Archive pour décembre, 2014

PAPA FRANCESCO: GIORNATA MARIANA NELL’ANNO DELLA FEDE (Il sì di Maria)

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SANTA MESSA IN OCCASIONE DELLA GIORNATA MARIANA NELL’ANNO DELLA FEDE (Il sì di Maria)

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Piazza San Pietro

Domenica, 13 ottobre 2013

Nel Salmo abbiamo recitato: “Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie” (Sal 97,1).
Oggi siamo di fronte ad una delle meraviglie del Signore: Maria! Una creatura umile e debole come noi, scelta per essere Madre di Dio, Madre del suo Creatore.
Proprio guardando a Maria, alla luce delle Letture che abbiamo ascoltato, vorrei riflettere con voi su tre realtà: prima, Dio ci sorprende; seconda, Dio ci chiede fedeltà; terza, Dio è la nostra forza.
1. La prima: Dio ci sorprende. La vicenda di Naaman, capo dell’esercito del re di Aram, è singolare: per guarire dalla lebbra si rivolge al profeta di Dio, Eliseo, che non compie riti magici, né gli chiede cose straordinarie, ma solo fidarsi di Dio e di immergersi nell’acqua del fiume; non però dei grandi fiumi di Damasco, ma del piccolo fiume Giordano. E’ una richiesta che lascia Naaman perplesso, anche sorpreso: che Dio può essere quello che chiede qualcosa di così semplice? Vuole tornare indietro, ma poi fa il passo, si immerge nel Giordano e subito guarisce (cfr 2 Re 5,1-14). Ecco, Dio ci sorprende; è proprio nella povertà, nella debolezza, nell’umiltà che si manifesta e ci dona il suo amore che ci salva, ci guarisce, ci dà forza. Chiede solo che seguiamo la sua parola e ci fidiamo di Lui.
Questa è l’esperienza della Vergine Maria: davanti all’annuncio dell’Angelo, non nasconde la sua meraviglia. E’ lo stupore di vedere che Dio, per farsi uomo, ha scelto proprio lei, una semplice ragazza di Nazaret, che non vive nei palazzi del potere e della ricchezza, che non ha compiuto imprese straordinarie, ma che è aperta a Dio, sa fidarsi di Lui, anche se non comprende tutto: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38). E’ la sua risposta. Dio ci sorprende sempre, rompe i nostri schemi, mette in crisi i nostri progetti, e ci dice: fidati di me, non avere paura, lasciati sorprendere, esci da te stesso e seguimi!
Oggi chiediamoci tutti se abbiamo paura di quello che Dio potrebbe chiederci o di quello che ci chiede. Mi lascio sorprendere da Dio, come ha fatto Maria, o mi chiudo nelle mie sicurezze, sicurezze materiali, sicurezze intellettuali, sicurezze ideologiche, sicurezze dei miei progetti? Lascio veramente entrare Dio nella mia vita? Come gli rispondo?
2. Nel brano di san Paolo che abbiamo ascoltato, l’Apostolo si rivolge al discepolo Timoteo dicendogli: ricordati di Gesù Cristo, se con Lui perseveriamo, con Lui anche regneremo (cfr 2 Tm 2,8-13). Ecco il secondo punto: ricordarsi sempre di Cristo, la memoria di Gesù Cristo, e questo è perseverare nella fede; Dio ci sorprende con il suo amore, ma chiede fedeltà nel seguirlo. Noi possiamo diventare “non fedeli”, ma Lui non può, Lui è “il fedele” e chiede da noi la stessa fedeltà. Pensiamo a quante volte ci siamo entusiasmati per qualcosa, per qualche iniziativa, per qualche impegno, ma poi, di fronte ai primi problemi, abbiamo gettato la spugna. E questo purtroppo, avviene anche nelle scelte fondamentali, come quella del matrimonio. La difficoltà di essere costanti, di essere fedeli alle decisioni prese, agli impegni assunti. Spesso è facile dire “sì”, ma poi non si riesce a ripetere questo “sì” ogni giorno. Non si riesce ad essere fedeli.
Maria ha detto il suo “sì” a Dio, un “sì” che ha sconvolto la sua umile esistenza di Nazaret, ma non è stato l’unico, anzi è stato solo il primo di tanti “sì” pronunciati nel suo cuore nei suoi momenti gioiosi, come pure in quelli di dolore, tanti “sì” culminati in quello sotto la Croce. Oggi, qui ci sono tante mamme; pensate fino a che punto è arrivata la fedeltà di Maria a Dio: vedere il suo unico Figlio sulla Croce. La donna fedele, in piedi, distrutta dentro, ma fedele e forte.
E io mi domando: sono un cristiano “a singhiozzo”, o sono un cristiano sempre? La cultura del provvisorio, del relativo entra anche nel vivere la fede. Dio ci chiede di essergli fedeli, ogni giorno, nelle azioni quotidiane e aggiunge che, anche se a volte non gli siamo fedeli, Lui è sempre fedele e con la sua misericordia non si stanca di tenderci la mano per risollevarci, di incoraggiarci a riprendere il cammino, di ritornare a Lui e dirgli la nostra debolezza perché ci doni la sua forza. E questo è il cammino definitivo: sempre col Signore, anche nelle nostre debolezze, anche nei nostri peccati. Mai andare sulla strada del provvisorio. Questo ci uccide. La fede è fedeltà definitiva, come quella di Maria.
3. L’ultimo punto: Dio è la nostra forza. Penso ai dieci lebbrosi del Vangelo guariti da Gesù: gli vanno incontro, si fermano a distanza e gridano: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!” (Lc 17,13). Sono malati, bisognosi di essere amati, di avere forza e cercano qualcuno che li guarisca. E Gesù risponde liberandoli tutti dalla loro malattia. Fa impressione, però, vedere che uno solo torna indietro per lodare Dio a gran voce e ringraziarlo. Gesù stesso lo nota: dieci hanno gridato per ottenere la guarigione e solo uno è ritornato per gridare a voce alta il suo grazie a Dio e riconoscere che Lui è la nostra forza. Saper ringraziare, saper lodare per quanto il Signore fa per noi.
Guardiamo Maria: dopo l’Annunciazione, il primo gesto che compie è di carità verso l’anziana parente Elisabetta; e le prime parole che pronuncia sono: “L’anima mia magnifica il Signore”, cioè un canto di lode e di ringraziamento a Dio non solo per quello che ha operato in lei, ma per la sua azione in tutta la storia della salvezza. Tutto è suo dono. Se noi possiamo capire che tutto è dono di Dio, quanta felicità nel nostro cuore! Tutto è suo dono. Lui è la nostra forza! Dire grazie è così facile, eppure così difficile! Quante volte ci diciamo grazie in famiglia? E’ una delle parole chiave della convivenza. “Permesso”, “scusa”, “grazie”: se in una famiglia si dicono queste tre parole, la famiglia va avanti. “Permesso”, “scusami”, “grazie”. Quante volte diciamo “grazie” in famiglia? Quante volte diciamo grazie a chi ci aiuta, ci è vicino, ci accompagna nella vita? Spesso diamo tutto per scontato! E questo avviene anche con Dio. E’ facile andare dal Signore a chiedere qualcosa, ma andare a ringraziarlo: “Mah, non mi viene”.
Continuando l’Eucaristia invochiamo l’intercessione di Maria, perché ci aiuti a lasciarci sorprendere da Dio senza resistenze, ad essergli fedeli ogni giorno, a lodarlo e ringraziarlo perché è Lui la nostra forza. Amen

* * *

ATTO DI AFFIDAMENTO A MARIA

Beata Maria Vergine di Fatima,
con rinnovata gratitudine per la tua presenza materna
uniamo la nostra voce a quella di tutte le generazioni
che ti dicono beata.

Celebriamo in te le grandi opere di Dio,
che mai si stanca di chinarsi con misericordia sull’umanità,
afflitta dal male e ferita dal peccato,
per guarirla e per salvarla.

Accogli con benevolenza di Madre
l’atto di affidamento che oggi facciamo con fiducia,
dinanzi a questa tua immagine a noi tanto cara.

Siamo certi che ognuno di noi è prezioso ai tuoi occhi
e che nulla ti è estraneo di tutto ciò che abita nei nostri cuori.

Ci lasciamo raggiungere dal tuo dolcissimo sguardo
e riceviamo la consolante carezza del tuo sorriso.

Custodisci la nostra vita fra le tue braccia:
benedici e rafforza ogni desiderio di bene;
ravviva e alimenta la fede;
sostieni e illumina la speranza;
suscita e anima la carità;
guida tutti noi nel cammino della santità.

Insegnaci il tuo stesso amore di predilezione
per i piccoli e i poveri,
per gli esclusi e i sofferenti,
per i peccatori e gli smarriti di cuore:
raduna tutti sotto la tua protezione
e tutti consegna al tuo diletto Figlio, il Signore nostro Gesù.

Amen.

 

Publié dans:Maria Vergine, PAPA FRANCESCO |on 20 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

Ecce Ancilla Domini! by Dante Gabriel Rossetti

 Ecce Ancilla Domini! by Dante Gabriel Rossetti dans immagini sacre 345px-Rossetti_Annunciation

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Publié dans:immagini sacre |on 19 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

L’ANNUNCIAZIONE (J. RATZINGER)

http://it.mariedenazareth.com/8438.0.html?&L=4

L’ANNUNCIAZIONE (J. RATZINGER)

Nel suo libro La figlia di Sion, Papa Benedetto XVI, allora Cardinale J. Ratzinger, il racconto dell’Annunciazione è fonte di numerose meditazioni. Egli, andando diritto all’essenziale, apre la via ai principali approfondimenti che il lettore trova poi a sua disposizione.

Il luogo
Anzitutto, è già importante la localizzazione che Luca presenta in voluta contrapposizione con la precedente storia di Giovanni Battista.
L’annuncio della nascita del Battista avviene nel Tempio di Gerusalemme, è fatto ad un sacerdote che sta svolgendo la sua funzione e avviene, per così dire, nell’ordinamento ufficiale, come prescritto dalla legge, in conformità al culto, al luogo e alle funzioni.
L’annuncio della nascita del Messia viene fatto a Maria, ad una donna, in un luogo insignificante della semi-pagana Galilea che né Flavio Giuseppe né il Talmud nominano. Tutto ciò era « insolito per la sensibilità ebraica.
Ora Dio si rivela dove e quando Lui vuole ». Incomincia una vita nuova, al centro della quale non vi è il tempio ma l’umanità semplice di Gesù Cristo. È Egli ora il vero tempio, la tenda dell’incontro.

Il saluto a Maria
Il saluto a Maria (Lc 1,28-32) è stato formulato con stretto riferimento a Sof. 3,14-17 : è Maria la figlia di Sion alla quale sono rivolte le espressioni di quel testo, a lei viene detto « Gioisci » ; a lei viene detto che il Signore viene a lei; è lei che viene sollevata dall’angoscia perché il Signore è con lei per salvarla. [...]
Maria rimase turbata (Lc 1,29) a questo messaggio. Il suo turbamento non deriva dalla non comprensione o da quella paura pusillanime alla quale lo si vorrebbe talvolta far risalire. Deriva dalla commozione prodotta dagli incontri con Dio, di quelle gioie incommensurabili che sono capaci di commuovere le nature più dure.
Nel saluto dell’angelo compare il motivo portante con cui Luca presenta la figura di Maria in genere: è lei, in persona, la vera Sion alla quale si sono rivolte le speranze da tutte le rovine della storia.
È lei il vero Israele, nel quale si uniscono inseparabilmente Antica e Nuova Alleanza, Israele e Chiesa.
È lei il « popolo di Dio » , che porta frutto per la potenza della grazia di Dio.

Un concepimento misterioso
Dobbiamo infine fare attenzione anche all’espressione con la quale, in modo preciso, viene descritto il mistero del nuovo concepimento e della nuova nascita: « Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo ». [...]
La prima immagine fa riferimento al racconto della creazione ( Gn 1,2) e caratterizza quindi l’avvenimento come una nuova creazione: il Dio, il cui Spirito aleggiava sugli abissi, chiamò l’essere dal nulla. Egli che, come « Spirito creatore », è la ragione di tutto ciò che è, questo Dio inaugura qui una nuova creazione. Viene perciò sottolineato con ogni energia il taglio radicale che la venuta di Cristo significa: la sua novità è tale che essa raggiunge anche il fondamento dell’essere; è tale che può venire solamente dalla potenza creatrice di Dio stesso, non da altre parti.
La seconda immagine « su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo », appartiene alla teologia cultuale d’Israele; essa rimanda alla nube che stende la sua ombra sul Tempio ed indica così la presenza di Dio. Maria appare come la tenda santa sulla quale comincia ad agire la presenza nascosta di Dio.

J. Ratzinger (Papa Benedetto XVI)
La figlia di Sion, Jaca Book, Milano 1979, p.41-43

21 DICEMBRE 2014 | 4A DOMENICA DI AVVENTO B | OMELIA

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/02-annoB/14-15/Omelie/4-Avvento-B/10-4a-Domenica-Avvento-B-2014-UD.htm

21 DICEMBRE 2014 | 4A DOMENICA DI AVVENTO B | OMELIA

4A DOMENICA DI AVVENTO – ANNO B 2014

Per cominciare
È l’ultima domenica che precede il Natale. La festa è nell’aria, in un balenare di stelle e di luci. È la festa più bella dell’anno che coinvolge tutti, anche chi non vorrebbe avere niente a che spartire con Gesù di Nazaret. Il vangelo di questa domenica ci presenta « il mistero nascosto per secoli » che si svela in Maria. È così che il Natale trova il suo vero significato e la festa un senso pieno.

La Parola di Dio
2 Samuele 7,1-5.8b-12.14a.16.
Il giovane Davide, preso dai pascoli, a custodia del gregge, diventa re d’Israele e vuole costruire un tempio al Signore. Ma Iahvè per bocca del profeta Natan, gli dice che sarà suo figlio Salomone a costruirlo, promettendogli in questo modo una discendenza e la stabilità del regno.
Romani 16,25-27.
In queste poche righe, che concludono la lettera ai Romani, Paolo dice che con il suo vangelo si fa annunciatore del « mistero nascosto per secoli », un mistero di amore misericordioso che si è rivelato in Gesù Cristo.
Luca 1,26-38.
A dieci secoli dal tempo del re Davide, dopo una storia di attesa e di infedeltà del popolo d’Israele, si compiono finalmente in pienezza le promesse: Dio si cerca una madre, il mistero si fa vicino nel ventre di Maria. È la vergine Maria il tempio vivo di Dio in cui si rivelano l’amore e la fedeltà di Dio.

Riflettere
o Ecco realizzarsi le promesse di Dio. Nell’annunciazione Dio si consegna all’umanità prendendo vita nel seno di una giovane donna. Anche Maria si consegna a Dio e si fa strumento nelle sue mani. È grazie a lei, la ragazza di Nazaret, la sposa di Giuseppe, che la salvezza giunge sulla terra.
o All’annuncio dell’angelo non mancano paure, bisogno di chiarimenti, esultanza del cuore, piena disponibilità, proprio come avviene in ogni impegno d’amore. In questo momento, nel ventre di Maria, si realizza l’unione sponsale tra Dio e l’umanità.
o Le scelte di Dio si realizzano nel tempo. Anzitutto Dio si sceglie un popolo, il più piccolo dei popoli dell’antichità, un popolo di nomadi, e ne fa il suo interlocutore privilegiato, il portatore della sua parola nel mondo.
o Dio sceglie poi un re e una dinastia, quella di Davide. Davide è un re carico dei suoi peccati, un uomo astuto e violento, che dovrà più volte invocare la misericordia di Dio. Ma è anche un uomo che, a suo modo, risponde alle scelte di Dio e le accoglie. Dalla sua dinastia nascerà il messia, attraverso la persona di Giuseppe, che è appunto della stirpe di Davide.
o Infine Dio sceglie una ragazza. Maria è la serva di Iahvè, il nuovo tempio di Gerusalemme, la nuova Eva. È la risposta dell’uomo a Dio, è la nostra offerta al Dio che ci cerca e si fa uomo.
o In Maria diventa possibile l’impossibile e si realizza l’incarnazione, la venuta di Dio fra noi: « Lo Spirito Santo scenderà su di te, e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra ».
o « Ecco la serva del Signore », dice Maria. È il momento in cui Maria si consegna ai piani di Dio. La volontà di Dio diventa la sua volontà: più che a Betlemme, è questo l’istante dell’incarnazione, perché è ora che Dio si consegna a lei facendosi uomo nel suo grembo. Da quel sì di Maria potremmo dire che il cuore di Dio ha assunto i palpiti di un vero uomo: Dio si fa nostro fratello, assume la nostra umanità, si fa carne. « Vero Dio e vero uomo », grazie al sì di Maria.
o La nascita di Gesù coinvolge oltre che Maria anche Giuseppe e i progetti di Dio s’intrecciano con i loro. Giuseppe, appena comprende le intenzioni di Dio sulla sua promessa sposa, decide di farsi da parte. Ma l’angelo si fa vivo anche con lui: « Non temere di prendere con te Maria: il bambino che lei aspetta è opera dello Spirito Santo. Maria partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù » (Mt 1,20).

Attualizzare
* È inevitabile alla vigilia di questo Natale confrontare le scelte di Dio che viene a noi con il nostro modo di attendere il Natale. Dio vuole ancora rivelarsi a noi anche oggi, ma lui si serve di mezzi poveri ed è venuto a noi nella povertà. Mentre le tante, troppe luci del nostro Natale offuscano la luminosità del mistero dell’incarnazione.
* Gesù si incarna in Maria a Nazaret, in Galilea, a 140 km nord della capitale Gerusalemme. Nazaret è una cittadina che oggi ha 40 mila abitanti, più della metà musulmani. E nasce a Betlemme, dove non trova ospitalità e viene alla luce in un capanno per gli animali, accolto da umili pastori, mal considerati dai capi degli ebrei.
* Il Natale di Gesù avviene nella semplicità e nel silenzio. Gesù nasce di notte, non nel fracasso e nella baraonda. Solo nel silenzio è possibile cogliere la profondità del mistero, conoscere noi stessi, capire l’amore inventivo di Dio. Il modo migliore per prepararci al Natale, oggi più che mai, è quello di creare un po’ di silenzio: per cercare Dio, per farci trovare da Dio.
* Scrive il detenuto Benedetto, che attende in carcere il Natale con malinconia: « Un Natale lontano da casa, un Natale molto triste, lontano da chi ci vuole bene e da chi siamo affezionati. Dove solo noi sappiamo cosa si prova ». Sì, l’attesa del Natale è anche nostalgia per gli affetti persi o per i legami spezzati. È la stessa atmosfera del Natale che ci porta a sentimenti di malinconia e tenerezza. Ed è tutto così comprensibilmente umano. Ma non è propriamente questo il Natale cristiano, quello dell’incontro con Gesù. Anche noi, come Maria e Giuseppe dovremmo in un primo tempo sentirci turbati e quasi sconvolti dall’incarnazione, dall’arrivo di Dio sulla terra. Poi, inevitabilmente, lasciarci prendere dalla gioia profonda cantata dagli angeli nella notte santa: « Pace in terra agli uomini che Dio ama ».

Carne della sua carne
Ecco come parla di Maria di Nazaret lo scrittore Jean Paul Sartre: « Cristo è suo figlio, carne della sua carne e frutto delle sue viscere. Ella lo ha portato per nove mesi e gli darà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio… Ella sente insieme che il Cristo è suo figlio, il suo piccolo, e che egli è Dio. Ella lo guarda e pensa: « Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. Egli è fatto di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Egli mi assomiglia ». Nessuna donna ha avuto in questo modo il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolissimo, che si può prendere tra le braccia e coprire di baci ».

Anche un non credente capisce l’importanza del silenzio
« Nulla può essere realizzato senza la solitudine. Io ho cercato di realizzare per me la più completa solitudine. Ma non ci sono riuscito. Da quando esiste l’orologio è finita la possibilità di realizzare la solitudine. Ve l’immaginate un eremita con l’orologio? E allora bisogna accontentarsi di una « solitudine simulata ». Ma in questi limiti sprofondarsi. Con se stessi. Solitudine non vuol dire rifiuto del mondo. Anzi vuol dire collocarsi in un osservatorio dove tutte le cose del mondo possono penetrare, ma decantate e rese limpide » (Pablo Picasso).

Umberto DE VANNA sdb

Nativity of Christ, Orthodox chuch

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Publié dans:immagini sacre |on 18 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

GESÙ MI VUOLE FELICE

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GESÙ MI VUOLE FELICE

“Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi, quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli”
(1Gv 3,16)

l. Ogni mattina ti ricorderai di chiedere a Dio la gioia
2. Manterrai la calma anche in caso di disaccordi
3. Nel tuo cuore ricorderai sempre che Gesù ti ama
4. Ti applicherai a vedere sempre il lato buono delle persone
5. Allontanerai da te ogni forma di tristezza
6. Eviterai critiche e lamenti in qualsiasi occasione
7. Ti impegnerai nel tuo lavoro con cuore gioioso
8. A quanti incontrerai oggi regalerai un bel sorriso
9. Conforterai quelli che soffrono dimenticando te stesso
lO. Diffondendo la gioia ovunque la otterrai anche per te!

1.1 La vera libertà in Cristo
La vita morale è una questione di cuore. Per noi cristiani vivere con senso di responsabilità morale equivale ad amare e imitare Gesù. La fede ci rivela che questo impegno è esposto all’influsso della nostra fragilità che ci trascina al peccato, cioè ad allontanarci da Dio. Ciò consiste nel dare risposte sbagliate al nostro desiderio del bene. Abbiamo ricevuto un dono, la libertà, che è il “potere di agire o di non agire e di porre così da se stessi azioni libere. Essa si perfeziona quando è ordinata a Dio, bene supremo” (Catechismo n.1744, d’ora in poi la sua sigla sarà: CCC).
“Libertà” significa fare ciò che voglio o fare ciò che è bene? L’uomo da solo non ce la fa a riconoscere il vero bene, per questo Dio lo soccorre nel suo Figlio Gesù, donandogli un riferimento per le sue scelte quotidiane. Una riflessione sulla morale cristiana che non si fondi sulla conoscenza e relazione con Gesù sarebbe solo moralismo, ma lo sarebbe anche se non avessi chiaro un concetto: Dio mi vuole felice e Gesù è la risposta di Dio al mio desiderio di felicità. Noi uomini vogliamo essere felici: è Dio stesso che ha messo nel nostro cuore questo desiderio, dandoci poi indicazioni al riguardo. Quali? Un giovane chiese a Gesù il segreto della felicità: “Maestro buono, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?”. Gesù rispose: “Se vuoi entrare nella vita osserva i comandamenti” (Mt 19,16-17). Questa sua risposta risuona nella voce della nostra coscienza, che oscilla come una bussola e quando faccio il male dice: “Non prendere questa via: non è buona”.
Dio ci affianca inoltre una grande maestra: la realtà. Se esagero nel mangiare, il mio corpo conferma il peccato di gola con una bella indigestione che mi induce a cambiare comportamento.
Ma se essere liberi e felici equivale a fare quanto Dio ci insegna, il nostro cuore sospetta che Egli ci voglia schiavi. Eppure l’esperienza dei santi ci dice che diventiamo liberi e felici quando ci fidiamo di Dio e della sua volontà, lasciandoci guidare completamente. Guardiamo Madre Teresa (+1997) o San Giovanni Bosco (+1888): ci si può immaginare un uomo più spontaneo, più libero, più allegro di don Bosco con la sua meravigliosa fantasia per i giovani?
Il nostro problema consiste nel concedere fiducia a Dio, accettando di credere che Egli sappia cosa mi rende felice. La mia libertà può scegliere il male, ma si tratta di una decisione che mi rende schiavo, perché così danneggio gli altri, me stesso e la mia libertà. Quando vado al lavoro il lunedì mattina posso essere gentile o scontroso: posso scegliere il bene o il male, il che non è indifferente o facile come scegliere un maglione verde oppure blu. Se scelgo il male presto o tardi mi accorgerò… di stare male! Nelle nostre scelte la fedeltà al bene può apparire pesante o difficile, ma sulla distanza si rivela buona. Pensiamo a una coppia che arriva a festeggiare le nozze d’oro, cinquant’anni di fedeltà. Il fatto di essere stati fedeli per cinquant’anni li rende forse schiavi? Si pentiranno forse di essersi amati così tanto? O se vogliamo porre la domanda diversamente: saranno meno liberi di quelli che, magari per un attimo di smarrimento, hanno preso la strada dell’infedeltà? Quale condotta ci fa contenti di noi stessi?
È vero, siamo liberi di decidere per il peccato, ma il peccato non ci rende liberi. Il male è un attacco contro l’uomo prima che contro Dio e “consiste nel sospetto dell’uomo che l’amore di Dio crei una dipendenza e che gli sia necessario sbarazzarsi di questa dipendenza per essere pienamente se stesso. Nel fare questo, egli si fida della menzogna piuttosto che della verità e con ciò sprofonda la sua vita nel vuoto e nella morte” (Benedetto XVI, 08-12-05).
La nostra libertà è instabile. Senza l’aiuto di Dio siamo facilmente esposti alle sue incertezze. Il Catechismo al riguardo dice: “La grazia (= aiuto interiore) di Gesù non si pone affatto in concorrenza con la nostra libertà, quando questa è in sintonia con il senso della verità e del bene che Dio ha messo nel cuore dell’uomo”(CCC 1742).
Ma qual’è la verità? La verità non è una variabile come le opinioni degli uomini: è un concetto che non cambia mai, come le leggi della natura. Perciò non è una conquista dell’uomo, ma un dono che riceviamo dal Signore riconoscibile con la sincerità. Ascoltando Gesù che parla, un cuore sincero comprende che la vita, l’amore e la famiglia non sono solo in vista di un vantaggio personale. La vita è un dono, la persona è un dono, il matrimonio è un dono reciproco: tutta l’esistenza è un invito a donare!… L’importante è capire quando il dono è vero e buono. Spesso la libertà intesa come interesse e licenziosità ubriaca i ragazzi cancellando in loro la coscienza della loro appartenenza a Dio. Lo dice bene Sant’Agostino: “Tu ammiri le cose che fai, però ti dimentichi di essere stato fatto”.
Possiamo orientare al bene la libertà soltanto quando Gesù ci prende per mano: “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,32).

1.2 La coscienza può sbagliare
Dunque capire i comandamenti equivale a credere che essi mi mostrano ciò che è vero ed è bene per me, e questa comprensione ha luogo nella coscienza, la quale è la voce della verità in noi, un messaggero di Dio. Ma essa va soggetta a dei condizionamenti che possono deformarla e quasi spegnerla. La storia ci mostra che sono esistite persone come San Massimiliano Kolbe (+1943) che hanno seguito la coscienza decidendo di offrire la vita per salvare altri uomini, e attentatori che hanno seguito la coscienza per distruggere le Twins Towers di New York (11-09-01) causando la morte di migliaia di persone, e questo dopo aver pregato con grande convinzione. Allora capisco che la coscienza è una lente per riconoscere ciò che è buono, giusto e vero nella realtà, ma che va sempre tenuta limpida e trasparente, per evitare che la visione sia oscura e deforme. Insomma, ogni coscienza va formata e la scuola della coscienza è la scuola di Gesù, che ci ha detto: “Imparate da Me” (Mt 11,29). Se voglio una coscienza sensibile studierò la vita dei santi, quelli che hanno cercato di vivere come Gesù e la sua Chiesa indicano. Ciò implica che io sia pronto ad ascoltare l’insegnamento della Chiesa con fiducia, convinto che il Papa è un messaggero della Chiesa che ha dal Signore un esplicito mandato e la speciale assistenza dello Spirito Santo per parlare alla nostra coscienza e ricordarle ciò che Dio chiede. Se non sono pronto a lasciarmi mettere in crisi dalla Parola di Dio, di Gesù, avrò di certo difficoltà anche con la Dottrina della Chiesa che si basa su di essa. La mia coscienza, infatti, può sbagliare. Non a caso Sant’Agostino ci ha lasciato questa preghiera: “Dio, salvami da me stesso”. Ecco alcuni principi formativi per la coscienza:
1. Devo chiedermi se sto agendo secondo la regola d’oro: “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”.
2. Devo considerare che il fine non giustifica i mezzi, cioè che non mi è permesso di fare il male per ottenere il bene.
3. Agire “responsabilmente” vuol dire “saper rispondere” alla domanda: “Cosa è bene? Cosa è male?”. Per i cristiani la risposta è Gesù stesso: “Io sono la verità”(Gv 14,6), cioè Egli è la misura assoluta del bene dell’uomo. Per il mondo la verità è un concetto che cambia e la dettano i singoli, le mode televisive, la maggioranza: chi non condivide i valori del gruppo viene emarginato. Per esempio: se il modello del vincitore in amore è aggressivo, prestante, ricco, il ragazzo povero e timido rimane escluso. Oppure: se il corpo vince su qualsiasi valore interiore, dev’essere perfetto, esibito e venduto. Il sentimento viene così strumentalizzato per ottenere qualcosa: questo non è l’amore secondo Dio.

1.3 L’amore di Gesù svela il peccato
La croce è stata la massima rivelazione del bene che Gesù ci vuole. Dalla croce Egli donò lo Spirito, quella Persona divina che a Pentecoste scese sui discepoli perché comprendessero la realtà e il peso del peccato (Gv 16,8). La dinamica della croce segue questo principio: quando ci sentiamo amati e accettati ci rendiamo conto della verità della nostra colpa. Per esempio, un bambino che non è amato, che non si sente accettato, se combinasse un guaio difficilmente lo ammetterebbe, per paura delle conseguenze. Il bimbo che invece si sente protetto, dirà fiduciosamente la sua colpa e non farà l’esperienza del rifiuto, ma del perdono, poiché è certo dell’amore dei genitori e non viene bloccato dall’equazione: “Se faccio il bravo mi amano e se faccio il cattivo non mi amano”. Dio non ci ama perché siamo buoni, coerenti. Dio ci ama così come siamo, a prescindere da ciò che abbiamo fatto di male. Egli ci ha amati per primo (1 Gv 4,19) e quando non lo amiamo con il peccato, Lui continua a volerci bene, pur dispiacendosi come una mamma che vede le insensatezze del figlio. Il peccato è un’azione che va contro la verità e perciò contro la volontà di Dio: in sé rivela una mancata comprensione dell’amore di Dio per noi provocando il distacco da Lui. “Il peccato mortale distrugge l’amore nel cuore dell’uomo a causa di una violazione grave della legge di Dio” (CCC 1855). Perché ciò accada ci sono alcune condizioni: conoscere e volere il male. Spieghiamo qualcosa in merito. Consumare un peccato richiede, dice la Chiesa, una “piena consapevolezza” che si tratta di qualcosa di “grave” ed un “deliberato consenso”, cioè una volontà completamente libera (CCC 1858-1859), il che a volte non è detto che si verifichi in pieno. Infatti gli impulsi della sensibilità, le pressioni esterne, le passioni, possono attenuare il carattere volontario e libero della colpa. Ma la coscienza del peccato non va confusa con un generico “senso di colpa”: essa consiste nel capire di essere amati da Dio e con ciò di volere rifiutare questo amore. Per evitare questo sbaglio è importante conoscere bene Dio, farsi la giusta opinione di Lui. Il Papa ci aiuta osservando che “Gesù è l’amore incarnato di Dio: nella sua morte in croce si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo: amore, questo, nella sua forma più radicale” (Deus Caritas Est, 12). La croce ci dimostra infatti che “Dio è più tenero di una mamma” (S. Teresina); meditarla dovrebbe scatenare in noi una fiducia illimitata nella sua misericordia ed una corsa impaziente tra le sue braccia! Pur riconoscendoci tutti peccatori, tutti malati, siamo resi giusti dal Suo Sangue: “Dio dimostra il suo amore per noi, perché mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”. Dio ci rende giusti per suo dono (grazia) se, nella fede, afferriamo Gesù presente nei sacramenti (CCC 1989). Egli opera in noi un rinnovamento totale attraverso l’opera dello Spirito Santo che ci avvicina a Lui e ce lo fa conoscere. Solo Gesù ci trasmette un’idea esatta di suo Padre: “Dio è amore” (1 Gv 4,8), amore che guarisce l’uomo.

1.4 L’amore di Gesù infonde in noi il desiderio di santità
Gesù è Colui che familiarizza con l’uomo, l’Amico dell’uomo. L’imitazione di Gesù sgorga dall’osservazione attenta dei suoi atteggiamenti con noi, infatti nulla ci persuade tanto ad avere fiducia in una persona quanto il sapere che ci ama e ci conosce perfettamente nell’intimo. San Giovanni scrive che Gesù ci conosce bene: “Egli sapeva quello che c’è in ogni uomo” (Gv 2,25; Mc. 2,8).
Risalta in Lui una grande amabilità con noi peccatori: “Dio non ci destina alla sua collera, ma all’acquisto della salvezza per mezzo di Gesù: Egli è morto per noi, perché viviamo insieme con Lui” (1Ts 5,9). Questa sua dolcezza è tesa a evocare una risposta concreta dell’uomo alle iniziative dell’amore di Dio nella vita morale, dove i comandamenti rappresentano la prima tappa necessaria nel cammino verso la libertà. Gesù è cioè venuto a svelare il senso dei comandamenti (Mt 5,17), in Lui noi ci sentiamo amati da Dio e per questo desideriamo amare anche quando ciò è esigente: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 15,12). Poi la condizione di ogni credente è seguirLo (Mt 19,21), Lui davanti, io dietro lo seguo. Lui il modello, io lo imito. Lui il padre, io il figlio amatissimo. Ciò richiede una forte unione con la sua Persona vivente, perché imitarlo nell’amore è una cosa impossibile alle forze umane. È possibile amare come Lui solo per suo dono, per sua grazia (Gv 1,17). Una bella intuizione di Papa Giovanni Paolo I giustamente osserva: “Uno non può essere casto se non ama molto il Signore”, perciò in tutta la vita morale il motore che trascina la volontà dell’uomo è l’amore per Gesù, senza il quale non si può “fare la verità” (Gv 3,21) cioè osservare i comandamenti e rimanere nel suo amore (Gv 5, 10). Gesù dice che la verità esiste e si può vivere, ma la fedeltà nel bene è frutto di un rapporto di forte amicizia con Lui, infatti Egli apprezza di più l’amore affettuoso di Maria che non quello ansioso di Marta (Lc 10, 42). Tutto deve partire dall’amore affettivo per la Sua Persona, poiché il cristianesimo è una Persona ed è l’amore per Lui che conferisce volontà, valore e forza alle azioni umane. Marta dimostra che servire Cristo adempiendo tutti i comandamenti della Legge può condurre a sottrarGli qualcosa del nostro amore: il cuore. Gesù invece associa l’immagine dello sposo al tipo di rapporto che vuol costruire con l’uomo: Egli è Colui che dell’uomo condivide la parte più intima: il cuore.
Solo un’intensa relazione con Gesù sostiene la morale cristiana e la permea di quella gioia che è risposta piena alle attese di noi uomini. Camminare con Lui ci insegna a scoprire sempre più il prossimo nel profondo, nella totalità di corpo e anima, fino a considerare la felicità dell’altro più importante della mia. Allora non si vuole più solo prendere, ma donare. Proprio in questa liberazione dall’io l’uomo trova se stesso e si riempie di gioia. Perciò l’educazione alla castità è un cammino paziente e graduale di maturazione nell’apprendimento dell’amore.
“Adorare Gesù significa che libertà non vuol dire godersi la vita, ritenersi assolutamente autonomi, ma orientarsi secondo la misura della verità e del bene. Dio è diverso da come di solito lo immaginiamo. Al potere rumoroso e prepotente di questo mondo Egli contrappone il potere dell’amore sulla croce.” (Benedetto XVI, Colonia 2005, XX GMG)

“Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perchè la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv. 15,10-11)

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GESÙ E LA FAMIGLIA

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GESÙ E LA FAMIGLIA

Teologo Borèl » Settembre 2005

I vangeli sono, come del resto tutta la Bibbia, storia di famiglie. Tra di esse sta la famiglia di Gesù. In famiglia, secondo la consuetudine sociale del tempo, egli vive la nascita, la fanciullezza e la giovinezza fino alla scelta professionale di “rabbi”; con la famiglia continuerà a intrattenere legami anche nel ministero. I vangeli sono, come del resto tutta la Bibbia, storia di famiglie. Tra di esse sta la famiglia di Gesù. In famiglia, secondo la consuetudine sociale del tempo, egli vive la nascita, la fanciullezza e la giovinezza fino alla scelta professionale di “rabbi”; con la famiglia continuerà a intrattenere legami anche nel ministero…
Quello di Gesù con la famiglia è indubbiamente un rapporto tanto reale quanto complesso, affatto scontato, anzi sovente critico, certamente innovativo rispetto al patriarcalismo dominante nel suo tempo e per tanto tempo dopo. Senza però che in lui appaia una marginalizzazione della famiglia, considerata anzi – come nella celebre controversia con i farisei sul divorzio – secondo l’originario disegno di Dio (cf Mt 19, 3-9). Ne sappiamo il perché: è la “variabile imprevista” del Regno di Dio da lui introdotta negli ordinamenti umani che determina la sua visione, decisamente singolare ed originale per gli schemi del tempo.
Per cui la famiglia, come del resto ogni altra istituzione ed entità naturale (società, stato, economia…), per Gesù assume il profilo di un sacramento, ossia di avvenimento umano, naturale, corrispondente alla creazione, con la positività e la fragilità storica che le sono connesse, ma innalzato ad essere segno efficace della presenza amorosa e vivificante di Dio nel mondo. Dio sta nel mondo come in una famiglia, la famiglia secondo Gesù ha per ospite il Padre, anzi è ospitata da Lui (cf Giov 14, 2-3.23).
Sicché nasce una circolarità virtuosa: la famiglia, ogni famiglia, dona a Dio il linguaggio (segni, esperienza) di potersi dire, comunicare; ma essa stessa riceve da Lui la grazia di potersi capire. Di questo “grande Mistero” (cf Ef 5, 32), Gesù è il segmento storico rivelativo escatologico, cioè contingente nell’espressione culturale, ma compiuto nei significati e decisivo negli esiti.
Quindi leggere biblicamente la relazione di Gesù con la famiglia è leggere la scelta di campo di Dio, il referente ultimo e basilare, la Parola di Dio, il Vangelo di Dio, il “Vangelo della famiglia”.
Intendiamo illustrare questo tema in chiave biblica elementare, raccogliendo criticamente i passi evangelici.
Si potrà notare che dai vangeli non si può ricavare uno specifico insegnamento circa il rapporto dei giovani con la famiglia.
Ma di certo anche a loro è dato di ritrovare nel Vangelo lo sguardo globale del Cristo verso questa entità originaria della vita, mettendovi a confronto un complesso di loro esperienze familiari, già segnate dalla consapevolezza del valore e del limite, quindi ora serene e ora deludenti.
Potrà questo essere il tempo opportuno di un discernimento e di una maturazione.
Seguendo un filo logico dei testi, già segnalato da J. Dupont,[1] distinguiamo tre aspetti:
– l’esperienza familiare di Gesù;
– atteggiamenti di Gesù verso la famiglia;
– gli insegnamenti sulla famiglia che Gesù consegna ai discepoli.
Facciamo precedere una rapida informazione di quello che poteva essere l’istituto familiare ai tempi di Gesù.

LA FAMIGLIA AI TEMPI DI GESÙ
Lungo tutto il tempo biblico la famiglia ebraica possiede certi connotati stabili. Semmai all’epoca di Gesù, epoca del giudaismo, si può notare da una parte una rigidità nell’osservanza delle prescrizioni legali, religiose e sociali (Gesù nasce fuori famiglia per ossequio al casato del padre putativo Giuseppe e a dodici anni, bar miswah, puntualmente termina la sua iniziazione partecipando alla pasqua a Gerusalemme) e dall’altra si assiste ad un certo allentamento del patriarcalismo classico, per cui la famiglia vera era più il clan di appartenenza che la famiglia di sangue.
Quello che è certo, è che la famiglia in Israele rappresenta la cellula base della società, con una perentorietà che escludeva in termini assoluti qualsiasi forma alternativa di convivenza, non solo in termini morali, ma anche giuridici. La stessa verginità non era particolarmente stimata. Solo con la mediazione della famiglia, l’israelita veniva a conoscere che il Dio biblico agisce nella storia (da Adamo ad Eva, ad Abramo e Sara, fino a Giuseppe e Maria). O meglio, agisce anche oltre la famiglia, nella scelta di singoli personaggi atti a portare avanti il suo disegno, ma questo era visto subito come evento straordinario (ad esempio la scelta di Gedeone, Samuele, Saul, Geremia, del Battista, della stessa Maria…) e pare non essere stato capito a proposito di Gesù.
Si tratta di famiglia endogamica, ossia costituita da genitori di razza ebraica, patrilineare, che prende titolo giuridico dal padre (è la presentazione che ne fa Matteo, ma in Luca emerge forse una linea matriarcale, conosciuta per sé dalla Bibbia, nella centralità riconosciuta a Maria). La famiglia vedeva la compresenza di membri in senso stretto, per via di sangue, e di altri parenti in senso più largo. Costituivano una “fratellanza”, dal termine di base ah, fratello, che per sé rivestiva un senso decisamente lato.
È certo ancora, come oggi avviene in popolazioni cosiddette primitive, che successo ed insuccesso di un membro erano condivisi (soprattutto il successo) in misura serrata, interessata ed ostentata, creando talora disagio nel privilegiato.
La famiglia era il luogo della vita globale: fisica, morale, professionale, religiosa ed anche culturale, almeno fino a quando il piccolo non frequentava la scuola a fianco della sinagoga. Se la madre accudiva i piccini, subentrava tosto il padre che assumeva lui il ruolo educativo. La crescita aveva nell’incipiente adolescenza il momento del passaggio al gruppo degli adulti con gli obblighi inerenti.
In breve la famiglia era segnata rigorosamente da uno rigido standard comune di vita (noi diremmo dalla dinamica di una forte socializzazione primaria), secondo la Torah e le interpretazioni dei rabbini. Veniva ad essere un fattore essenziale ed insostituibile di trasmissione della vita nella sua interezza, dunque anche della religione (idee, riti, istituzioni), era perciò considerata realtà sacra, stabilita da Dio, garanzia di tradizione, luogo quanto mai ricco di sapienzialità e di umanità. Ma insieme proprio la rigidità della forma poteva minacciare quella libertà e responsabilità del singolo per cui tanto si erano battuti i profeti, segnatamente Ezechiele (Ez 18). Senza contare la evidente debolezza che traspariva ad esempio – ne fanno fede i vangeli – dalla pratica del divorzio facile, che poi altro non era che un adulterio legalizzato, come pure dalla scaltrezza di sapersi esimere dall’osservanza del IV comandamento appellandosi alle tradizioni dei padri. “E di cose simili ne fate molte” (Mc 7,18).
Affiora perciò ancora netta nei vangeli, redatti in ambiti vitali non più giudei, questa bipolarità positiva e negativa, che coinvolse anche Gesù che alla famiglia fu fedele, ma non pedissequo, la rilesse e rivisse “criticamente” alla luce dell’avvenimento del Regno.

L’ESPERIENZA FAMILIARE DI GESÙ
I vangeli sono, come del resto tutta la Bibbia, storia di famiglie. Tra di esse sta la famiglia di Gesù. In famiglia, secondo la consuetudine sociale del tempo, egli vive la nascita, la fanciullezza e la giovinezza fino alla scelta professionale di “rabbi”; con la famiglia continuerà a intrattenere legami anche nel ministero. È domiciliata a Nazaret, fa da capo Giuseppe, un artigiano agricolo, la madre si chiama Maria. Gesù è detto “figlio primogenito” (ed unico) (Lc 2,7), ma in compagnia di “fratelli e sorelle” (Mc 6, 1-3).
Tale “famiglia estesa” egli se la ritrova a Cafarnao in un frangente difficile (Mc 3, 31), come pure in altri momenti della sua missione, ma dove spicca l’atteggiamento chiaramente interessato e geloso dei suoi “fratelli” (Giov 7, 1-10). Secondo i vangeli, incontra ancora la madre a Cana (Giov 2, 1-11) e sotto la croce (Giov 19, 26-27).
La vicenda personale di Gesù incrocia diverse famiglie, che di fatto entrano nel circolo della sua missione. Facciamone semplicemente ricordo: la famiglia di Zaccaria, Elisabetta e Battista (con cui appare imparentato, cf Lc 1, 36); la famiglia di Cana nel giorno della sua costituzione tramite le nozze (Giov 2, 1-12); la famiglia di Marta e Maria e Lazzaro, che dovette essere la famiglia di elezione del Maestro nei suoi spostamenti in Giudea e a Gerusalemme (Lc 10, 38-42; Giov 11, 1-3), come a Cafarnao lo fu la famiglia di Pietro cui guarisce la suocera (Mc 1, 29-31); la famiglia di Giairo con la sua sposa, cui risuscita la figlia dodicenne (Mc 5, 38-43).
Più indirettamente entra a contatto, a causa dei figli, con la famiglia della vedova di Naim (Lc 7, 11-17), della Cananea (Mc 8, 24-30) e del centurione di Cafarnao (Lc 7, 1-10); ma anche di Pilato stesso, del quale viene menzionata anche la sposa (Mt 27, 19), di Giacomo e Giovanni di cui conosciamo la madre e il padre (Zebedeo) (Mc 10, 35), delle madri che gli offrono i bambini da benedire (Mc 10, 13-16), delle “pie donne” di Gerusalemme che piangono su di lui (Lc 23, 27-31)…
Di Gesù veniamo sapere la condivisione di atti fondamentali della vita familiare.
Anzitutto i due atti estremi e costitutivi, la nascita e la morte, ricordati piuttosto lungamente nei vangeli. Anzi, prima ancora, conosciamo la sua gestazione nel seno della madre, caratterizzata da un incontro parentale gioioso, quello con Elisabetta e il figlio Giovanni; la giovinezza è vissuta in famiglia per quasi trent’anni (la maggior parte del suo tempo). Si vede Gesù partecipare alla vita familiare nel tempo della festa (a Cana per delle nozze, e a Gerusalemme per la celebrazione della pasqua, festa tipicamente familiare, Lc 2, 41-50) e del dolore (nel caso della vedova di Naim e della famiglia di Marta e Maria per la morte di Lazzaro). Durante la sua stessa passione mostra la premura di collocare la madre in una famiglia sicura (Giov 19, 25-27). Non si tralascerà di notare che è del tutto verosimile che la moltiplicazione dei pani abbia avuto per fruitori intere famiglie stanche ed affamate (cf Giov 6, 1-13).
Non da ultimo la base storica dei vangeli ci dice quanto sia stato impregnato di motivi familiari il lessico di Gesù, ossia quanto l’esperienza di famiglia sua ed altrui gli sia diventata fonte di linguaggio per esprimere la rivelazione di Dio che andava annunciando. Tantissimi ne sono i richiami: le nozze diventano segno messianico per eccellenza (Mc 2, 19; Mt 22, 1; 25, 1-12; Giov 2, 1-12); i ruoli di paternità e fraternità gli permettono di dire Dio e i rapporti dei discepoli con Lui e tra di loro (Mt 23, 8-10); l’immagine della donna che partorisce e ne ha gioia (Giov 16, 21), o di quella che spazza la casa per trovare la moneta (Lc 15, 8-10) evidenziano i temi nuovi del Regno; la storia del padre che vede la famiglia spezzarsi con la partenza del figlio minore (Lc 15, 11-32), o quella dei due figli di diversa obbedienza verso il padre (Mt 21, 28-32), o del padre ancora che dopo i servi invia il figlio a riscuotere i suoi diritti e costui viene massacrato (Mt 21, 33-44), o la gestione degli affari da parte degli amministratori nella casa del padrone (Mt 24, 45-51; 25, 14-30)… sono tutte fatti o parabole vivaci della storia della salvezza.
In sintesi si può dire che per Gesù vivere in famiglia e con famiglie ha fatto parte sostanziale della sua biografia: ha accettato l’istituto familiare come istituzione divina; ha condiviso la vita di famiglia con la accettazione dei suoi impegni per la maggior parte della sua vita; ha fatto del bene alla gente anche in quanto famiglie; si è servito della famiglia come di un segno per dir non poco del messaggio.
Per Lui la famiglia è stata un segno di incarnazione, con la valenza di segno profondo, data la sua permanenza. Il suo primo insegnamento è qui: l’aver praticato la famiglia come condizione elementare di vita per realizzare se stesso, per essere se stesso.

ATTEGGIAMENTI DI GESÙ VERSO LA FAMIGLIA
Ma noi sappiamo che l’esperienza familiare di Gesù va oltre la passiva accettazione di un dato di fatto: egli ha da dire qualcosa su di essa.
Lo dimostrano alcuni momenti di vita familiare da lui vissuti dentro la sua stessa famiglia di sangue, ed oltre essa. Sono situazioni che hanno provocato in lui degli atteggiamenti, registrati nei vangeli, che aprono varchi interessanti per capirne il pensiero.
Gesù si preoccupa di riaffermare il pensiero originario di Dio
Nel ministero di Gesù, due “provocazioni” degli avversari suscitano due suoi interventi diretti sul tema “famiglia”. Entrambi mirano a ritrovare, perché deformato, il profilo originale dell’istituzione familiare secondo il pensiero di Dio. In questo Gesù fa memoria della grazia degli inizi, rifacendosi a due momenti costitutivi della fede biblica: la creazione e l’esodo.
A chi lo “tenta” sulla liceità o meno del divorzio, e dunque ultimamente dell’adulterio, allora piuttosto tollerati a favore dell’uomo, Gesù afferma la indissolubilità ed insieme la fedeltà coniugale in una maniera che condanna divorzio ed adulterio anche dell’uomo (Mt 19, 9; 5, 31-32; Mc 10, 11-12; Lc 16, 18), anzi l’adulterio anche solo interiore (Mt 5, 27-28). Egli fa ciò appellandosi al disegno creativo di Dio (Gen 2, 24).
Di fronte poi ad uno stile troppo disinvolto di disimpegnarsi nei confronti dei genitori, Gesù ricorda il Decalogo, la legge dell’alleanza, precisamente il IV comandamento, che va dunque osservato contro ogni astuzia evasiva, fosse pure ammantata di sacro e di venerabili tradizioni (Mc 7, 9-13; Mt 15, 3-9). È noto che tale precetto Gesù lo riprende nell’incontro con il giovane ricco (Mt 19, 19), e soprattutto è da lui stesso praticato per tutti i lunghi anni nazaretani (Lc 2, 51).

La famiglia misurata sulla volontà di Dio
Affermato il profilo originale della famiglia, Gesù evidenzia la novità che vi apportano i tempi messianici del Regno. Una di tali innovazioni messianiche consiste nel subordinare la stessa famiglia al Regno: cioè la famiglia non è già Regno di Dio, ma realtà chiamata a convertirsi ed entrarvi. È quanto Gesù dirà ai discepoli (vedi più avanti), ma che vive nella sua stessa persona. Lo riferiscono i vangeli, la cui abituale sobrietà nel fare la storia intima di Gesù ancora di più rafforzano il valore di quanto viene detto a tale proposito.
Viene alla mente il noto episodio di Luca 2, 41-52 (ritrovamento di Gesù tra i dottori del tempio). Ivi Maria fa questo rimprovero a Gesù: “Figlio mio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre ed io angosciati ti cercavamo” (v. 48). Gesù reagisce con una risposta che non è accomodante o richiedente il perdono: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (v. 49).
Dove si nota la contrapposizione tra “tuo padre” di Maria e “mio padre” di Gesù. Per lui il difetto sta decisamente nella incomprensione dei genitori. Ma segue anche che Gesù rientra nell’ordine originario, ed “era loro sottomesso” (v. 51).
In Giovanni, alle nozze di Cana (2,1-11), alla madre che fa presente la carenza di vino, Gesù risponde: “Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora” (v. 3). La risposta non va troppo indurita, giacché Gesù accoglie subito la preghiera. Ma è vero che prende le distanze, sicché il miracolo non andrà inteso nella direzione dell’ubbidienza filiale a Maria, ma in quella della sottomissione al Padre, che solo può fissare l’ora della manifestazione.
Si nota nei due casi l’indipendenza che Gesù intende mantenere davanti al parentado terreno, poiché nell’esercizio della sua missione si riconosce ultimamente dipendente solo dal Padre.
La sua missione egli la compie al servizio di Dio solo e non della sua famiglia, della quale peraltro vedremo qui sotto l’ambiguità di comportamento nei suoi confronti.
Ma proprio per questo acquista particolare rilievo la sua estrema attenzione verso la Madre quando egli sta per morire (Giov 19,26): diventa segno nitido di come fede in Dio e amore parentale possono far sintesi.

Incredulità della famiglia di Gesù nei suoi riguardi
Un certo distanziamento di Gesù dalla sua famiglia non risulta soltanto dall’esigenza di un legame con un Mistero ancora più grande. Si fa inevitabile anche a causa dell’incomprensione che riceve da essa: “I suoi fratelli non credevano in lui” (Giov 7,5). Gesù lo farà presente con molto realismo ai discepoli, prospettando persecuzioni dai loro stessi cari (Mt 10,21), ed intanto ne diventa lui stesso icona concreta con la sua esperienza. Due fatti eclatanti.
“I suoi uscirono per prenderlo; poiché dicevano: È fuori di sé” (Mc 3,21). È il giudizio dei parenti (cf il v. 31). Vengono da Nazaret, dopo aver udito il successo di Gesù in Galilea e l’accusa di possessione diabolica da parte degli scribi.
È difficile vedere Maria complice del giudizio dei suoi. L’episodio della vera “famiglia” di cui Gesù parla subito dopo si attaglia bene a Maria, che “compie la volontà di Dio” pienamente (3,33-35).
È la visita di Gesù a Nazaret che manifesta al massimo la distanza dei parenti da Gesù, e più ampiamente dei membri di quella famiglia più vasta che sono i concittadini (Mc 6, 1-6). La ragione sta nella loro “incredulità” sull’origine e sulla natura di ciò che Gesù è e fa (i miracoli). Il tutto si aggrava in quel nominare piuttosto sprezzante i tanti parenti di Gesù, di dirlo saccentemente “figlio di Giuseppe”, per concludere che non vale più di loro. L’incredulità si fa scandalo, e dunque rottura insanabile.
“Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto” (Giov 1,11). Perché tutto ciò? È una reazione negativa contingente? O è in certo modo una costante che emerge là dove il mondo della sola natura, pur buona (e tale è la compagine familiare), non si apre al mondo della grazia?

Gesù considera i discepoli come sua vera famiglia
Nei Vangeli compare sovente la locuzione parentale “i suoi” relazionati a Gesù, come se egli determinasse con la sua presenza una sorta di parentado positivo rispetto ad uno negativo.
Senso negativo sta nel citato versetto di Giov 1,11 (“i suoi non l’hanno accolto”), ed è illustrato nei racconti precedenti; senso positivo invece appare laddove il criterio di parentela è Gesù stesso a fissarla. È emblematicamente detto nel discorso della Cena: “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Giov 13,1), e viene illuminato dal racconto di Mc 3, 31-35.
Singolare e conturbante inizio di tale racconto avviene ancora prima, quando – nota Marco – i “suoi” vennero per prenderlo, dicendo che è matto (Mc 3,21). Allora, “giunsero sua madre e i suoi fratelli e stando fuori lo mandarono a chiamare” (3,31). Lo dicono a Gesù: “Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano” (v. 32). Gesù reagisce: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?” (v. 33). E fa un gesto significativo: “Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno (v. 34a) (Mt: “stendendo la mano verso i suoi discepoli”: 12,49), pronuncia la parola: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre” (Mc 3,34-35; cf Lc 11,27-28). Si può pensare che qui Gesù si riferisca proprio ai Dodici poco prima chiamati (Mc 3, 13-19; v. pure Mt 28,10; Giov 20,17).
Con quello sguardo a 360 gradi Gesù simbolicamente supera la famiglia/steccato (a causa di razza, censo, cultura, religione, lo stesso sangue… in sé assolutizzati) e pone nell’accoglienza con amore della Parola di Dio (che è poi Gesù stesso) il fondamento verace di ogni legame naturale, aprendo anzi la via ad una straordinaria concezione di famiglia: famiglia vera è quella che si fa famiglia di Gesù, attorno a lui. Ciò vale per la famiglia carnale che trova così il suo senso profondo, ma vale per ogni uomo, anche senza famiglia (cf Mt 25,40) che in Gesù ne trova finalmente una formata da Lui e dagli altri discepoli. Vi è, in germe, la rappresentazione della Chiesa come la grande famiglia di Dio; vi è certamente il riconoscimento di Maria come “madre di Gesù”, dato che si è mostrata discepola fedele fin dal sì dell’annunciazione (Lc 1, 26-38).
In sintesi Gesù, dopo aver richiamato le radici divine della famiglia, contro ogni manipolazione di senso, ne spiega le conseguenze operative: non può essere fonte dei valori assoluti e dunque coercizione del destino individuale (da tale tipo Gesù ha voluto affermare fortemente, quasi bruscamente, la sua indipendenza); la famiglia agli occhi di Dio ha validità solo in quanto garante e promotore della missione del Regno; di qui il trasferimento del lessico ed esperienza familiare nei discepoli che lo accettano totalmente e radicalmente.

GLI INSEGNAMENTI DI GESÙ AI DISCEPOLI SULLA FAMIGLIA
È da prevedere che la concezione di famiglia di Gesù, che ci appare positiva, ma critica, tradizionale ed innovativa insieme, dopo essere stata testimoniata con atti tanto incisivi, sia stata insegnata e consegnata ai discepoli.
Dire insegnamento ai discepoli significa metter in rilievo un tratto del magistero di Cristo diverso da quello alla folla. È l’insegnamento in cui si congiungono parola e testimonianza del Maestro, con una cura pedagogica particolare, una sorta di iniziazione al Vangelo del Regno annunciato a tutti (cf Mc 4, 11.34). Il fatto allora che il magistero di Gesù sulla famiglia abbia – come vedremo – una singolare concentrazione nell’insegnamento ai discepoli, vuol dire che esso è di particolare valore, come se tra discepolato e legame familiare si desse una interiore dialettica, si richiamassero a vicenda. E cioè, il rapporto parentale ha un peso determinante, in bene e purtroppo anche negativamente, a riguardo della sequela di Gesù. Questo avvenne lui vivo e questo continuò nelle prime comunità di cristiani provenienti soprattutto dall’ebraismo. Si può supporre che è in tale contesto vitale di vocazione al discepolato che i detti “familiari” di Gesù furono mantenuti.
Tali detti puntualizzano tre aspetti nodali: fare il discepolo chiede di decidersi incondizionatamente per Cristo e subordinarvi ogni rapporto familiare anche più caro; anzi esige di sostenere una prevedibile, palese opposizione da parte dei propri cari; ma con Gesù la famiglia non si perde; si rifà “nuova”, per cui i legami non si spezzano, ma si ritrovano sull’ampiezza del Regno.

La necessità di una scelta
Lc 14,26 (Mt 10,37): “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”.
Vi sta l’ipotesi di un conflitto di doveri, non per sé un fatto inevitabile. Gesù stesso infatti riconosce che l’amore a Dio e al prossimo sono fatti per stare insieme (Mc 12, 28-31). Ma se il conflitto avviene, allora l’attaccamento requisito da Gesù ha lo stesso carattere assoluto di quello che è dovuto a Dio: “Non avrai altro Dio all’infuori di me” (Es 20,2). Nessun compromesso è ammesso.
La radicalità del principio, che per altro rivela il livello di autocoscienza divina di Gesù, ha modo di concretarsi con una serie di scenette biografiche (apoftegmi), che sono rimaste fortemente impresse nella memoria cristiana.
* Lc 9, 57-58; Mt 8,19-20: a chi intende seguirlo ovunque vada, Gesù risponde che “le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”: ossia la sua vita è precaria e dipende da chi gli dona accoglienza. Così sarà la vita del discepolo, senza più legami assicurati;
* Lc 9, 59-60; Mt 8, 21-22: ad uno che vuol seguirlo, ma prima chiede di andare a seppellire suo padre, Gesù risponde: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti”. È il tipico linguaggio paradossale semitico che serve a Gesù per bloccare ogni tentativo di differire la risposta al suo appello.
* Lc 9, 61-62: uno vuole seguire Gesù, ma chiede prima di congedarsi dai suoi (v. 1Re 19, 19-21). Gesù dice di no: “Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio”.
La nota è sempre eguale: da parte dei suoi discepoli Gesù non tollera mezze misure a proposito della loro famiglia.
“Il fatto di seguire Gesù spezza le abitudini che trattengono il discepolo, non gli permettono alcun altro impegno e gli chiedono un abbandono che lo leghi totalmente a Gesù: ecco ciò che è esposto in modo simbolico in questa scena concreta di vita” (R. Bultmann).

L’opposizione della famiglia
I vangeli propongono una serie di testi sulla divisione familiare che riecheggiano il carattere apocalittico della grande tribolazione che precede il giudizio escatologico del Messia. È proiezione nei tempi futuri di quanto aveva detto Michea: “Il figlio insulta suo padre, la figlia si rivolta contro la madre, la nuora contro la suocera, e i nemici dell’uomo sono quelli di casa sua” (7,6)
* “Non crediate che sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa” (Mt 10, 34-36; cf Lc 12, 51-53). Non sono chiaramente assiomi matematici, ma profezia sulla direzione di marcia della storia, quando alla novità del Vangelo si contrappongono opzioni alternative, per quanto intime, anzi proprio perché tali. Il criterio di lettura resta ancora l’esperienza di Gesù trasmessa ai credenti.
* “Il fratello consegnerà a morte il fratello, il padre il figlio e i figli insorgeranno contro i genitori e li metteranno a morte. Voi sarete odiati da tutti a causa del mio nome” (Mc 13, 12-13). Qui la situazione è ancora più drammatica. Non solo il rigetto, ma la denuncia e la condanna a morte, eco forse di quanto capitava nella prima comunità. Non si resta neutri davanti al vangelo, e quelli che lo rifiutano diventano persecutori per quanti l’accolgono. Di qui implicito l’invito ai credenti di mettere un legame ancora più forte in Gesù che nei familiari.

Una famiglia nuova per quanti credono
Anteporre il “nome” di Cristo ad ogni altro legame significa esporsi alla sorte drammatica di “perdere” anche la famiglia, e in ogni caso si richiede al discepolo una netta e vigile subordinazione del rapporto con essa alla sequela del Maestro. Ebbene, come è proprio della logica delle beatitudini, Cristo vi corrisponde con una promessa inaudita e sommamente incoraggiante: tutti i credenti formeranno fin da ora una “nuova famiglia” con Lui.
Il testo fondamentale è Mc 10, 29-30: “In verità vi dico che se qualcuno abbandona casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e del vangelo, riceverà già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna”.
A sette abbandoni (la totalità!) corrisponde la totalità delle promesse (che sono sei, ma vanno calcolate sette con la relazione al Padre, che non viene nominato perché egli è sempre presente ed operante nella scelta dei discepoli. Le promesse iniziano e finiscono con beni materiali, ma in mezzo sta il legame parentale. La ricompensa ha due tempi: ora e nell’eternità. Ora il centuplo: sono gli effetti della benedizione biblica che Dio non fa mancare ai suoi figli. Il cenno alle persecuzioni tiene aperta la tensione alla ricompensa celeste. In questo detto di Gesù si sente echeggiare l’esperienza della prima comunità cristiana, che pur esposta ai conflitti anche gravi dei compatrioti giudei (cf At 2, 13; 4,3; 27-29), vive una comunione reciproca come avviene al meglio nella famiglia tra fratelli, tra genitori e figli (At 2, 42-48).
Di fatto i primi cristiani avevano assunto il vocabolo di “fratelli” per nominarsi (cf At 2, 37: Fil 4,1; 1Giov 3, 14, ecc.); la comunità cristiana costituisce una fraternità: “Uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8). Il legame che rende tutti i credenti dipendenti da un solo Padre e dal loro solo Maestro Cristo ha per effetto di creare tra i discepoli rapporti che non possono essere che fraterni: vivendoli realizzano ciò che sono: membri di una sola famiglia, la famiglia di Dio e di Gesù Cristo.

Conclusioni
La lettura della famiglia secondo il Vangelo costituisce il “Vangelo della famiglia”. Non si può negare che per la cultura di oggi (ma anche di ieri) sia un vangelo sconcertante, che come primo effetto chiama ad una ponderata riflessione, rompendo stereotipi ed automatismi di idee e prassi e superando la paralisi della paura che emerge anche tra cristiani praticanti intorno a questo argomento, stimolando ad un cammino di conversione e di fede di cui enunciamo qui gli articoli principali.
* Cristo non dice di no alla famiglia: la vuole come la vuole Dio. Ne parla tanto e forte perché è veramente tanto grande quanto delicata ed esposta al negativo. La famiglia non si giustifica da sé, ma fa parte del progetto rivelato di Dio. E in tale quadro deve essere letta, cioè nell’ottica della fede. Allora la famiglia appare come un segno sacramentale che va oltre “la carne e il sangue” perché porta in sé la dignità del mistero trinitario.
* Gesù afferma la famiglia vivendola per tre quarti della sua vita, incontrandola nelle persone e facendo ad essa del bene e richiamandone il disegno originale contro ogni abuso ed arbitrio. Il linguaggio familiare (espresso e vissuto) gli permette di dire Dio compiutamente.
* È innegabile nelle parole di Gesù l’istanza critica. Trattandone entro il piano di Dio, contesta una comprensione idolatrica, che la famiglia cioè possa essere cellula isolata ed autosufficiente nella verità e nei valori. Quando questo avviene, si compie il conflitto e si impone la scelta alternativa. Di fatto nella vita di Gesù ciò accade a causa di un mondo parentale eccessivo nei suoi confronti. Ma questa è rottura storica, non metafisica. Maria, sua Madre, è sua vera familiare; e in famiglie cristiane attuali Gesù si troverebbe bene.
* La famiglia va assunta in corrispondenza al modo con cui Gesù l’ha assunta e vissuta. La simmetria è palmare. Gesù e il suo progetto (il Regno) chiedono di essere il determinante assoluto, dal quale la famiglia prende valore o controvalore. Senza tale ottica la famiglia è come un’aquila senz’ali, un potenziale bloccato. Gesù, che pur ha una valutazione positiva della famiglia come “creatura di Dio” (Mc 10, 6-8), non si chiude in essa, la vede toccata dal peccato. E da buon lettore della Bibbia aveva di ciò una testimonianza impressionante: da Adamo ad Eva fino alla famiglia degli Erodi, in una delle quali un giorno una madre e una figlia chiesero la testa di Giovanni Battista (cf Mc 6, 22-28).
* Ma anche per Gesù i rapporti con lui e con Dio assumono il profilo e l’intensità affettiva della famiglia, più grande e più piena. È una familiarità interiore, spirituale, ma non meno reale con Dio e tra i credenti. Se ne fa segno visibile, istituito e necessario la chiesa, che è chiamata la “casa, o famiglia, di Dio” (Ebr 3, 5-6; 1Tim 3, 14-15).Ma qui viene la domanda se la Chiesa sa essere veramente famiglia di Dio.
La promessa di Cristo si fa esigenza seria tanto più quanto egli nella nuova famiglia pone l’approdo necessario di un esproprio altrimenti disumano!
È paradossale, ma proprio l’aver la rivelazione scelto il legame familiare per sottolineare la grandezza del rapporto con Cristo, indica il valore non transeunte di quello.
E infatti Gesù non toglie la famiglia, vi chiede di potervi entrare, e la rende “nuova creatura” (2Cor 5,17).

Articolo tratto da: NOTE DI PASTORALE GIOVANILE. Proposte per la maturazione umana e cristiana dei ragazzi e dei giovani, a cura del Centro Salesiano Pastorale Giovanile – Roma.

[1] Cf Dupont J., Jésus et la famille dans les evangiles, in Communautés et liturgie 62 (1980) 477-481.

Publié dans:BIBBIA, Bibbia - Nuovo Testamento, famiglia |on 18 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

Maria Vergine: Muro indistruttibile, Santa Sofia, Kiev

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http://ortodossia-sija.ortox.ru/le_icone_ortodosse/view/id/1174145

Publié dans:immagini sacre |on 17 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

LA PREGHIERA DI BENEDIZIONE

http://www.piccolifiglidellaluce.it/pfdl/il-cammino-di-pregheira/565-n-11-la-preghiera-di-benedizione

LA PREGHIERA DI BENEDIZIONE

“… Benedite, poiché siete stati chiamati per ereditare la benedizione…” (1 Pietro 3,9)
La preghiera risulta impossibile se non si ha il senso della lode, che implica la capacità di stupirsi.
La benedizione (= ber’ ha) occupa un posto di spicco nell’ Antico Testamento.
Essa è come “una comunicazione di vita da parte di Jahweh”.
Tutto il racconto della creazione è punteggiato dalle benedizioni del Creatore.
La creazione è vista come una grandiosa “opera di vita”: qualcosa di buono e di bello insieme.
La benedizione non è un atto sporadico, ma un’azione incessante di Dio.
E’, per così dire, il segno del favore di Dio impresso nella creatura.
Oltre che un’azione che fluisce in maniera continuata, inarrestabile, la benedizione è efficace.
Non rappresenta un vago augurio, ma produce ciò che esprime. Ecco perché la benedizione (come il suo opposto, la maledizione) viene sempre considerata nella Bibbia irreversibile: non si può ritrattare né annullare.
Raggiunge infallibilmente lo scopo.
La benedizione è principalmente “discendente”. E’ Dio soltanto che ha il potere di benedire perché è Lui la sorgente della vita.
L’uomo, quando benedice, lo fa a nome di Dio, come suo rappresentante.
Tipica, a questo riguardo, la stupenda benedizione contenuta nel libro dei numeri ( 6,22-27):
“…Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il Suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il Suo volto e ti conceda pace…”
Ma esiste pure una benedizione “ascendente”.
L’uomo, così, può benedire Dio nella preghiera. Ed è questo un altro aspetto interessante.
La benedizione, in sostanza, vuol dire questo: tutto viene da Dio e tutto deve tornare a Lui nell’azione di grazie, nella lode; ma, soprattutto, ogni cosa va usata secondo il piano di Dio, che è un progetto di salvezza.
Fissiamo l’atteggiamento di Gesù nell’episodio della moltiplicazione dei pani: “…Prese i pani e , dopo aver reso grazie, li distribuì…” (Gv. 6,11)
Rendere grazie significa ammettere che ciò che si possiede è dono e va riconosciuto come tale.
In fondo la benedizione, come azione di grazie, comporta una duplice restituzione: a Dio (riconosciuto come Donatore) e ai fratelli (riconosciuti come destinatari, partecipi insieme a noi del dono).
Con la benedizione nasce l’uomo nuovo.
E’ l’uomo di benedizione, che è in armonia con tutto il creato.
La terra appartiene ai “miti”, ossia a coloro che non rivendicano nulla.
La benedizione, dunque, rappresenta una linea di confine che divide l’uomo economico dall’uomo liturgico: il primo tiene per sé, l’altro si dona.
L’uomo economico dispone delle ricchezze, quello liturgico, ossia l’uomo eucaristico, è padrone di se stesso.
Allorchè un uomo benedice non è mai solo: il cosmo intero si unisce alla sua minuscola parola di benedizione ( Cantico di Daniele 3,51 – Salmo 148).
La benedizione ci impegna ad usare la lingua in un unico senso.
L’Apostolo Giacomo, con frasi roventi, denuncia un abuso purtroppo molto frequente: “…Con la lingua benediciamo il Signore e Padre, e con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio. E’ dalla stessa bocca che esce benedizione e maledizione. Non dev’essere così, fratelli miei. Forse la sorgente può far sgorgare dallo stesso getto acqua dolce ed amara?Può forse, miei fratelli, un fico produrre olive o una vite produrre fichi? Neppure una sorgente salata può produrre acqua dolce…” (Gc. 3,9-12)
La lingua viene dunque “consacrata” attraverso la benedizione. E noi purtroppo ci permettiamo di “sconsacrarla” con la maldicenza, il pettegolezzo, al menzogna, le mormorazioni.
Adoperiamo la bocca per due operazioni di segno opposto e pensiamo sia tutto regolare.
Non ci rendiamo conto che le due cose si escludono a vicenda. Che non si può, al tempo stesso, “ dire bene “ di Dio e “dire male” del prossimo.
La lingua non può esprimere benedizione, che è vita, e insieme gettare veleno che minaccia e addirittura spegne la vita.
Il Dio che incontro quando “salgo fino al Lui” nella preghiera, è il Dio che mi obbliga a “ridiscendere”, a cercare il prossimo, a trasmettere un messaggio di benedizione, ossia di vita.
L’esempio di Maria
E’ provvidenziale che sia rimasta una preghiera della Madonna : il Magnificat.
Così la madre del Signore ci fa da maestra nella preghiera di lode e di ringraziamento.
E’ bello avere Maria come guida, perché fu lei a insegnare a Gesù a pregare; fu lei che gli insegnò le prime “berakòth”, le preghiere di ringraziamento ebraiche.
Fu lei che fece scandire a Gesù le prime formule di benedizione, come facevano ogni mamma ed ogni papà in Israele.
Nazareth dovette diventare presto la prima scuola del ringraziamento. Come in ogni famiglia Ebraica si ringraziava dal “levar del sole fino al suo tramonto”.
La preghiera di ringraziamento è la più bella scuola di vita, perché ci guarisce dalla nostra superficialità, ci fa crescere nel rapporto con Dio, nella gratitudine e nell’amore, ci educa profondamente alla fede.

IL CANTO DELL’ANIMA
“Siate capaci di colmare la terra di Misericordia!
Riempite tutte le solitudini di oggi, tutte le
assenze di amore, tutte le nostalgie di accoglienza.
Siate mani di risurrezione.
Abbiate la gioia di Cristo Risorto
e presente in mezzo a noi;
la gioia della preghiera che giura sull’impossibile.
La gioia della fede, del chicco di grano,
seminato, forse per tanto tempo,
nell’oscurità della terra, squarciato dalla morte,
dalla persecuzione, dal dolore,
e che diventa, adesso,
spiga di pane, di primavera”.
(Suor Maria Rosa Zangara, fondatrice delle figlie della Misericordia e della Croce)

Publié dans:preghiera (sulla) |on 17 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

HANUKKAH – INIZIA IL 17 DICEMBRE (IL 25 DI KISLEV) E DURA 8 GIORNI -

http://testi-italiani.it/hanukkah

HANUKKAH – INIZIA IL 17 DICEMBRE (IL 25 DI KISLEV) E DURA 8 GIORNI -

(altre notizie sul sito)

Hanukkah (;, Tiberian:, di solito farro, pronunciato in ebraico moderno , una traslitterazione anche romanizzato come Chanukah, Chanukkah o Chanuka), noto anche come il Festival delle Luci e festa della Dedicazione, ? un otto giorni festa ebraica che commemora la riconsacrazione il Sacro Tempio (il Secondo Tempio ) in Gerusalemme al tempo della rivolta dei Maccabei contro i greci del 2 ø secolo aC. Hanukkah ? osservato per otto notti e giorni, a partire dal 25 ø giorno di Kislev secondo il calendario ebraico , che pu? verificarsi in qualsiasi momento, da fine novembre a fine dicembre nel calendario gregoriano .
Il festival ? osservato da l’accensione delle luci di un unico, « guardiano ») e viene data una posizione distinta, generalmente al di sopra o al di sotto del resto. Lo scopo del Shamash ? quello di avere una luce disponibile per l’uso pratico, come utilizzare il Hanukkah si accende per scopi diversi da pubblicit? e la meditazione della Hanukkah ? vietato.

Etimologia
Il nome « Hanukkah » deriva dal verbo ebraico «  », che significa « dedicare ». Su Hanukkah, gli ebrei ripresero il controllo di Gerusalemme e riconsacrato il tempio.
Molti homiletical spiegazioni sono state date per il nome:
Il nome pu? essere suddiviso in « , si riposarono il venticinquesimo », riferendosi al fatto che gli ebrei cessarono combattere il giorno 25 di Kislev , il giorno in cui inizia la festa.
(Hanukkah), ? anche l’ebreo – « Otto candele, e la

Le fonti storiche
Maccabei, Mishna e il Talmud
La storia di Hanukkah, insieme con le sue leggi e costumi, ? totalmente assente dai postulati della sua Hakdamah Le’mafteach Hatalmud che le informazioni sulla vacanza era cos? comune che la Mishna non sentiva il bisogno di spiegarlo. Reuvein Margolies suggerisce che la Mishnah ? stato redatto dopo la rivolta di Bar Kochba , i suoi redattori erano riluttanti ad includere discussione esplicita di una festa che celebra un altro relativamente recente rivolta contro un sovrano straniero, per paura di inimicarsi i Romani.
La storia di Hanukkah ? conservata nei libri del Primo e Secondo libro dei Maccabei . Questi libri non fanno parte del Tanakh (Bibbia ebraica); sono invece i libri apocrifi ebraici. Il miracolo della fornitura di un giorno di olio miracolosamente durata di otto giorni ? descritta la prima volta nel Talmud , scritto circa 600 anni dopo gli eventi descritti nei libri dei Maccabei. Il Gemara , nel Shabbat tractate, pagina 21b, si concentra su Shabbat candele e si trasferisce a Hanukkah candele e dice che dopo che le forze di Antioco IV erano stati cacciati dal Tempio, i Maccabei scoperto che quasi tutto l’olio d’oliva rituale era stato profanato. Hanno trovato solo un unico contenitore che era ancora sigillato dal Sommo Sacerdote , con olio sufficiente per mantenere la menorah nel Tempio illuminato per un solo giorno. Hanno usato questo, ma ? bruciato per otto giorni (il tempo necessario per avere nuovo olio pressato e reso pronto).

Il Talmud presenta tre opzioni:
La legge richiede solo una luce ogni notte per famiglia,
Una pratica migliore ? quella di accendere una luce ogni notte per ogni membro del nucleo familiare
La pratica pi? preferito ? quello di variare il numero di luci ogni notte.
In sefarditi famiglie, il padrone di casa accende le candele, mentre in ashkenaziti famiglie, tutti i membri della famiglia si illuminano. Tranne che in caso di pericolo, le luci dovevano essere posto al di fuori la propria porta, sul lato opposto del mezuza , o nella finestra pi? vicina alla strada. Rashi , in una nota a Shabbat 21b, dice che il loro scopo ? quello di pubblicizzare il miracolo . Le benedizioni per le luci di Hanukkah sono discussi in Succah tractate, p. 46a.

Narrazione di Giuseppe Flavio
L’antico storico ebreo Flavio Giuseppe racconta nel suo libro ebraico Antichit? XII, come il vittorioso Giuda Maccabeo ordin? sontuosi festeggiamenti annuali otto giorni dopo rededicating il Tempio di Gerusalemme che era stato profanato da Antioco IV Epifane. Josephus non dice il festival ? stato chiamato Hannukkah ma piuttosto il « Festival delle Luci »:
« Ora Giuda ha celebrato la festa del restauro dei sacrifici del tempio per otto giorni, e omesso nessuna sorta di piaceri al riguardo; ma li festeggiato al momento sacrifici molto ricche e splendide, e lui onorato Dio, e li deliziato da inni e salmi . Anzi, erano cos? molto felice al risveglio dei loro costumi, quando, dopo un lungo periodo di pausa, che inaspettatamente avevano riacquistato la libert? del loro culto, che hanno fatto una legge per la loro posteri, che dovrebbero mantenere un festival ., a causa della restaurazione del loro culto del tempio, per otto giorni e da quel momento per questo che celebriamo questa festa, e chiamiamo illumina Suppongo che la ragione era, perch? questa libert? oltre le nostre speranze ci apparve,., e che da l? era il nome dato a quella festa. Giuda ricostru? le mura intorno alla citt?, e torri di grande altezza allevato contro le incursioni dei nemici, e impostare le guardie in esso. Ha inoltre fortific? la citt? Bet-Zur, che potrebbe servire come una cittadella contro tutte le angosce che potrebbero venire dai nostri nemici. « 

Altre fonti antiche
La storia di Hanukkah si allude nel libro di stato a causa di un miracolo avvenuto il 25 di Kislev, e che sembra essere dato come la ragione per la scelta della stessa data per la riconsacrazione dell’altare da Giuda Maccabeo.
Un’altra fonte ? il Megillat Antioco . Questo lavoro (noto anche come « Megillat HaHasmonaim », « Megillat Hanukkah » o « Megillat Yevanit ») ? sia in aramaico e l’ebraico ; la versione ebraica ? una traduzione letterale dall’originale aramaico. Date Studi recenti ? da qualche parte tra i secoli 2 ø e 5 ø, probabilmente nel 2 ø secolo, con la datazione ebraica al 7 ø secolo. E ‘stato pubblicato per la prima volta a Mantova nel 1557. Saadia Gaon , che ha tradotto in arabo nel 9 ø secolo, attribuito agli stessi Maccabei, contestate da alcuni, in quanto d? date come tanti anni prima della distruzione del secondo Tempio nel 70 dC. Il testo ebraico con traduzione in inglese pu? essere trovato nel Siddur di Filippo Birnbaum .

La si riferisce al festival come « luci ».
Storia di Hanukkah
Sfondo
La prima guerra giudaica. 31 Le Tobiadi , che ha guidato la fazione ebraica ellenizzante a Gerusalemme, furono espulsi in Siria intorno al 170 aC, quando il sommo sacerdote Onia e la sua fazione pro-egiziano strappato il controllo da loro. Tobiadi esiliati incitato Antioco IV Epifane di riconquistare Gerusalemme. Come l’antico storico ebreo Giuseppe Flavio ci dice « Il re essendo esso disposto in precedenza, rispettato con loro, e venne su gli ebrei con un grande esercito, e ha preso la loro citt? con la forza, e uccise una grande moltitudine di coloro che ha favorito Tolomeo, e inviato ai suoi soldati di saccheggiare loro senza piet?. Egli ha anche rovinato il tempio, e mettere fine alla pratica costante di offrire un sacrificio quotidiano di espiazione per tre anni e sei mesi. « 

Vista Tradizionale
Quando il Secondo Tempio di Gerusalemme fu saccheggiata e servizi si ferm?, il giudaismo ? stato dichiarato illegale. Nel 167 aC Antioco ordinato un altare a Zeus eretta nel Tempio. Egli ha vietato la circoncisione e ordin? maiali per essere sacrificato sull’altare del tempio (il sacrificio di suini alle divinit? greche era pratica rituale di serie nella religione greca antica ). Azioni di Antioco provocato una grande rivolta. Mattityahu , un sacerdote ebreo , ei suoi cinque figli Jochanan , Simeone , Eleazar , Jonathan , e Giuda ha condotto una ribellione contro Antioco. Giuda divenne noto come Yehuda HaMakabi (« Giuda il martello »). Con 166 aC Mattatia era morto, e Giuda ha preso il suo posto come leader. Con 165 aC la rivolta ebraica contro la monarchia seleucide era successo. Il Tempio fu liberato e riconsacrato. La festa di Hanukkah ? stato istituito per celebrare questo evento. Giuda ordin? al tempio per essere purificato, un nuovo altare per essere costruito al posto di quello inquinato e nuovi vasi sacri da effettuare. Secondo il Talmud, ? stato necessario l’olio d’oliva per la menorah del Tempio, che ? stata tenuta a bruciare per tutta la notte ogni notte. La storia racconta che c’era solo olio sufficiente a bruciare per un giorno, ma si bruci? per otto giorni, il tempo necessario per preparare una nuova fornitura di petrolio per la menorah. Un festival di otto giorni ? stato dichiarato dai saggi ebrei per commemorare questo miracolo.
La versione della storia in 1 Maccabei afferma che una celebrazione di otto giorni di canti e sacrifici ? stato proclamato su ri-dedicazione dell’altare, e non fa menzione del miracolo dell’olio. Un certo numero di storici ritengono che la ragione per la celebrazione di otto giorni era che la prima Hanukkah era una celebrazione tardiva di Sukkot e Shemini Atzeret . Durante la guerra gli ebrei non erano in grado di celebrare queste feste, quando le lampade dovevano essere accesa nel Tempio (Suk.v. 2-4).

Publié dans:Ebraismo : feste |on 17 décembre, 2014 |Pas de commentaires »
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