questi tre sono concordi. Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è maggiore; e la testimonianza di Dio è quella che ha dato al suo Figlio » (vv. 6-9).
« L’acqua e il sangue » (v. 6), con cui Gesù ha reso testimonianza, dovrebbero riferirsi alla sua morte di croce, quando il centurione gli perforò il costato e « subito ne uscì sangue e acqua » (Gv 19,34); « l’acqua soltanto » (v. 6) dovrebbe invece riferirsi alla sua manifestazione nel Giordano, quando lo Spirito « scese » sopra di lui proclamandolo « Figlio di Dio ».
« La testimonianza di Dio è maggiore »
È sulla base di queste tre « testimonianze » (battesimo, morte di croce, la continua illuminazione dello Spirito) che noi scopriamo chi veramente sia Gesù di Nazaret e possiamo confessarlo davanti al mondo. Perciò l’autore giustamente conclude: « Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è maggiore; e la testimonianza di Dio è quella che ha dato al suo Figlio » (v. 9).
Il battesimo di Gesù rimane dunque uno dei momenti privilegiati in cui il Padre e il Figlio, nella luce dello Spirito, si sono resi « testimonianza ». Adesso tocca a tutti i battezzati annunciare che c’è un solo modo per « vincere » il male che c’è nel mondo: essere « fedeli » alla virtù trasformante del proprio battesimo, che deve però riassumere la tensione acutissima di quello di Cristo, per essere ancora credibile dagli uomini del nostro tempo come sacramento della « novità » cristiana. « E questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede » (v. 4).

Da CIPRIANI S., Convocati dalla Parola

L’Albero di Jesse nell’altare di S. Leonardo nella Cattedrale di Venafro

L’Albero di Jesse nell’altare di S. Leonardo nella Cattedrale di Venafro dans immagini sacre albero-di-jesse

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Publié dans:immagini sacre |on 8 janvier, 2015 |Pas de commentaires »
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