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San Giovanni Damasceno

San Giovanni Damasceno dans immagini sacre john1

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Publié dans:immagini sacre |on 4 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI: GIOVANNI DAMASCENO – 4 DICEMBRE

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2009/documents/hf_ben-xvi_aud_20090506_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 6 maggio 2009

GIOVANNI DAMASCENO – 4 DICEMBRE

Cari fratelli e sorelle,

vorrei parlare oggi di Giovanni Damasceno, un personaggio di prima grandezza nella storia della teologia bizantina, un grande dottore nella storia della Chiesa universale. Egli è soprattutto un testimone oculare del trapasso dalla cultura cristiana greca e siriaca, condivisa dalla parte orientale dell’Impero bizantino, alla cultura dell’Islàm, che si fa spazio con le sue conquiste militari nel territorio riconosciuto abitualmente come Medio o Vicino Oriente. Giovanni, nato in una ricca famiglia cristiana, giovane ancora assunse la carica – rivestita forse già dal padre – di responsabile economico del califfato. Ben presto, però, insoddisfatto della vita di corte, maturò la scelta monastica, entrando nel monastero di san Saba, vicino a Gerusalemme. Si era intorno all’anno 700. Non allontanandosi mai dal monastero, si dedicò con tutte le sue forze all’ascesi e all’attività letteraria, non disdegnando una certa attività pastorale, di cui danno testimonianza soprattutto le sue numerose Omelie. La sua memoria liturgica è celebrata il 4 Dicembre. Papa Leone XIII lo proclamò Dottore della Chiesa universale nel 1890.
Di lui si ricordano in Oriente soprattutto i tre Discorsi contro coloro che calunniano le sante immagini, che furono condannati, dopo la sua morte, dal Concilio iconoclasta di Hieria (754). Questi discorsi, però, furono anche il motivo fondamentale della sua riabilitazione e canonizzazione da parte dei Padri ortodossi convocati nel II Concilio di Nicea (787), settimo ecumenico. In questi testi è possibile rintracciare i primi importanti tentativi teologici di legittimazione della venerazione delle immagini sacre, collegando queste al mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio nel seno della Vergine Maria.
Giovanni Damasceno fu inoltre tra i primi a distinguere, nel culto pubblico e privato dei cristiani, fra adorazione (latreia) e venerazione (proskynesis): la prima si può rivolgere soltanto a Dio, sommamente spirituale, la seconda invece può utilizzare un’immagine per rivolgersi a colui che viene rappresentato nell’immagine stessa. Ovviamente, il Santo non può in nessun caso essere identificato con la materia di cui l’icona è composta. Questa distinzione si rivelò subito molto importante per rispondere in modo cristiano a coloro che pretendevano come universale e perenne l’osservanza del divieto severo dell’Antico Testamento sull’utilizzazione cultuale delle immagini. Questa era la grande discussione anche nel mondo islamico, che accetta questa tradizione ebraica della esclusione totale di immagini nel culto. Invece i cristiani, in questo contesto, hanno discusso del problema e trovato la giustificazione per la venerazione delle immagini. Scrive il Damasceno: “In altri tempi Dio non era mai stato rappresentato in immagine, essendo incorporeo e senza volto. Ma poiché ora Dio è stato visto nella carne ed è vissuto tra gli uomini, io rappresento ciò che è visibile in Dio. Io non venero la materia, ma il creatore della materia, che si è fatto materia per me e si è degnato abitare nella materia e operare la mia salvezza attraverso la materia. Io non cesserò perciò di venerare la materia attraverso la quale mi è giunta la salvezza. Ma non la venero assolutamente come Dio! Come potrebbe essere Dio ciò che ha ricevuto l’esistenza a partire dal non essere?…Ma io venero e rispetto anche tutto il resto della materia che mi ha procurato la salvezza, in quanto piena di energie e di grazie sante. Non è forse materia il legno della croce tre volte beata?… E l’inchiostro e il libro santissimo dei Vangeli non sono materia? L’altare salvifico che ci dispensa il pane di vita non è materia?… E, prima di ogni altra cosa, non sono materia la carne e il sangue del mio Signore? O devi sopprimere il carattere sacro di tutto questo, o devi concedere alla tradizione della Chiesa la venerazione delle immagini di Dio e quella degli amici di Dio che sono santificati dal nome che portano, e che per questa ragione sono abitati dalla grazia dello Spirito Santo. Non offendere dunque la materia: essa non è spregevole, perché niente di ciò che Dio ha fatto è spregevole” (Contra imaginum calumniatores, I, 16, ed. Kotter, pp. 89-90). Vediamo che, a causa dell’incarnazione, la materia appare come divinizzata, è vista come abitazione di Dio. Si tratta di una nuova visione del mondo e delle realtà materiali. Dio si è fatto carne e la carne è diventata realmente abitazione di Dio, la cui gloria rifulge nel volto umano di Cristo. Pertanto, le sollecitazioni del Dottore orientale sono ancora oggi di estrema attualità, considerata la grandissima dignità che la materia ha ricevuto nell’Incarnazione, potendo divenire, nella fede, segno e sacramento efficace dell’incontro dell’uomo con Dio. Giovanni Damasceno resta, quindi, un testimone privilegiato del culto delle icone, che giungerà ad essere uno degli aspetti più distintivi della teologia e della spiritualità orientale fino ad oggi. E’ tuttavia una forma di culto che appartiene semplicemente alla fede cristiana, alla fede in quel Dio che si è fatto carne e si è reso visibile. L’insegnamento di san Giovanni Damasceno si inserisce così nella tradizione della Chiesa universale, la cui dottrina sacramentale prevede che elementi materiali presi dalla natura possano diventare tramite di grazia in virtù dell’invocazione (epiclesis) dello Spirito Santo, accompagnata dalla confessione della vera fede.
In collegamento con queste idee di fondo Giovanni Damasceno pone anche la venerazione delle reliquie dei santi, sulla base della convinzione che i santi cristiani, essendo stati resi partecipi della resurrezione di Cristo, non possono essere considerati semplicemente dei ‘morti’. Enumerando, per esempio, coloro le cui reliquie o immagini sono degne di venerazione, Giovanni precisa nel suo terzo discorso in difesa delle immagini: “Anzitutto (veneriamo) coloro fra i quali Dio si è riposato, egli solo santo che si riposa fra i santi (cfr Is 57,15), come la santa Madre di Dio e tutti i santi. Questi sono coloro che, per quanto è possibile, si sono resi simili a Dio con la loro volontà e per l’inabitazione e l’aiuto di Dio, sono detti realmente dèi (cfr Sal 82,6), non per natura, ma per contingenza, così come il ferro arroventato è detto fuoco, non per natura ma per contingenza e per partecipazione del fuoco. Dice infatti: Sarete santi, perché io sono santo (Lv 19,2)” (III, 33, col. 1352 A). Dopo una serie di riferimenti di questo tipo, il Damasceno poteva perciò serenamente dedurre: “Dio, che è buono e superiore ad ogni bontà, non si accontentò della contemplazione di se stesso, ma volle che vi fossero esseri da lui beneficati che potessero divenire partecipi della sua bontà: perciò creò dal nulla tutte le cose, visibili e invisibili, compreso l’uomo, realtà visibile e invisibile. E lo creò pensando e realizzandolo come un essere capace di pensiero (ennoema ergon) arricchito dalla parola (logo[i] sympleroumenon) e orientato verso lo spirito (pneumati teleioumenon)” (II, 2, PG 94, col. 865A). E per chiarire ulteriormente il pensiero, aggiunge: “Bisogna lasciarsi riempire di stupore (thaumazein) da tutte le opere della provvidenza (tes pronoias erga), tutte lodarle e tutte accettarle, superando la tentazione di individuare in esse aspetti che a molti sembrano ingiusti o iniqui (adika), e ammettendo invece che il progetto di Dio (pronoia) va al di là della capacità conoscitiva e comprensiva (agnoston kai akatalepton) dell’uomo, mentre al contrario soltanto Lui conosce i nostri pensieri, le nostre azioni, e perfino il nostro futuro” (II, 29, PG 94, col. 964C). Già Platone, del resto, diceva che tutta la filosofia comincia con lo stupore: anche la nostra fede comincia con lo stupore della creazione, della bellezza di Dio che si fa visibile.
L’ottimismo della contemplazione naturale (physikè theoria), di questo vedere nella creazione visibile il buono, il bello, il vero, questo ottimismo cristiano non è un ottimismo ingenuo: tiene conto della ferita inferta alla natura umana da una libertà di scelta voluta da Dio e utilizzata impropriamente dall’uomo, con tutte le conseguenze di disarmonia diffusa che ne sono derivate. Da qui l’esigenza, percepita chiaramente dal teologo di Damasco, che la natura nella quale si riflette la bontà e la bellezza di Dio, ferite dalla nostra colpa, “fosse rinforzata e rinnovata” dalla discesa del Figlio di Dio nella carne, dopo che in molti modi e in diverse occasioni Dio stesso aveva cercato di dimostrare che aveva creato l’uomo perché fosse non solo nell’“essere”, ma nel “bene-essere” (cfr La fede ortodossa, II, 1, PG 94, col. 981°). Con trasporto appassionato Giovanni spiega: “Era necessario che la natura fosse rinforzata e rinnovata e, fosse indicata e insegnata concretamente la strada della virtù (didachthenai aretes hodòn), che allontana dalla corruzione e conduce alla vita eterna… Apparve così all’orizzonte della storia il grande mare dell’amore di Dio per l’uomo (philanthropias pelagos)…” E’ una bella espressione. Vediamo, da una parte, la bellezza della creazione e, dall’altra, la distruzione fatta dalla colpa umana. Ma vediamo nel Figlio di Dio, che discende per rinnovare la natura, il mare dell’amore di Dio per l’uomo. Continua Giovanni Damasceno: “Egli stesso, il Creatore e il Signore, lottò per la sua creatura trasmettendole con l’esempio il suo insegnamento… E così il Figlio di Dio, pur sussistendo nella forma di Dio, abbassò i cieli e discese… presso i suoi servi… compiendo la cosa più nuova di tutte, l’unica cosa davvero nuova sotto il sole, attraverso cui si manifestò di fatto l’infinita potenza di Dio” (III, 1. PG 94, coll. 981C-984B).
Possiamo immaginare il conforto e la gioia che diffondevano nel cuore dei fedeli queste parole ricche di immagini tanto affascinanti. Le ascoltiamo anche noi, oggi, condividendo gli stessi sentimenti dei cristiani di allora: Dio vuole riposare in noi, vuole rinnovare la natura anche tramite la nostra conversione, vuol farci partecipi della sua divinità. Che il Signore ci aiuti a fare di queste parole sostanza della nostra vita. 

IL LAVORO : PERCORSO BIBLICO

http://it.mariedenazareth.com/12845.0.html?L=4

IL LAVORO : PERCORSO BIBLICO

Brevemente:

- Il lavoro fa parte dell’esistenza autenticamente umana, è dato al momento della Creazione, prima del peccato (libro della Genesi).
- Il lavoro non è un idolo, è orientato verso il riposo sabbatico (libro dell’Esodo).
– Gesù ha lavorato :
Ha lavorato a Nazaret come falegname.
La sua vita pubblica è anche un lavoro: insegna, guarisce i malati, trasforma gli uomini, compie l’opera di Redenzione fino alla croce dove trasforma tutto nell’amore.
– Gesù onora il nostro lavoro e ci insegna a viverlo senza angoscia.
Ciascuno, deve « lavorare », in un modo o nell’altro.
a) Il dovere di coltivare e di conservare la terra
L’Antico Testamento presenta Dio come il Creatore Onnipotente, (cfr. Gn 2, 2; Gb 38, 41; Sal 104; Sal 147) che plasma l’uomo a Sua immagine, invitandolo a lavorare la terra, (cfr. Gn 2, 5 -6), e a custodire il giardino dell’Eden dove Egli l’ha posto (cfr. Gn 2,15).
Alla prima coppia umana, Dio affida il compito di sottomettere la terra e di dominare su ogni essere vivente, (cfr. Gn 1, 28). Il dominio dell’uomo sugli altri esseri viventi non deve essere tuttavia dispotico e senza senso; al contrario, egli deve « coltivare e custodire » i beni creati da Dio (cfr. Gn 2,15): beni che l’uomo non ha creato, ma ha ricevuto come un dono prezioso posto dal Creatore sotto la sua responsabilità. Coltivare la terra non significa abbandonarla a sé stessa; esercitare un dominio su di lei vuol dire prenderne cura, come un re saggio prende cura del suo popolo ed un pastore del suo gregge.
Nel disegno del Creatore, le realtà create, buone in sé stesse, esistono in funzione dell’uomo. Lo stupore di fronte al mistero della grandezza dell’uomo, fa esclamare il salmista:

« Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi,
il figlio dell’uomo, perché te ne curi?
Davvero l’hai fatto poco meno di un dio,
di gloria e di onore l’hai coronato.
Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,
tutto hai posto suoi piedi. » (Sal 8,5-7).

Il lavoro appartiene alla condizione originale dell’uomo e precede la sua caduta; non è dunque né una punizione né una maledizione.
Diventa fatica e pena a causa del peccato di Adamo ed Eva, che rompono il loro rapporto di fiducia e d’armonia con Dio (cfr. Gn 3,6-8).
Il divieto di mangiare « dell’albero della conoscenza del bene e del male » (Gn 2,17) ricorda all’uomo che egli ha ricevuto ogni cosa in dono e che egli continua ad essere una creatura e non il Creatore.
Il peccato d’Adamo ed Eva fu precisamente provocato da questa tentazione: « Sarete come dèi » (Gn 3,5). Essi vollero la sovranità assoluta su tutte le cose, senza sottoporsi alla volontà del Creatore. Da allora, il suolo è diventato avaro, ingrato, subdolamente ostile (cfr. Gn 4,12); solo con il sudore della sua fronte sarà possibile trarne il cibo (cfr. Gn 3,17.19). Tuttavia, nonostante il peccato dei progenitori, rimangono invariati l’intenzione del creatore e il senso delle sue creature, fra le quali dell’uomo che è destinato a coltivare e custodire la creazione.
Il lavoro deve essere onorato poiché è fonte di ricchezza o, almeno, di condizioni degne di vita e, in generale, è uno strumento efficace contro la povertà (Cfr Pr 10,4), ma non bisogna cedere alla tentazione di idolatrarlo, poiché non si può trovare in esso il senso ultimo e definitivo della vita. Il lavoro è essenziale, ma è Dio, e non il lavoro, la fonte della vita e il fine dell’uomo. Il principio fondamentale della Sapienza è infatti il timore del Signore; l’ esigenza della giustizia, da cui deriva, precede l’esigenza del guadagno:
« È meglio avere poco con il timore del Signore che un tesoro ricco con la preoccupazione » (Pr 15,16)
« È meglio avere poco con la giustizia che redditi abbondanti senza il buono diritto » (Pr 16,8)
Il vertice dell’insegnamento biblico sul lavoro è il comando del riposo sabbatico. Il riposo apre all’uomo, legato alla necessità del lavoro, la prospettiva di una libertà più piena, quella del Sabato eterno (Cfr. Eb 4,9-10). Il riposo permette agli uomini di ricordare e di rivivere le opere di Dio, dalla Creazione alla Redenzione, di riconoscersi come la sua opera (cfr. Ef 2,10) e rendere grazie per la loro vita e la loro esistenza, a lui che ne è l’Autore.
La memoria e l’ esperienza del sabato costituiscono un rifugio contro l’asservimento al lavoro, volontario o imposto, e contro qualsiasi forma di sfruttamento, larvato o palese. Infatti il riposo sabatico è stato istituito non soltanto per permettere la partecipazione al culto divino ma anche difendere il povero; ha anche una funzione liberatrice delle degenerazioni anti-sociali del lavoro umano.
Questo riposo, che può anche durare un anno, comporta infatti un’espropriazione dei frutti della terra a favore dei poveri e, per i proprietari della terra, la sospensione dei diritti di proprietà:
« Per sei anni seminerai la terra e ne ammasserai il prodotto. Ma il settimo anno, la lascerai arata e ne abbandonerai il prodotto; i poveri del vostro popolo ne mangeranno e gli animali dei campi mangeranno quello che avranno lasciato. Farete la stessa cosa con la vostra vigna e per il vostro uliveto » (Es 23,10-11).
Quest’abitudine risponde ad un’intuizione profonda: l’accumulo dei beni da parte di alcuni può condurre ad una sottrazione dei beni ad altri.
Consiglio Pontificio Giustizia e Pace,
Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 2 aprile 2004, § 255-258
b) Gesù, uomo del lavoro.
Nella sua predicazione, Gesù insegna ad apprezzare il lavoro.
Egli stesso « diventato in tutto simile a noi, ha dedicato la maggior parte della sua vita sulla terra al lavoro manuale, al suo banco di falegname, nel laboratorio di Giuseppe (Cfr Mt 13,55; Mc 6,3), al quale era sottoposto (cfr. Lc 2,51).
Gesù condanna il comportamento del servo pigro, che nasconde sotto terra il talento (Cfr Mt 25,14-30) e loda il servo fedele e prudente che il padrone trova ad eseguire i compiti che gli ha affidato (Cfr Mt 24,46).
Il Cristo descrive la sua missione come un’opera: « Mio padre è all’opera fino ad ora ed opero anche io „ (Gv 5,17) ed i suoi discepoli lavorano come operai nella raccolta della messe del Signore, che rappresenta l’umanità da evangelizzare (Cfr Mt 9,37-38). Per questi operai vale il principio generale secondo il quale « l’operaio merita il suo salario„ (Lc 10,7); essi sono autorizzati a rimanere nelle case in cui sono accolti, a mangiare e bere ciò che è offerto loro (Cfr Ibid.).
Nella sua predicazione, Gesù insegna agli uomini a non lasciarsi asservire dal lavoro.
Essi devono preoccuparsi innanzitutto della loro anima; guadagnare il mondo intero non è lo scopo della loro vita (Cfr Mc 8,36). Infatti, i tesori della terra si consumano, mentre i tesori del cielo sono imperituri: è a questi che occorre legare il proprio cuore (Cf Mt 6,19-21). Il lavoro non deve essere motivo di angoscia (Cfr Mt 6,25.31.34): preoccupato ed agitato da molte cose, l’uomo rischia di trascurare il Regno di Dio e la sua giustizia (Cfr Mt 6,33), di cui ha veramente bisogno; tutto il resto, compreso il lavoro, trova il suo posto, il suo senso ed il suo valore soltanto se è orientato verso l’unica cosa necessaria, che non sarà mai tolta (Cfr. Lc 10,40-42).
Durante il suo ministero terreno, Gesù lavora instancabilmente, compiendo opere potenti per liberare l’ uomo dalla malattia, dalla sofferenza e dalla morte.
Il sabato, che il Vecchio Testamento aveva proposto come giorno di liberazione e che, osservato unicamente nella forma, era svuotato del suo significato autentico, è ribadito da Gesù nel suo valore originale: « Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!„ (Mc 2,27). Con le guarigioni compiute proprio in questo giorno di riposo (Cfr Mt 12,9-14; Mc 3,1-6; Lc 6,6-11; 13,10-17; 14,1-6), Egli vuole dimostrare che il sabato appartiene a lui, poiché egli è realmente il Figlio di Dio, e che il sabato è il giorno in cui ci si deve dedicare a Dio e agli altri.
Liberare dal male, praticare la fratellanza e la condivisione, vuol dire conferire al lavoro il suo significato più nobile, quello che permette all’umanità di incamminarsi verso il Sabato eterno, nel quale il riposo diventa la festa alla quale l’uomo aspira interiormente. E’ proprio nella misura in cui il lavoro orienta l’umanità a fare l’esperienza del sabato di Dio e della sua vita conviviale, esso diventa la festa alla quale l’uomo aspira interiormente, il lavoro inaugura sulla terra la nuova creazione.
Il lavoro inaugura sulla terra la nuova creazione.
L’attività umana di arricchimento e di trasformazione dell’universo può e deve fare apparire le perfezioni che in esso sono nascoste e che, nel Verbo increato, trovano il loro principio ed il loro modello.
Infatti, gli scritti di Paolo e di Giovanni mettono in luce la dimensione trinitaria della creazione e, in particolare, il legame che esiste tra il Figlio-Verbo, il « Logos„, e la creazione (Cfr Gv1,3; 1 Co 8,6; Col 1,15-17).
Creato in lui e da lui, riacquistato da lui, l’universo non è un ammasso casuale, ma un « cosmos„, di cui l’ uomo deve scoprire l’ordine, custodirlo e portarlo al suo completamento. In Gesù, il mondo visibile, creato da Dio per l’uomo ma sottoposto alla caducità quando il peccato è entrato in esso (Rm 8,20; Cfr. ibid., 8,19-22), trova nuovamente il suo legame originario con la fonte divina della Sapienza e dell’Amore. In tal modo, cioè mettendo in luce, in una progressione crescente, « le ricchezze insondabili del Cristo » (Ef 3,8), nella creazione, il lavoro umano si trasforma in un servizio reso alla grandezza di Dio.
Il lavoro rappresenta una dimensione fondamentale dell’esistenza umana come partecipazione all’opera non soltanto della creazione, ma anche della redenzione.
L’uomo che sopporta la stanchezza e la pena del lavoro in unione con Gesù, coopera in un certo senso con il Figlio di Dio alla sua opera redentrice e testimonia che è discepolo del Cristo portando la croce ogni giorno, nell’attività che è chiamato a compiere. In questa prospettiva, il lavoro può essere considerato come un mezzo di santificazione ed un’animazione delle realtà terrene nello Spirito del Cristo.
Così concepito, il lavoro è un’espressione dell’umanità piena dell’uomo, nella sua condizione storica e nel suo orientamento escatologico: la sua azione libera e responsabile ne rivela la relazione intima con il Creatore ed il potenziale creativo, mentre ogni giorno combatte contro la deformazione del peccato, in particolare guadagnando il suo pane con il sudore della fronte.
Consiglio Pontificio Giustizia e Pace,
Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 2 aprile 2004, § 259-263.
c) Il dovere di lavorare
La coscienza del carattere transitorio « della scena di questo mondo„ (Cfr 1 Co 7,31) non dispensa da nessun impegno storico, ed ancor meno dal lavoro (Cfr 2 Tes 3,7-15), il quale fa parte integrante della condizione umana, pur non essendo l’unica ragione di vivere.
Nessun cristiano, per il fatto che appartiene ad una Comunità solidale e fraterna, deve sentirsi in diritto di non lavorare e vivere a spese degli altri (Cfr 2 Tes 3,6-12); tutti sono invece esortati dall’Apostolo Paolo a farsi « un punto d’onore„ nel lavorare con le loro mani per « non dipendere da nessuno » (1 Tes 4,11-12) ed a praticare una solidarietà, anche sul piano materiale, dividendo i frutti del lavoro con « i bisognosi » (Ef 4,28).
San Giacomo difende i diritti violati dei lavoratori: « Ecco: il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto i vostri campi, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore degli eserciti » (Gc 5,4).
I credenti devono vivere il lavoro secondo lo stile del Cristo e farne un’occasione di testimonianza cristiana « nei confronti degli estranei » (1 Tes 4,12).
Consiglio Pontificio Giustizia e Pace,
Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 2 aprile 2004, § 264

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