Archive pour le 5 décembre, 2014

Giovanni De Campo, Il profeta Isaia

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UN PROFETA CHE CONSOLA (ISAIA 40-55)

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UN PROFETA CHE CONSOLA (ISAIA 40-55)

Come descrivere un uomo che è rimasto completamente anonimo? I capitoli da 40 a 55 del libro d’Isaia costituiscono una piccola raccolta di testi profetici che formano una netta unità letteraria, ma il cui autore si è cancellato dietro il suo messaggio. Non si sa né il suo nome né il posto da dove parla. Si sa solamente che il suo messaggio si situa attorno al 538 prima di Cristo, l’anno in cui Ciro, re dei Persiani, ha permesso agli Ebrei esiliati a Babilonia di ritornare al loro paese. Il nome di «Secondo Isaia» gli è stato dato perché il suo pensiero s’ispira a una tradizione che risale al grande profeta Isaia (VIII secolo).
Questo Secondo Isaia doveva annunciare un avvenimento assolutamente inconcepibile: un piccolissimo popolo, un «resto» che non contava forse più di 15.000 persone, avrebbe attraversato il deserto, avrebbe vissuto un nuovo Esodo (43,16-21) per giungere a Gerusalemme. Non stupisce il fatto che gli ascoltatori siano rimasti increduli. Un popolo deportato era spesso condannato a scomparire, e i settant’anni d’esilio hanno dovuto creare un profondo scoraggiamento: si supponeva che l’alleanza che Dio aveva voluta con in suoi fosse stata annullata e che Dio ne aveva abbastanza di loro.
Con quali argomenti vincere questo scoraggiamento? Se Dio è eterno, la sua sapienza deve anch’essa avere delle risorse di cui abbiamo nessuna idea, e la sua forza deve essere propriamente inesauribile (40,27-31). E il profeta è ricorso a delle immagini ancora più forti: una madre può dimenticare suo figlio (49,14-15), un uomo può respingere la donna che è stato il grande amore della sua giovinezza (54,6-7)?
Le prime parole di questa piccola raccolta sono ripetute con insistenza: «Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio» (40,1). Dopo il tempo di una estrema desolazione, il popolo deve essere «consolato», cioè sarà messo nella condizione di cessare le sue lamentazioni, di rimettersi in piedi e ritrovare coraggio. Questo popolo ha un bel credersi alla fine, la consolazione deve mostrare che dal cuore di Dio scorre un avvenire.
L’immagine che i credenti si erano fatta di Dio si è purificata attraverso l’estrema prova dell’esilio, come ci si può rendere conto anche leggendo il libro di Giobbe. Quando il Secondo Isaia parla di Dio, non vi si trovano più gli accenti d’ira, né minacce, né affermazioni autoritarie. Dio ama, e ama senz’altra ragione che il suo amore (43,4; 43,25). Si direbbe che ormai non può che amare (54,7-10). Se ristabilisce il suo popolo sulla sua terra e nella sua città, questo ristabilimento avrà un’eco in tutte le nazioni (45,22; 52,10), poiché è il Dio universale (51,4). Nella scelta completamente gratuita di un popolo unico, nel perdono quasi ancora più gratuito del ritorno dall’esilio, la sua alleanza con questo popolo è stata come trascesa. Il re dei Persiani può allora ricevere il titolo di «Unto», messia (45,1), e il vero ministero di mediazione tra Dio e gli esseri umani sarà affidato ad un umile Servo.
Questo Servo rifletterà i tratti del suo Dio. Non solo non s’imporrà (42,1-5), ma sarà personalmente vulnerabile allo scoraggiamento dei suoi (49,4-6). A coloro che ridono di lui risponderà con nessuna parola dura (50,5-6). Egli stesso, restando all’ascolto di Dio come il più umile dei credenti (50,4), arriverà a prendere su di sé tutta l’incredulità che lo circonda (53,12), sull’esempio di quel Dio che ha «portato» il popolo attraverso tutta la storia (46,3-4).

07 DICEMBRE 2014 | 2A DOMENICA DI AVVENTO B – « NEL DESERTO PREPARATE LA SIA AL SIGNORE »

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/02-annoB/14-15/Omelie/2-Avvento-B/04-2a-Domenica-Avvento-B-2014-GM.htm

07 DICEMBRE 2014 | 2A DOMENICA DI AVVENTO – ANNO B | OMELIA

2a DOMENICA DI AVVENTO – ANNO B / 07 DICEMBRE 2014

« NEL DESERTO PREPARATE LA SIA AL SIGNORE »

1. L’uomo ribelle e schiavo

Mentre rifletto sulla Parola di Dio che la liturgia propone per questa seconda domenica di Avvento non posso nascondere un senso di amarezza e di sconforto dopo aver appreso dai mezzi di comunicazione sociale dell’oscura ed atroce morte del piccolo Loris di 8 anni a Santa Croce Camerina, in Sicilia, vicino a Ragusa. Chi aveva scritto con convinzione prima della seconda guerra mondiale che l’uomo finalmente era diventato adulto, oggi nuovamente dovrebbe amaramente scrivere di essersi sbagliato.
L’assurda morte di un piccolo innocente si inserisce in quel filone umano fatto di peccato, di deviazione, di ribellione, di pretesa di autosufficienza. A volte noi tendiamo a dimenticarlo, avvolgendoci in un piccolo orizzonte, sconsideratamente preoccupati di disegnare un futuro che sia nostro, che ci soddisfi, che ci appaghi. E puntualmente siamo contraddetti nella nostra esperienza ed in quella altrui.
La Parola di Dio vuole penetrare in questa ristrettezza di visuale esistenziale per farci respirare, per aprirci, per schiuderci ad una realtà che superi le banalità, i luoghi comuni, l’appiattimento che comunque non ci soddisfa e ci rende inquieti.

2. E’ necessario preparare un nuovo esodo: dalla schiavitù alla libertà

Il secondo autore del libro di Isaia fotografa una situazione similare, quella cioè di un popolo pretenzioso, recalcitrante, borioso che ha perso tutto. L’esperienza della schiavitù babilonese li ha svuotati, soprattutto ha scavato negli animi, ricostruendo il bisogno di dignità, di appartenenza, di pace nella riconciliazione. La fede in Dio, piuttosto che l’orgoglio fatuo, è emersa come bisogno profondo, come riconoscimento di una presenza di liberazione e di salvezza.
Il profeta incalza richiamando il castigo già subito, ma soprattutto incitando a prepararsi: ci si deve nuovamente mettere in cammino per porre fine alla condizione di schiavitù, per riconquistare la propria terra e la propria libertà. Si percepisce che il percorso sarà faticoso, duro, esigente, estenuante, ma il clima è di gioia soffusa, di una notizia bella, lieta che alimenta la speranza. Dio si fa vicino, si pone alla testa di un popolo più consapevole che solca ancora una volta il deserto verso una terra che viene nuovamente promessa.
Si tratta davvero dell’esperienza di una nuova uscita, di un nuovo esodo, dopo una reiterata schiavitù, più breve nella sua durata, ma ancora più devastante nei suoi effetti sulla popolazione, sulle famiglie, sulle singole persone. Possiamo leggerlo come un richiamo a renderci conto di quali siano le nostre attuali, pervicaci schiavitù, le zavorre che ci tengono incatenati, i pesi che gravano sul nostro cuore. C’è una nostalgia in noi, un anelito a sollevarci, a riprendere fiato, ad incamminarci verso una terra che ci appartiene, a ritrovare noi stessi, gli affetti veri, le cose semplici, la gioia trasparente. Talvolta ci mancano il coraggio, la determinazione, la forza d’animo, la caparbietà di lottare e, quando necessario, di andare contro corrente. Abbiamo talvolta l’impressione di essere travolti dalle abitudini, dai luoghi comuni, dal perbenismo accomodante e fatuo e sentiamo l’amaro in bocca, l’insoddisfazione, eppure continuiamo ad essere esuli, a non abitare una terra che ci appartiene, ad essere stranieri anche a noi stessi.

3. Un testimone che predica la conversione

Ci stimola e conforta la Parola che ci viene rivolta sia da Pietro nella sua seconda lettera che dal Battista, scarnamente presentato dal brano del Vangelo di Marco. Scrive Pietro: « Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi » a cui fanno eco le parole di Marco: « Vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati ».
E’ una parola che ci mette a nudo, che ci scuote, che, diremmo oggi, ci vuole « rivoltare ». Dio non vuole che ci perdiamo, vuole invece che ci ritroviamo e, come talvolta è necessario, che riprendiamo la direzione giusta dopo innumerevoli deviazioni e smarrimenti. Il percorso del pentimento richiede il coraggio di saper individuare la condizione in cui stiamo vivendo, la nostra fragilità, le nostre falsità, i nostri accomodamenti, il nostro peccato sia personale che sociale. Invece di blandire le nostre schiavitù, la Parola ci incalza a fare una inversione ad u, ad intraprendere un cammino nuovo, a colmare i nostri vuoti, a smantellare il nostro orgoglio autosufficiente, a solcare umilmente le sabbie del deserto che portano ad una dimora che ci appartiene, ad una casa che è pienamente la nostra casa.
Quasi paradossalmente si staglia di fronte a noi la figura austera, essenziale, forse anche un po’ scostante di un giovane che ha fatto del deserto la sua dimora, che con il suo stile di vita e con la sua parola scuote le coscienze: Giovanni il Battezzatore. La gente, anche se intimorita, accorre, scende incurante nel Giordano, accetta la provocazione di un profeta scomodo, ma credibile, accetta di essere immersa nell’acqua, convinta di poter incontrare Dio che libera dal male e salva. Giovanni battezza con foga, incita la sua gente a cambiare vita,ma, di fronte alle aspettative forse esagerate nei suoi confronti, annuncia l’arrivo di uno più forte di lui.
Torniamo alle nostre case custodendo nel cuore il fascino di un uomo giovane senza compromessi, dedito ad una missione difficile, impopolare ed umile, consapevole di essere solo un tramite, una anticipazione. Abbiamo forse individuato le nostre personali e collettive schiavitù. La Parola e la grazia di Dio ci sostengono nel cammino verso la nostra patria, la terra della libertà e della gioia. Il Natale, a cui ci stiamo preparando, ci assicura che questo è possibile.
« Certo il Signore donerà il suo bene ».

D. Gianni Mazzali SDB

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