Carlo Saraceni, S. Carlo Borromeo comunica un appestato

http://www.santiebeati.it/dettaglio/24950
SAN CARLO BORROMEO VESCOVO
4 NOVEMBRE
Arona, Novara, 1538 – Milano, 3 novembre 1584
Nato nel 1538 nella Rocca dei Borromeo, sul Lago Maggiore, era il secondo figlio del Conte Giberto e quindi, secondo l’uso delle famiglie nobiliari, fu tonsurato a 12 anni. Studente brillante a Pavia, venne poi chiamato a Roma, dove venne creato cardinale a 22 anni. Fondò a Roma un’Accademia secondo l’uso del tempo, detta delle «Notti Vaticane». Inviato al Concilio di Trento, nel 1563 fu consacrato vescovo e inviato sulla Cattedra di sant’Ambrogio di Milano, una diocesi vastissima che si estendeva su terre lombarde, venete, genovesi e svizzere. Un territorio che il giovane vescovo visitò in ogni angolo, preoccupato della formazione del clero e delle condizioni dei fedeli. Fondò seminari, edificò ospedali e ospizi. Utilizzò le ricchezze di famiglia in favore dei poveri. Impose ordine all’interno delle strutture ecclesiastiche, difendendole dalle ingerenze dei potenti locali. Un’opera per la quale fu obiettivo di un fallito attentanto. Durante la peste del 1576 assistette personalmente i malati. Appoggiò la nascita di istituti e fondazioni e si dedicò con tutte le forze al ministero episcopale guidato dal suo motto: «Humilitas». Morì a 46 anni, consumato dalla malattia il 3 novembre 1584. (Avvenire)
Patronato: Catechisti, Vescovi
Etimologia: Carlo = forte, virile, oppure uomo libero, dal tedesco arcaico
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Memoria di san Carlo Borromeo, vescovo, che, fatto cardinale da suo zio il papa Pio IV ed eletto vescovo di Milano, fu in questa sede vero pastore attento alle necessità della Chiesa del suo tempo: indisse sinodi e istituì seminari per provvedere alla formazione del clero, visitò più volte tutto il suo gregge per incoraggiare la crescita della vita cristiana ed emanò molti decreti in ordine alla salvezza delle anime. Passò alla patria celeste il giorno precedente a questo.
(3 novembre: A Milano, anniversario della morte di san Carlo Borromeo, vescovo, la cui memoria si celebra domani).
Nella storia civile e anche in quella della Chiesa troviamo vari personaggi cui i posteri hanno decretato il titolo di Magno. Non li enumero qui perché sono facili da ricordare e poi non sono moltissimi. Al santo che vi presento, San Carlo Borromeo, non è stato dato il titolo di Grande, ma secondo me lo meriterebbe, almeno nell’ambito della storia ecclesiastica. È un personaggio centrale del 1500, una delle figure più eminenti, la cui opera, specialmente per Milano, ha superato la forza dell’oblio.
Carlo nacque ad Arona, sul Lago Maggiore, nel 1538, in una nobile e ricca famiglia. Il padre, Gilberto, era noto per la profonda religiosità e per la sua generosità verso i poveri. Anche la madre, Margherita, era piissima: purtroppo morì quando Carlo aveva solo nove anni. Questo influsso dei genitori rimarrà fondamentale nella sua educazione.
A 12 anni, Carlo fu nominato commendatario di un’abbazia benedettina di Arona, che fruttava una rendita di 2000 scudi.
Una cifra considerevole. Nonostante l’età, però, il ragazzo aveva già le idee chiare.
Infatti, appena ricevuta l’investitura, corse dal padre per dirgli che aveva deciso di spendere quei soldi in aiuto dei poveri. Non c’è male per un dodicenne. I suoi pari di oggi sono anni luce lontano da lui.
Arrivati i 14 anni si recò a studiare prima a Milano poi a Pavia, portando con sé solo un piccola somma di denaro. Ma a lui questa condizione di strettezza economica (relativamente al suo rango) non pesava più di tanto. Nella condizione di studente rivelò ben presto i suoi numerosi talenti: grande intelligenza, carattere tenace e riflessivo, era portato all’essenziale, a non perdersi cioè in tante banalità ed esperienze superficiali, non infrequenti a quell’età. Nel 1559, diventò dottore “in utroque jure” ed aveva solo 21 anni.
A Roma, intanto, alla fine dello stesso anno ci fu il cambio di guardia in Vaticano. Era stato eletto un nuovo Papa, Pio IV, nella persona di Gianangelo de’ Medici, suo zio materno. Questo fatto impresse una svolta alla sua vita. Fu infatti chiamato dallo stesso Papa nella Città Eterna insieme al fratello Federico.
Carriera ecclesiastica a Roma
Nel caso di Pio IV ci troviamo davanti ad un raro caso di nepotismo positivo per la Chiesa. Il Papa promosse immediatamente i due nipoti: Federico (1561) ebbe la carica di capitano generale della Chiesa, Carlo non ancora ventiduenne, fu nominato cardinale con un incarico che oggi potremmo chiamare di Segretario di Stato. Poco dopo gli affidò anche l’amministrazione della diocesi di Milano con l’obbligo di restare però… a Roma. E questa non era l’unica carica. Ne ebbe parecchie altre con l’inevitabile cumulo anche dei rispettivi benefici economici. Gli storici dicono che l’accordo tra Papa e nipote fu sempre perfetto. Carlo nonostante le cariche rimaneva sempre un uomo di cultura.
Al tal fine fondò un’accademia a carattere umanistico-letterario, composta da amici, chiamata Notti Vaticane. Si era anche comprato un fastoso palazzo con servitù a seguito, in cui organizzava fastosi e festosi ricevimenti. Erano i tempi: il tutto non per vanità ma perché lo riteneva opportuno per la carica che ricopriva e per la fama e decoro della famiglia da cui proveniva.
L’evento decisivo
L’improvvisa morte del fratello Federico (1562) gli fece cambiare radicalmente vita. La interpretò come un segno da parte di Dio per riformare la propria vita ancor più in senso evangelico. Così cambiò radicalmente: addio ai festosi ricevimenti, addio ai divertimenti anche moralmente leciti, addio alle Notti Vaticane che divennero un cenacolo di cultura religiosa. Ridusse il proprio tenore di vita, intensificando la penitenza, i digiuni e le rinunce. Riprese inoltre, con più impegno, la propria formazione teologica e pastorale. Era pur sempre vescovo di una diocesi anche se non esercitava direttamente.
Il Papa vide perplesso la trasformazione in senso ascetico del prezioso nipote (che qualche volta chiamava “il mio occhio destro”). Scosse la testa: il tutto gli sembrava esagerato. Giunse persino a sgridarlo (addebitando l’eccessivo zelo ascetico ai consigli dei suoi direttori spirituali e all’influsso di personaggi contemporanei del calibro di Ignazio di Loyola, Gaetano da Thiene, Filippo Neri: guarda caso tutti Santi dichiarati tali dalla Chiesa). Il Papa lo scoraggiò, lo rimproverò, ma lo lasciò fare, e alla fine lo… imitò.
Ma il più grande merito di Carlo Borromeo fu che convinse il Papa a riconvocare il Concilio di Trento sospeso nel 1555. Se questo lavorò tanto e bene e se finì gloriosamente e proficuamente per la Chiesa (1563) il grande merito fu di Carlo. Egli ne fu la mente organizzatrice e l’ispiratore.
Nel luglio 1563, fu ordinato sacerdote e poco tempo dopo vescovo. Voleva fare il pastore di anime nella sua diocesi di Milano e ne aspettava l’occasione.
Il Concilio era finito ma bisognava assicurarsi che anche il successore di Pio IV avesse l’intenzione di continuare la riforma che ne era scaturita. Carlo credeva nell’azione dello Spirito Santo nella direzione della Chiesa, ma, nello stesso tempo, faceva umanamente quello che lui stesso pensava utile. Al vecchio e ammalato zio infatti suggerì i nomi dei nuovi cardinali del futuro conclave: doveva promuovere solo quelli favorevoli alla riforma della Chiesa voluta dal Concilio di Trento. Fatto questo gli chiese di poter presiedere, come legato papale, il consiglio provinciale che si teneva a Milano (la sua diocesi) per attuare le disposizioni conciliari. Lo zio Papa acconsentì. E Carlo partì. Ma poco tempo dopo dovette in tutta fretta fare ritorno a Roma (in compagnia di Filippo Neri) perché il Papa era ormai alla fine. Pio IV infatti morì tra le sue braccia il 9 dicembre 1565.
Morto un Papa, se ne fa un altro, così dice il proverbio. E così fu. Il 7 gennaio 1566, il Nostro avrebbe potuto farsi eleggere Papa con facilità, la sua “lobby” infatti era fortissima. Ed inoltre, era degnissimo. Ma lo Spirito Santo e lui non vollero. Fu eletto il Card. Michele Ghislieri, domenicano, favorevole all’attuazione del Concilio di Trento. E Carlo fu uno dei suoi “sponsor”.
Un pastore “di ferro” che dà la sua vita
Nell’aprile del 1566, raggiunse Milano, dove iniziò subito la grande opera di riforma secondo il Concilio di Trento. Fu un organizzatore geniale e un lavoratore instancabile tanto che Filippo Neri esclamò: “Ma quest’uomo è di ferro”.
Organizzò la sua diocesi in 12 circoscrizioni, curò la revisione della vita della parrocchia obbligando i parroci a tenere i registri di archivio, con le varie attività e associazioni parrocchiali. Si impegnò molto nella formazione del clero creando il seminario maggiore e minore. Fu soprattutto instancabile nel visitare le popolazioni affidate alla sua cura pastorale e spirituale, iniziando la sua prima visita nel 1566 subito dopo l’arrivo a Milano.
La sua visita in una parrocchia era preparata spiritualmente con la preghiera e con la predicazione che doveva portare ai sacramenti. Il vescovo all’inizio faceva una riunione con i notabili del paese ai quali chiedeva tra l’altro: “Come si comportano in chiesa i parrocchiani? Ci sono eretici, usurai, concubini, banditi o criminali? Ci sono seminatori di discordia, parrocchiani che non osservano la Quaresima?… I padri di famiglia educano bene i propri figli? Non c’è lusso esagerato nel vestire da parte degli uomini e delle donne? Se ci sono delle istituzioni di beneficenza e di aiuto sociale, sono ben amministrate?”. E altre domande simili. Come si vede concrete.
Tutto bene quindi nella sua opera di riforma? Non proprio. Incontrò difficoltà e talvolta anche ostilità. Come nel caso dell’attentato che subì il 26 ottobre 1569 ad opera di quattro frati dell’Ordine degli Umiliati. Uno di questi gli sparò mentre era in preghiera nella sua cappella privata. Motivo? Il Borromeo voleva riformare quell’ordine religioso ormai decaduto. Ma le riforme proposte furono viste dagli Umiliati come umiliazioni. La pallottola gli forò il rocchetto, ma lui rimase illeso miracolosamente ed il popolo lo interpretò come un segno dall’alto della bontà delle sue riforme. E gli Umiliati, di nome, furono umiliati anche di fatto e per sempre con la loro cancellazione definitiva.
Ma lo spessore della sua personalità di pastore e del suo amore più grande che “dona la vita per i suoi amici”, la mostrò in occasione della peste del 1576. Assente dalla città perché in visita pastorale, rientrò subito, mentre il governatore spagnolo e il gran cancelliere fuggivano via.
Fece subito testamento sapendo che la peste non aveva riguardo per nessuno, nemmeno per l’alto clero: organizzò l’opera di assistenza, visitò personalmente e coraggiosamente i colpiti dal terribile morbo, aiutò tutti instancabilmente fino al punto da meritarsi un rimprovero dal Papa di Roma.
Nonostante tutta l’attività pastorale, il Borromeo fece quattro viaggi a Roma e quattro a Torino. Era molto devoto della sacra Sindone. Fu proprio nel 1578 che i duchi di Savoia la portarono a Torino perché al vescovo di Milano, che aveva chiesto di venerarla personalmente, fosse risparmiato il difficile e pericoloso attraversamento delle Alpi (motivo ufficiale), ma anche per difenderla dalle brame dei Francesi (motivo politico). L’esposizione della reliquia fatta a Torino nel 1978 fu per ricordare questo suo arrivo nella città.
A causa della sua attività pastorale senza sosta, dei frequenti viaggi, delle continue penitenze, la sua salute peggiorò rapidamente. La morte lo colse preparatissimo il 3 novembre del 1584, ed il suo culto si diffuse rapidamente fino alla canonizzazione fatta nel 1610 da Paolo V.
Carlo Borromeo moriva fisicamente ma la sua eredità, fatta di santità personale e di azione instancabile per la Chiesa era più viva che mai, e sarebbe continuata nei secoli. Fino ad oggi.
Autore: Mario Scudu sdb
http://www.vincenzotopa.net/archivio/sal67.pdf
Un cantore medita i salmi. Ed. Vocazioniste, 2006
SALMO 67: SORGA DIO
Il lungo salmo 67 (68), attribuito a Davide, canta della gloriosa epopea di Israele. In esso vengono ripercorse tutte le tappe della storia di salvezza che Dio fa con il
suo popolo. D’altra parte ciò che avvenne nella storia di Israele si rinnova nella storia della Chiesa e si riproduce nella vita spirituale di ogni uomo. Nella prima parte del testo, che qui commentiamo, si fa riferimento ai fatti dell’Esodo. In particolare, il salmo inizia con l’acclamazione, il grido di guerra, che Mosè e il popolo ripetevano ogni volta che l’Arca veniva issata per guidare il cammino nel deserto (cfr. Num. 10, 35):
“Sorga Dio, i suoi nemici si disperdano,
e fuggano davanti a lui quelli che lo odiano.”
Questo è già avvenuto nell’Esodo come è avvenuto nel Cristo risorto, la cui croce innalzata è il simbolo della Nuova Alleanza. Davanti a Cristo, infatti, gli spiriti del
male si disperdono come fumo e, nel giorno del giudizio, gli empi fonderanno come cera:
“Come si disperse il fumo, tu li disperdi;
come fonde la cera di fronte al fuoco
periscano gli empi davanti a Dio.
I giusti invece si rallegrino,
esultino davanti a Dio
e cantino di gioia.”
I giusti, invece, nell’ultimo giorno udranno le parole: “Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo”
(Mt. 25,34) e gioiranno davanti a Lui. Risuoni allora l’acclamazione della Chiesa e di ogni cristiano che si accinge ogni giorno al combattimento spirituale: Sorga
Dio! “Fate strada a Cristo, in modo che, attraverso l’opera di coloro che con piedi graziosi annunziano il Vangelo, i cuori dei credenti si aprano a lui. Egli è colui
che sale oltre il tramonto” (S. Agostino, En. in ps., 67), colui che, come dice il salmista, è Kyrios, Signore, e cavalca le nubi:
“Cantate a Dio, inneggiate al suo nome,
spianate la strada a chi cavalca le nubi:
«Signore» è il suo nome,
gioite davanti a lui.
Padre degli orfani e difensore delle vedove
è Dio nella sua santa dimora.
Ai derelitti fa abitare una casa,
fa uscire con gioia i prigionieri;
solo i ribelli abbandona in terra arida.”
Con questi orfani e con queste vedove, con coloro che sono privi di speranze terrene, con chi è prigioniero, con gli umili il Signore costruisce il suo tempio, facendoli abitare nella sua casa. Casa che è nel cuore di ogni uomo se solo apre la porta dell’anima per farsi accogliere nel cuore immacolato di Cristo. Ecco il Regno, la terra promessa, il riposo del cuore, la pace, pegno della vita eterna della quale parla il salmista: “e il tuo popolo abitò il paese che nel tuo amore, o Dio,
preparasti al misero”. Nella seconda parte di questo salmo “Il Signore annuncia
una notizia” tramite una miriade di messaggeri. Di chi si parla? O meglio, di chi si profetizza? Del cristianesimo! Degli evangelizzatori… dei cristiani che annunciano il
Kerygma… Cristo ha distrutto la morte! Questo è l’annuncio di vittoria, la notizia, la buona notizia di fronte alla quale tutti i re e gli eserciti che prima ci intimorivano (ognuno provi a elencare concretamente quelli che angosciano la sua vita) sono messi in fuga. Così come fuggirono Sìsara e i suoi di fronte a Israele, guidato da Debora e da Barak. Molto probabilmente il salmista fa infatti riferimento ai fatti narrati nel libro dei Giudici (cfr. Gdc. capitoli 4 e 5):
“Il Signore annuncia una notizia,
le messaggere di vittoria sono grande schiera:
«fuggono i re, fuggono gli eserciti;
la bella della casa1
spartisce il bottino».”
La “bella della casa”, allora, potrebbe essere Debora… o Giaele, che trafisse alla fine il potente Sìsara; ma anche qui è possibile vedere una profezia: si tratta di una figura di Maria, la tutta bella della casa, cioè della Chiesa. Così, mentre il gregge di Dio dorme al sicuro tra gli steccati dell’ovile (S. Agostino, nel suo commento ai
salmi, dice che questi steccati sono immagine dei due Testamenti o, meglio, delle due Alleanze), le ali della colomba, figura dello Spirito Santo, risplendono. La
Chiesa risplende nella carità! “Guardate come si amano!” dicevano ammirati tra loro i pagani nel vedere questo splendore delle prime comunità cristiane.
“«Mentre voi dormite tra gli ovili,
splendono d’argento le ali della colomba,
le sue piume di riflessi d’oro»;”
Il versetto seguente è oscuro. Una delle ipotesi proposte è che si faccia riferimento alla distruzione di Sichem voluta da Abimélech, il quale sparse sale sullo Zalmon, il
monte ombroso, perché non vi crescesse più niente (cfr. Gdc. 9, 45). La neve, d’altra parte, è bianca come il sale (Sir. 43, 18) e anche Abimélech, come Sìsara, fu poi ucciso da una donna (Gdc. 9, 53)… si rafforzerebbe così il concetto già espresso all’inizio:
“Quando disperdeva i re l’Onnipotente,
nevicava sullo Zalmon…”
Continua il lungo racconto del salmista, che profetizza la risurrezione di Cristo quando dice: “il Signore Dio libera dalla morte”, fino a vedere, nei versetti finali, la sua Ascensione al cielo:
“Regni della terra, cantate a Dio,
cantate inni al Signore;
egli nei cieli cavalca, nei cieli eterni,
ecco, tuona con voce potente.”
Quest’ultima esortazione annuncia la glorificazione del Cristo da parte di tutti i Regni della terra: “Riconoscete a Dio la sua potenza, la sua maestà su Israele, la sua
potenza sopra le nubi”. “Allora infatti si realizzerà completamente e veracemente quel nome di Israele che significa «colui che vede Dio»” (S. Agostino, En. in ps.,
67).
1
Viene riportata la traduzione letterale, che secondo la Bibbia di
Gerusalemme si riferisce a Giaele (Gdc. 5, 24). Altre traduzioni
riportano: “anche le donne si dividono il bottino”.
2
Si potrebbe proporre, a conferma del parallelo Giaele-Maria, il
confronto tra il libro dei Giudici: “Una mano essa stese al picchetto
e la destra a un martello da fabbri, e colpì Sisara, lo percosse alla
testa, ne fracassò, ne trapassò la tempia. Ai piedi di lei si contorse,
ricadde, giacque; dove si contorse là ricadde finito” (Gdc. 5, 26-27)
e quello della Genesi: “Allora il Signore Dio disse al serpente: Io
porrò inimicizia tra te e la donna… questa ti schiaccerà la testa e tu
le insidierai il calcagno.” (Gen. 3, 15) Un cantore medita i salmi. Ed. Vocazioniste, 2006
http://paolocastellina.pbworks.com/w/page/61227462/Giacomo10
10. VERA SAGGEZZA (GIACOMO 3:13-18).
(da: Tempo di Riforma)
Quando si è di fronte ad un problema pratico e non si sa come risolverlo, si chiamano “gli esperti”, cioè coloro che conoscono bene per conoscenza ed esperienza un particolare campo, che hanno lunga pratica ed abilità nella loro arte o nella conoscenza di qualcosa. Può essere, ad esempio, l’idraulico, l’elettricista o il muratore se si hanno problemi con la nostra abitazione; il medico specialista se si hanno particolari problemi di salute; lo psicologo o lo psichiatra se ci si trova di fronte a problemi comportamentali o di salute mentale; un avvocato, se si hanno problemi di carattere legale; il matrimonialista o sessuologo, se si hanno problemi in quel particolare campo. Un ministro di culto, un teologo, lo si intende normalmente come “esperto di problemi religiosi”.
E’ bene consultare gli esperti qualificati in un certo campo e riconoscere umilmente di non sapere tutto e di avere bisogno di consiglio “da chi se ne intende”. Non dobbiamo vergognarcene.
Nei programmi televisivi vi è anche la figura dell’esperto che viene convocato per discutere di un particolare problema ed offrire dei consigli, come anche quella del “tuttologo”, un neologismo scherzoso e di tono ironico riferito a chi pretende boriosamente di sapere tutto e di poter quindi parlare o scrivere di qualsiasi argomento vantando o attribuendosi conoscenze in ogni campo. I programmi televisivi si avvalgono spesso di questi presunti “tuttologi”. Un noto “tuttologo” dei fumetti di Walt Disney è Pico de Paperis# che fa il verso al famoso filosofo dell’umanesimo Giovanni Pico della Mirandola#, passato popolarmente alla storia come grande sapientone…
C’è qualcuno fra di voi che si ritiene “esperto” in ogni campo, sempre pronto ad elargire a tutti i suoi consigli a noi “inesperti”? Questa è la domanda che sostanzialmente si fa l’apostolo Giacomo nel testo biblico della sua lettera che consideriamo quest’oggi. Si chiede difatti, in questo senso: “Chi tra voi è saggio e intelligente?”.
Il testo biblico
In questo brano Giacomo, dopo aver discusso l’uso e l’abuso della lingua, scrive dell’importanza di vivere con autentica saggezza. Che cosa vuol dire “saggezza”? Da dove possiamo trarre la saggezza che ci serve per vivere una vita giusta e buona? Quali sono le conseguenze pratiche della saggezza? Con il termine che noi traduciamo “saggezza”, e che si sovrappone a “sapienza”, Giacomo ricalca i termini della verità rivelata nella letteratura sapienziale dell’Antico Testamento (dal libro di Giobbe al Cantico dei Cantici). Essa, infatti, distingue due categorie: una sapienza-saggezza puramente umana (con tutti i suoi gravi limiti e problemi) che considera come valida la logica e il “saperci fare” di questo mondo, e la sapienza-saggezza “che scende dall’alto”, quella che Dio possiede e Egli si compiace di impartire. Giacomo opera dunque una distinzione fra sapienza terrena e sapienza celeste.
« Chi fra voi è saggio e intelligente? Mostri con la buona condotta le sue opere compiute con mansuetudine e saggezza. Ma se avete nel vostro cuore amara gelosia e spirito di contesa, non vi vantate e non mentite contro la verità. Questa non è la saggezza che scende dall’alto; ma è terrena, animale e diabolica. Infatti dove c’è invidia e contesa, c’è disordine e ogni cattiva azione. La saggezza che viene dall’alto, anzitutto è pura; poi pacifica, mite, conciliante, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, senza ipocrisia. Il frutto della giustizia si semina nella pace per coloro che si adoperano per la pace » (Giacomo 3:13-18).
Giacomo considera la saggezza come un’ulteriore test per verificare una fede che possa dirsi vivente. Il tipo di saggezza posseduto da una persona, dice, è rivelato dal suo modo di vivere. Allo stesso modo in cui Giacomo poco prima ci aveva messi in guardia a fare molta attenzione a voler essere considerati “maestri” (3:1), così dobbiamo fare attenzione a vantare di essere degli “esperti” sempre pronti ad elargire i nostri consigli, perché è dal modo in cui viviamo che si dimostra se davvero siamo quegli esperti, quei “sapienti” che diciamo di essere. Anche in questo caso, senza un comportamento coerente in armonia con la vita e l’insegnamento di Cristo, dimostriamo solo di avere quella che spesso è la pseudo-sapienza di questo mondo che, magari, “funziona”, ma a che prezzo! Peggio, dimostriamo di non avere alcun autentico rapporto salvifico con Gesù Cristo, nessun reale desiderio di rendergli culto, adorarlo e servirlo, perché è dai fatti che lo si verifica. D’altro canto, coloro che possiedono autentica fede salvifica e lo dimostrano, manifestano « la saggezza che scende dall’alto », la saggezza di Dio.
Saggezza e sapienza
Chiariamo prima di tutto i termini. In italiano il termine “saggezza” significa generalmente la capacità di seguire la ragione nel comportamento e nei giudizî, moderazione nei desiderî, equilibrio e prudenza nel distinguere il bene e il male, nel valutare le situazioni e nel decidere, nel parlare e nell’agire. La saggezza è la dote che deriva dall’esperienza, dalla meditazione sulle cose, e che riguarda soprattutto il comportamento morale e in genere l’attività pratica. Si dice, ad esempio, “una persona di grande saggezza”, “parlare, agire con saggezza”, “dare prova di saggezza”, “parole piene di saggezza”; “la saggezza delle persone anziane, dei contadini”, “la saggezza condensata nei proverbî”; con particolare riferimento al modo di operare: “la saggezza di un consiglio, di una decisione, di un provvedimento legislativo”. E’ determinante per la nostra discussione sapere quale sia il modello rispetto al quale definiamo il comportamento saggio.
Il termine “sapienza”, invece, indica un profondo sapere, la condizione di perfezione intellettuale che si manifesta col possesso di grande conoscenza e dottrina, come “la sapienza degli antichi filosofi”. Con senso più ampio, dote, oltre che intellettuale, anche spirituale e morale, intesa come saggezza unita a oculato discernimento nel giudicare e nell’operare, sia sul piano etico, sia sul piano della vita pratica. Anche in questo caso dobbiamo determinare quale sia il contenuto di questa conoscenza ed i criteri rispetto ai quali determiniamo ciò che è buono.
Sia nelle sacre Scritture che con gli antichi filosofi, la sapienza, o saggezza, è una virtù altamente valorizzata. In senso lato, nella Bibbia, “sapienza” o “saggezza” non è semplicemente il possedere conoscenze speculative, ma la capacità di sapere applicare in modo appropriato ed efficace quelle conoscenze alla vita pratica. Il “saggio” o “sapiente”, di conseguenza è chi possiede conoscenze e le sa applicare alla vita pratica.
Il Nuovo Testamento definisce una persona s?f?? (sophos) nel senso (variamente tradotto) di (1) saggio, abile, esperto, competente; (2) colto, dotto, istruito, abile nelle lettere; (3) saggio in senso pratico, cioè una persona che nell’azione è governato da pietà ed integrità; (4) Saggio in senso filosofico, in grado di elaborare i piani migliori ed usare i mezzi migliori per eseguirli. Giacomo usa qui il termine « saggio » nel terzo significato, vale a dire saggezza pratica, la persona moralmente integra e consacrata a Dio che si comporta nel modo più appropriato e conforme alla volontà di Dio. Di conseguenza, per esempio, è pure la persona più adatta per giudicare in caso di contese e di sistemare la questione, come quando l’apostolo Paolo scrive: « È possibile che non vi sia tra di voi neppure una persona saggia, capace di pronunciare un giudizio tra un fratello e l’altro? » (1 Corinzi 6:5). Gli ebrei ai quali si rivolgeva Giacomo comprendevano che la vera sapienza non era qualcosa di semplicemente intellettuale, ma comportamentale. Il più grande stupido era considerato chi conosceva la verità e falliva nell’applicarla. Per gli israeliti sapienza o saggezza significava abilità nel vivere in modo giusto.
Esposizione
1. “Chi fra voi è saggio e intelligente? Mostri con la buona condotta le sue opere compiute con mansuetudine e saggezza” (13).
Per “intelligente” si intende “avere intelligenza di” e in altri contesti si riferisce allo specialista o professionista che è in grado di applicare con maestria la sua perizia, la sua arte, a situazioni pratiche. E’ tradotto anche “accorto” (CEI). Giacomo chiede chi veramente sia abile ed esperto nell’arte di vivere. Un sinonimo lo troviamo in quanto Gesù disse una volta: “I figli di questo mondo, nelle relazioni con quelli della loro generazione, sono più avveduti dei figli della luce” (Luca 16:8). Per “mansuetudine” si intende l’opposto dell’arroganza e dell’auto-promozione. I greci la descrivevano come avere “un potere sotto controllo”.
Immaginiamo una persona che si professa cristiana e che ci dica: “Io so come si vive in questo mondo. So come si deve trattare con la gente, so ‘farmi strada’ nella società”. Indubbiamente lo sa e lo pratica perché oggettivamente egli pare essere “una persona di successo”. Quali sono, però, i principi che applica per “vivere in questo mondo” ed “avere successo”? I princìpi che in questo mondo determinano “il successo”, ad esempio: l’arroganza, la prevaricazione, il ricatto, l’egoismo, il calpestare gli altri nei loro diritti per imporre sé stessi, la corruzione (la pratica delle “bustarelle”), la volgarità, la disonestà ecc. Si tratta di una persona indubbiamente abile e “sapiente”, una persona “che ci sa fare”, ma che pratica la sapienza “di quaggiù” e, nonostante si professi cristiana, è coerente con la sapienza di questo mondo, e non con la sapienza di Dio.
2. “Ma se avete nel vostro cuore amara gelosia e spirito di contesa, non vi vantate e non mentite contro la verità” (14).
Si tratta di una persona che “ci sa fare” in questo mondo, ma nella sua “sapienza” applica i principi dell’andazzo di questo mondo. Ai cristiani di Efeso, l’apostolo Paolo scrive: “Un tempo vi abbandonaste seguendo l’andazzo di questo mondo, seguendo il principe della potenza dell’aria, di quello spirito che opera oggi negli uomini ribelli” (Efesini 2:2).
Che cosa produce lo spirito di questo mondo? Ne abbiamo qui alcuni esempi. “Amara gelosia”. In greco l’aggettivo “amaro” è riferito all’acqua non potabile. Quando questo aggettivo è congiunto a “gelosia” definisce un atteggiamento duro e risentito verso gli altri. Con “Spirito di contesa”. si riferisce all’ambizione egoistica che genera antagonismo e partigianeria, lo spirito competitivo in negativo. Il termine greco descrive pure chiunque entri in politica per ragioni egoistiche, cercando vantaggi personali, cercando di ottenere quel a cui aspira ad ogni costo, anche calpestando gli altri. Indubbiamente:
3. “Questa non è la saggezza che scende dall’alto; ma è terrena, animale e diabolica” (15). Si tratta di una sapienza tutta incentrata in noi stessi consumata con ambizioni personali non è “dall’alto”, vale a dire da Dio.
Giacomo la definisce ulteriormente come: “terrena, animale (o carnale), diabolica”. E’ la descrizione della sapienza umana limitata a questo mondo, caratterizzata dai principi delll’umanità corrotta dal peccato, fragile e non redenta, sollecitata da forze sataniche, quelle che vorrebbero persuaderci che contravvenire alla legge morale di Dio ci garantisce in questo mondo il successo che vogliamo. Era una delle tentazioni a cui era stato sottoposto anche il Signore Gesù. Dice il vangelo di Matteo: “Di nuovo il diavolo lo portò con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria, dicendogli: «Tutte queste cose ti darò, se tu ti prostri e mi adori». Allora Gesù gli disse: «Vattene, Satana, poiché sta scritto: « Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi il culto »».” (Matteo 4:8-10). Sicuramente Satana avrebbe potuto dare a Cristo tutte quelle cose se solo avesse applicato i suoi principi, quelli che seguono i figli di questo mondo per avere successo mondano. Gesù, però, rifiuta queste tentazioni ed un successo fondato su principi malvagi ed effimeri. Gesù avrebbe alla fine avuto “successo”, ma in altro modo!
4. “Infatti dove c’è invidia e contesa, c’è disordine e ogni cattiva azione” (16). Sì, dove prevale la sapienza di questo mondo viene generato solo “disordine” (o turbamento). Si tratta del disordine che risulta dall’instabilità e dal caos della sapienza umana non informata da Dio. E non solo disordine, ma “ogni cattiva azione” (o “opere malvagie”), letteralmente “ogni opera priva di valore” ultimo. Denota cose che in sé stesse potrebbero anche non essere un male, ma non servono a nulla, non contribuiscono a far crescere e sviluppare il regno di Dio a Sua gloria. .
5. “La saggezza che viene dall’alto, anzitutto è pura; poi pacifica, mite, conciliante, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, senza ipocrisia” (17). Queste sono le caratteristiche della sapienza di Dio incarnata nella vita e nella morte di Gesù. Sono i principi che Gesù esprime in quelli che sono conosciute come “le beatitudini” espresse da Lui nel cosiddetto “sermone sul monte”. Rileggiamo questo testo:
“Gesù, vedendo le folle, salì sul monte e si mise a sedere. I suoi discepoli si accostarono a lui, ed egli, aperta la bocca, insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno dei cieli. Beati quelli che sono afflitti, perché saranno consolati. Beati i mansueti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che sono affamati e assetati di giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché a loro misericordia sarà fatta. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati quelli che si adoperano per la pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per motivo di giustizia, perché di loro è il regno dei cieli. Beati voi, quando vi insulteranno e vi perseguiteranno e, mentendo, diranno contro di voi ogni sorta di male per causa mia. Rallegratevi e giubilate, perché il vostro premio è grande nei cieli; poiché così hanno perseguitato i profeti che sono stati prima di voi” (Matteo 5:1-11).
Qui il termine “pura” si riferisce all’integrità spirituale ed alla sincerità morale. Ogni cristiano autentico ha queste motivazioni che provengono dal suo cuore. Per “pacifica”, si intende quella di coloro che amano e promuovono la pace. Il termine tradotto con “mite” è un tentativo di rendere una parola di difficile traduzione, ma che si approssima al tratto caratteriale di chi è gentile, paziente, umile, senza pensieri di odio o di vendetta. Per “conciliante”, il termine originale descrive qualcuno che è disposto ad essere istruito, flessibile, facile da persuadere. Con “piena di misericordia” si intende il dono di mostrare sincero interesse e partecipazione per coloro che sono afflitti e soffrono, come pure la capacità di perdonare prontamente. Con “imparziale” si intende “senza parzialità”. Questo termine ricorre nel Nuovo Testamento solo in questo testo, e denota una persona coerente, che non si piega, indivisa nel suo impegno e convinzioni, la quale non fa ingiuste distinzioni.
6. “Il frutto della giustizia si semina nella pace per coloro che si adoperano per la pace” (18). Se vogliamo raccogliere “giustizia”, vale a dire quella che veramente conta e vale davanti a Dio bisogna “seminare”, cioè operare “in pace con Dio” e in accordo alla Sua volontà rivelata nella Sua Parola. “Il frutto della giustizia” sono le buone opere che sono il risultato della salvezza (cfr. v. 17), quelle che Dio considerano tali e sono espressione di coloro che “si adoperano per la pace” vale a dire la pace con Dio. La giustizia fiorisce in un clima di pace spirituale ed amicizia con Dio e non “in pace col mondo”, cioè in armonia con i suoi principi, la sua condotta, la sua sapienza.
Indubbiamente il comportamento che è insegnato e vissuto dal Cristo e che è espresso dalle Beatitudini è cosa che il mondo disprezza e mette in ridicolo come stupido ed inefficace, “un’etica da perdenti”, da sciocchi. E’ così? Solo apparentemente perché il successo di questo mondo è di breve durata e produce alla fine solo disastri. Ciò che veramente vale – e alla fine lo si comprova sempre vero e realmente efficace – è l’etica di Dio, i Suoi principi, la Sua sapienza, la Sua saggezza, quella che viene “dall’alto”. “E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (1 Giovanni 2:17).
Conclusione
Se una persona professa fede salvifica in Gesù Cristo e pretende di avere la saggezza che viene da Dio, ma il suo cuore è piuttosto in linea con la sapienza di questo mondo, con il suo andazzo distruttore, apparentemente saggio; se si comporta nella società, per “avere successo” in modo arrogante, orgoglioso, e centrato in sé stesso, come pure vive una vita mondana, sensuale al servizio di sé stesso, le sue pretese di essere cristiano sono del tutto inconsistenti e false, perché i fatti lo comprovano.
La saggezza che libera dal male è quella che viene espressa da Dio nell’Antico Testamento da libri come quello dei Proverbi. Al capitolo 2 leggiamo: “Figlio mio, se ricevi le mie parole e serbi con cura i miei comandamenti, prestando orecchio alla saggezza e inclinando il cuore all’intelligenza; sì, se chiami il discernimento e rivolgi la tua voce all’intelligenza, se la cerchi come l’argento e ti dai a scavarla come un tesoro, allora comprenderai il timore del SIGNORE e troverai la scienza di Dio. Il SIGNORE infatti dà la saggezza; dalla sua bocca provengono la scienza e l’intelligenza. Egli tiene in serbo per gli uomini retti un aiuto potente, uno scudo per quelli che camminano nell’integrità” (Proverbi 2:1-7).
Domande di approfondimento
Chi è la persona più saggia che conosci? Spiega che cosa vedi in quella persona che tu giudichi esprimere sapienza.
Quanto conta la vera saggezza quando si tratta di eleggere i responsabili di una comunità cristiana oppure dei leader politici?
Secondo te, qual è il segreto per acquisire vera sapienza?
In che modo possiamo manifestare saggezza?
In che modo questo brano descrive la saggezza che proviene da Dio? (Si consideri: Giobbe 28; Salmo 104:24; Proverbi 1:7; Daniele 1:17; Romani 11:33).
Che cosa intende Giacomo quando si riferisce a “mansuetudine e saggezza” (v. 13; si consideri Matteo 5:5; Galati 5:22-23).
Elenca i “frutti” della sapienza terrena e quelli di provenienza celeste che Giacomo menziona. Confrontali. In che modo differiscono? Quali sono i risultati o conseguenze di ciascuno di essi? (Si consideri: Matteo 5:6; 1 Corinzi 1:18-31; 2:6-16; Galati 5:22-23; Filippesi 1:11).
Che cosa significa che la sapienza di Dio è pura (v. 17)? (Si consideri Salmo 24:3-4; Matteo 5:8).
Sottolinea in Proverbi 2:1-7 tutti i sinonimi di “saggezza”. Che cosa rivelano sulla natura della saggezza?
Qual’è la fonte della saggezza autentica? In che modo la conseguiamo?
Leggi Colossesi 2:2-3. Che cosa dice questo testo su Cristo e la sapienza?
In che modo si può dire se la saggezza che abbiamo è quella di Dio o del mondo?
In che misura la sapienza mondana controlla i tuoi pensieri, opinioni e valori? Perché?
Quali sono alcuni modi concreti attraverso i quali si può acquisire la sapienza di Dio?
Appendice
Come viene tradotto il termine “sophos”
Abile, esperto. « saggi nel fare il bene » (Romani 16:19); « esperto architetto » (o « sapiente architetto), cfr. »abile incantatore » (o « esperto di incantesimi », « intendente nelle parole segrete (Diodati).
Abile nelle lettere, istruito. sapiente, colto, dotto. « sapienti » (Romani 1:14,22), detto dei filosofi greci ed oratori. « Io farò perire la sapienza dei saggi » (la sapienza di chi si ritiene di sapere);: « Se qualcuno tra di voi presume di essere un saggio in questo secolo, diventi pazzo per diventare saggio » o « Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente; » (CEI). Detto dei teologi israeliti: « Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti » (Matteo 11:25; cfr. Luca 10:21), o dei maestri cristiani: « Perciò ecco, io vi mando dei profeti, dei saggi e degli scribi » (Matteo 23:34).
Saggio in senso pratico, cioè una persona che nell’azione è governato da pietà ed integrità. « Guardate dunque con diligenza a come vi comportate; non da stolti, ma da saggi » (Efesini 5:15). « Chi fra voi è saggio e intelligente? Mostri con la buona condotta le sue opere compiute con mansuetudine e saggezza » (Giacomo 3:13). Di conseguenza è la persona più adatta per giudicare in caso di contese e di sistemare la questione: » È possibile che non vi sia tra di voi neppure una persona saggia, capace di pronunciare un giudizio tra un fratello e l’altro? » (1 Corinzi 6:5).
Saggio in senso filosofico, in grado di elaborare i piani migliori ed usare i mezzi migliori per eseguirli. Così è di Dio « Dio, unico in saggezza, per mezzo di Gesù Cristo sia la gloria nei secoli dei secoli » (Romani 16:27); « poiché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini » (1 Corinzi 1:25).
PAPA FRANCESCO – (La Sapienza è guardare con gli occhi di Dio, cit)
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 9 aprile 2014
I doni dello Spirito Santo: 1. La Sapienza
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Iniziamo oggi un ciclo di catechesi sui doni dello Spirito Santo. Voi sapete che lo Spirito Santo costituisce l’anima, la linfa vitale della Chiesa e di ogni singolo cristiano: è l’Amore di Dio che fa del nostro cuore la sua dimora ed entra in comunione con noi. Lo Spirito Santo sta sempre con noi, sempre è in noi, nel nostro cuore.
Lo Spirito stesso è “il dono di Dio” per eccellenza (cfr Gv 4,10), è un regalo di Dio, e a sua volta comunica a chi lo accoglie diversi doni spirituali. La Chiesa ne individua sette, numero che simbolicamente dice pienezza, completezza; sono quelli che si apprendono quando ci si prepara al sacramento della Confermazione e che invochiamo nell’antica preghiera detta “Sequenza allo Spirito Santo”. I doni dello Spirito Santo sono: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timore di Dio.
1. Il primo dono dello Spirito Santo, secondo questo elenco, è dunque la sapienza. Ma non si tratta semplicemente della saggezza umana, che è frutto della conoscenza e dell’esperienza. Nella Bibbia si racconta che a Salomone, nel momento della sua incoronazione a re d’Israele, aveva chiesto il dono della sapienza (cfr 1 Re 3,9). E la sapienza è proprio questo: è la grazia di poter vedere ogni cosa con gli occhi di Dio. E’ semplicemente questo: è vedere il mondo, vedere le situazioni, le congiunture, i problemi, tutto, con gli occhi di Dio. Questa è la sapienza. Alcune volte noi vediamo le cose secondo il nostro piacere o secondo la situazione del nostro cuore, con amore o con odio, con invidia… No, questo non è l’occhio di Dio. La sapienza è quello che fa lo Spirito Santo in noi affinché noi vediamo tutte le cose con gli occhi di Dio. E’ questo il dono della sapienza.
2. E ovviamente questo deriva dalla intimità con Dio, dal rapporto intimo che noi abbiamo con Dio, dal rapporto di figli con il Padre. E lo Spirito Santo, quando abbiamo questo rapporto, ci dà il dono della sapienza. Quando siamo in comunione con il Signore, lo Spirito Santo è come se trasfigurasse il nostro cuore e gli facesse percepire tutto il suo calore e la sua predilezione.
3. Lo Spirito Santo rende allora il cristiano «sapiente». Questo, però, non nel senso che ha una risposta per ogni cosa, che sa tutto, ma nel senso che «sa» di Dio, sa come agisce Dio, conosce quando una cosa è di Dio e quando non è di Dio; ha questa saggezza che Dio dà ai nostri cuori. Il cuore dell’uomo saggio in questo senso ha il gusto e il sapore di Dio. E quanto è importante che nelle nostre comunità ci siano cristiani così! Tutto in loro parla di Dio e diventa un segno bello e vivo della sua presenza e del suo amore. E questa è una cosa che non possiamo improvvisare, che non possiamo procurarci da noi stessi: è un dono che Dio fa a coloro che si rendono docili allo Spirito Santo. Noi abbiamo dentro di noi, nel nostro cuore, lo Spirito Santo; possiamo ascoltarlo, possiamo non ascoltarlo. Se noi ascoltiamo lo Spirito Santo, Lui ci insegna questa via della saggezza, ci regala la saggezza che è vedere con gli occhi di Dio, sentire con le orecchie di Dio, amare con il cuore di Dio, giudicare le cose con il giudizio di Dio. Questa è la sapienza che ci regala lo Spirito Santo, e tutti noi possiamo averla. Soltanto, dobbiamo chiederla allo Spirito Santo.
Pensate a una mamma, a casa sua, con i bambini, che quando uno fa una cosa l’altro ne pensa un’altra, e la povera mamma va da una parte all’altra, con i problemi dei bambini. E quando le mamme si stancano e sgridano i bambini, quella è sapienza? Sgridare i bambini – vi domando – è sapienza? Cosa dite voi: è sapienza o no? No! Invece, quando la mamma prende il bambino e lo rimprovera dolcemente e gli dice: “Questo non si fa, per questo…”, e gli spiega con tanta pazienza, questo è sapienza di Dio? Sì! E’ quello che ci dà lo Spirito Santo nella vita! Poi, nel matrimonio, per esempio, i due sposi – lo sposo e la sposa – litigano, e poi non si guardano o, se si guardano, si guardano con la faccia storta: questo è sapienza di Dio? No! Invece, se dice: “Beh, è passata la tormenta, facciamo la pace”, e ricominciano ad andare avanti in pace: questo è sapienza? [la gente: Sì!] Ecco, questo è il dono della sapienza. Che venga a casa, che venga con i bambini, che venga con tutti noi!
E questo non si impara: questo è un regalo dello Spirito Santo. Per questo, dobbiamo chiedere al Signore che ci dia lo Spirito Santo e ci dia il dono della saggezza, di quella saggezza di Dio che ci insegna a guardare con gli occhi di Dio, a sentire con il cuore di Dio, a parlare con le parole di Dio. E così, con questa saggezza, andiamo avanti, costruiamo la famiglia, costruiamo la Chiesa, e tutti ci santifichiamo. Chiediamo oggi la grazia della sapienza. E chiediamola alla Madonna, che è la Sede della sapienza, di questo dono: che Lei ci dia questa grazia. Grazie!