Archive pour décembre, 2014

Rembrant, Simeone con in braccio Gesù

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Publié dans:immagini sacre |on 16 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI: IL GIOIELLO DELL’INNO DI GIUBILO (link al testo biblico)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20111207_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 7 dicembre 2011

IL GIOIELLO DELL’INNO DI GIUBILO

(link:http://www.lachiesa.it/bibbia.php?ricerca=citazione&Cerca=Cerca&Versione_CEI2008=3&Versione_CEI74=1&Versione_TILC=2&VersettoOn=1&Citazione=Mt%2011,25-30 )

Cari fratelli e sorelle,

gli evangelisti Matteo e Luca (cfr Mt 11,25-30 e Lc 10, 21-22) ci hanno tramandato un «gioiello» della preghiera di Gesù, che spesso viene chiamato Inno di giubilo o Inno di giubilo messianico. Si tratta di una preghiera di riconoscenza e di lode, come abbiamo ascoltato. Nell’originale greco dei Vangeli il verbo con cui inizia questo inno, e che esprime l’atteggiamento di Gesù nel rivolgersi al Padre, è exomologoumai, tradotto spesso con «rendo lode» (Mt 11,25 e Lc 10,21). Ma negli scritti del Nuovo Testamento questo verbo indica principalmente due cose: la prima è «riconoscere fino in fondo» – ad esempio, Giovanni Battista chiedeva di riconoscere fino in fondo i propri peccati a chi andava da lui per farsi battezzare (cfr Mt 3,6) –; la seconda cosa è «trovarsi d’accordo». Quindi, l’espressione con cui Gesù inizia la sua preghiera contiene il suo riconoscere fino in fondo, pienamente, l’agire di Dio Padre, e, insieme, il suo essere in totale, consapevole e gioioso accordo con questo modo di agire, con il progetto del Padre. L’Inno di giubilo è l’apice di un cammino di preghiera in cui emerge chiaramente la profonda e intima comunione di Gesù con la vita del Padre nello Spirito Santo e si manifesta la sua filiazione divina.

Gesù si rivolge a Dio chiamandolo «Padre». Questo termine esprime la coscienza e la certezza di Gesù di essere «il Figlio», in intima e costante comunione con Lui, e questo è il punto centrale e la fonte di ogni preghiera di Gesù. Lo vediamo chiaramente nell’ultima parte dell’Inno, che illumina l’intero testo. Gesù dice: «Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Lc 10, 22). Gesù quindi afferma che solo «il Figlio» conosce veramente il Padre. Ogni conoscenza tra le persone – lo sperimentiamo tutti nelle nostre relazioni umane – comporta un coinvolgimento, un qualche legame interiore tra chi conosce e chi è conosciuto, a livello più o meno profondo: non si può conoscere senza una comunione dell’essere. Nell’Inno di giubilo, come in tutta la sua preghiera, Gesù mostra che la vera conoscenza di Dio presuppone la comunione con Lui: solo essendo in comunione con l’altro comincio a conoscere; e così anche con Dio, solo se ho un contatto vero, se sono in comunione, posso anche conoscerlo. Quindi la vera conoscenza è riservata al « Figlio», l’Unigenito che è da sempre nel seno del Padre (cfr Gv 1,18), in perfetta unità con Lui. Solo il Figlio conosce veramente Dio, essendo in comunione intima dell’essere; solo il Figlio può rivelare veramente chi è Dio.

Il nome «Padre» è seguito da un secondo titolo, «Signore del cielo e della terra». Gesù, con questa espressione, ricapitola la fede nella creazione e fa risuonare le prime parole della Sacra Scrittura: «In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gen 1,1). Pregando, Egli richiama la grande narrazione biblica della storia di amore di Dio per l’uomo, che inizia con l’atto della creazione. Gesù si inserisce in questa storia di amore, ne è il vertice e il compimento. Nella sua esperienza di preghiera, la Sacra Scrittura viene illuminata e rivive nella sua più completa ampiezza: annuncio del mistero di Dio e risposta dell’uomo trasformato. Ma attraverso l’espressione «Signore del cielo e della terra» possiamo anche riconoscere come in Gesù, il Rivelatore del Padre, viene riaperta all’uomo la possibilità di accedere a Dio.

Poniamoci adesso la domanda: a chi il Figlio vuole rivelare i misteri di Dio? All’inizio dell’Inno Gesù esprime la sua gioia perché la volontà del Padre è quella di tenere nascoste queste cose ai dotti e ai sapienti e rivelarle ai piccoli (cfr Lc 10,21). In questa espressione della sua preghiera, Gesù manifesta la sua comunione con la decisione del Padre che schiude i suoi misteri a chi ha il cuore semplice: la volontà del Figlio è una cosa sola con quella del Padre. La rivelazione divina non avviene secondo la logica terrena, per la quale sono gli uomini colti e potenti che possiedono le conoscenze importanti e le trasmettono alla gente più semplice, ai piccoli. Dio ha usato tutt’altro stile: i destinatari della sua comunicazione sono stati proprio i «piccoli». Questa è la volontà del Padre, e il Figlio la condivide con gioia. Dice il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Il suo trasalire «Sì, Padre!» esprime la profondità del suo cuore, la sua adesione al beneplacito del Padre, come eco al «Fiat» di sua Madre al momento del suo concepimento e come preludio a quello che egli dirà al Padre durante la sua agonia. Tutta la preghiera di Gesù è in questa amorosa adesione del suo cuore di uomo al “mistero della … volontà” del Padre (Ef 1,9)» (2603). Da qui deriva l’invocazione che rivolgiamo a Dio nel Padre nostro: «sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra»: insieme con Cristo e in Cristo, anche noi chiediamo di entrare in sintonia con la volontà del Padre, diventando così anche noi suoi figli. Gesù, pertanto, in questo Inno di giubilo esprime la volontà di coinvolgere nella sua conoscenza filiale di Dio tutti coloro che il Padre vuole renderne partecipi; e coloro che accolgono questo dono sono i «piccoli».

Ma che cosa significa «essere piccoli», semplici? Qual è «la piccolezza» che apre l’uomo all’intimità filiale con Dio e ad accogliere la sua volontà? Quale deve essere l’atteggiamento di fondo della nostra preghiera? Guardiamo al «Discorso della montagna», dove Gesù afferma: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8). E’ la purezza del cuore quella che permette di riconoscere il volto di Dio in Gesù Cristo; è avere il cuore semplice come quello dei bambini, senza la presunzione di chi si chiude in se stesso, pensando di non avere bisogno di nessuno, neppure di Dio.

E’ interessante anche notare l’occasione in cui Gesù prorompe in questo Inno al Padre. Nella narrazione evangelica di Matteo è la gioia perché, nonostante le opposizioni e i rifiuti, ci sono dei «piccoli» che accolgono la sua parola e si aprono al dono della fede in Lui. L’Inno di giubilo, infatti, è preceduto dal contrasto tra l’elogio di Giovanni il Battista, uno dei «piccoli» che hanno riconosciuto l’agire di Dio in Cristo Gesù (cfr Mt 11,2-19), e il rimprovero per l’incredulità delle città del lago «nelle quali era avvenuta la maggior parte dei suoi prodigi» (cfr Mt 11,20-24). Il giubilo quindi è visto da Matteo in relazione alle parole con cui Gesù constata l’efficacia della sua parola e della sua azione: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!» (Mt 11,4-6).

Anche san Luca presenta l’Inno di giubilo in connessione con un momento di sviluppo dell’annuncio del Vangelo. Gesù ha inviato i «settantadue discepoli» (Lc 10,1) ed essi sono partiti con un senso di paura per il possibile insuccesso della loro missione. Anche Luca sottolinea il rifiuto incontrato nelle città in cui il Signore ha predicato e ha compiuto segni prodigiosi. Ma i settantadue discepoli tornano pieni di gioia, perché la loro missione ha avuto successo; essi hanno constatato che, con la potenza della parola di Gesù, i mali dell’uomo vengono vinti. E Gesù condivide la loro soddisfazione: «in quella stessa ora», in quel momento, Egli esultò di gioia.

Ci sono ancora due elementi che vorrei sottolineare. L’evangelista Luca introduce la preghiera con l’annotazione: «Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo» (Lc 10,21). Gesù gioisce partendo dall’intimo di se stesso, in ciò che ha di più profondo: la comunione unica di conoscenza e di amore con il Padre, la pienezza dello Spirito Santo. Coinvolgendoci nella sua figliolanza, Gesù invita anche noi ad aprirci alla luce dello Spirito Santo, perché – come afferma l’apostolo Paolo – «(Noi) non sappiamo … come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili … secondo i disegni di Dio» (Rm 8,26-27) e ci rivela l’amore del Padre. Nel Vangelo di Matteo, dopo l’Inno di Giubilo, troviamo uno degli appelli più accorati di Gesù: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). Gesù chiede di andare a Lui che è la vera sapienza, a Lui che è «mite e umile di cuore»; propone «il suo giogo», la strada della sapienza del Vangelo che non è una dottrina da imparare o una proposta etica, ma una Persona da seguire: Egli stesso, il Figlio Unigenito in perfetta comunione con il Padre.

Cari fratelli e sorelle, abbiamo gustato per un momento la ricchezza di questa preghiera di Gesù. Anche noi, con il dono del suo Spirito, possiamo rivolgerci a Dio, nella preghiera, con confidenza di figli, invocandolo con il nome di Padre, «Abbà». Ma dobbiamo avere il cuore dei piccoli, dei «poveri in spirito» (Mt 5,3), per riconoscere che non siamo autosufficienti, che non possiamo costruire la nostra vita da soli, ma abbiamo bisogno di Dio, abbiamo bisogno di incontrarlo, di ascoltarlo, di parlargli. La preghiera ci apre a ricevere il dono di Dio, la sua sapienza, che è Gesù stesso, per compiere la volontà del Padre sulla nostra vita e trovare così ristoro nelle fatiche del nostro cammino. Grazie.

IL MISTERO DELL’INCARNAZIONE CONTEMPLATO CON GLI OCCHI DI FRANCESCO D’ASSISI – PADRE CANTALAMESSA 2013

http://www.zenit.org/it/articles/il-mistero-dell-incarnazione-contemplato-con-gli-occhi-di-francesco-d-assisi

IL MISTERO DELL’INCARNAZIONE CONTEMPLATO CON GLI OCCHI DI FRANCESCO D’ASSISI

TERZA PREDICA DI AVVENTO 2013 DI PADRE RANIERO CANTALAMESSA, OFMCAP

CITTA’ DEL VATICANO, 20 DICEMBRE 2013 (ZENIT.ORG)

Pubblichiamo di seguito il testo integrale della terza e ultima Predica di Avvento 2013, tenuta questa mattina in Vaticano da padre Raniero Cantalamessa, ofmcap., predicatore della Casa Pontificia.

***

1. Greccio e l’istituzione del presepio
Conosciamo tutti la storia di Francesco che a Greccio, tre anni prima della morte, da inizio alla tradizione natalizia del presepio; ma è bello rievocarla, per sommi capi, in questa circostanza. Scrive dunque il Celano:
“Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco chiamò a sé un uomo di nome Giovanni e gli disse: ‘Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello’. […]. E giunge il giorno della letizia. Francesco si è rivestito dei paramenti diaconali perché era diacono, e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora rapisce tutti in desideri di cielo. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme”[1].
L’importanza dell’episodio non sta tanto nel fatto in se stesso e neppure nel seguito spettacolare che ha avuto nella tradizione cristiana; sta nella novità che esso rivela a proposito della comprensione che il santo aveva del mistero dell’incarnazione. L’insistenza troppo unilaterale, e a volte addirittura ossessiva, sugli aspetti ontologici dell’incarnazione (natura, persona, unione ipostatica, comunicazione degli idiomi) aveva fatto perdere spesso di vista la vera natura del mistero cristiano, riducendolo a un mistero speculativo, da formulare con categorie sempre più rigorose, ma lontanissime dalla portata della gente
Francesco d’Assisi ci aiuta a integrare la visione ontologica dell’incarnazione, con quella più esistenziale e religiosa. Non importa, infatti, solo sapere che Dio si è fatto uomo; importa anche sapere che tipo di uomo si è fatto. È significativo il modo diverso e complementare in cui Giovanni e Paolo descrivono l’evento dell’incarnazione. Per Giovanni, essa consiste nel fatto che il Verbo che era Dio si è fatto carne (cf. Gv 1, 1-14); per Paolo, essa consiste nel fatto che “Cristo, essendo di natura divina, ha assunto la forma di servo e ha umiliato se stesso facendosi obbediente fino alla morte” (cf. Fil 2, 5 ss.). Per Giovanni, il Verbo, essendo Dio, si è fatto uomo; per Paolo “Cristo, da ricco che era, si è fatto povero” (cf. 2 Cor 8,9).
Francesco d’Assisi si situa nella linea di san Paolo. Più che sulla realtà ontologia dell’umanità di Cristo (nella quale crede fermamente con tutta la Chiesa), egli insiste, fino alla commozione, sull’umiltà e la povertà di essa. Due cose, dicono le fonti, avevano il potere di commuoverlo fino alle lacrime, ogni volta che ne sentiva parlare: “l’umiltà dell’incarnazione e la carità della passione”[2]. “Non poteva ripensare senza piangere in quanta penuria si era trovata in quel giorno la Vergine poverella. Una volta, mentre era seduto a pranzo, un frate gli ricordò la povertà della beata Vergine e l’indigenza di Cristo suo Figlio. Subito si alzò da mensa, scoppiò in singhiozzi di dolore, e col volto bagnato di lacrime mangiò il resto del pane sulla nuda terra”[3].
Francesco ha ridato così “carne e sangue” ai misteri del cristianesimo spesso “disincarnati” e ridotti a concetti e sillogismi nelle scuole teologiche e nei libri. Uno studioso tedesco ha visto in Francesco d’Assisi colui che ha creato le condizioni per la nascita dell’arte moderna rinascimentale, in quanto scioglie persone ed eventi sacri dalla rigidità stilizzata del passato e conferisce loro concretezza e vita[4].

2. Il Natale e i poveri
La distinzione tra il fatto dell’incarnazione e il modo di essa, tra la sua dimensione ontologica e quella esistenziale, ci interessa perché getta una luce singolare sul problema attuale della povertà e dell’atteggiamento dei cristiani verso di essa. Aiuta a dare un fondamento biblico e teologico alla scelta preferenziale dei poveri, proclamata nel concilio Vaticano II. Se infatti per il fatto dell’incarnazione, il Verbo ha, in certo senso, assunto ogni uomo, come dicevano certi Padri della Chiesa, per il modo in cui essa si è realizzata, egli ha assunto, a un titolo tutto particolare, il povero, l’umile, il sofferente, al punto da identificarsi con essi.
Nel povero non si ha, certo, lo stesso genere di presenza di Cristo che si ha nell’Eucaristia e negli altri sacramenti, ma si tratta di una presenza anch’essa vera, “reale”. Lui ha “istituito” questo segno, come ha istituito l’Eucaristia. Colui che pronunciò sul pane le parole: “Questo è il mio corpo”, ha detto queste stesse parole anche dei poveri. Le ha dette quando, parlando di quello che si è fatto, o non si è fatto, per l’affamato, l’assetato, il prigioniero, l’ignudo e l’esule, ha dichiarato solennemente: “L’avete fatto a me” e “Non l’avete fatto a me”. Questo infatti equivale a dire: “Quella certa persona lacera, bisognosa di un po’ di pane, quell’anziano che moriva intirizzito dal freddo sul marciapiede, ero io!”. “I Padri conciliari -ha scritto Jean Guitton, osservatore laico al Vaticano II, hanno ritrovato il sacramento della povertà, la presenza di Cristo sotto le specie di coloro che soffrono”[5].
Non accoglie pienamente Cristo chi non è disposto ad accogliere il povero con cui egli si è identificato. Chi, al momento della comunione, si accosta pieno di fervore a ricevere Cristo, ma ha il cuore chiuso ai poveri, somiglia, direbbe sant’Agostino, a uno che vede venire da lontano un amico che non vede da anni. Pieno di gioia, gli corre incontro, si alza in punta dei piedi per baciargli la fronte, ma nel fare ciò non si accorge che gli sta calpestando i piedi con scarpe chiodate. I poveri infatti sono i piedi nudi che Cristo ha ancora posati su questa terra.
Il povero è anch’esso un “vicario di Cristo”, uno che tiene le veci di Cristo. Vicario, in senso passivo, non attivo. Non nel senso, cioè, che quello che fa il povero è come se lo facesse Cristo, ma nel senso che quello che si fa al povero è come se lo si facesse a Cristo. È vero, come scrive san Leone Magno, che dopo l’ascensione, “tutto quello che c’era di visibile nel nostro Signore Gesù Cristo è passato nei segni sacramentali della Chiesa”[6], ma è altrettanto vero che, dal punto di vista esistenziale, esso è passato anche nei poveri e in tutti coloro di cui egli ha detto: “L’avete fatto a me”.
Traiamo la conseguenza che deriva da tutto ciò sul piano dell’ecclesiologia. Giovanni XXIII, in occasione del Concilio, ha coniato l’espressione “Chiesa dei poveri”[7]. Essa riveste un significato che va forse al di là di quello che si intende a prima vista. La Chiesa dei poveri non è costituita solo dai poveri della Chiesa! In un certo senso, tutti i poveri del mondo, siano essi battezzati o meno, le appartengono. La loro povertà e sofferenza è il loro battesimo di sangue. Se i cristiani sono coloro che sono stati “battezzati nella morte di Cristo” (Rom 6,3), chi è, di fatto, più battezzato nella morte di Cristo di loro?
Come non considerarli, in qualche modo, Chiesa di Cristo, se Cristo stesso li ha dichiarati il suo corpo? Essi sono “cristiani”, non perché si dichiarano appartenenti a Cristo, ma perché Cristo li ha dichiarati appartenenti a sé: “L’avete fatto a me!”. Se c’è un caso in cui la controversa espressione “cristiani anonimi” può avere un’applicazione plausibile, esso è proprio questo dei poveri.
La Chiesa di Cristo è dunque immensamente più vasta di quello che dicono le statistiche correnti. Non per semplice modo di dire, ma veramente, realmente. Nessuno dei fondatori di religioni si è identificato con i poveri come ha fatto Gesù. Nessuno ha proclamato: “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40), dove il “fratello più piccolo” non indica solo il credente in Cristo, ma, come è ammesso da tutti, ogni uomo.
Ne deriva che il papa, vicario di Cristo, è davvero il “padre dei poveri”, il pastore di questo immenso gregge, ed è una gioia e uno stimolo per tutto il popolo cristiano vedere quanto questo ruolo è stato preso a cuore dagli ultimi Sommi Pontefici e in modo tutto particolare dal pastore che siede oggi sulla cattedra di Pietro. Egli è la voce più autorevole che si leva in loro difesa. La voce di chi non ha voce. Non si è davvero “dimenticato dei poveri”!
Noi tendiamo a mettere, tra noi e i poveri, dei doppi vetri. L’effetto dei doppi vetri, oggi così sfruttato nell’edilizia, è che impedisce il passaggio del freddo, del caldo e dei rumori, stempera tutto, fa giungere tutto attutito, ovattato. E infatti vediamo i poveri muoversi, agitarsi, urlare dietro lo schermo televisivo, sulle pagine dei giornali e delle riviste missionarie, ma il loro grido ci giunge come da molto lontano. Non ci penetra al cuore. Lo dico a mia stessa confusione e vergogna. La parola: “i poveri!” “gli extracomunitari!” provoca, nei paesi ricchi, quello che provocava nei romani antichi il grido “i barbari!”: lo sconcerto, il panico. Essi si affannavano a costruire muraglie e a inviare eserciti alle frontiere per tenerli a bada, ma la storia dice che è tutto inutile.
Noi piangiamo e protestiamo -e giustamente! – per i bambini a cui si impedisce di nascere, ma non dovremmo fare altrettanto per i milioni di bambini nati e fatti morire per fame, malattie, bambini costretti a fare la guerra e uccidersi tra loro per interessi a cui non siamo estranei noi dei paesi ricchi? Non sarà perché i primi appartengono al nostro continente e hanno il nostro stesso colore, mentre i secondi appartengono a un altro continente e hanno un diverso colore? Protestiamo – e più che giustamente! – per gli anziani, i malati, i malformati aiutati (a volte spinti) a morire con l’eutanasia; ma non dovremmo fare altrettanto per gli anziani che muoiono assiderati di freddo o abbandonati soli al loro destino? La legge liberista del “vivere e lasciar vivere” non dovrebbe mai trasformarsi nella legge del “vivere e lasciar morire”, come invece sta avvenendo nel mondo intero.
Certo, la legge naturale è santa, ma è proprio per avere la forza di applicarla che abbiamo bisogno di ripartire dalla fede in Gesú Cristo. San Paolo ha scritto: “Ciò che era impossibile alla legge, resa impotente a causa della carne, Dio lo ha reso possibile mandando il proprio Figlio” (Rom 8, 3). I primi cristiani, con i loro costumi, aiutarono lo stato a cambiare le proprie leggi; noi cristiani di oggi non possiamo fare il contrario e pensare che sia lo stato con le sue leggi a dover cambiare i costumi della gente.

3. Amare, soccorrere, evangelizzare i poveri
La prima cosa da fare, nei confronti dei poveri, è dunque rompere i doppi vetri, superare l’indifferenza e l’insensibilità. Dobbiamo, come ci esorta appunto il papa, “accorgerci” dei poveri, lasciarci prendere da una sana inquietudine per la loro presenza in mezzo a noi, spesso a due passi da casa nostra. Quello che dobbiamo fare in concreto per essi, lo si può riassumere in tre parole: amarli, soccorrerli, evangelizzarli.
Amare i poveri. L’amore per i poveri è uno dei tratti più comuni della santità cattolica. In san Francesco stesso, l’abbiamo visto nella prima meditazione, l’amore per i poveri, a partire da Cristo povero, viene prima dell’amore della povertà e fu esso che lo portò a sposare la povertà. Per alcuni santi, come san Vincenzo de’ Paoli, Madre Teresa di Calcutta e innumerevoli altri, l’amore per i poveri è stato addirittura la loro via alla santità, il loro carisma.
Amare i poveri significa anzitutto rispettarli e riconoscere la loro dignità. In essi, proprio per la mancanza di altri titoli e distinzioni secondarie, brilla di luce più viva la radicale dignità dell’essere umano. In una omelia di Natale tenuta a Milano, il cardinal Montini diceva: “La visione completa della vita umana sotto la luce di Cristo vede in un povero qualche cosa di più di un bisognoso; vi vede un fratello misteriosamente rivestito di una dignità, che obbliga a tributargli riverenza, ad accoglierlo con premura, a compatirlo oltre il merito”[8].
Ma i poveri non meritano soltanto la nostra commiserazione; meritano anche la nostra ammirazione. Essi sono i veri campioni dell’umanità. Si distribuiscono ogni anno coppe, medaglie d’oro, d’argento, di bronzo; al merito, alla memoria o ai vincitori di gare. E magari solo perché sono stati capaci di correre in una frazione di secondo meno degli altri i cento, i duecento o quattrocento metri a ostacoli, o di saltare un centimetro più alto degli altri, o di vincere una maratona o una gara di slalom.
Eppure se uno osservasse di quali salti mortali, di quale resistenza, di quali slalom, sono capaci a volte i poveri, e non una volta, ma per tutta la vita, le prestazioni dei più famosi atleti ci sembrerebbero giochetti da fanciulli. Cos’è una maratona in confronto, per esempio, a quello che fa un uomo-risciò di Calcutta, il quale alla fine della vita ha fatto a piedi l’equivalente di diversi giri della terra, nel caldo più snervante, trainando uno o due passeggeri, per strade dissestate, tra buche e pozzanghere, sgusciando tra un auto e l’altra per non farsi travolgere?
Francesco d’Assisi ci aiuta a scoprire un motivo ancora più forte per amare i poveri: il fatto che essi non sono semplicemente i nostri “simili” o il nostro “prossimo”: sono nostri fratelli! Fratelli sono coloro che hanno uno stesso padre e gli uomini sono fratelli perché hanno un unico padre nei cieli! Gesú aveva detto: “Uno solo è il vostro Padre celeste e voi siete tutti fratelli” (cf. Mt 23,8-9), ma questa parola era stata intesa finora come rivolta ai soli discepoli. Nella tradizione cristiana, fratello in senso stretto è solo colui che condivide la stessa fede e ha ricevuto lo stesso battesimo.
Francesco riprende la parola di Cristo e le da una portata universale che è quella che certamente aveva in mente Gesù. Francesco ha messo davvero ”tutto il mondo in stato di fraternità”[9]. Chiama fratelli non solo i suoi frati e i compagni di fede, ma anche i lebbrosi, i briganti, i saraceni, cioè credenti e non credenti, buoni e cattivi, soprattutto i poveri. Novità, questa, assoluta, estende il concetto di fratello e sorella anche alle creature inanimate: il sole, la luna, la terra, l’acqua e perfino la morte. Questa, evidentemente, è poesia, più che teologia. Il santo sa bene che tra esse e le creature umane, fatte a immagine di Dio, c’è la stessa differenza che tra il figlio di un artista e le opere da lui create. Ma è che il senso di fraternità universale del Poverello non ha confini.
Questo della fraternità è il contributo specifico che la fede cristiana può dare per rafforzare nel mondo la pace e la lotta alla povertà, come suggerisce il tema della prossima Giornata mondiale della pace “Fraternità, fondamento e via per la pace”. A pensarci bene, esso è l’unico fondamento vero e non velleitario. Che senso ha infatti parlare di fraternità e di solidarietà umana, se si parte da una certa visione scientifica del mondo che conosce, come uniche forze in azione nel mondo, “il caso e la necessità”? Se si parte, in altre parole, da una visione filosofica come quella di Nietzsche, secondo cui il mondo non è che volontà di potenza e ogni tentativo di opporsi a ciò è solo segno del risentimento dei deboli contro i forti”? Ha ragione chi dice che “se l’essere è solo caos e forza, l’azione che ricerca la pace e la giustizia è destinata inevitabilmente a rimanere senza fondamento”[10]. Manca, in questo caso, una ragione sufficiente per opporsi al liberismo sfrenato e all’”inequità” denunciata con forza dal papa nell’esortazione Evangelii gaudium.
Al dovere di amare e rispettare i poveri, segue quello di soccorrerli. Qui ci viene in aiuto san Giacomo. A che serve, egli dice, impietosirsi davanti a un fratello o una sorella privi del vestito e del cibo, dicendo loro : “Poveretto, come soffri! Vai, riscàldati, sàziati!”, se tu non gli dai nulla di quanto ha bisogno per riscaldarsi e nutrirsi? La compassione, come la fede, senza le opere è morta (cf. Gc 2, 15-17). Gesù nel giudizio non dirà: “Ero nudo e mi avete compatito”; ma “Ero nudo e mi avete vestito”. Non bisogna prendersela con Dio davanti alla miseria del mondo, ma con noi stessi. Un giorno vedendo una bambina tremante di freddo e che piangeva per la fame, un uomo fu preso da un moto di ribellione e gridò: “O Dio, dove sei? Perché non fai qualcosa per quella creatura innocente?”. Ma una voce interiore gli rispose: “Certo che ho fatto qualche cosa. Ho fatto te!”. E capì immediatamente.
Oggi però non basta più la semplice elemosina. Il problema della povertà è divenuto planetario. Quando i Padri della Chiesa parlavano dei poveri pensavano ai poveri della loro città, o al massimo a quelli della città vicina. Non conoscevano quasi altro, se non molto vagamente e, del resto, anche se l’avessero conosciuto, far pervenire gli aiuti sarebbe stato ancora più difficile, in una società come la loro. Oggi sappiamo che questo non basta, anche se nulla ci dispensa dal fare quello che possiamo anche a questo livello individuale.
L’esempio di tanti uomini e donne del nostro tempo ci mostra che ci sono tante cose che si possono fare per soccorrere, ognuno secondo i propri mezzi e possibilità, i poveri e promuoverne l’elevazione. Parlando del “grido dei poveri”, nella Evangelica testificatio, Paolo VI diceva in particolare a noi religiosi: “Esso induce certuni tra voi a raggiungere i poveri nella loro condizione, a condividere le loro ansie lancinanti. Invita, d’altra parte, non pochi vostri istituti a riconvertire in favore dei poveri certe loro opere”[11].
Eliminare o ridurre l’ingiusto e scandaloso abisso che esiste tra ricchi e poveri nel mondo è il compito più urgente e più ingente che il millennio da poco conclusosi ha consegnato al nuovo millennio in cui siamo entrati. Speriamo che non sia ancora il problema numero uno che il presente millennio lascia in eredità a quello successivo.
Infine, evangelizzare i poveri. Questa fu la missione che Gesù riconobbe come la sua per eccellenza: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, mi ha unto per evangelizzare i poveri” (Lc 4, 18) e che indicò come segno della presenza del Regno agli inviati del Battista: “Ai poveri è annunciata la lieta novella” (Mt 11, 15). Non dobbiamo permettere che la nostra cattiva coscienza ci spinga a commettere l’enorme ingiustizia di privare della buona notizia coloro che ne sono i primi e più naturali destinatari. Magari, adducendo, a nostra scusa, il proverbio che “ventre affamato non ha orecchi”. L’azione sociale deve accompagnare l’evangelizzazione, mai sostituirla.
Gesù moltiplicava i pani e insieme anche la parola, anzi prima amministrava, a volte per tre giorni di seguito, la Parola poi si preoccupava anche dei pani. Non di solo pane vive il povero, ma anche di speranza e di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. I poveri hanno il sacrosanto diritto di udire il Vangelo integrale, non in edizione ridotta o polemica; il vangelo che parla di amore ai poveri, ma non di odio ai ricchi.

4. Gioia nei cieli e gioia sulla terra
Terminiamo su un altro tono. Per Francesco d’Assisi, Natale non era solo l’occasione per piangere sulla povertà di Cristo; era anche la festa che aveva il potere di fare esplodere tutta la capacità di gioia che c’era nel suo cuore, ed era immensa. A Natale egli faceva letteralmente pazzie.
“Voleva che in questo giorno i poveri edi mendicanti fossero saziati dai ricchi, e che i buoi e gli asini ricevessero una razione di cibo e di fieno più abbondante del solito. Se potrò parlare all’imperatore – diceva – lo supplicherò di emanare un editto generale, per cui tutti quelli che ne hanno possibilità, debbano spargere per le vie frumento e granaglie, affinché in un giorno di tanta solennità gli uccellini e particolarmente le sorelle allodole ne abbiano in abbondanza”[12].
Diventava come uno di quei bambini che stanno con gli occhi pieni di stupore davanti al presepio. Durante la funzione natalizia a Greccio, racconta il biografo, quando pronunciava il nome ‘Betlemme’ si riempiva la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva ‘Bambino di Betlemme’ o ‘Gesú’, passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole”.
C’è un canto natalizio che esprime alla perfezione i sentimenti di San Francesco davanti al presepio e la cosa non stupisce se pensiamo che esso è stato scritto, parole e musica, da un santo come lui, sant’Alfonso Maria de Liguori. Ascoltandolo nel tempo natalizio, lasciamoci commuovere dal suo messaggio semplice ma essenziale:

Tu scendi dalle stelle o Re del cielo,
e vieni in una grotta al freddo e al gelo…
A te che sei del mondo il Creatore,
mancano i panni e il fuoco, o mio Signore.
Caro eletto pargoletto, quanta questa povertà
più mi innamora, giacché ti fece amor povero ancora.

Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, Buon Natale!

NOTE
[1] Celano, Vita Prima, 84-86 (Fonti Francescane, 468-470)
[2] Ib. 30, (FF 467).
[3] Celano, Vita Seconda, 151 (FF 788).
[4] H. Thode, Franz von Assisi und die Anfänge der Kunst des Renaissance in Italien, Berlin 1885.
[5] J. Guitton, cit. da R. Gil, Presencia de los pobres en el concilio, in “Proyección” 48, 1966, p.30.
[6] S. Leone Magno, Discorso 2 sull’Ascensione, 2 (PL 54, 398).
[7] In AAS 54, 1962, p. 682.
[8] Cf. Il Gesú di Paolo VI, a cura di V. Levi, Milano 1985, p. 61.
[9] P. Damien Vorreux, Saint François d’Assise, Documents, Parigi 1968, p. 36.
[10] V. Mancuso, in La Repubblica, Venerdì 4 Ottobre 2013.
[11] Paolo VI, Evangelica testificatio, 18 (Ench. Vatic., 4, p.651).
[12] Celano, Vita Seconda, 151 (FF 787-788).

Presepio

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NATALE NEI LAGER NAZISTI. IL DIARIO DEI PRIGIONIERI ITALIANI

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NATALE NEI LAGER NAZISTI. IL DIARIO DEI PRIGIONIERI ITALIANI

SOLDATI CHE SOGNANO LA FAMIGLIA, UN PRANZO E UN PRESEPE

ROMA, mercoledì, 23 dicembre 2009 (ZENIT.org). – «All’interno delle baracche, gli altoparlanti diffondono brani natalizi, valzer di Strauss, musiche austriache e musica operistica di vari autori (…). Trascorro questo periodo cullato dai ricordi, con il pensiero ai miei cari: non sanno che sono ancora al mondo e in salute. C’è il pensiero per loro che immagino soggetti ai peggiori bombardamenti, mentre loro penseranno chissà cosa di me». Dalla Prussia orientale, il soldato Carlo Zaltieri ferma su un foglio il suo Natale, anno 1943.

Non è il solo. Cercando infatti negli archivi dell’Anei – Associazione nazionale ex-internati, saltano fuori i diari dei prigionieri italiani nei campi di concentramento. In quelle pagine lise sono custoditi il dolore e la disperazione di quelli che si sono visti privare persino della speranza di un Dio che si fa uomo per salvare anche loro.

Reclusi che cercano, quando se ne ha la forza, di ricreare l’atmosfera di casa. A Benjaminowo, uno dei tanti lager in Polonia, gli internati preparano l’albero: «Abbiamo sradicato un pino nano per ogni baracca e lo abbiamo piantato in piedi tra i castelli dei nostri letti in legno. Non so chi è stato, ma uno di noi ha fatto tante striscioline di carta e le ha appese ai rami dell’albero. Cerchiamo di scaldarci al ricordo di giorni lontani: in ogni angolo si formano gruppi silenziosi e assorti. Fuori nevica e di casa non sappiamo nulla. Qualcuno che ha paura del silenzio, parla con voce monotona dell’albero che preparava per i suoi bambini, ma nessuno lo ascolta» (Paride Piasenti).

Sotto quei pini, senza luci e colori, mancano le letterine dei più piccini e i regali avvolti in variopinte carte d’alluminio: «Per il Natale, il Vescovo di Leopoli, ha fatto confezionare 2000 pacchi dono da distribuire a ciascuno di noi. Il Comando tedesco non è d’accordo. Risponde che non ne abbiamo bisogno perché siamo “graditi ospiti del Reich”» (Gastone Petraglia).

Ognuno cerca allora di imbastire da sé, alla meno peggio, il proprio Natale. C’è chi rovista tra i rifiuti: «Un’ombra nera, accoccolata lì vicino, sta scavando sotto la neve. E’ un giovanissimo prigioniero russo, biondo, con degli occhi grigiastri, sbarrati e stupiti, come quelli di un animale selvatico in gabbia (…) Sta cercando di razzolare nel mucchio in cerca di qualcosa da buttare nello stomaco (…) Mi offre un torsolo di cavolo e guarda compiaciuto l’impeto e la voracità con cui mi avvento sul suo regalo di Natale. Ci guardiamo a lungo negli occhi, intessendo un dialogo a bocca chiusa (…). Due mondi lontani che si vengono incontro e si toccano» (Tommaso Bosi).

Un frate, padre Ernesto Caroli – fondatore dell’Antoniano di Bologna, scomparso solo pochi mesi fa – porta agli uomini il conforto della fede. E anche quello del cibo. Ha con sé un altarino da campo di legno e tutto il necessario per la Messa: crocifisso, ostie, ampolline e paramenti sacri. Un giorno, viene bloccato dalla sentinella che lo interroga su cosa stia nascondendo sotto l’abito. Padre Ernesto, facendo spuntare pane, zucchero, uova, biscotti, replica sorridente al militare: “Gottesdienst”, servizio divino. Il fucile si abbassa. La scena si ripeterà molte altre volte con la sentinella di turno che continuerà a girarsi dall’altra parte.

Altri internati riescono a racimolare qualcosa per mettere in piedi un pranzo che non sia solo di scarti e patate. Fervore di cucine, si lavora individualmente o in gruppo. «Io non potrò fare nulla perché non ho che riso e farina, senza condimento alcuno, ma non me ne importa nulla. Se il Natale non è con la propria famiglia, o con la propria donna e i figli, non è Natale» (Gianfranco Ferria Contin).

É inutile, il pensiero corre alla casa lontana, ai bambini nati e a quelli che non si è visti nascere perché la guerra è stata più veloce d’ogni legge naturale. Dalla strada arriva forte il suono di una radio e il canto “Stille Nacht, Heilige Nacht” intonato da una voce femminile. «Una donna sulla porta, gli occhi alzati al cielo, canta a squarciagola. Ci uniamo anche noi al canto e lei aumenta il volume della voce» (Carlo Zaltieri). Ha il marito ed il figlio al fronte. Il canto è diretto a loro.

Quella guerra da lì a poco terminerà. Altre ne inizieranno ma resteranno certe circostanze, uguali in ogni conflitto, e in ogni angolo di mondo: la parola “madre” che è su tutte le labbra, e i figli che attendono i padri. E uguale resterà la domanda del soldato che uccide o si nasconde a scampare la propria vita, e che fu la stessa del Giobbe biblico: dov’è Dio?

«Come poteva nascere Gesù Bambino qui? – annota Domenico Saputo – Come poteva permettere tutto ciò? (…). Noi eravamo i testimoni della brutalità, noi dovevamo vivere per raccontare affinché in futuro uomini, donne e bambini non vivessero più in case diroccate, defraudati della loro vita, della loro infanzia», vittime e spettatori della barbarie. «Era il Natale più triste della mia vita. Era il Natale della mia crescita e della mia maturazione. Dovevo viverlo così, per raccontarlo agli altri, per non dimenticare».

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ESSERE FRATELLI: UNA SCELTA – (SITO DI BIBLICA)

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ESSERE FRATELLI: UNA SCELTA – (SITO DI BIBLICA)

Carlo Broccardo

Che cosa significa “essere fratelli”? Che cosa cambia in questo mondo il fatto che Dio non abbia creato gli uomini ciascuno per conto suo, ma legati tra di loro da relazioni di tipo fraterno? Il racconto di Caino e Abele ha dato la sua risposta, come s’è visto nell’articolo precedente, sottolineando tre dimensioni del rapporto di fratellanza o fraternità tra i figli di Adamo.
La prima: fratellanza è sinonimo di differenza, diversità. Stando a Gn 1,1-2,4a, l’uomo non è creato «secondo la propria specie», ma «a immagine di Dio»: siamo tutti uguali, con pari dignità[1]. Però uguali non vuol dire identici: la nascita di Abele pone accanto a Caino un altro uomo, che è diverso da lui.
La seconda dimensione: purtroppo la differenza è accettata da Caino solo fino a un certo punto; quando Dio fa la sua scelta e preferisce l’offerta di Abele, Caino cede al peccato, si lascia ghermire dalla sua bramosia e uccide il fratello. Fin dagli inizi, la fratellanza è macchiata di sangue: il tempo di un versetto, e dall’insegnamento di Dio che invita a dominare il peccato si passa al sangue che grida vendetta.
Infine, la terza dimensione della fratellanza che emerge da Gn 4,1-16 è su un versante teologico: in questa storia di “fratelli-coltelli”, Dio s’intromette molto spesso. Nella storia di Caino e Abele incontriamo un Dio che non elimina, anzi accentua la differenza tra i due; ma al contempo cerca in ogni modo di evitare il sangue: non con un intervento diretto che faccia cadere le armi dalle mani dell’omicida, ma invitando Caino a camminare a testa alta e proteggendolo quando ormai il misfatto è compiuto.
Essere fratelli si coniuga dunque con tre dimensioni della vita: la diversità, la violenza, la presenza di Dio. Seguiamo i solchi tracciati dal primo testo biblico che parla di fratellanza, per vedere come vengono approfonditi e dove ci conducono.
La diversità
Il primo aspetto della fratellanza – la diversità – è evidente già solo dall’uso del termine “fratello” nella Bibbia. Per cominciare, tentiamo approssimativamente una statistica: in tutto l’Antico Testamento il vocabolo ebraico ’ah (fratello) ritorna tantissime volte, più di seicento; se poi aggiungiamo il corrispondente greco adelfós per quanto riguarda i libri propri della Settanta e per il Nuovo Testamento, dobbiamo aumentare fino a superare le mille ricorrenze. Qualcosa in più ancora, non molto in verità, se includiamo parole come “sorella” e “fratellanza”. Sono moltissimi, dunque, i passi biblici in cui si parla di rapporti fraterni.
Detto questo, facciamo un passo in avanti, chiedendoci che cosa sta a indicare la parola “fratello” nei brani in cui viene utilizzata. Visto il numero di ricorrenze, è un lavoro improbo, per il quale conviene servirsi di alcuni studi specialistici che già hanno fatto questa ricerca[2]. Il risultato condiviso dai più è che il vocabolo “fratello” non ha sempre il significato originario, quello cioè di «figlio della stessa madre» (noi diremmo: fratello in senso biologico). Ci sono certamente i casi in cui il senso è appunto questo: il brano più conosciuto è proprio quello di Caino e Abele, poi altri come Esaù e Giacobbe o i primi discepoli di Gesù (Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni: cf. Mc 1,16.19). Ci sono dunque episodi biblici i cui protagonisti sono fratelli in senso stretto; ma non si tratta della maggior parte dei testi.
Molte volte nell’Antico Testamento il vocabolo prende un senso più ampio, indicando semplicemente un parente, un membro della stessa famiglia; per estensione, spesso sono chiamati fratelli i membri della stessa tribù o del popolo di Israele. Si veda per esempio l’inizio del Deuteronomio, quando Mosè ricorda il giorno in cui disse ai giudici: «Ascoltate le cause dei vostri fratelli e giudicate con giustizia le questioni che uno può avere con il fratello o con lo straniero che sta presso di lui» (Dt 1,16, in cui è evidente che fratelli sono gli appartenenti al popolo, distinti appunto dagli stranieri). Si nota una traccia di questa mentalità nelle parole di Paolo ad Antiochia di Pisidia; comincia infatti il suo discorso in sinagoga dicendo: «Fratelli, figli della stirpe di Abramo» (At 13,26). Il concetto di “fratello” si va identificando, in alcuni casi, con il vocabolo “prossimo”, che sta a indicare abitualmente colui che appartiene al popolo di Israele; famoso il detto del Levitico: «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,18).
Con il Nuovo Testamento ci sarà ancora uno slittamento di significato, perché verrà superata ogni distinzione precedente e fratelli saranno tutti coloro che condividono la stessa fede in Gesù. Eppure la medesima realtà costituita dai fratelli in Cristo avrà espressioni concrete molto diverse: dalle Lettere di Paolo e dagli Atti degli apostoli si intuisce che non tutte le prime comunità cristiane avevano lo stesso stile né un’identica organizzazione interna. Addirittura, all’interno della stessa piccola comunità si potevano scorgere diversi carismi (è il tema di 1Cor 12-14) e perfino nell’annuncio del vangelo c’erano diversità e talora contrasti: si veda, come esempio, la separazione di Paolo e Barnaba, raccontata in At 15,36-40.
Ricapitolando: da quando Eva ha dato a Caino un fratello, le differenze nell’umanità si sono moltiplicate in ogni direzione. Non solo alcuni uomini sono diventati pastori e altri agricoltori, alcuni hanno edificato città e altri hanno preferito la vita nomade; l’uso del vocabolo “fratello” testimonia che la diversità all’interno della famiglia si è poi riflessa nella vita della tribù, del popolo, del mondo intero (guardando alla prospettiva universale del Nuovo Testamento). La fratellanza dice dunque differenziazione tra gli uomini, diversità.
La violenza
Nel primo fascicolo del 2007, in questa stessa rivista, l’articolo di L. Mazzinghi metteva in luce tra gli altri temi la bontà della creazione, che emerge con vigore dall’analisi del primo capitolo della Genesi: una delle frasi che ricorre come ritornello è «Dio vide che era cosa buona»; in Gn 1,31 ancora meglio: con uno sguardo complessivo, «Dio vide tutto quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona». Insomma, Dio guarda la sua opera ed esprime la convinzione che questa è buona, utile, bella. Contro ogni sguardo pessimista sulla creazione, «Gn 1 è come una grande ouverture che dona all’intera Scrittura un tono positivo»[3].
Nello stesso articolo però, solo una pagina più avanti, si fa notare che basta arrivare fino a Gn 11 per trovare già cinque volte il verbo “maledire”. Anzi, possiamo approfondire rilevando che nei primi undici capitoli della Genesi la violenza segue una linea crescente, in espansione: prima c’è una frattura dei rapporti dell’uomo con Dio, poi tra fratelli, quindi all’interno dell’umanità intera, fino a giungere ai livelli inaccettabili che portano al diluvio. Non che Gn 1-11 sia una storia di violenza; piuttosto, si alternano maledizione / morte / inimicizia e benedizione / vita / solidarietà tra persone e popoli. Solo che l’escalation della violenza non lascia presagire nulla di buono[4].
Significa forse che la valutazione fatta da Dio contemplando la sua creazione era sbagliata? Speriamo di no; però notiamo la somiglianza tra Gn 1 e Gn 6[5]:
E Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa buona/utile/bella (1,31).
Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male (6,5).
Dio vide la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra (6,12).
Il panorama di Gn 6 non è dei più esaltanti. Occorre però tornare indietro e ricordare, come già detto, che in principio tutto è buono; non solo: è altrettanto importante andare in avanti, oltre il c. 11 della Genesi, per respirare una boccata di fiducia. Leggiamo quando scrive in proposito L. Alonso Schökel, a conclusione del suo studio sulle pagine di fraternità nel libro della Genesi:
Al principio tutto era buono e la totalità era molto buona. Venne il peccato e il bene diventò male: la terra fertile dà cardi e spine, la fecondità è dolorosa, l’amore è passione e sottomissione. La prima fraternità termina in un fratricidio e Lamec proclama il principio della vendetta, che è il trionfo del male moltiplicato. Lamec ha potuto dire al male: «Cresci e moltiplicati».
Dio interviene, staccando dal corso della storia un uomo eletto, Abramo. A partire da questo momento, benché continui l’ostilità e la lotta tra male e bene, il bene seppur faticosamente incomincia a trionfare. Le divisioni per interessi dei fratelli, Abramo e Lot, si compongono pacificamente, la rottura di Giacobbe e di Esaù viene risanata. Nel finale della storia di Giuseppe e dei suoi fratelli, anche il male si pone al servizio del bene, per l’azione di Dio[6].
Potremmo dire, interpretando le parole ora citate, che l’episodio di Caino e Abele ha messo in luce una dimensione della fraternità: come ogni altra relazione tra persone, non è scontato che funzioni. Ma questo non significa che dopo le prime battute positive la Bibbia sia solo una raccolta di fallimenti. Anzi, se con Gn 1-11 le relazioni tra gli uomini sprofondano in modo drammatico, a partire da Gn 12 cominceranno lentamente a riaffiorare.
Scorrendo una concordanza biblica, come abbiamo fatto all’inizio dell’articolo, ci accorgiamo che la maggior parte dei passi che parlano di fraternità si trovano nei libri storici dell’Antico Testamento. Se la Bibbia parla molto della fratellanza, non lo fa in astratto: racconta episodi in cui i personaggi chiamati in causa sono fratelli. Certo, ci sono anche gli insegnamenti, contenuti per esempio nel libro del Levitico o nelle lettere di Paolo; ma prevale la narrazione. Storie di uomini e donne, che quando entrano in relazione tra di loro non solo danno vita a una grande diversità (sia essa di consanguineità, di status sociale o di appartenenza religiosa), ma spesso tingono tale incontro col colore rosso del sangue.
La violenza non è l’ultima parola, dal momento che con Abramo la storia inverte la rotta pericolosa imboccata prima; eppure la Bibbia raccontando la storia della salvezza non nasconde che la violenza c’è, al punto che può stupire la quantità di testi violenti presenti nelle Sacre Scritture. Così è la Bibbia:
Uno spaccato della storia umana come storia di alienazione e di peccato che Dio non si rassegna ad abbandonare per cui interviene con la sua fantasia di onnipotente per capovolgerla e sovvertirla, riaprendo in essa lo spazio amicale originario di quando lui passeggiava insieme con l’uomo nel giardino dell’eden[7].
Con quest’ultima citazione ci introduciamo già nella terza sottolineatura, emersa dall’analisi di Gn 4,1-16: se c’è una via di uscita alla spirale della violenza è non solo perché Dio ha creato ogni cosa buona, utile, bella; ma anche perché lui stesso continua ad accompagnare la storia dell’uomo. Proprio come ha fatto con Caino, seppure invano.
La presenza di Dio
Ritorniamo alla narrazione di Gn 4,1-16: oltre a Caino, il personaggio che per più tempo sta sotto i riflettori è Dio. Strana presenza, la sua: si comporta in un modo non sempre comprensibile. La difficoltà più grande la incontriamo quando ci rendiamo conto che non tratta i due fratelli alla stessa maniera, ma fa un’evidente preferenza per il più fragile, Abele. Abbiamo visto nel commento al testo che non ci sono motivi nel comportamento dei fratelli che giustifichino tale preferenza: è una libera scelta di Dio, che Caino dimostra di non condividere. Perché Dio si comporta in questa maniera? L’autore della Genesi non ha una risposta da offrirci.
Anzi, le perplessità si infittiscono quando notiamo che Dio aveva dimostrato e continuerà a dimostrare una predilezione proprio per Caino! Quando si accorge che sta camminando a testa bassa, intuisce che qualcosa non va; gli rivolge allora la parola e lo invita a scegliere il bene e non il male; e quando poi la scelta è fatta e purtroppo è quella sbagliata, non abbandona Caino ma lo protegge da ogni possibile violenza. Ma non aveva fatto nulla per difendere Abele!
Come si può notare, Dio non è un personaggio di contorno nella narrazione di Caino e Abele: non se ne sta fuori dalle vicende dei fratelli. Certo, il suo modo di intervenire non è facilmente decifrabile…
Riconoscersi figli per essere fratelli
Approfondiamo il discorso a partire dalla scelta di Dio in favore di Abele. In modo secco e quasi inquietante, G. von Rad commenta così l’uccisione raccontata in Gn 4,8: «Si giunge così al primo omicidio, per una contesa riguardante Dio!»[8]. Non che si voglia attribuire colpe al Signore; ma solo notare che il motivo che spinge Caino ad uccidere il fratello non sta in qualcosa compiuto da Abele, ma nella scelta fatta da Dio. Il racconto di Caino e Abele, in modo tragico, apre questa prospettiva: nei rapporti tra fratelli, è fondamentale il modo di porsi nei confronti di Dio, la maniera di reagire alle sue scelte.
Per chiarire il concetto, e per notare che ritorna ancora nella Bibbia, prendiamo un esempio dal Nuovo Testamento; è un episodio molto noto, la parabola detta del figliol prodigo o del padre misericordioso (Lc 15,11-32). L’inizio è semplicissimo: «Un uomo aveva due figli…». Tutto il resto della parabola si gioca su questo campo, quello dei rapporti familiari: la situazione molto diversa in cui i due figli si trovano a vivere li porta a esprimere quello che pensano, a dire a voce alta cosa significa per loro “essere figli” ed “essere fratelli”.
Seguiamo l’ordine di Luca e iniziamo dal figlio minore; fa la sua scelta, gli va male ed è ridotto alla fame, allora rientra in se stesso e dice: a casa di mio padre anche i servi hanno da mangiare e io qui muoio di fame; meglio se torno. Nelle sue parole s’intravede un calcolo ben escogitato; si nota con tristezza che è disposto a vendere la sua figliolanza per un pezzo di pane: trattami come uno dei garzoni, ma dammi da mangiare.
Il figlio maggiore ragiona esattamente come il fratello, anche se le scelte della vita l’hanno portato a rimanere sempre in casa; dice infatti: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con gli amici» (v. 29). A chi sta parlando? A suo padre o al suo datore di lavoro? Come il fratello più giovane, lui pure non considerava suo padre per quello che era: un padre! Non lo chiama mai così; di più: quando parla del fratello minore non lo chiama mai nel modo più semplice, fratello! Al v. 30 leggiamo: «Questo tuo figlio è tornato…». Come tutti ben sappiamo, non è lo stesso dire “mio fratello” o “questo tuo figlio”…
Come Caino, il fratello maggiore della parabola non è d’accordo con la scelta del padre; perché in realtà non l’ha mai considerato come un genitore; la rottura con lui, di conseguenza, porta a non riconoscere l’altro come fratello. Bisogna riconciliarsi con Dio, comprenderne e condividerne le scelte, per poter vivere la fraternità senza spargimento di sangue.
Dio misterioso, ma salvatore
Occorre accettare le scelte di Dio, certo; ma bisogna anche ammettere che non sempre si riesce a capirle: lo stesso autore della Genesi non riesce a spiegarci come mai Abele è stato preferito a Caino. Non dobbiamo dimenticare che con quell’episodio siamo nelle prime pagine della Bibbia, poco dopo il grande poema della creazione: il Dio che preferisce uno al posto dell’altro è il Creatore del cielo e della terra, colui che «ha misurato con il cavo della mano le acque del mare e ha calcolato l’estensione dei cieli con il palmo» (Is 40,12). Le sue non sono scelte arbitrarie: c’è un progetto, solo che non sempre è visibile dal punto di vista di chi si trova a viverlo.
Un esempio chiaro di tutto ciò è la storia di Giuseppe venduto dai fratelli: ancora un brano che racconta la fratellanza. La vicenda è ben nota: siccome Giuseppe, il prediletto del padre Giacobbe, vantava pretese di superiorità sui suoi fratelli (basta leggere i sogni narrati in Gn 37), questi alla prima occasione lo eliminano; non lo uccidono, ma lo vendono come schiavo. Attraverso varie traversie, però, Giuseppe diviene viceré d’Egitto e alla fine i suoi sogni si realizzano, perché effettivamente i fratelli si prostrano davanti a lui, come i covoni del sogno.
Il racconto di Giuseppe è uno dei più “atei” di tutta la Genesi, nel senso che non si parla mai di Dio: dov’è mentre i suoi fratelli lo maltrattano? Perché non difende l’innocente? Compare solo alla fine, quando lo stesso Giuseppe spiega il senso dell’accaduto:
Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita (…). Dio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nel paese e per salvare in voi la vita di molta gente. Dunque non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio ed egli mi ha stabilito padre per il faraone, signore su tutta la sua casa e governatore di tutto il paese d’Egitto (Gn 45,5.7-8).
Dio ha prediletto Abele, ma poi non l’ha protetto; ha messo in guardia Caino dal compiere il male, ma non gliel’ha impedito; non ha difeso Giuseppe dall’ira cieca dei suoi fratelli. È difficile capire perché Dio ora interviene ora no, più difficile ancora comprendere perché si comporta così. La storia di Giuseppe ci invita a fidarci di lui, a credere che – seppure per noi incomprensibili – le scelte di Dio hanno un senso. Direbbe Isaia: «Veramente tu sei un Dio misterioso/nascosto, Dio di Israele, salvatore» (Is 45,15). Misterioso, nascosto, apparentemente assente; eppure salvatore.
Non è questo il luogo per farlo, dal momento che c’è una rubrica dedicata appositamente a tale dimensione; ma per completare il discorso sarebbe da aprire una finestra sul mistero di Gesù. Egli infatti è Dio stesso, che decide di essere presente nelle vicende dei fratelli, non solo guidandole in modo misteriosamente salvifico, ma divenendo lui stesso fratello.
Questione di scelte
È tempo di giungere alla conclusione della nostra riflessione sulla fraternità.
Siamo partiti dalle tre piste tracciate dal racconto di Caino e Abele: essere fratelli significa essere diversi; tale diversità può sfociare nella violenza; in questa intricata rete di relazioni fraterne Dio non sta a guardare. Percorrendo questi sentieri abbiamo incontrato altre figure bibliche, da Giuseppe fino a Gesù; perché di fratelli la Bibbia è piena, specialmente se non ci fermiamo al senso stretto del termine.
Dove ci ha condotti questa esplorazione della fraternità? In una parola, potremmo riassumere il percorso fatto con il termine “scelta”. È vero che all’inizio la relazione tra fratelli è una questione che non dipende dalla loro decisione; diversamente dal rapporto coniugale o da quello amicale, la fratellanza non si sceglie: fratelli si nasce. Se essere fratelli è un dato, però, vivere da fratelli è una scelta. Caino, i fratelli di Giuseppe, il figlio maggiore della parabola… tutti hanno scelto di non accettare la diversità del loro fratello; è stata una loro scelta, libera. Dio l’aveva chiarito bene fin dal suo primo insegnamento, quello rivolto a Caino (Gn 4,7): escludere il fratello non è una tragica fatalità, è una decisione presa nella libertà. Nessuno li ha costretti: l’hanno deciso loro.
Se talvolta la vita tra fratelli si macchia di sangue, allora, è perché è governata dalla legge della libertà. E di fronte alla libertà dell’uomo, lo stesso Dio è limitato nel suo agire: non ferma la mano di Caino, non sventa il complotto ordito contro Giuseppe, non costringe a forza il figlio maggiore a entrare in casa per far festa. Dio non scende dalla croce: questa è la sua scelta.
Molti studi sulla fraternità nella Bibbia citano il Sal 133; è così bello che conviene proprio concludere con le sue parole. Alla fine del nostro percorso, però, non lo leggeremo ingenuamente, come dicendo: oh, che bello se fosse vero! Lo gusteremo consapevoli che è vero: non c’è niente di più bello dei fratelli che vivono insieme; certo, bisogna che scelgano di farlo.
Ecco quanto è buono e quanto è soave
che i fratelli vivano insieme!
È come olio profumato sul capo,
che scende sulla barba,
sulla barba di Aronne,
che scende sull’orlo della sua veste.
È come rugiada dell’Ermon,
che scende sui monti di Sion.
Là il Signore dona la benedizione
e la vita per sempre.

[1] Cf. J.L. Ska, La parola di Dio nei racconti degli uomini, Cittadella, Assisi 1999, 26.
[2] Cf. H. Ringgren, «’ah, ’ahot», in Grande lessico dell’Antico Testamento, I, Paideia, Brescia 1988, 400-404; U. Falkenroth, «Fratello, prossimo», in Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, EDB, Bologna 1976, 721-722.
[3] L. Mazzinghi, «La parola, la profezia, il tempo, la benedizione: un itinerario tematico attraverso Genesi 1», in Parole di vita 1 (2007) 43.
[4] Per questa panoramica si veda: G. Cappelletto, Genesi (capitoli 1-11), EMP, Padova 2000, 137; J.A. Soggin, Genesi 1-11, Marietti, Genova 1991, 93.
[5] Cogliamo qui un suggerimento di A. Wénin, Non di solo pane… Violenza e alleanza nella Bibbia, EDB, Bologna 2004, 68-69.
[6] L. Alonso Schökel, Dov’è tuo fratello? Pagine di fraternità nel libro della Genesi, Paideia, Brescia 1987, 381.
[7] C. Di Sante, Bibbia, la grande storia. Trama narrativa e tematica, Cittadella, Assisi 2006, 14.
[8] G. von Rad, Genesi. Capitoli 1-12, Paideia, Brescia 1969, 127.

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Saint Lucy by Domenico Beccafumi, 1521, (Pinacoteca Nazionale, Siena)

 Saint Lucy by Domenico Beccafumi, 1521, (Pinacoteca Nazionale, Siena) dans immagini sacre 640px-Francesco_del_Cossa_-_Saint_Lucy

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SANTA LUCIA VERGINE E MARTIRE – 13 DICEMBRE

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SANTA LUCIA VERGINE E MARTIRE

13 DICEMBRE

SIRACUSA, III SECOLO – SIRACUSA, 13 DICEMBRE 304

La vergine e martire Lucia è una delle figure più care alla devozione cristiana. Come ricorda il Messale Romano è una delle sette donne menzionate nel Canone Romano. Vissuta a Siracusa, sarebbe morta martire sotto la persecuzione di Diocleziano (intorno all’anno 304). Gli atti del suo martirio raccontano di torture atroci inflittele dal prefetto Pascasio, che non voleva piegarsi ai segni straordinari che attraverso di lei Dio stava mostrando. Proprio nelle catacombe di Siracusa, le più estese al mondo dopo quelle di Roma, è stata ritrovata un’epigrafe marmorea del IV secolo che è la testimonianza più antica del culto di Lucia. Una devozione diffusasi molto rapidamente: già nel 384 sant’Orso le dedicava una chiesa a Ravenna, papa Onorio I poco dopo un’altra a Roma. Oggi in tutto il mondo si trovano reliquie di Lucia e opere d’arte a lei ispirate. (Avvenire)

Patronato: Siracusa, ciechi, oculisti, elettricisti, contro le malattie degli occhi
Etimologia: Lucia = luminosa, splendente, dal latino
Emblema: Occhi su un piatto, Giglio, Palma, Libro del Vangelo

Martirologio Romano: Memoria di santa Lucia, vergine e martire, che custodì, finché visse, la lampada accesa per andare incontro allo Sposo e, a Siracusa in Sicilia condotta alla morte per Cristo, meritò di accedere con lui alle nozze del cielo e di possedere la luce che non conosce tramonto.
Gli atti del martirio di Lucia di Siracusa sono stati rinvenuti in due antiche e diverse redazioni: l’una in lingua greca il cui testo più antico risale al sec. V (allo stato attuale delle ricerche); l’altra, in quella latina, riconducibile alla fine del sec. V o agli inizi del sec. VI ma comunque anteriore al sec. VII e che di quella greca pare essere una traduzione.
La più antica redazione greca del martirio contiene una leggenda agiografica edificante, rielaborata da un anonimo agiografo due secoli dopo il martirio sulla tradizione orale e dalla quale è ardua impresa sceverare dati storici. Infatti, il documento letterario vetustiore che ne tramanda la memoria è proprio un racconto del quale alcuni hanno messo addirittura in discussione la sua attendibilità. Si è giunti così, a due opposti risultati: l’uno è quello di chi l’ha strenuamente difesa, rivalutando sia la storicità del martirio sia la legittimità del culto; l’altro è quello di chi l’ha del tutto biasimata, reputando la narrazione una pura escogitazione fantasiosa dell’agiografo ma non per questo mettendo in discussione la stessa esistenza storica della v. e m., come sembrano comprovare le numerose attestazioni devozionali, cultuali e culturali in suo onore.
Sia la redazione in greco sia quella in latino degli atti del martirio hanno avuto da sempre ampia e ben articolata diffusione, inoltre entrambe si possono considerare degli archetipi di due differenti ‘rami’ della tradizione: infatti, dal testo in greco sembrano derivare numerose rielaborazioni in lingua greca, quali le Passiones più tardive, gli Inni, i Menei, ecc.; da quello in latino sembrano, invece, mutuare le Passiones metriche, i Resumé contenuti nei Martirologi storici, gli Antifonari, le Epitomi comprese in più vaste opere, come ad es. nello Speculum historiale di Vincenzo da Beauvais o nella Legenda aurea di Iacopo da Varazze.
I documenti rinvenuti sulla Vita e sul martirio sono vicini al genere delle passioni epiche in quanto i dati attendibili sono costituiti solo dal luogo e dal dies natalis. Infatti, negli atti greci del martirio si riscontrano elementi che appartengono a tutta una serie di composizioni agiografiche martiriali, come ad es. l’esaltazione delle qualità sovrumane della martire e l’assenza di ogni cura per l’esattezza storica. Tuttavia, tali difetti, tipici delle passioni agiografiche, nel testo greco di Lucia sono temperate e non spinte all’eccesso né degenerate nell’abuso. Proprio questi particolari accostano gli atti greci del martirio al genere delle passioni epiche.
Sul piano espositivo l’andamento è suggestivo ed avvincente, non mancando di trasmettere al lettore emozioni e resoconti agiografici inconsueti attraverso un racconto che si snoda su un tessuto narrativo piuttosto ricco di temi e motivi di particolare rilievo: il pellegrinaggio alla tomba di Agata (con il conseguente accostamento Agata/Lucia e Catania/Siracusa); il sogno, la visione, la profezia e il miracolo; il motivo storico; l’integrità del patrimonio familiare; la lettura del Vangelo sull’emorroissa; la vendita dei beni materiali, il Carnale mercimonium e la condanna alla prostituzione. Infatti è stretta la connessione tra la dissipazione del patrimonio familiare e la prostituzione per cui la condanna al postrìbolo rappresenta una legge di contrappasso sicché la giovane donna che ha dilapidato il patrimonio familiare è ora condannata a disperdere pure l’altro patrimonio materiale, rappresentato dal proprio corpo attraverso un’infamante condanna, direttamente commisurata alla colpa commessa; infine, la morte.
Il martirio incomincia con la visita di Lucia assieme alla madre Eutichia, al sepolcro di Agata a Catania, per impetrare la guarigione dalla malattia da cui era affetta la madre: un inarrestabile flusso di sangue dal quale non era riuscita a guarire neppure con le dispendiose cure mediche, alle quali si era sottoposta. Lucia ed Eutichia partecipano alla celebrazione eucaristica durante la quale ascoltano proprio la lettura evangelica sulla guarigione di un’emorroissa. Lucia, quindi, incita la madre ad avvicinarsi al sepolcro di Agata e a toccarlo con assoluta fede e cieca fiducia nella guarigione miracolosa per intercessione della potente forza dispensatrice della vergine martire. Lucia, a questo punto, è presa da un profondo sonno che la conduce ad una visione onirica nel corso della quale le appare Agata che, mentre la informa dell’avvenuta guarigione della madre le predice pure il suo futuro martirio, che sarà la gloria di Siracusa così come quello di Agata era stato la gloria di Catania. Al ritorno dal pellegrinaggio, proprio sulla via che le riconduce a Siracusa, Lucia comunica alla madre la sua decisione vocazionale: consacrarsi a Cristo! A tale fine le chiede pure di potere disporre del proprio patrimonio per devolverlo in beneficenza. Eutichia, però, non vuole concederle i beni paterni ereditati alla morte del marito, avendo avuto cura non solo di conservarli orgogliosamente intatti e integri ma di accrescerli pure in modo considerevole. Le risponde, quindi, che li avrebbe ereditati alla sua morte e che solo allora avrebbe potuto disporne a suo piacimento. Tuttavia, proprio durante tale viaggio di ritorno, Lucia riesce, con le sue insistenze, a convincere la madre, la quale finalmente le da il consenso di devolvere il patrimonio paterno in beneficenza, cosa che la vergine avvia appena arrivata a Siracusa. Però, la notizia dell’alienazione dei beni paterni arriva subito a conoscenza del promesso sposo della vergine, che se ne accerta proprio con Eutichia alla quale chiede anche i motivi di tale imprevista quanto improvvisa vendita patrimoniale. La donna gli fa credere che la decisione era legata ad un investimento alquanto redditizio, essendo la vergine in procinto di acquistare un vasto possedimento destinato ad assumere un alto valore rispetto a quello attuale al momento dell’acquisto e tale da spingerlo a collaborare alla vendita patrimoniale di Lucia. In seguito il fidanzato di Lucia, forse esacerbato dai continui rinvii del matrimonio, decide di denunciare al governatore Pascasio la scelta cristiana della promessa sposa, la quale, condotta al suo cospetto è sottoposta al processo e al conseguente interrogatorio. Durante l’agone della santa e vittoriosa martire di Cristo Lucia, emerge la sua dichiarata e orgogliosa professione di fede nonché il disprezzo della morte, che hanno la caratteristica di essere arricchiti sia di riflessioni dottrinarie sia di particolari sempre più cruenti, man mano che si accrescono i supplizi inflitti al fine di esorcizzare la v. e m. dalla possessione dello Spirito santo. Dopo un interrogatorio assai fitto di scambi di battute che la vergine riesce a contrabbattere con la forza e la sicurezza di chi è ispirato da Cristo, il governatore Pascasio le infligge la pena del postrìbolo proprio al fine di operare in Lucia una sorta di esorcismo inverso allontanandone lo Spirito santo. Mossa dalla forza di Cristo, la vergine Lucia reagisce con risposte provocatorie, che incitano Pascasio ad attuare subito il suo tristo proponimento. La vergine, infatti, energicamente gli dice che, dal momento che la sua mente non cederà alla concupiscenza della carne, quale che sia la violenza che potrà subire il suo corpo contro la sua volontà, ella resterà comunque casta, pura e incontaminata nello spirito e nella mente. A questo punto si assiste ad un prodigioso evento: la vergine diventa inamovibile e salda sicché, nessun tentativo riesce a trasportarla al lupanare, nemmeno i maghi appositamente convocati dallo spietato Pascasio. Esasperato da tale straordinario evento, il cruento governatore ordina che sia bruciata, eppure neanche il fuoco riesce a scalfirla e Lucia perisce per spada! Sicché, piegate le ginocchia, la vergine attende il colpo di grazia e, dopo avere profetizzato la caduta di Diocleziano e Massimiano, è decapitata.
Pare che Lucia abbia patito il martirio nel 304 sotto Diocleziano ma vi sono studiosi che propendono per altre datazioni: 303, 307 e 310. Esse sono motivate dal fatto che la profezia di Lucia contiene elementi cronologici divergenti che spesso non collimano fra loro: per la pace della chiesa tale profezia si dovrebbe riferire al primo editto di tolleranza nei riguardi del cristianesimo e quindi sarebbe da ascrivere al 311, collegabile, cioè, all’editto di Costantino del 313; l’abdicazione di Diocleziano avvenne intorno al 305; la morte di Massimiano avvenne nel 310. È, invece, accettata dalla maggioranza delle fonti la data relativa al suo dies natalis: 13 dicembre. Eppure, il Martirologio Geronimiano ricorda Lucia di Siracusa in due date differenti: il 6 febbraio e il 13 dicembre. L’ultima data ricorre in tutti i successivi testi liturgici bizantini e occidentali, tranne nel calendario mozarabico, che la celebra, invece, il 12 dicembre. Nel misterioso calendario latino del Sinai il dies natalis di Lucia cade l’8 febbraio: esso fu redatto nell’Africa settentrionale e vi è presente un antico documento della liturgia locale nel complesso autonoma sia dalla Chiesa di Costantinopoli che da quella di Roma, pur rivelando fonti comuni al calendario geronimiano.
Assai diffusa è a tutt’oggi la celebrazione del culto di Lucia quale santa patrona degli occhi. Ciò sembra suffragato anche dalla vasta rappresentazione iconografica, che, tuttavia, è assai variegata, in quanto nel corso dei secoli e nei vari luoghi si è arricchita di nuovi simboli e di varie valenze. Ma è stato sempre così? Quando nasce in effetti questo patronato e perché? Dal Medioevo si va sempre più consolidando la taumaturgia di Lucia quale santa patrona della vista e dai secc. XIV-XV si fa largo spazio un’innovazione nell’iconografia: la raffigurazione con in mano un piattino (o una coppa) dove sono riposti i suoi stessi occhi. Come si spiega questo tema? È, forse, passato dal testo orale all’iconografia? Oppure dall’iconografia all’elaborazione orale? Quale l’origine di un tale patronato? Esso è probabilmente da ricercare nella connessione etimologica e/o paretimologica di Lucia a lux, molto diffusa soprattutto in testi agiografici bizantini e del Medioevo Occidentale. Ma, quali i limiti della documentazione e quali le cause del proliferare della tradizione relativa all’iconografia di Lucia, protettrice della vista? Si può parlare di dilatazione dell’atto di lettura nell’immaginario iconografico, così come in quello letterario? E tale dilatazione nei fenomeni religiosi è un atto di devozione e fede? È pure vero che la semantica esoterica data al nome della v. e m. di Siracusa è la caratteristica che riveste, accendendola di intensa poesia, la figura e il culto di Lucia, la quale diventa, nel corso dei secoli e nei vari luoghi una promessa di luce, sia materiale che spirituale. E proprio a tale fine l’iconografia, già a partire dal sec. XIV, si fa interprete e divulgatrice di questa leggenda, raffigurando la santa con simboli specifici e al tempo stesso connotativi: gli occhi, che Lucia tiene in mano (o su un piatto o su un vassoio), che si accompagnano sovente alla palma, alla lampada (che è anche uno dei simboli evangelici più diffuso e più bello, forse derivato dall’arte sepolcrale) e, meno frequenti, anche ad altri elementi del suo martirio, come ad es. il libro, il calice, la spada, il pugnale e le fiamme. È anche vero che le immagini religiose possono essere intese sia come ritratti che come imitazione ma non bisogna dimenticare che prima dell’età moderna sono mancati riferimenti ai suoi dati fisiognomici, per cui gli artisti erano soliti ricorrere alla letteratura agiografica il cui esempio per eccellenza è proprio la Legenda Aurea di Iacopo da Varazze, che rappresenta il testo di riferimento e la fonte di gran parte dell’iconografia religiosa. In tale opera il dossier agiografico di Lucia -che si presenta come un testo di circa tre pagine di lunghezza- è preceduto da un preambolo sulle varie valenze etimologiche e semantiche relative all’accostamento Lucia/luce: Lucia è un derivato di luce esteso anche al valore simbolico via Lucis, cioè cammino di luce.
I genitori di Lucia, essendo cristiani, avrebbero scelto per la figlia un nome evocatore della luce, ispirandosi ai molti passi neotestamentari sulla luce. Tuttavia, il nome Lucia in sé non è prerogativa cristiana, ma è anche il femminile di un nome latino comune e ricorrente tra i pagani. Se poi Lucia significhi solo «luce» oppure più precisamente riguarda i «nati al sorger della luce (cioè all’alba)», rivelando nel contempo anche un dettaglio sull’ora di nascita della santa, è a tutt’oggi, un problema aperto. Forse la questione è destinata a restare insoluta? Il problema si complica se poi si lega il nome di Lucia non al giorno della nascita ma a quello della morte (=dies natalis): il 13 dicembre era, effettivamente, la giornata dell’anno percentualmente più buia. Per di più, intorno a quella data, il paganesimo romano festeggiava già una dea di nome Lucina. Queste situazioni hanno contribuito ad alimentare varie ipotesi riconducibili, tuttavia, a due filoni: da un lato quello dei sostenitori della teoria, secondo la quale tutte le festività cristiane sarebbero state istituite in luogo di preesistenti culti pagani, vorrebbero architettata in tale modo anche la festa di Lucia (come già quella di Agata). Per i non credenti tale discorso può anche essere suggestivo e accattivante, trovando terreno fertile. Da qui a trasformare la persona stessa di Lucia in personaggio immaginifico, mitologico, leggendario e non realmente esistito, inventato dalla Chiesa come calco cristiano di una preesistente divinità pagana, il passo è breve (persino più breve delle stesse già brevi e pallide ore di luce di dicembre!). Dall’altro lato quello dei credenti,secondo i quali, invece, antichi e accertati sono sia l’esistenza sia il culto di Lucia di Siracusa, che rappresenta così una persona storicamente esistita, morta nel giorno più corto dell’anno e che riflette altresì il modello femminile di una giovane donna cristiana, chiamata da Dio alla verginità, alla povertà e al martirio, che tenacemente affronta tra efferati supplizi.
Nel Breviario Romano Tridentino, riformato da papa Pio X (ed. 1914), che prima di salire al soglio pontificio era patriarca di Venezia, è menzionata la traslazione delle reliquie di Lucia alla fine della lettura agiografica, così come ha evidenziato Andreas Heinz nel suo recente contributo.
A Siracusa un’inveterata tradizione popolare vuole che, dopo avere esalato l’ultimo respiro, il corpo di Lucia sia stato devotamente tumulato nello stesso luogo dell martirio. Infatti, secondo la pia devozione dei suoi concittadini, il corpo della santa fu riposto in un arcosolio, cioè in una nicchia ad arco scavata nel tufo delle catacombe e usata come sepolcro. Fu così che le catacombe di Siracusa, che ricevettero le sacre spoglie della v. e m., presero da lei anche il nome e ben presto attorno al suo sepolcro si sviluppò una serie numerosa di altre tombe, perché tutti i cristiani volevano essere tumulati accanto all’amatissima Lucia. Ma, nell’878 Siracusa fu invasa dai Saraceni per cui i cittadini tolsero il suo corpo da lì e lo nascosero in un luogo segreto per sottrarlo alla furia degli invasori. Ma, fino a quando le reliquie di Lucia rimasero a Siracusa prima di essere doppiamente traslate (da Siracusa a Costantinopoli e da Costantinopoli a Venezia)? Fino al 718 o fino al 1039? È certo che a Venezia il suo culto era già attestato dal Kalendarium Venetum del sec. XI, nei Messali locali del sec. XV, nel Memoriale Franco e Barbaresco dell’inizio del 1500, dove era considerata festa di palazzo, cioè festività civile. Durante la crociata del 1204 i Veneziani lo trasportarono nel monastero di San Giorgio a Venezia ed elessero santa Lucia compatrona della città. In seguito le dedicarono pure una grande chiesa, dove il corpo fu conservato fino al 1863, quando questa fu demolita per la costruzione della stazione ferroviaria (che per questo si chiama Santa Lucia); il corpo fu trasferito nella chiesa dei SS. Geremia e Lucia, dove è conservato tutt’oggi.

La duplice traslazione delle reliquie di Lucia è attestata da due differenti tradizioni.

La prima tradizione risale al sec. X ed è costituita da una relazione, coeva ai fatti, che Sigeberto di Gembloux († 1112) inserì nella biografia di Teodorico, vescovo di Metz. Tale relazione tramanda che il vescovo Teodorico, giungendo in Italia insieme all’imperatore Ottone II, abbia trafugato molte reliquie di santi –fra cui anche quella della nostra Lucia- che allora erano nell’Abruzzo e precisamente a Péntima (già Corfinium). La traslazione a Metz delle reliquie di Lucia pare suffragata dagli Annali della città dell’anno 970 d.C. Ma alcuni dubbi sembrano non avere risposte attendibili: Come e perché Faroaldo ripose le reliquie o le spoglie di Lucia a Corfinium? Furono traslate le reliquie o tutto il corpo della martire? Il vescovo locale si prestò ad un inganno (pio e devoto?) o diceva il vero? Se è ravvisabile un fondo di verità nel racconto del vescovo, allora si potrebbe desumere che le reliquie o il corpo della martire furono traslate da Siracusa nel 718 (quindi fino al 718 sarebbero rimaste a Siracusa?). Cosa succedeva allora nella città siciliana? Sergio, governatore della Sicilia, si era ribellato all’imperatore Leone III l’Isaurico e pertanto era stato costretto a fuggire da Siracusa e a rifugiarsi da Romualdo II, duca longobardo di Benevento. Se questa tradizione è attendibile, si può forse pensare che il vescovo di Corfinium (o piuttosto Sigeberto? Oppure altresì la sua fonte?) abbia confuso Romualdo (che proprio in quel periodo era duca di Spoleto e che, come tale, godeva di una fama maggiore) con Faroaldo? E ancora, lo stesso Sigeberto di Gembloux riferisce che Teoderico nel 972 abbia innalzato un altare in onore di Lucia e che nel 1042 un braccio della v. e m. sia stato donato al monastero di Luitbourg. Quindi, antichi documenti attestano che di fatto vi fu una traslazione delle reliquie di Lucia dall’Italia centrale a Metz, sulla frontiera linguistica romano-germanica, nella provincia di Treviri. Situata fra Germania e Francia, questa regione è anche il paese d’origine della dinastia carolingia. È una casualità? Come andarono effettivamente le cose? Secondo Sigeberto di Gembloux l’imperatore Ottone II sostò in Italia nel 970, avendo tra la sua scorta il vescovo Teodorico di Metz, il quale, durante il suo soggiorno, acquistava preziose reliquie, allo scopo di accrescere la fama della sua città vescovile. Pare che uno dei suoi preti, di nome Wigerich, che era anche cantore nella cattedrale di Metz, abbia rinvenuto le reliquie di Lucia di Siracusa, a Corfinium, poi identificata con Péntima in Abruzzo. Si dice che tali reliquie erano state prelevate dai Longobardi e trasportate da Siracusa al ducato di Spoleto. Ma perché questo spostamento? In un primo tempo le reliquie di Lucia, dopo essere state acquistate dal vescovo Teodorico di Metz, il quale aveva portato dall’Italia anche il corpo del martire Vincenzo, furono tumulate assieme alle reliquie di quest’ultimo al quale il vescovo aveva fatto erigere un’abbazia sull’isola della Mosella, dove nel 972 uno dei due altari della chiesa dell’abbazia, fu dedicato proprio a Lucia, come patrona. Sigeberto ricorda pure che Teodorico di Metz, in presenza di due vescovi di Treviri e precisamente di Gerard di Toul e di Winofid di Verdun, abbia dedicato a Lucia un oratorio nello stesso anno. Non solo, ma tanta e tale era dunque la devozione di Teodorico di Metz per la v. e m. di Siracusa che fece tumulare il conte Everardo, suo giovane nipote, prematuramente scomparso alla tenera età di soli dieci anni, proprio innanzi all’altare di Lucia. Per tutto il tempo in cui le spoglie di Lucia rimasero nella chiesa dell’abbazia di S. Vincenzo nella Mosella, la v. e m. di Siracusa fu implorata durante i giorni delle Regazioni, con una grande processione della cittadinanza di Metz che si fermò proprio nell’abbazia di S. Vincenzo. Così Metz divenne il fulcro da cui si irradiò ben presto il culto di Lucia tanto che già nel 1042 l’imperatore Enrico III reclamò alcune reliquie della v. e m. di Siracusa per il convento nuovamente fatto erigere dalla sua famiglia nella diocesi di Speyer e precisamente a Lindeburch/Limburg.

La seconda tradizione è, invece, tramandata da Leone Marsicano e dal cronista Andrea Dandolo di Venezia. Leone Marsicano racconta che nel 1038 il corpo di Lucia, vegine e martire, fu trafugato da Giorgio Maniace e traslato a Costantinopoli in una teca d’argento. Andrea Dandolo, esponendo la conquista di Costantinopoli del 1204 da parte dei Crociati, tra i quali militava anche Enrico Dandolo, un suo illustre antenato e doge di Venezia, informa che i corpi di Lucia e Agata erano stati traslati dalla Sicilia a Costantinopoli ma che quello di Lucia fu poi nuovamente traslato da Costantinopoli a Venezia, dove pare che di fatto giunse il 18 gennaio 1205. Quindi, la traslazione delle reliquie di Lucia a Venezia da Costantinopoli sembra legata agli eventi della Quarta Crociata (quella riconducibile al periodo che va dal 1202 al 1204), quando i cavalieri dell’Occidente latino, piuttosto che liberare la Terrasanta, spogliarono la metropoli dell’Oriente cristiano. Infatti, nel 1204, in seguito alla profanazione e al saccheggio dei crociati nelle basiliche di Bisanzio, neanche la chiesa in cui riposava il corpo di Lucia fu risparmiata da questa oltraggiosa strage tanto che furono pure rimosse le sue spoglie e contese le sue reliquie, molto venerate nell’Oriente ortodosso. Pare che, proprio in tale occasione Venezia, che aveva condotto la Quarta Crociata presso il Santo Sepolcro, si impadronì delle reliquie di Lucia, che giunsero, come si diceva, sulla laguna – nella chiesa di S. Giorgio Maggiore- il 18 gennaio 1205 e cioè ancora prima della costruzione della basilica del Palladio e dell’attuale Palazzo Ducale. Il corpo di Lucia fu riposto nel monastero benedettino, dove aveva soggiornato il monaco Gerardo (o Sagredo?). Sembra che il tragico evento del 13 dicembre del 1279 (cioè una bufera scatenatasi all’improvviso, che provocò molte vittime) sia stato la causa di una nuova traslazione del corpo di Lucia dalla chiesa di S. Giorgio Maggiore a Venezia (eccetto, pare, un pollice -non un braccio, come vuole la communis opinio- che sarebbe rimasto in San Giorgio). Dopo tale tragedia, infatti, le autorità decisero di traslare il corpo di Lucia in città, ponendolo in una chiesa parrocchiale a lei intitolata e ciò allo scopo di agevolare a piedi il pellegrinaggio alle sue sacre spoglie in terraferma senza dovere ricorrere ad imbarcazioni. Quindi, nel mese seguente alla sciagura e precisamente il 18 gennaio del 1280 (lo stesso giorno della memoria dell’arrivo delle sacre spoglie di Lucia da Costantinopoli), il suo corpo fu traslato nella chiesa dedicatale, che si trovava nello stesso luogo in cui era ubicata la stazione ferroviaria che, ancora oggi ne conserva la memoria nel nome e precisamente sulle fondamenta prospicienti il Canal Grande e cioè all’inizio del sestiere di Cannareggio. Tale chiesa fu poi riedificata nel 1313 e fu assegnata dal papa Eugenio IV nel 1444 in commenda alle suore domenicane, che avevano aperto il loro convento intitolato al Corpus Domini, un cinquantennio prima sempre a Cannareggio. Nel 1476, dopo circa un trentennio di contese, si raggiunse un accordo tra le monache domenicane del convento del Corpus Domini e quelle agostiniane del monastero dell’Annunziata proprio per il possesso del corpo di Lucia: papa Sisto IV nel 1478 stabilì, con un solenne diploma, che il corpo della santa rimanesse nella chiesa a lei intestata sotto la giurisdizione delle agostiniane del monastero dell’Annunziata (che da allora prese il nome di monastero di S. Lucia), le quali ogni anno avrebbero offerto la somma di 50 ducati alle monache domenicane del convento del Corpus Domini. Nel 1579 passando per il Dominio veneto l’imperatrice Maria d’Austria, il Senato volle farle omaggio di una reliquia di s. Lucia pertanto, con l’assistenza del patriarca Giovanni Trevisan fu asportata una piccola porzione di carne dal lato sinistro del corpo della v. e m. Il 28 luglio del 1806 per decreto vicereale il monastero di Santa Lucia fu soppresso e le monache agostiniane costrette a trasferirsi al di là del Canal Grande e precisamente nel monastero di S. Andrea della Girada, dove portarono pure il corpo di Lucia. Nel 1807 il governo vicereale concesse alle agostiniane di S. Lucia di far ritorno nel loro antico convento, che, tuttavia, trovarono occupato dalle agostiniane di Santa Maria Maddalena, le quali si fusero con quelle di S. Lucia, assumendone anche il titolo. Nel 1810 Napoleone Bonaparte decretò la chiusura di tutti i monasteri e conventi, compreso quello di S. Lucia, le cui monache furono pure obbligate a deporre l’abito monastico e a rientrare nella propria famiglia di appartenenza. Il corpo di Lucia rimase nella sua chiesa, che fu così inserita nella circoscrizione della parrocchia di S. Geremia. Nel 1813 il convento di S. Lucia era donato dall’imperatore d’Austria alla b. Maddalena di Canossa, che vi abitò fino al 1846, quando iniziarono i lavori per la stazione ferroviaria e per la demolizione del convento. Fra il 1844 e il 1860 il governo austriaco realizzò la costruzione del ponte ferroviario, che doveva giungere fino alle fondamenta di Cannareggio e cioè proprio là dove da secoli allogavano i monasteri delle domenicane del Corpus Domini e delle agostiniane di Santa Lucia, poi abbattuti. Il corpo di Lucia l’11 luglio 1860 subì, quindi, una nuova traslazione nella parrocchia di S. Geremia, per volere del patriarca Angelo Ramazzotti: il sacro corpo rimase sette giorni sull’altar maggiore, poi fu posto su un altare laterale in attesa di costruire la nuova cappella. Tre anni dopo, l’11 luglio 1863, fu inauguata: essa era stata costruita con il materiale del presbiterio della demolita chiesa di S. Lucia su gusti palladiani. Per la generosità di mons. Sambo, parroco di quella Chiesa (che nel frattempo assunse la denominazione SS. Geremia e Lucia) su disegno dell’arch. Gaetano Rossi fu allestito un altare più degno in broccatello di Verona con fregi di bronzo dorato. Quindi, dal 1860 Pio IX l’avrebbe fatto trasferire nella chiesa dei Santi Geremia e Lucia, dove si venera a tutt’oggi. Qui, la cappella del corpo di santa Lucia è assai bella e artistica proprio come tutte le chiese di Venezia, adorna di marmi e di bronzi, ed è sempre stata oggetto di particolari cure ed elevata devozione di fedeli sempre più numerosi. Il sacro corpo, elevato sopra l’altare, è conservato in una elegante urna di marmi preziosi, superbamente abbellita da pregiate decorazioni e sormontata dalla stupenda statua della v. e m. Sulla parete di sfondo si leggono due iscrizioni, che raccontano le vicende della traslazione e delle principali solenni festività. Il 15 giugno del 1930 il patriarca Pietro La Fontaine lo consacrava e collocava il corpo incorrotto di Lucia nella nuova urna in marmo giallo ambrato. Nel 1955 il patriarca Angelo Roncalli -divenuto poi papa con il nome di Giovanni XXIII- volendo che fosse conferita più importanza alle sacre reliquie di Lucia, suggerì che le sacre spoglie fossero ricoperte di una maschera d’argento, curata dal parroco Aldo Da Villa. Nel 1968, per iniziativa del parroco Aldo Fiorin fu portato a compimento un completo restauro della Cappella e dell’Urna della v. e m. Ancor oggi le sacre reliquie riposano nel tempio di Venezia e nella bianca curva absidale si legge un inciso propiziatorio: Vergine di Siracusa martire di Cristo in questo tempio riposa all’Italia al mondo implori luce e pace. Ma, il 4 aprile 1867 le spoglie di Lucia furono disgraziatamente profanate dai ladri (subito arrestati), che furtivamente si erano introdotti nella chiesa di S. Geremia, per impadronirsi degli ornamenti votivi. Da allora seguirono altre profanazioni e spoliazioni: nel 1949, quando alla martire fu sottratta la corona (anche in questo caso il ladro fu arrestato) e nel 1969, quando due ladri infransero il cristallo dell’urna. Nel 1975 papa Giovanni Paolo I concesse che il corpo della martire fosse portato ed esposto alla venerazione dei fedeli nella diocesi di Pesaro per una settimana. Il 7 novembre 1981 due aggressori spezzarono l’urna della martire estraendovi il corpo e lasciandovi il capo e la maschera argentea. Anche questa volta il corpo fu recuperato proprio il 12 dicembre del 1981, giorno della vigilia della commemorazione della santa.

Esiste una variante sulla traslazione del corpo di Lucia a Venezia, documentata da un codice del Seicento, o Cronaca Veniera, conservato nella Biblioteca Marciana di Venezia (It. VII, 10 = 8607, f. 15 v.): esso sarebbe stato portato a Venezia, assieme a quello di S. Agata, nel 1026, sotto il dogado di Pietro Centranico. Non conosciamo l’origine della notizia nè se derivi da una fonte anteriore. E’ diffuso, invece, il fondato sospetto di un errore meccanico di amanuense, che avrebbe letto 1026 invece di 1206, cioè gli anni dell’effettiva translatio. E nella Cronaca Veniera lo si accettò, legando il fatto al doge dell’epoca. La presenza del corpo di Lucia a Venezia sin dal 1026 è una notizia che va accolta con prudenza? Tra il 1167 e il 1182 a Venezia esisteva già una chiesa dedicata alla martire, come attestato da documenti locali.

Una delle più antiche tradizioni veronesi racconta che le spoglie della santa siracusana passarono da Verona durante il loro viaggio verso la Germania intorno al sec. X, fatto che spiegherebbe anche la diffusione del culto della santa sia a Verona che nel nord Europa. Secondo un’altra tradizione, il culto di santa Lucia a Verona risalirebbe al periodo di dominio della Serenissima su Verona. Secondo la communis opinio, Venezia infatti, già nel 1204, avrebbe trasportato le spoglie della santa nella città lagunare.

Autore: Maria Stelladoro

Publié dans:santi martiri |on 12 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

BRANO BIBLICO SCELTO – 1 TESSALONICESI 5,16-24

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BRANO BIBLICO SCELTO – 1 TESSALONICESI 5,16-24

Fratelli, 16 state sempre lieti, 17 pregate incessantemente, 18 in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.
19 Non spegnete lo Spirito, 20 non disprezzate le profezie; 21 esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male.
25 Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. 26 Colui che vi chiama è fedele e farà tutto questo!

COMMENTO
1 Tessalonicesi 5,16-24
Preghiera e servizio nello Spirito

La lettera ai cristiani di Tessalonica è stata scritta da Paolo, durante il suo secondo viaggio missionario, poco dopo aver raggiunto Corinto (verso il 52). Essa si apre con un breve prescritto (1,1) a cui fa seguito un lungo ringraziamento (1,2-3,13); vengono poi alcune direttive su temi specifici di vita cristiana (4,1-5,24), seguite dal postscritto (5,25-28). Il testo liturgico fa parte delle esortazioni che concludono le direttive su temi specifici (5,12-24). Dopo aver raccomandato ai tessalonicesi di avere rispetto per i responsabili della comunità, di correggere gli indisciplinati e incoraggiare i deboli, di non rendere male per bene (cfr. vv. 12-15), Paolo fa prima tre esortazioni generali (vv. 16-18), poi mette in guardia i destinatari da errori circa l’uso dei carismi (vv. 19-22) e infine li esorta alla perfezione (vv. 23-24).
e tre esortazioni generali riguardano rispettivamente la gioia, la preghiera e il ringraziamento Anzitutto Paolo invita i tessalonicesi alla gioia (chairete) (v. 16). Già precedentemente aveva motivato il suo ringraziamento iniziale appellandosi alla gioia con cui essi, benché pressati da ostilità e avversità, avevano accolto l’annunzio evangelico (cfr. 1,6). Ora li esorta a far sì che questa gioia non venga mai meno, neppure in futuro. Con la gioia deve andare di pari passo una preghiera continua (adialeiptôs) (v. 17). Infine raccomanda loro il ringraziamento «in ogni cosa» (en panti) (v. 18). Lo sguardo rivolto a Dio nella preghiera per impetrare i suoi doni è lo stesso con cui i tessalonicesi devono saper riconoscere con gratitudine la sua presenza benefica in tutti i risvolti della loro vita.
In secondo luogo l’apostolo focalizza la sua attenzione sulle manifestazioni carismatiche della chiesa. Egli si esprime con due imperativi: «Non spegnete lo Spirito, non disprezzate i doni della profezia» (vv 19-20). Dal suo modo di esprimersi sembra che Paolo non si limiti a mettere in guardia circa un pericolo possibile, ma esorti a interrompere un comportamento deviante già in atto. È probabile che nella comunità di Tessalonica si fosse già verificata una non meglio precisata diffidenza e repressione nei confronti dello slancio profetico suscitato dallo Spirito. La parola viva del profeta, che individua i segni dei tempi e sollecita i credenti a una fedeltà concreta e attuale (cfr. 1Cor 14,3), non deve essere soppressa neppure quando può non fare comodo agli ascoltatori.
D’altra parte però l’apostolo, sapendo che in questo campo si possono commettere errori o prendere abbagli, esorta: «Esaminate (dokimazete) ogni cosa, tenete ciò che è buono, astenetevi da ogni specie di male» (vv. 21-22). Nessuna preclusione aprioristica dunque, ma neppure indiscriminata accettazione di ciò che viene proposto, bensì una saggia verifica per fare ciò che è bene e astenersi da ogni male. Anche il profeta deve sapersi mettere in questione e dimostrare la bontà dei suoi interventi (cfr. 1Cor 14,32-33).
Infine Paolo pronunzia una preghiera di supplica (vv 23-24) con la quale conclude la seconda parte della lettera così come aveva già terminato la prima (cfr. 3,11-13). Egli si rivolge al Dio della pace perché porti a compimento nei destinatari la sua opera santificatrice, e questo in vista del giorno ultimo della venuta di Cristo. Bisogna che essi possano presentarsi al suo tribunale con le carte in regola, puri da ogni compromesso con il male. Per esprimere la totalità della persona il testo parla di «spirito, anima e corpo». Questa espressione fa pensare alla visione filosofica greca secondo la quale l’uomo è composto di tre principi, la vita superiore (lo spirito), la vita inferiore (anima), la dimensione materiale (il corpo). Sembra però che si tratti solo di un’imitazione del modo di dire greco, che nulla toglie alla concezione biblica, che punta sempre sulla totalità dell’essere umano. La preghiera termina con un riferimento alla fedeltà di Dio: «Colui che vi chiama è fedele e farà tutto questo!» (v. 24). La fiducia dei credenti non ha nulla da spartire con la spavalda sicurezza di chi confida nelle proprie risorse, ma si basa unicamente sulla affidabilità del Padre.

Linee interpretative
La gioia rappresenta una dimensione importante della vita cristiana. Essa non consiste in una vana esaltazione, ma nella sensazione profonda di pace che accompagna la scoperta del senso della propria vita. Questa gioia trova la sua fonte nella preghiera, perché solo nel rapporto con Dio si capisce a fondo se stessi e gli altri. Il fatto che l’apostolo insista su una preghiera incessante fa comprendere che essa non consiste nella recita di formule, ma in uno stare davanti a Dio, con la percezione costante del suo progetto e delle sue manifestazioni nella storia. La preghiera serve soprattutto a cogliere il senso del Mistero e a orientare le scelte fondamentali della vita. Perciò essa deve essere continua.
Accanto alla preghiera Paolo raccomanda una grande apertura ai doni dello Spirito, che agisce soprattutto mediante l’esercizio della profezia. Sono proprio i profeti che tengono desti nella comunità i valori evangelici e stimolano i fratelli a vivere in piena sintonia con essi. Dai profeti viene anche la possibilità di incarnare il messaggio nella vita quotidiana. La mancanza di una dimensione profetica rischia di appiattire la comunità e di trasformarla in un club di amici senza alcun impatto sul mondo circostante. Certo non manca mai il rischio che sorgano falsi profeti, i quali possono portare la comunità su strade sbagliate. La vigilanza è dunque necessaria. Tutta la comunità deve reagire attivamente alle stimolazioni dei profeti, senza mai dare per scontata l’attendibilità evangelica dei loro messaggi. Nulla è più lontano dalla mentalità di Paolo di una comunità che si lascia trascinare inconsciamente da pochi scalmanati. Ma allo stesso modo egli rifugge dall’idea di un gruppo talmente istituzionalizzato da non saper più cogliere le sfide di un mondo che cambia

14 DICEMBRE 2014 | 3A DOMENICA DI AVVENTO B | OMELI

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14 DICEMBRE 2014 | 3A DOMENICA DI AVVENTO B | OMELIA

Per cominciare
La terza domenica di Avvento è tradizionalmente la domenica della gioia. Paolo nell’antifona di apertura esclama: « Rallegratevi sempre nel Signore! Ve lo ripeto: rallegratevi! Il Signore è vicino ». E nella seconda lettura dice ai Tessalonicesi: « State sempre lieti: questa è la volontà di Dio ». Il Signore viene e rinnoverà ogni cosa, il Signore viene e ci sorprenderà.

La Parola di Dio
Isaia 61,1-2a.10-11.
Isaia ci presenta un brano che ci è famigliare, perché Gesù stesso (cf Luca 4) quelle parole le ha fatte proprie parlando nella sinagoga di Nazaret e annunciando la venuta del regno di Dio. È l’investitura del messia atteso, che viene anzitutto per i poveri, per la liberazione degli schiavi, per farsi consolazione a chi è piagato nello spirito.
1 Tessalonicesi 5,16-24.
Paolo invita i cristiani a vivere nella gioia. Una gioia che viene da una vita buona, da una vita nuova. C’è l’invito a non spegnere lo spirito, a diventare santi fino alla perfezione, a conservarsi pronti, irreprensibili per la venuta del Signore.
Giovanni 1,6-8,19-28.
Giovanni annuncia la luce che deve venire e lo fa anche in questa domenica attraverso la parola di Giovanni il Battista. Non è lui la luce, dice di sé Giovanni, ma uno che rende testimonianza alla luce. È un testimone, una voce che grida nel deserto di preparare la strada al Signore che viene. Il Battista non è il messia, anche se la gente se lo domanda e riconosce la forza della sua persona. È un testimone credibile e austero, che indica la venuta di uno che « non conosciamo » e che ci sorprenderà.

Riflettere
o Al centro di questa terza domenica c’è la figura del Battista. Egli non predica se stesso, ma vive tutto in funzione di Gesù. I vangeli sinottici presentano Giovanni Battista come il precursore di Gesù, e la tradizione lo riconoscere come l’ultimo dei grandi profeti (il profetismo è scomparso da vari secoli). Qui invece per l’evangelista è il testimone. Giovanni con la sua vita è un testimone credibile, significativo convincente.
o Il Battista è un uomo « mandato da Dio », dice l’evangelista Giovanni, ma non è il messia. Non lo nasconde agli ambasciatori che vanno a chiederglielo, a nome del sinedrio. In realtà poteva farlo pensare, per la missione che ha intrapreso, per la vita che conduce, per il gruppo di giovani che ha raccolto e che attendono come lui la venuta del messia.
o Il Battista ha la missione di annunciare la luce che deve venire. È la « voce » che presenta il Cristo, di cui umilmente si sente « indegno di legargli i sandali ». Il Battista sa bene che « deve diminuire », man mano che il messia viene riconosciuto e si rende visibile.
o « In mezzo a voi c’è uno che non conoscete », dice. L’espressione è applicabile a milioni di persone che ancora oggi non conoscono Cristo, ma anche per molti cristiani, che non vivono la presenza di Cristo in loro e in mezzo a loro. Ma l’espressione ha un significato più alto. Perché Gesù è l’uomo-Dio che ti sorprende sempre, inesauribile nella sua persona, che non si può mai conoscere adeguatamente. A partire dal Natale, che ci rivela il Figlio di Dio che viene al mondo facendosi bambino, cioè in modo assolutamente sorprendente e inaspettato.
o Paolo invita i Tessalonicesi alla gioia. Ciò che più colpisce di questo suo invito sono gli avverbi che usa: sempre (siate lieti), incessantemente (pregate), tutto (ripetuto più volte). Si tratta di un radicalismo cristiano a cui Paolo è assuefatto, ma che a noi risulta più difficile e per il quale il tempo dell’Avvento può venirci in soccorso, spingendoci a un allenamento più deciso. È l’atteggiamento di chi si dà a Dio non a tempo parziale o a scadenza, ma definitivamente e seriamente.

Attualizzare
- La prima cosa che colpisce della parola di Dio di questa domenica è l’invito alla gioia. Nessuno, lo sappiamo, ha diritto più di noi cristiani di vivere questo tempo di attesa del Natale nella gioia. Ma la televisione e la pubblicità parlano della gioia di questi giorni in termini ben diversi: pioggia di panettoni (e qualcuno urla: « Adesso è Natale! »); « A Natale pretendi di più! », insinua un altro spot. Un canale televisivo cambia il suo logo in Natale 5. Il Natale è spesso tutto qui e la festa rischia di essere per lo meno dimezzata. Dobbiamo imparare a difenderci: a Natale non è proibito fare regali, dal momento che Gesù si è fatto dono per noi. Ma dobbiamo trovare il modo di non cadere nel consumismo più sfrenato.
-Non è possibile in questo contesto non sottolineare la semplicità e la povertà del Natale. Gesù nascendo ha rifiutato ricchezze, onori, potere (il diavolo lo tenterà sin dall’inizio della vita pubblica). La gente ha fatto addirittura fatica a riconoscerlo come messia. Ma i poveri, gli ammalati, gli esclusi, i miserabili, i peccatori lo hanno capito e non hanno avuto paura di lui. Questa gente non si avvicina ai cortei imperiali, non si avvicina ai re. Gesù ha fatto in modo che nessuno avesse paura di lui, che tutti potessero avvicinarlo, riconoscersi nella sua umanità di bambino indifeso, di adulto « normale ». Se si fosse presentato come un re potente, avrebbe visto le strade chiudersi al suo passaggio, gli sbarramenti delle guardie per tenere lontane le folle.
-Ma questa umanità di Gesù non deve fare velo e dobbiamo accoglierlo nella fede per quello che è: il Figlio di Dio, il messia atteso, il salvatore. Andiamogli incontro con la nostra fede. Anzi disponiamoci ad accoglierlo, perché in realtà è lui che viene a noi e ci cerca ancora una volta in questo Natale.
- La testimonianza di Giovanni Battista viene dal deserto. « Voce di uno che grida… nel deserto preparate la strada al Signore ». Quasi un terzo della terra abitata è deserto: il 33% della superficie terrestre. Ogni anno 135 milioni di persone abbandonano la propria terra perché si è desertificata e non produce più nulla. Ma oggi c’è soprattutto il deserto dell’anima, dei sentimenti. Le solitudini, la mancanza di persone di riferimento, di qualcuno di cui fidarsi, a cui poter telefonare… Rompiamo la solitudine con la tv, la radio, mentre sarebbe bello abbattere le barriere delle nostre case per parlare con qualcuno, approfittare del nostro deserto per incontrare Dio, leggere la Bibbia, imparare a pregare.
- Giovanni Battista è anche voce per noi, gente del nostro tempo. E invita anche noi a essere testimoni, banditori, battistrada del Signore che viene. Perché si prepari la strada al Signore che viene e l’uomo del nostro tempo viva il vero Natale, senza fermarsi ai suoi segni di festa folcloristici.
- « Chi sei? », domandano gli inviati dei farisei al Battista. Egli non nasconde la propria identità, non si monta la testa – « Non sono io il messia », dice – ma ha semplicemente la vocazione di preparagli la strada, disponendo quelli che vanno a farsi battezzare ad attenderlo. « Più che di maestri, abbiamo bisogno di testimoni », dice la Evangelii nuntiandi di Paolo VI.
- « Chi sei? », dovremmo chiederci anche noi, stimolati dalle letture di questa domenica. E domandarci come ci collochiamo di fronte al messia che viene. Dovremmo trovare il tempo di guardarci dentro senza paura e senza timore di perdere qualcosa. Perché c’è chi pensa che entrando in rapporto con Dio, con Cristo, perderà verrà privato di qualcosa, non sarà più libero, dovrà rinunciare a realizzarsi.
- Invece Dio si fa uomo perché io comprenda fino in fondo qual è il mio destino, la mia identità profonda e per aiutarmi a realizzarla. Per rendermi felice. Solo i malvagi e chi rifiuta di prendere la vita a occhi aperti, hanno motivo di temere.

Un Natale cristiano
Luca è un ragazzo ventenne che è stato investito a morte da un’auto. All’ospedale ha chiesto di poter vedere l’autista dell’altra macchina, perché voleva perdonarlo. Era un ragazzo in gamba questo Luca. Dopo la sua morte, i genitori hanno reso pubblica una lettera scritta poco prima, in occasione delle feste, e scriveva: « Non potremmo, per questo Natale, evitare i regali e fare davvero un Natale cristiano?

Umberto DE VANNA sdb

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