Archive pour le 18 décembre, 2014

Nativity of Christ, Orthodox chuch

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Publié dans:immagini sacre |on 18 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

GESÙ MI VUOLE FELICE

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GESÙ MI VUOLE FELICE

“Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi, quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli”
(1Gv 3,16)

l. Ogni mattina ti ricorderai di chiedere a Dio la gioia
2. Manterrai la calma anche in caso di disaccordi
3. Nel tuo cuore ricorderai sempre che Gesù ti ama
4. Ti applicherai a vedere sempre il lato buono delle persone
5. Allontanerai da te ogni forma di tristezza
6. Eviterai critiche e lamenti in qualsiasi occasione
7. Ti impegnerai nel tuo lavoro con cuore gioioso
8. A quanti incontrerai oggi regalerai un bel sorriso
9. Conforterai quelli che soffrono dimenticando te stesso
lO. Diffondendo la gioia ovunque la otterrai anche per te!

1.1 La vera libertà in Cristo
La vita morale è una questione di cuore. Per noi cristiani vivere con senso di responsabilità morale equivale ad amare e imitare Gesù. La fede ci rivela che questo impegno è esposto all’influsso della nostra fragilità che ci trascina al peccato, cioè ad allontanarci da Dio. Ciò consiste nel dare risposte sbagliate al nostro desiderio del bene. Abbiamo ricevuto un dono, la libertà, che è il “potere di agire o di non agire e di porre così da se stessi azioni libere. Essa si perfeziona quando è ordinata a Dio, bene supremo” (Catechismo n.1744, d’ora in poi la sua sigla sarà: CCC).
“Libertà” significa fare ciò che voglio o fare ciò che è bene? L’uomo da solo non ce la fa a riconoscere il vero bene, per questo Dio lo soccorre nel suo Figlio Gesù, donandogli un riferimento per le sue scelte quotidiane. Una riflessione sulla morale cristiana che non si fondi sulla conoscenza e relazione con Gesù sarebbe solo moralismo, ma lo sarebbe anche se non avessi chiaro un concetto: Dio mi vuole felice e Gesù è la risposta di Dio al mio desiderio di felicità. Noi uomini vogliamo essere felici: è Dio stesso che ha messo nel nostro cuore questo desiderio, dandoci poi indicazioni al riguardo. Quali? Un giovane chiese a Gesù il segreto della felicità: “Maestro buono, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?”. Gesù rispose: “Se vuoi entrare nella vita osserva i comandamenti” (Mt 19,16-17). Questa sua risposta risuona nella voce della nostra coscienza, che oscilla come una bussola e quando faccio il male dice: “Non prendere questa via: non è buona”.
Dio ci affianca inoltre una grande maestra: la realtà. Se esagero nel mangiare, il mio corpo conferma il peccato di gola con una bella indigestione che mi induce a cambiare comportamento.
Ma se essere liberi e felici equivale a fare quanto Dio ci insegna, il nostro cuore sospetta che Egli ci voglia schiavi. Eppure l’esperienza dei santi ci dice che diventiamo liberi e felici quando ci fidiamo di Dio e della sua volontà, lasciandoci guidare completamente. Guardiamo Madre Teresa (+1997) o San Giovanni Bosco (+1888): ci si può immaginare un uomo più spontaneo, più libero, più allegro di don Bosco con la sua meravigliosa fantasia per i giovani?
Il nostro problema consiste nel concedere fiducia a Dio, accettando di credere che Egli sappia cosa mi rende felice. La mia libertà può scegliere il male, ma si tratta di una decisione che mi rende schiavo, perché così danneggio gli altri, me stesso e la mia libertà. Quando vado al lavoro il lunedì mattina posso essere gentile o scontroso: posso scegliere il bene o il male, il che non è indifferente o facile come scegliere un maglione verde oppure blu. Se scelgo il male presto o tardi mi accorgerò… di stare male! Nelle nostre scelte la fedeltà al bene può apparire pesante o difficile, ma sulla distanza si rivela buona. Pensiamo a una coppia che arriva a festeggiare le nozze d’oro, cinquant’anni di fedeltà. Il fatto di essere stati fedeli per cinquant’anni li rende forse schiavi? Si pentiranno forse di essersi amati così tanto? O se vogliamo porre la domanda diversamente: saranno meno liberi di quelli che, magari per un attimo di smarrimento, hanno preso la strada dell’infedeltà? Quale condotta ci fa contenti di noi stessi?
È vero, siamo liberi di decidere per il peccato, ma il peccato non ci rende liberi. Il male è un attacco contro l’uomo prima che contro Dio e “consiste nel sospetto dell’uomo che l’amore di Dio crei una dipendenza e che gli sia necessario sbarazzarsi di questa dipendenza per essere pienamente se stesso. Nel fare questo, egli si fida della menzogna piuttosto che della verità e con ciò sprofonda la sua vita nel vuoto e nella morte” (Benedetto XVI, 08-12-05).
La nostra libertà è instabile. Senza l’aiuto di Dio siamo facilmente esposti alle sue incertezze. Il Catechismo al riguardo dice: “La grazia (= aiuto interiore) di Gesù non si pone affatto in concorrenza con la nostra libertà, quando questa è in sintonia con il senso della verità e del bene che Dio ha messo nel cuore dell’uomo”(CCC 1742).
Ma qual’è la verità? La verità non è una variabile come le opinioni degli uomini: è un concetto che non cambia mai, come le leggi della natura. Perciò non è una conquista dell’uomo, ma un dono che riceviamo dal Signore riconoscibile con la sincerità. Ascoltando Gesù che parla, un cuore sincero comprende che la vita, l’amore e la famiglia non sono solo in vista di un vantaggio personale. La vita è un dono, la persona è un dono, il matrimonio è un dono reciproco: tutta l’esistenza è un invito a donare!… L’importante è capire quando il dono è vero e buono. Spesso la libertà intesa come interesse e licenziosità ubriaca i ragazzi cancellando in loro la coscienza della loro appartenenza a Dio. Lo dice bene Sant’Agostino: “Tu ammiri le cose che fai, però ti dimentichi di essere stato fatto”.
Possiamo orientare al bene la libertà soltanto quando Gesù ci prende per mano: “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,32).

1.2 La coscienza può sbagliare
Dunque capire i comandamenti equivale a credere che essi mi mostrano ciò che è vero ed è bene per me, e questa comprensione ha luogo nella coscienza, la quale è la voce della verità in noi, un messaggero di Dio. Ma essa va soggetta a dei condizionamenti che possono deformarla e quasi spegnerla. La storia ci mostra che sono esistite persone come San Massimiliano Kolbe (+1943) che hanno seguito la coscienza decidendo di offrire la vita per salvare altri uomini, e attentatori che hanno seguito la coscienza per distruggere le Twins Towers di New York (11-09-01) causando la morte di migliaia di persone, e questo dopo aver pregato con grande convinzione. Allora capisco che la coscienza è una lente per riconoscere ciò che è buono, giusto e vero nella realtà, ma che va sempre tenuta limpida e trasparente, per evitare che la visione sia oscura e deforme. Insomma, ogni coscienza va formata e la scuola della coscienza è la scuola di Gesù, che ci ha detto: “Imparate da Me” (Mt 11,29). Se voglio una coscienza sensibile studierò la vita dei santi, quelli che hanno cercato di vivere come Gesù e la sua Chiesa indicano. Ciò implica che io sia pronto ad ascoltare l’insegnamento della Chiesa con fiducia, convinto che il Papa è un messaggero della Chiesa che ha dal Signore un esplicito mandato e la speciale assistenza dello Spirito Santo per parlare alla nostra coscienza e ricordarle ciò che Dio chiede. Se non sono pronto a lasciarmi mettere in crisi dalla Parola di Dio, di Gesù, avrò di certo difficoltà anche con la Dottrina della Chiesa che si basa su di essa. La mia coscienza, infatti, può sbagliare. Non a caso Sant’Agostino ci ha lasciato questa preghiera: “Dio, salvami da me stesso”. Ecco alcuni principi formativi per la coscienza:
1. Devo chiedermi se sto agendo secondo la regola d’oro: “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”.
2. Devo considerare che il fine non giustifica i mezzi, cioè che non mi è permesso di fare il male per ottenere il bene.
3. Agire “responsabilmente” vuol dire “saper rispondere” alla domanda: “Cosa è bene? Cosa è male?”. Per i cristiani la risposta è Gesù stesso: “Io sono la verità”(Gv 14,6), cioè Egli è la misura assoluta del bene dell’uomo. Per il mondo la verità è un concetto che cambia e la dettano i singoli, le mode televisive, la maggioranza: chi non condivide i valori del gruppo viene emarginato. Per esempio: se il modello del vincitore in amore è aggressivo, prestante, ricco, il ragazzo povero e timido rimane escluso. Oppure: se il corpo vince su qualsiasi valore interiore, dev’essere perfetto, esibito e venduto. Il sentimento viene così strumentalizzato per ottenere qualcosa: questo non è l’amore secondo Dio.

1.3 L’amore di Gesù svela il peccato
La croce è stata la massima rivelazione del bene che Gesù ci vuole. Dalla croce Egli donò lo Spirito, quella Persona divina che a Pentecoste scese sui discepoli perché comprendessero la realtà e il peso del peccato (Gv 16,8). La dinamica della croce segue questo principio: quando ci sentiamo amati e accettati ci rendiamo conto della verità della nostra colpa. Per esempio, un bambino che non è amato, che non si sente accettato, se combinasse un guaio difficilmente lo ammetterebbe, per paura delle conseguenze. Il bimbo che invece si sente protetto, dirà fiduciosamente la sua colpa e non farà l’esperienza del rifiuto, ma del perdono, poiché è certo dell’amore dei genitori e non viene bloccato dall’equazione: “Se faccio il bravo mi amano e se faccio il cattivo non mi amano”. Dio non ci ama perché siamo buoni, coerenti. Dio ci ama così come siamo, a prescindere da ciò che abbiamo fatto di male. Egli ci ha amati per primo (1 Gv 4,19) e quando non lo amiamo con il peccato, Lui continua a volerci bene, pur dispiacendosi come una mamma che vede le insensatezze del figlio. Il peccato è un’azione che va contro la verità e perciò contro la volontà di Dio: in sé rivela una mancata comprensione dell’amore di Dio per noi provocando il distacco da Lui. “Il peccato mortale distrugge l’amore nel cuore dell’uomo a causa di una violazione grave della legge di Dio” (CCC 1855). Perché ciò accada ci sono alcune condizioni: conoscere e volere il male. Spieghiamo qualcosa in merito. Consumare un peccato richiede, dice la Chiesa, una “piena consapevolezza” che si tratta di qualcosa di “grave” ed un “deliberato consenso”, cioè una volontà completamente libera (CCC 1858-1859), il che a volte non è detto che si verifichi in pieno. Infatti gli impulsi della sensibilità, le pressioni esterne, le passioni, possono attenuare il carattere volontario e libero della colpa. Ma la coscienza del peccato non va confusa con un generico “senso di colpa”: essa consiste nel capire di essere amati da Dio e con ciò di volere rifiutare questo amore. Per evitare questo sbaglio è importante conoscere bene Dio, farsi la giusta opinione di Lui. Il Papa ci aiuta osservando che “Gesù è l’amore incarnato di Dio: nella sua morte in croce si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo: amore, questo, nella sua forma più radicale” (Deus Caritas Est, 12). La croce ci dimostra infatti che “Dio è più tenero di una mamma” (S. Teresina); meditarla dovrebbe scatenare in noi una fiducia illimitata nella sua misericordia ed una corsa impaziente tra le sue braccia! Pur riconoscendoci tutti peccatori, tutti malati, siamo resi giusti dal Suo Sangue: “Dio dimostra il suo amore per noi, perché mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”. Dio ci rende giusti per suo dono (grazia) se, nella fede, afferriamo Gesù presente nei sacramenti (CCC 1989). Egli opera in noi un rinnovamento totale attraverso l’opera dello Spirito Santo che ci avvicina a Lui e ce lo fa conoscere. Solo Gesù ci trasmette un’idea esatta di suo Padre: “Dio è amore” (1 Gv 4,8), amore che guarisce l’uomo.

1.4 L’amore di Gesù infonde in noi il desiderio di santità
Gesù è Colui che familiarizza con l’uomo, l’Amico dell’uomo. L’imitazione di Gesù sgorga dall’osservazione attenta dei suoi atteggiamenti con noi, infatti nulla ci persuade tanto ad avere fiducia in una persona quanto il sapere che ci ama e ci conosce perfettamente nell’intimo. San Giovanni scrive che Gesù ci conosce bene: “Egli sapeva quello che c’è in ogni uomo” (Gv 2,25; Mc. 2,8).
Risalta in Lui una grande amabilità con noi peccatori: “Dio non ci destina alla sua collera, ma all’acquisto della salvezza per mezzo di Gesù: Egli è morto per noi, perché viviamo insieme con Lui” (1Ts 5,9). Questa sua dolcezza è tesa a evocare una risposta concreta dell’uomo alle iniziative dell’amore di Dio nella vita morale, dove i comandamenti rappresentano la prima tappa necessaria nel cammino verso la libertà. Gesù è cioè venuto a svelare il senso dei comandamenti (Mt 5,17), in Lui noi ci sentiamo amati da Dio e per questo desideriamo amare anche quando ciò è esigente: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 15,12). Poi la condizione di ogni credente è seguirLo (Mt 19,21), Lui davanti, io dietro lo seguo. Lui il modello, io lo imito. Lui il padre, io il figlio amatissimo. Ciò richiede una forte unione con la sua Persona vivente, perché imitarlo nell’amore è una cosa impossibile alle forze umane. È possibile amare come Lui solo per suo dono, per sua grazia (Gv 1,17). Una bella intuizione di Papa Giovanni Paolo I giustamente osserva: “Uno non può essere casto se non ama molto il Signore”, perciò in tutta la vita morale il motore che trascina la volontà dell’uomo è l’amore per Gesù, senza il quale non si può “fare la verità” (Gv 3,21) cioè osservare i comandamenti e rimanere nel suo amore (Gv 5, 10). Gesù dice che la verità esiste e si può vivere, ma la fedeltà nel bene è frutto di un rapporto di forte amicizia con Lui, infatti Egli apprezza di più l’amore affettuoso di Maria che non quello ansioso di Marta (Lc 10, 42). Tutto deve partire dall’amore affettivo per la Sua Persona, poiché il cristianesimo è una Persona ed è l’amore per Lui che conferisce volontà, valore e forza alle azioni umane. Marta dimostra che servire Cristo adempiendo tutti i comandamenti della Legge può condurre a sottrarGli qualcosa del nostro amore: il cuore. Gesù invece associa l’immagine dello sposo al tipo di rapporto che vuol costruire con l’uomo: Egli è Colui che dell’uomo condivide la parte più intima: il cuore.
Solo un’intensa relazione con Gesù sostiene la morale cristiana e la permea di quella gioia che è risposta piena alle attese di noi uomini. Camminare con Lui ci insegna a scoprire sempre più il prossimo nel profondo, nella totalità di corpo e anima, fino a considerare la felicità dell’altro più importante della mia. Allora non si vuole più solo prendere, ma donare. Proprio in questa liberazione dall’io l’uomo trova se stesso e si riempie di gioia. Perciò l’educazione alla castità è un cammino paziente e graduale di maturazione nell’apprendimento dell’amore.
“Adorare Gesù significa che libertà non vuol dire godersi la vita, ritenersi assolutamente autonomi, ma orientarsi secondo la misura della verità e del bene. Dio è diverso da come di solito lo immaginiamo. Al potere rumoroso e prepotente di questo mondo Egli contrappone il potere dell’amore sulla croce.” (Benedetto XVI, Colonia 2005, XX GMG)

“Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perchè la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv. 15,10-11)

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GESÙ E LA FAMIGLIA

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GESÙ E LA FAMIGLIA

Teologo Borèl » Settembre 2005

I vangeli sono, come del resto tutta la Bibbia, storia di famiglie. Tra di esse sta la famiglia di Gesù. In famiglia, secondo la consuetudine sociale del tempo, egli vive la nascita, la fanciullezza e la giovinezza fino alla scelta professionale di “rabbi”; con la famiglia continuerà a intrattenere legami anche nel ministero. I vangeli sono, come del resto tutta la Bibbia, storia di famiglie. Tra di esse sta la famiglia di Gesù. In famiglia, secondo la consuetudine sociale del tempo, egli vive la nascita, la fanciullezza e la giovinezza fino alla scelta professionale di “rabbi”; con la famiglia continuerà a intrattenere legami anche nel ministero…
Quello di Gesù con la famiglia è indubbiamente un rapporto tanto reale quanto complesso, affatto scontato, anzi sovente critico, certamente innovativo rispetto al patriarcalismo dominante nel suo tempo e per tanto tempo dopo. Senza però che in lui appaia una marginalizzazione della famiglia, considerata anzi – come nella celebre controversia con i farisei sul divorzio – secondo l’originario disegno di Dio (cf Mt 19, 3-9). Ne sappiamo il perché: è la “variabile imprevista” del Regno di Dio da lui introdotta negli ordinamenti umani che determina la sua visione, decisamente singolare ed originale per gli schemi del tempo.
Per cui la famiglia, come del resto ogni altra istituzione ed entità naturale (società, stato, economia…), per Gesù assume il profilo di un sacramento, ossia di avvenimento umano, naturale, corrispondente alla creazione, con la positività e la fragilità storica che le sono connesse, ma innalzato ad essere segno efficace della presenza amorosa e vivificante di Dio nel mondo. Dio sta nel mondo come in una famiglia, la famiglia secondo Gesù ha per ospite il Padre, anzi è ospitata da Lui (cf Giov 14, 2-3.23).
Sicché nasce una circolarità virtuosa: la famiglia, ogni famiglia, dona a Dio il linguaggio (segni, esperienza) di potersi dire, comunicare; ma essa stessa riceve da Lui la grazia di potersi capire. Di questo “grande Mistero” (cf Ef 5, 32), Gesù è il segmento storico rivelativo escatologico, cioè contingente nell’espressione culturale, ma compiuto nei significati e decisivo negli esiti.
Quindi leggere biblicamente la relazione di Gesù con la famiglia è leggere la scelta di campo di Dio, il referente ultimo e basilare, la Parola di Dio, il Vangelo di Dio, il “Vangelo della famiglia”.
Intendiamo illustrare questo tema in chiave biblica elementare, raccogliendo criticamente i passi evangelici.
Si potrà notare che dai vangeli non si può ricavare uno specifico insegnamento circa il rapporto dei giovani con la famiglia.
Ma di certo anche a loro è dato di ritrovare nel Vangelo lo sguardo globale del Cristo verso questa entità originaria della vita, mettendovi a confronto un complesso di loro esperienze familiari, già segnate dalla consapevolezza del valore e del limite, quindi ora serene e ora deludenti.
Potrà questo essere il tempo opportuno di un discernimento e di una maturazione.
Seguendo un filo logico dei testi, già segnalato da J. Dupont,[1] distinguiamo tre aspetti:
– l’esperienza familiare di Gesù;
– atteggiamenti di Gesù verso la famiglia;
– gli insegnamenti sulla famiglia che Gesù consegna ai discepoli.
Facciamo precedere una rapida informazione di quello che poteva essere l’istituto familiare ai tempi di Gesù.

LA FAMIGLIA AI TEMPI DI GESÙ
Lungo tutto il tempo biblico la famiglia ebraica possiede certi connotati stabili. Semmai all’epoca di Gesù, epoca del giudaismo, si può notare da una parte una rigidità nell’osservanza delle prescrizioni legali, religiose e sociali (Gesù nasce fuori famiglia per ossequio al casato del padre putativo Giuseppe e a dodici anni, bar miswah, puntualmente termina la sua iniziazione partecipando alla pasqua a Gerusalemme) e dall’altra si assiste ad un certo allentamento del patriarcalismo classico, per cui la famiglia vera era più il clan di appartenenza che la famiglia di sangue.
Quello che è certo, è che la famiglia in Israele rappresenta la cellula base della società, con una perentorietà che escludeva in termini assoluti qualsiasi forma alternativa di convivenza, non solo in termini morali, ma anche giuridici. La stessa verginità non era particolarmente stimata. Solo con la mediazione della famiglia, l’israelita veniva a conoscere che il Dio biblico agisce nella storia (da Adamo ad Eva, ad Abramo e Sara, fino a Giuseppe e Maria). O meglio, agisce anche oltre la famiglia, nella scelta di singoli personaggi atti a portare avanti il suo disegno, ma questo era visto subito come evento straordinario (ad esempio la scelta di Gedeone, Samuele, Saul, Geremia, del Battista, della stessa Maria…) e pare non essere stato capito a proposito di Gesù.
Si tratta di famiglia endogamica, ossia costituita da genitori di razza ebraica, patrilineare, che prende titolo giuridico dal padre (è la presentazione che ne fa Matteo, ma in Luca emerge forse una linea matriarcale, conosciuta per sé dalla Bibbia, nella centralità riconosciuta a Maria). La famiglia vedeva la compresenza di membri in senso stretto, per via di sangue, e di altri parenti in senso più largo. Costituivano una “fratellanza”, dal termine di base ah, fratello, che per sé rivestiva un senso decisamente lato.
È certo ancora, come oggi avviene in popolazioni cosiddette primitive, che successo ed insuccesso di un membro erano condivisi (soprattutto il successo) in misura serrata, interessata ed ostentata, creando talora disagio nel privilegiato.
La famiglia era il luogo della vita globale: fisica, morale, professionale, religiosa ed anche culturale, almeno fino a quando il piccolo non frequentava la scuola a fianco della sinagoga. Se la madre accudiva i piccini, subentrava tosto il padre che assumeva lui il ruolo educativo. La crescita aveva nell’incipiente adolescenza il momento del passaggio al gruppo degli adulti con gli obblighi inerenti.
In breve la famiglia era segnata rigorosamente da uno rigido standard comune di vita (noi diremmo dalla dinamica di una forte socializzazione primaria), secondo la Torah e le interpretazioni dei rabbini. Veniva ad essere un fattore essenziale ed insostituibile di trasmissione della vita nella sua interezza, dunque anche della religione (idee, riti, istituzioni), era perciò considerata realtà sacra, stabilita da Dio, garanzia di tradizione, luogo quanto mai ricco di sapienzialità e di umanità. Ma insieme proprio la rigidità della forma poteva minacciare quella libertà e responsabilità del singolo per cui tanto si erano battuti i profeti, segnatamente Ezechiele (Ez 18). Senza contare la evidente debolezza che traspariva ad esempio – ne fanno fede i vangeli – dalla pratica del divorzio facile, che poi altro non era che un adulterio legalizzato, come pure dalla scaltrezza di sapersi esimere dall’osservanza del IV comandamento appellandosi alle tradizioni dei padri. “E di cose simili ne fate molte” (Mc 7,18).
Affiora perciò ancora netta nei vangeli, redatti in ambiti vitali non più giudei, questa bipolarità positiva e negativa, che coinvolse anche Gesù che alla famiglia fu fedele, ma non pedissequo, la rilesse e rivisse “criticamente” alla luce dell’avvenimento del Regno.

L’ESPERIENZA FAMILIARE DI GESÙ
I vangeli sono, come del resto tutta la Bibbia, storia di famiglie. Tra di esse sta la famiglia di Gesù. In famiglia, secondo la consuetudine sociale del tempo, egli vive la nascita, la fanciullezza e la giovinezza fino alla scelta professionale di “rabbi”; con la famiglia continuerà a intrattenere legami anche nel ministero. È domiciliata a Nazaret, fa da capo Giuseppe, un artigiano agricolo, la madre si chiama Maria. Gesù è detto “figlio primogenito” (ed unico) (Lc 2,7), ma in compagnia di “fratelli e sorelle” (Mc 6, 1-3).
Tale “famiglia estesa” egli se la ritrova a Cafarnao in un frangente difficile (Mc 3, 31), come pure in altri momenti della sua missione, ma dove spicca l’atteggiamento chiaramente interessato e geloso dei suoi “fratelli” (Giov 7, 1-10). Secondo i vangeli, incontra ancora la madre a Cana (Giov 2, 1-11) e sotto la croce (Giov 19, 26-27).
La vicenda personale di Gesù incrocia diverse famiglie, che di fatto entrano nel circolo della sua missione. Facciamone semplicemente ricordo: la famiglia di Zaccaria, Elisabetta e Battista (con cui appare imparentato, cf Lc 1, 36); la famiglia di Cana nel giorno della sua costituzione tramite le nozze (Giov 2, 1-12); la famiglia di Marta e Maria e Lazzaro, che dovette essere la famiglia di elezione del Maestro nei suoi spostamenti in Giudea e a Gerusalemme (Lc 10, 38-42; Giov 11, 1-3), come a Cafarnao lo fu la famiglia di Pietro cui guarisce la suocera (Mc 1, 29-31); la famiglia di Giairo con la sua sposa, cui risuscita la figlia dodicenne (Mc 5, 38-43).
Più indirettamente entra a contatto, a causa dei figli, con la famiglia della vedova di Naim (Lc 7, 11-17), della Cananea (Mc 8, 24-30) e del centurione di Cafarnao (Lc 7, 1-10); ma anche di Pilato stesso, del quale viene menzionata anche la sposa (Mt 27, 19), di Giacomo e Giovanni di cui conosciamo la madre e il padre (Zebedeo) (Mc 10, 35), delle madri che gli offrono i bambini da benedire (Mc 10, 13-16), delle “pie donne” di Gerusalemme che piangono su di lui (Lc 23, 27-31)…
Di Gesù veniamo sapere la condivisione di atti fondamentali della vita familiare.
Anzitutto i due atti estremi e costitutivi, la nascita e la morte, ricordati piuttosto lungamente nei vangeli. Anzi, prima ancora, conosciamo la sua gestazione nel seno della madre, caratterizzata da un incontro parentale gioioso, quello con Elisabetta e il figlio Giovanni; la giovinezza è vissuta in famiglia per quasi trent’anni (la maggior parte del suo tempo). Si vede Gesù partecipare alla vita familiare nel tempo della festa (a Cana per delle nozze, e a Gerusalemme per la celebrazione della pasqua, festa tipicamente familiare, Lc 2, 41-50) e del dolore (nel caso della vedova di Naim e della famiglia di Marta e Maria per la morte di Lazzaro). Durante la sua stessa passione mostra la premura di collocare la madre in una famiglia sicura (Giov 19, 25-27). Non si tralascerà di notare che è del tutto verosimile che la moltiplicazione dei pani abbia avuto per fruitori intere famiglie stanche ed affamate (cf Giov 6, 1-13).
Non da ultimo la base storica dei vangeli ci dice quanto sia stato impregnato di motivi familiari il lessico di Gesù, ossia quanto l’esperienza di famiglia sua ed altrui gli sia diventata fonte di linguaggio per esprimere la rivelazione di Dio che andava annunciando. Tantissimi ne sono i richiami: le nozze diventano segno messianico per eccellenza (Mc 2, 19; Mt 22, 1; 25, 1-12; Giov 2, 1-12); i ruoli di paternità e fraternità gli permettono di dire Dio e i rapporti dei discepoli con Lui e tra di loro (Mt 23, 8-10); l’immagine della donna che partorisce e ne ha gioia (Giov 16, 21), o di quella che spazza la casa per trovare la moneta (Lc 15, 8-10) evidenziano i temi nuovi del Regno; la storia del padre che vede la famiglia spezzarsi con la partenza del figlio minore (Lc 15, 11-32), o quella dei due figli di diversa obbedienza verso il padre (Mt 21, 28-32), o del padre ancora che dopo i servi invia il figlio a riscuotere i suoi diritti e costui viene massacrato (Mt 21, 33-44), o la gestione degli affari da parte degli amministratori nella casa del padrone (Mt 24, 45-51; 25, 14-30)… sono tutte fatti o parabole vivaci della storia della salvezza.
In sintesi si può dire che per Gesù vivere in famiglia e con famiglie ha fatto parte sostanziale della sua biografia: ha accettato l’istituto familiare come istituzione divina; ha condiviso la vita di famiglia con la accettazione dei suoi impegni per la maggior parte della sua vita; ha fatto del bene alla gente anche in quanto famiglie; si è servito della famiglia come di un segno per dir non poco del messaggio.
Per Lui la famiglia è stata un segno di incarnazione, con la valenza di segno profondo, data la sua permanenza. Il suo primo insegnamento è qui: l’aver praticato la famiglia come condizione elementare di vita per realizzare se stesso, per essere se stesso.

ATTEGGIAMENTI DI GESÙ VERSO LA FAMIGLIA
Ma noi sappiamo che l’esperienza familiare di Gesù va oltre la passiva accettazione di un dato di fatto: egli ha da dire qualcosa su di essa.
Lo dimostrano alcuni momenti di vita familiare da lui vissuti dentro la sua stessa famiglia di sangue, ed oltre essa. Sono situazioni che hanno provocato in lui degli atteggiamenti, registrati nei vangeli, che aprono varchi interessanti per capirne il pensiero.
Gesù si preoccupa di riaffermare il pensiero originario di Dio
Nel ministero di Gesù, due “provocazioni” degli avversari suscitano due suoi interventi diretti sul tema “famiglia”. Entrambi mirano a ritrovare, perché deformato, il profilo originale dell’istituzione familiare secondo il pensiero di Dio. In questo Gesù fa memoria della grazia degli inizi, rifacendosi a due momenti costitutivi della fede biblica: la creazione e l’esodo.
A chi lo “tenta” sulla liceità o meno del divorzio, e dunque ultimamente dell’adulterio, allora piuttosto tollerati a favore dell’uomo, Gesù afferma la indissolubilità ed insieme la fedeltà coniugale in una maniera che condanna divorzio ed adulterio anche dell’uomo (Mt 19, 9; 5, 31-32; Mc 10, 11-12; Lc 16, 18), anzi l’adulterio anche solo interiore (Mt 5, 27-28). Egli fa ciò appellandosi al disegno creativo di Dio (Gen 2, 24).
Di fronte poi ad uno stile troppo disinvolto di disimpegnarsi nei confronti dei genitori, Gesù ricorda il Decalogo, la legge dell’alleanza, precisamente il IV comandamento, che va dunque osservato contro ogni astuzia evasiva, fosse pure ammantata di sacro e di venerabili tradizioni (Mc 7, 9-13; Mt 15, 3-9). È noto che tale precetto Gesù lo riprende nell’incontro con il giovane ricco (Mt 19, 19), e soprattutto è da lui stesso praticato per tutti i lunghi anni nazaretani (Lc 2, 51).

La famiglia misurata sulla volontà di Dio
Affermato il profilo originale della famiglia, Gesù evidenzia la novità che vi apportano i tempi messianici del Regno. Una di tali innovazioni messianiche consiste nel subordinare la stessa famiglia al Regno: cioè la famiglia non è già Regno di Dio, ma realtà chiamata a convertirsi ed entrarvi. È quanto Gesù dirà ai discepoli (vedi più avanti), ma che vive nella sua stessa persona. Lo riferiscono i vangeli, la cui abituale sobrietà nel fare la storia intima di Gesù ancora di più rafforzano il valore di quanto viene detto a tale proposito.
Viene alla mente il noto episodio di Luca 2, 41-52 (ritrovamento di Gesù tra i dottori del tempio). Ivi Maria fa questo rimprovero a Gesù: “Figlio mio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre ed io angosciati ti cercavamo” (v. 48). Gesù reagisce con una risposta che non è accomodante o richiedente il perdono: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (v. 49).
Dove si nota la contrapposizione tra “tuo padre” di Maria e “mio padre” di Gesù. Per lui il difetto sta decisamente nella incomprensione dei genitori. Ma segue anche che Gesù rientra nell’ordine originario, ed “era loro sottomesso” (v. 51).
In Giovanni, alle nozze di Cana (2,1-11), alla madre che fa presente la carenza di vino, Gesù risponde: “Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora” (v. 3). La risposta non va troppo indurita, giacché Gesù accoglie subito la preghiera. Ma è vero che prende le distanze, sicché il miracolo non andrà inteso nella direzione dell’ubbidienza filiale a Maria, ma in quella della sottomissione al Padre, che solo può fissare l’ora della manifestazione.
Si nota nei due casi l’indipendenza che Gesù intende mantenere davanti al parentado terreno, poiché nell’esercizio della sua missione si riconosce ultimamente dipendente solo dal Padre.
La sua missione egli la compie al servizio di Dio solo e non della sua famiglia, della quale peraltro vedremo qui sotto l’ambiguità di comportamento nei suoi confronti.
Ma proprio per questo acquista particolare rilievo la sua estrema attenzione verso la Madre quando egli sta per morire (Giov 19,26): diventa segno nitido di come fede in Dio e amore parentale possono far sintesi.

Incredulità della famiglia di Gesù nei suoi riguardi
Un certo distanziamento di Gesù dalla sua famiglia non risulta soltanto dall’esigenza di un legame con un Mistero ancora più grande. Si fa inevitabile anche a causa dell’incomprensione che riceve da essa: “I suoi fratelli non credevano in lui” (Giov 7,5). Gesù lo farà presente con molto realismo ai discepoli, prospettando persecuzioni dai loro stessi cari (Mt 10,21), ed intanto ne diventa lui stesso icona concreta con la sua esperienza. Due fatti eclatanti.
“I suoi uscirono per prenderlo; poiché dicevano: È fuori di sé” (Mc 3,21). È il giudizio dei parenti (cf il v. 31). Vengono da Nazaret, dopo aver udito il successo di Gesù in Galilea e l’accusa di possessione diabolica da parte degli scribi.
È difficile vedere Maria complice del giudizio dei suoi. L’episodio della vera “famiglia” di cui Gesù parla subito dopo si attaglia bene a Maria, che “compie la volontà di Dio” pienamente (3,33-35).
È la visita di Gesù a Nazaret che manifesta al massimo la distanza dei parenti da Gesù, e più ampiamente dei membri di quella famiglia più vasta che sono i concittadini (Mc 6, 1-6). La ragione sta nella loro “incredulità” sull’origine e sulla natura di ciò che Gesù è e fa (i miracoli). Il tutto si aggrava in quel nominare piuttosto sprezzante i tanti parenti di Gesù, di dirlo saccentemente “figlio di Giuseppe”, per concludere che non vale più di loro. L’incredulità si fa scandalo, e dunque rottura insanabile.
“Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto” (Giov 1,11). Perché tutto ciò? È una reazione negativa contingente? O è in certo modo una costante che emerge là dove il mondo della sola natura, pur buona (e tale è la compagine familiare), non si apre al mondo della grazia?

Gesù considera i discepoli come sua vera famiglia
Nei Vangeli compare sovente la locuzione parentale “i suoi” relazionati a Gesù, come se egli determinasse con la sua presenza una sorta di parentado positivo rispetto ad uno negativo.
Senso negativo sta nel citato versetto di Giov 1,11 (“i suoi non l’hanno accolto”), ed è illustrato nei racconti precedenti; senso positivo invece appare laddove il criterio di parentela è Gesù stesso a fissarla. È emblematicamente detto nel discorso della Cena: “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Giov 13,1), e viene illuminato dal racconto di Mc 3, 31-35.
Singolare e conturbante inizio di tale racconto avviene ancora prima, quando – nota Marco – i “suoi” vennero per prenderlo, dicendo che è matto (Mc 3,21). Allora, “giunsero sua madre e i suoi fratelli e stando fuori lo mandarono a chiamare” (3,31). Lo dicono a Gesù: “Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano” (v. 32). Gesù reagisce: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?” (v. 33). E fa un gesto significativo: “Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno (v. 34a) (Mt: “stendendo la mano verso i suoi discepoli”: 12,49), pronuncia la parola: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre” (Mc 3,34-35; cf Lc 11,27-28). Si può pensare che qui Gesù si riferisca proprio ai Dodici poco prima chiamati (Mc 3, 13-19; v. pure Mt 28,10; Giov 20,17).
Con quello sguardo a 360 gradi Gesù simbolicamente supera la famiglia/steccato (a causa di razza, censo, cultura, religione, lo stesso sangue… in sé assolutizzati) e pone nell’accoglienza con amore della Parola di Dio (che è poi Gesù stesso) il fondamento verace di ogni legame naturale, aprendo anzi la via ad una straordinaria concezione di famiglia: famiglia vera è quella che si fa famiglia di Gesù, attorno a lui. Ciò vale per la famiglia carnale che trova così il suo senso profondo, ma vale per ogni uomo, anche senza famiglia (cf Mt 25,40) che in Gesù ne trova finalmente una formata da Lui e dagli altri discepoli. Vi è, in germe, la rappresentazione della Chiesa come la grande famiglia di Dio; vi è certamente il riconoscimento di Maria come “madre di Gesù”, dato che si è mostrata discepola fedele fin dal sì dell’annunciazione (Lc 1, 26-38).
In sintesi Gesù, dopo aver richiamato le radici divine della famiglia, contro ogni manipolazione di senso, ne spiega le conseguenze operative: non può essere fonte dei valori assoluti e dunque coercizione del destino individuale (da tale tipo Gesù ha voluto affermare fortemente, quasi bruscamente, la sua indipendenza); la famiglia agli occhi di Dio ha validità solo in quanto garante e promotore della missione del Regno; di qui il trasferimento del lessico ed esperienza familiare nei discepoli che lo accettano totalmente e radicalmente.

GLI INSEGNAMENTI DI GESÙ AI DISCEPOLI SULLA FAMIGLIA
È da prevedere che la concezione di famiglia di Gesù, che ci appare positiva, ma critica, tradizionale ed innovativa insieme, dopo essere stata testimoniata con atti tanto incisivi, sia stata insegnata e consegnata ai discepoli.
Dire insegnamento ai discepoli significa metter in rilievo un tratto del magistero di Cristo diverso da quello alla folla. È l’insegnamento in cui si congiungono parola e testimonianza del Maestro, con una cura pedagogica particolare, una sorta di iniziazione al Vangelo del Regno annunciato a tutti (cf Mc 4, 11.34). Il fatto allora che il magistero di Gesù sulla famiglia abbia – come vedremo – una singolare concentrazione nell’insegnamento ai discepoli, vuol dire che esso è di particolare valore, come se tra discepolato e legame familiare si desse una interiore dialettica, si richiamassero a vicenda. E cioè, il rapporto parentale ha un peso determinante, in bene e purtroppo anche negativamente, a riguardo della sequela di Gesù. Questo avvenne lui vivo e questo continuò nelle prime comunità di cristiani provenienti soprattutto dall’ebraismo. Si può supporre che è in tale contesto vitale di vocazione al discepolato che i detti “familiari” di Gesù furono mantenuti.
Tali detti puntualizzano tre aspetti nodali: fare il discepolo chiede di decidersi incondizionatamente per Cristo e subordinarvi ogni rapporto familiare anche più caro; anzi esige di sostenere una prevedibile, palese opposizione da parte dei propri cari; ma con Gesù la famiglia non si perde; si rifà “nuova”, per cui i legami non si spezzano, ma si ritrovano sull’ampiezza del Regno.

La necessità di una scelta
Lc 14,26 (Mt 10,37): “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”.
Vi sta l’ipotesi di un conflitto di doveri, non per sé un fatto inevitabile. Gesù stesso infatti riconosce che l’amore a Dio e al prossimo sono fatti per stare insieme (Mc 12, 28-31). Ma se il conflitto avviene, allora l’attaccamento requisito da Gesù ha lo stesso carattere assoluto di quello che è dovuto a Dio: “Non avrai altro Dio all’infuori di me” (Es 20,2). Nessun compromesso è ammesso.
La radicalità del principio, che per altro rivela il livello di autocoscienza divina di Gesù, ha modo di concretarsi con una serie di scenette biografiche (apoftegmi), che sono rimaste fortemente impresse nella memoria cristiana.
* Lc 9, 57-58; Mt 8,19-20: a chi intende seguirlo ovunque vada, Gesù risponde che “le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”: ossia la sua vita è precaria e dipende da chi gli dona accoglienza. Così sarà la vita del discepolo, senza più legami assicurati;
* Lc 9, 59-60; Mt 8, 21-22: ad uno che vuol seguirlo, ma prima chiede di andare a seppellire suo padre, Gesù risponde: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti”. È il tipico linguaggio paradossale semitico che serve a Gesù per bloccare ogni tentativo di differire la risposta al suo appello.
* Lc 9, 61-62: uno vuole seguire Gesù, ma chiede prima di congedarsi dai suoi (v. 1Re 19, 19-21). Gesù dice di no: “Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio”.
La nota è sempre eguale: da parte dei suoi discepoli Gesù non tollera mezze misure a proposito della loro famiglia.
“Il fatto di seguire Gesù spezza le abitudini che trattengono il discepolo, non gli permettono alcun altro impegno e gli chiedono un abbandono che lo leghi totalmente a Gesù: ecco ciò che è esposto in modo simbolico in questa scena concreta di vita” (R. Bultmann).

L’opposizione della famiglia
I vangeli propongono una serie di testi sulla divisione familiare che riecheggiano il carattere apocalittico della grande tribolazione che precede il giudizio escatologico del Messia. È proiezione nei tempi futuri di quanto aveva detto Michea: “Il figlio insulta suo padre, la figlia si rivolta contro la madre, la nuora contro la suocera, e i nemici dell’uomo sono quelli di casa sua” (7,6)
* “Non crediate che sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa” (Mt 10, 34-36; cf Lc 12, 51-53). Non sono chiaramente assiomi matematici, ma profezia sulla direzione di marcia della storia, quando alla novità del Vangelo si contrappongono opzioni alternative, per quanto intime, anzi proprio perché tali. Il criterio di lettura resta ancora l’esperienza di Gesù trasmessa ai credenti.
* “Il fratello consegnerà a morte il fratello, il padre il figlio e i figli insorgeranno contro i genitori e li metteranno a morte. Voi sarete odiati da tutti a causa del mio nome” (Mc 13, 12-13). Qui la situazione è ancora più drammatica. Non solo il rigetto, ma la denuncia e la condanna a morte, eco forse di quanto capitava nella prima comunità. Non si resta neutri davanti al vangelo, e quelli che lo rifiutano diventano persecutori per quanti l’accolgono. Di qui implicito l’invito ai credenti di mettere un legame ancora più forte in Gesù che nei familiari.

Una famiglia nuova per quanti credono
Anteporre il “nome” di Cristo ad ogni altro legame significa esporsi alla sorte drammatica di “perdere” anche la famiglia, e in ogni caso si richiede al discepolo una netta e vigile subordinazione del rapporto con essa alla sequela del Maestro. Ebbene, come è proprio della logica delle beatitudini, Cristo vi corrisponde con una promessa inaudita e sommamente incoraggiante: tutti i credenti formeranno fin da ora una “nuova famiglia” con Lui.
Il testo fondamentale è Mc 10, 29-30: “In verità vi dico che se qualcuno abbandona casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e del vangelo, riceverà già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna”.
A sette abbandoni (la totalità!) corrisponde la totalità delle promesse (che sono sei, ma vanno calcolate sette con la relazione al Padre, che non viene nominato perché egli è sempre presente ed operante nella scelta dei discepoli. Le promesse iniziano e finiscono con beni materiali, ma in mezzo sta il legame parentale. La ricompensa ha due tempi: ora e nell’eternità. Ora il centuplo: sono gli effetti della benedizione biblica che Dio non fa mancare ai suoi figli. Il cenno alle persecuzioni tiene aperta la tensione alla ricompensa celeste. In questo detto di Gesù si sente echeggiare l’esperienza della prima comunità cristiana, che pur esposta ai conflitti anche gravi dei compatrioti giudei (cf At 2, 13; 4,3; 27-29), vive una comunione reciproca come avviene al meglio nella famiglia tra fratelli, tra genitori e figli (At 2, 42-48).
Di fatto i primi cristiani avevano assunto il vocabolo di “fratelli” per nominarsi (cf At 2, 37: Fil 4,1; 1Giov 3, 14, ecc.); la comunità cristiana costituisce una fraternità: “Uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8). Il legame che rende tutti i credenti dipendenti da un solo Padre e dal loro solo Maestro Cristo ha per effetto di creare tra i discepoli rapporti che non possono essere che fraterni: vivendoli realizzano ciò che sono: membri di una sola famiglia, la famiglia di Dio e di Gesù Cristo.

Conclusioni
La lettura della famiglia secondo il Vangelo costituisce il “Vangelo della famiglia”. Non si può negare che per la cultura di oggi (ma anche di ieri) sia un vangelo sconcertante, che come primo effetto chiama ad una ponderata riflessione, rompendo stereotipi ed automatismi di idee e prassi e superando la paralisi della paura che emerge anche tra cristiani praticanti intorno a questo argomento, stimolando ad un cammino di conversione e di fede di cui enunciamo qui gli articoli principali.
* Cristo non dice di no alla famiglia: la vuole come la vuole Dio. Ne parla tanto e forte perché è veramente tanto grande quanto delicata ed esposta al negativo. La famiglia non si giustifica da sé, ma fa parte del progetto rivelato di Dio. E in tale quadro deve essere letta, cioè nell’ottica della fede. Allora la famiglia appare come un segno sacramentale che va oltre “la carne e il sangue” perché porta in sé la dignità del mistero trinitario.
* Gesù afferma la famiglia vivendola per tre quarti della sua vita, incontrandola nelle persone e facendo ad essa del bene e richiamandone il disegno originale contro ogni abuso ed arbitrio. Il linguaggio familiare (espresso e vissuto) gli permette di dire Dio compiutamente.
* È innegabile nelle parole di Gesù l’istanza critica. Trattandone entro il piano di Dio, contesta una comprensione idolatrica, che la famiglia cioè possa essere cellula isolata ed autosufficiente nella verità e nei valori. Quando questo avviene, si compie il conflitto e si impone la scelta alternativa. Di fatto nella vita di Gesù ciò accade a causa di un mondo parentale eccessivo nei suoi confronti. Ma questa è rottura storica, non metafisica. Maria, sua Madre, è sua vera familiare; e in famiglie cristiane attuali Gesù si troverebbe bene.
* La famiglia va assunta in corrispondenza al modo con cui Gesù l’ha assunta e vissuta. La simmetria è palmare. Gesù e il suo progetto (il Regno) chiedono di essere il determinante assoluto, dal quale la famiglia prende valore o controvalore. Senza tale ottica la famiglia è come un’aquila senz’ali, un potenziale bloccato. Gesù, che pur ha una valutazione positiva della famiglia come “creatura di Dio” (Mc 10, 6-8), non si chiude in essa, la vede toccata dal peccato. E da buon lettore della Bibbia aveva di ciò una testimonianza impressionante: da Adamo ad Eva fino alla famiglia degli Erodi, in una delle quali un giorno una madre e una figlia chiesero la testa di Giovanni Battista (cf Mc 6, 22-28).
* Ma anche per Gesù i rapporti con lui e con Dio assumono il profilo e l’intensità affettiva della famiglia, più grande e più piena. È una familiarità interiore, spirituale, ma non meno reale con Dio e tra i credenti. Se ne fa segno visibile, istituito e necessario la chiesa, che è chiamata la “casa, o famiglia, di Dio” (Ebr 3, 5-6; 1Tim 3, 14-15).Ma qui viene la domanda se la Chiesa sa essere veramente famiglia di Dio.
La promessa di Cristo si fa esigenza seria tanto più quanto egli nella nuova famiglia pone l’approdo necessario di un esproprio altrimenti disumano!
È paradossale, ma proprio l’aver la rivelazione scelto il legame familiare per sottolineare la grandezza del rapporto con Cristo, indica il valore non transeunte di quello.
E infatti Gesù non toglie la famiglia, vi chiede di potervi entrare, e la rende “nuova creatura” (2Cor 5,17).

Articolo tratto da: NOTE DI PASTORALE GIOVANILE. Proposte per la maturazione umana e cristiana dei ragazzi e dei giovani, a cura del Centro Salesiano Pastorale Giovanile – Roma.

[1] Cf Dupont J., Jésus et la famille dans les evangiles, in Communautés et liturgie 62 (1980) 477-481.

Publié dans:BIBBIA, Bibbia - Nuovo Testamento, famiglia |on 18 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

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