Archive pour novembre, 2014

PERCHÉ GESÙ DICE AI SUOI DISCEPOLI DI NON GIUDICARE

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PERCHÉ GESÙ DICE AI SUOI DISCEPOLI DI NON GIUDICARE

«Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato» (Luca 6,37). È possibile mettere in pratica questa parola del Vangelo? Non è forse necessario giudicare, se non ci si vuole arrendere di fronte a ciò che non va? Ma questo appello di Gesù si è profondamente inciso nei cuori. Gli apostoli Giacomo e Paolo, del resto così diversi, vi fanno eco quasi con le stesse parole. Giacomo scrive: «Chi sei tu che ti fai giudice del tuo prossimo?» (Giacomo 4,12). E Paolo: «Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo?» (Romani 14,4).
Né Gesù né gli apostoli hanno cercato d’abolire i tribunali. Il loro appello concerne la vita quotidiana. Se i discepoli di Gesù scelgono d’amare, continuano tuttavia a commettere errori dalle conseguenze più o meno gravi. La reazione spontanea è allora di giudicare colui che – per sua negligenza, le sue debolezze o dimenticanze – causa dei torti o fallimenti. Certo noi abbiamo eccellenti ragioni per giudicare il nostro prossimo: è per il suo bene, affinché impari e progredisca…
Gesù, che conosce il cuore umano, non è vittima delle motivazioni più nascoste. Dice: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo?» (Luca 6,41). Posso servirmi degli errori degli altri per rassicurarmi delle mie qualità. Le ragioni per giudicare il mio prossimo lusingano il mio amor proprio (vedi Luca 18,9-14). Ma se spio il più piccolo errore del mio prossimo, non è forse per dispensarmi dall’affrontare i miei problemi? I mille errori che trovo in lui non provano ancora che io valgo di più. La severità del mio giudizio forse non fa altro che nascondere la mia stessa insicurezza e la mia paura d’essere giudicato.
A due riprese Gesù parla dell’occhio «malato» o «cattivo» (Matteo 6,23 e 20,15). Nomina così lo sguardo torbido per la gelosia. L’occhio malato ammira, invidia e giudica il prossimo nel medesimo tempo. Quando ammiro il mio prossimo per le sue qualità ma, allo stesso tempo, mi rende geloso, il mio occhio diventa cattivo. Non vedo più la realtà così com’è, e può anche succedermi di giudicare un altro per un male immaginario che non ha mai fatto.
È ancora un desiderio di dominio che può incitare al giudizio. Per questo, nel passo già citato, Paolo scrive: « Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo?». Chi giudica il suo prossimo si eleva a maestro, e usurpa, di fatto, il posto di Dio. Ora noi siamo chiamati a «considerare gli altri superiori a se stesso» (Filippesi 2,3). Non si tratta di non tenersi in considerazione, ma di mettersi a servizio degli altri piuttosto di giudicarli.
Rinunciare di giudicare porta all’indifferenza e alla passività?
In una stessa frase, l’apostolo Paolo usa la parola giudicare con due significati diversi: «Cessiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; pensate (giudicate) invece a non esser causa d’inciampo o di scandalo al fratello» (Romani 14,13). Smettere di giudicarsi reciprocamente non porta alla passività, ma è una condizione per un’attività e dei comportamenti giusti.
Gesù non invita a chiudere gli occhi e a lasciar correre le cose. Poiché subito dopo aver detto di non giudicare, continua: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutt’e due in una buca?» (Luca 6,39). Gesù desidera che i ciechi siano aiutati a trovare la strada. Ma denuncia le guide incapaci. Queste guide un po’ ridicole sono, secondo il contesto, coro che giudicano e condannano. Senza rinunciare a giudicare, è impossibile veder chiaro per portare altri sulla buona strada.
Ecco un esempio tratto da Barsanufio e Giovanni, due monaci di Gaza del 6° secolo. Dopo aver biasimato un fratello per la sua negligenza, Giovanni è dispiaciuto vederlo triste. È ancora ferito quando a sua volta si sente giudicato dai suoi fratelli. Per trovare la calma, decide allora di non fare più rimproveri a nessuno e di occuparsi unicamente di ciò di cui sarebbe responsabile. Ma Barsanufio gli fa capire che la pace del Cristo non sta nel chiudersi in se stesso. Gli cita più volte una parola dell’apostolo Paolo: «Ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina» (2 Timoteo 4,2).
Lasciare gli altri tranquilli, può essere ancora una forma sottile di giudicare. Se voglio occuparmi solo di me stesso, è forse perché considero gli altri non degni della mia attenzione e dei miei sforzi? Giovanni di Gaza decide di non più riprendere nessun suo fratello, ma Barsanufio comprende che in effetti egli continua a giudicarli nel suo cuore. Gli scrive: «Non giudicare e non condannare nessuno, ma avvertili come veri fratelli» (Lettera 21), È rinunciando ai giudizi che Giovanni diventerà capace di una vera preoccupazione per gli altri.
«Non vogliate giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore» (1 Corinzi 4,5): Paolo raccomanda il più grande ritegno nel giudizio. Allo stesso tempo, chiede con insistenza di preoccuparsi degli altri: «Correggete gli indisciplinati, confortate i pusillanimi, sostenete i deboli, siate pazienti con tutti» (1 Tessalonicesi 5,14). Per esperienza sapeva che riprendere senza giudicare poteva costare: «Per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi» (Atti 20,31). Solo la carità è capace di un simile servizio.

 

Publié dans:biblica, meditazioni bibliche |on 10 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

Basilica di San Giovanni in Laterano, altre foto suo sito

Basilica di San Giovanni in Laterano, altre foto suo sito dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 7 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

CHIAMATI AD ESPRIMERE IL VOLTO MATERNO DELLA CHIESA

http://www.monasterodiruviano.it/vangelo-gv/dedicazione-della-basilica-lateranense-essere-chiesa/

CHIAMATI AD ESPRIMERE IL VOLTO MATERNO DELLA CHIESA

Ez 47, 1-2.8-9.12; Sal 45; 1Cor 3, 9c-11.16.17; Gv 2, 13-22

Ancora una festa particolare che quest’anno cade di domenica: è la festa della Dedicazione della Basilica Lateranense. La Basilica di san Giovanni in Laterano, edificata da papa Milziade, fu dedicata ai tempi di San Silvestro I, che fu papa dal 314 al 335; la Basilica è la Cattedrale di Roma, luogo in cui il successore di Pietro siede come Vescovo di Roma e come c
olui che presiede tutte le Chiese nella carità. In questo luogo il Vescovo di Roma insegna e custodisce la fede, in obbedienza alla vocazione ricevuta da Gesù per mezzo di Pietro di confermare i fratelli nella fede (cfr Lc 22, 32). La Basilica del Laterano è perciò considerata la madre di tutte le chiese di Roma e del mondo.
Questa festa, al di là della sua origine storica e simbolica, ci dà occasione di riflettere sul nostro essere dimora di Dio in mezzo agli uomini. I credenti sono Chiesa perchè il Signore li chiama ad offrirsi con gioia a Lui, affinché ne faccia la sua dimora.
Già il Targum (traduzione e interpretazione rabbinica) del Sal 132 così traduceva, con grande profondità spirituale, i versetti 4 e 5: “Non concederò il sonno ai miei occhi…finchè non sarò diventato luogo per il Signore, una dimora al Potente di Giacobbe”. (Il testo originale dice invece “finchè non avrò trovato un luogo per il Signore”…).
Straordinario!
Il desiderio del credente di essere spazio per il Signore nella storia diventa poi la vocazione del popolo radunato dalla Pasqua di Gesù.
La Chiesa è la dimora di Dio in mezzo agli uomini, e l’edificio in cui essa si raduna ne è simbolo, sia esso una modesta chiesetta di campagna, un’umile cappella monastica o una grande Basilica come quella del Laterano.
Celebrare la Dedicazione di una Basilica, come di ogni chiesa, è fare memoria di un evento storico del passato, ma è anche e soprattutto risentire il “grido” di Dio che, in Cristo, ci chiede di essere uno e ci proclama capaci di Lui.
Il Signore ci chiama all’unità perché solo così la Chiesa racconterà Dio, come ha pregato Gesù nell’ultima sera: “Padre…che siano uno come noi…così il mondo creda” (cfr Gv 17, 11.21).
Il Signore dichiara poi che l’uomo, come già diceva S. Agostino, è un essere “capax Dei”, un essere cioè creato per essere “luogo” di accoglienza di Dio, “luogo” di riposo di Dio, “luogo” in cui Dio può vivere e regnare.
Essere Chiesa è allora una vocazione straordinaria, è vocazione alla tensione all’uno, che negli Atti degli Apostoli viene definita con quell’“essere un cuore solo e un’anima sola” (cfr At 4, 32) con cui i credenti sperimentano la potenza della Pasqua di Gesù e ne diventano testimoni. E’ infatti la potenza della Pasqua che raduna i dispersi (cfr Gv 11, 52) e ne fa un popolo, come la Pasqua di liberazione dall’Egitto aveva fatto degli schiavi ebrei il popolo di Dio.
La Chiesa, come d’altro canto Israele, è popolo non perché protagonista di un patto orizzontale tra quelli che ne fanno parte; la Chiesa è popolo perché radunata dalla grazia, e chiamata ad essere segno tra tutte le genti di una possibilità di relazione tra gli uomini fondata su una fraternità non fittizia o simbolica, ma reale perché creata da Cristo a prezzo del suo sangue.
Questo ci fa capire che essere Chiesa è cosa grandemente seria, è cosa “grave” perché la Chiesa è impastata con il sangue di Cristo. Sì, in essa c’è anche il nostro fango, la nostra terra, ma impastati con il sangue prezioso del Figlio di Dio che ci ha amati fino all’estremo, lasciandoci così l’estremo dei comandamenti, quello dell’amore reciproco, che è l’unica credibile narrazione di Dio che noi possiamo rendere.
Altre cose non vanno mostrate…noi mostriamo, e pretendiamo di mostrare, sempre altre cose al mondo: è comodo mostrare dei simboli o dei “trionfi”; mostrare invece la nostra carne segnata dall’amore è scomodo perché è difficile e costa.
Mostrare l’amore senza pretese di contraccambio è costoso; mostrare il perdono e l’accoglienza dell’altro che “invade” i miei spazi e i miei privilegi è costoso, condividere quello che si è, e che si ha, è costoso…
E’ però l’amore costoso che Cristo chiede di mostrare al mondo, solo quello; un amore che è certo quello personale di ciascun battezzato, ma che è anche l’“abito” di cui deve essere rivestita la Chiesa.
Solo una Chiesa rivestita dell’abito dell’amore costoso si può presentare al mondo come Madre; diversamente rischia di indossare gli abiti ambigui della matrigna, che pretende di essere chiamata madre ma che di fatto non lo è, e lo dimostra con gesti e parole che una vera madre non farebbe e non direbbe.
Queste riflessioni devono toccare ciascun credente e non solo le gerarchie e le organizzazioni istituzionali; devono toccare noi, chiamati ad esprimere il volto materno della Chiesa, sempre…
Quelli che scoprono, dunque, di essere capaci di Dio si aprono all’essere “luogo per il Signore e dimora per il Potente di Giacobbe”, e questo li conduce ad essere testimoni di unità e di amore, e disposti a pagarne un prezzo.
Questo è essere Chiesa!
La festa di oggi, lungi dal farci pensare alle venerabili pietre dell’edificio che è al cuore della Chiesa di Roma, ci conduca ad una coraggiosa revisione della nostra identità ecclesiale nella costruzione del Regno di Dio giorno dopo giorno, fatica dopo fatica, prezzo dopo prezzo…

p. Fabrizio Cristarella Orestano 

OMELIA (09-11-2014) – UNA CHIESA VIVA E CORAGGIOSA NEL SEGNO DELL’UNIONE

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/32936.html

OMELIA (09-11-2014)

padre Antonio Rungi

UNA CHIESA VIVA E CORAGGIOSA NEL SEGNO DELL’UNIONE

In questa domenica celebriamo la festa della dedicazione della Basilica Lateranense che, come ben sappiamo, è intitolata a San Giovanni Battista. E’ la chiesa cattedrale del Vescovo di Roma e come tale ha una funzione simbolica molto importante nel panorama delle chiese costruite fin dai primi secoli del cristianesimo, dopo la pubblicazione dell’editto di Milano dell’Imperatore Costantino, che permise ai cristiani di professare pubblicamente il culto e quindi di realizzare e costruire le chiese ove radunarsi in preghiera e per celebrare l’eucaristia. San Giovanni in Laterano è stata la prima chiesa cattedrale di Roma dove i successori degli apostoli, i vescovi, hanno continuato a svolgere il loro ministero. In San Giovanni in Laterano si sono celebrati concili di grande importanza storica e dottrinale. La chiesa del Laterano, infatti, è la prima, per data e per dignità, di tutte le chiese d’Occidente. Essa è ritenuta madre di tutte le chiese dell’Urbe e dell’Orbe. Consacrata da papa Silvestro il 9 novembre 324, col nome di basilica del Santo Salvatore, essa fu la prima chiesa in assoluto ad essere pubblicamente consacrata. Nel corso del XII secolo, per via del suo battistero, che è il più antico di Roma, fu dedicata a san Giovanni Battista; donde la sua corrente denominazione di basilica di San Giovanni in Laterano. Per più di dieci secoli i papi ebbero la loro residenza nelle sue vicinanze e fra le sue mura si tennero duecentocinquanta concili, di cui cinque ecumenici.
Si comprende quindi il significato di questa festa. Andiamo oggi alla sorgente di quella fede uscita dalle catacombe e dal nascondimento e professata pubblicamente.
La liturgia della parola di Dio ci aiuta ad entrare nel ricordo storico, ma soprattutto nella memoria della fede che non è solo storia del passato, ma vita di oggi della Chiesa di Roma e delle chiese di tutto il mondo. La preghiera inziale della santa messa di questa festa ci immette nel clima teologico e spirituale più giusto per vivere questa giornata di gioia spirituale: « O Padre, che prepari il tempio della tua gloria, con pietre vive e scelte, effondi sulla Chiesa il tuo Santo Spirito, perché edifichi il popolo dei credenti che formerà la Gerusalemme del cielo ».
Nella prima lettura di oggi, tratta dal profeta Ezechiele. l’immagine e la visione del tempio santo di Dio è presentata come luogo di grazia. L’acqua nella sacra scrittura indica appunto tutto ciò che è dato gratuitamente dal Signore per la nostra santificazione che passa attraverso al purificazione. L’acqua del battesimo è il primo importante momento di questo cammino di santificazione nella comunità dei credenti, la chiesa quale popolo in cammino verso i pascoli della rigenerazione interiore e spirituale. E’ evidente il riferimento alla grazia rigenerante del battesimo e di ogni altra grazia santificante ed attuale che opera nel profondo del cuore e della vita del battezzato per portarlo progressivamente, attraverso le vicende dell’esistenza umana, non senza difficoltà, alluvioni spirituali, inondazioni, tracimazioni, distruzione, alla ricostruzione e alla rigenerazione dopo la tempesta e il diluvio distruttivo.
Nella seconda lettura, un brevissimo brano tratto dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi, troviamo i concetti fondamentali della chiesa come edificio di Dio, costruito con pietre vive sul basamento che è Cristo.
Nel testo del Vangelo di oggi, tratto da San Giovanni, riscontriamo un duplice atteggiamento di Gesù circa la valenza del tempio. In primo luogo vediamo come il Signore è particolarmente duro verso coloro che avevano fatto del tempio di Gerusalemme, luogo santo per eccellenza di Israele e simbolo della fede, un luogo di commercio e di sfruttamento dell’immagine di Dio per i loro tornaconti economici. Gesù caccia in malo modo quei furfanti, accusandoli di un grave peccato di simonia.
Da questo comportamento di Gesù, i discepoli fecero delle riflessioni e trassero delle conclusioni, che Giovanni, presente come sempre in tutta la vita del maestro, descrive con queste parole: « I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».
Il conseguente atteggiamento dei Giudei presenti al fatto, fu quello di prendere la parola e rivolgersi direttamente a Gesù, per sapere il suo pensiero. La domanda di circostanza fu: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Occasione buona per Gesù per richiamare l’attenzione sulla sua morte e risurrezione. Avvenimenti che accadranno di lì a poco. Dice Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù ».
Questo bellissimo brano del Vangelo di Giovanni è davvero un testo che apre il nostro cuore alle speranza e alla gioia cristiane. Non son i templi materiali, chiese e santuario, fatti di pietre e oggetti preziosi, ma sono le persone che contano davanti a Dio. La morte, la distruzione, tutto ciò che è negativo troverà la ragione per riscattarsi in vita, in positività, perché Cristo Risorto è il vincitore del peccato e della morte.
Queste fondamentali verità sono annunciate dalla Chiesa e da chi è il primo responsabile in terra di essa: il Romano Pontefice. Ed oggi che celebriamo la la dedicazione della Chiesa di San Giovanni in Laterano, questo evento ci richiama immediatamente la figura e la missione del Papa nella Chiesa e nel mondo contemporaneo.
In questo momento della nostra storia, il Signore ha posto alla guida della sua chiesa, santa e fatta anche di peccatori, Papa Francesco. Per lui, come ci chiede continuamente lo stesso Pontefice, siamo chiamati a pregare e lo facciamo con passione, amore e sincerità con questa mia umile preghiera composta da me per questa ricorrenza annuale:

Cristo, Buon Pastore,
che hai scelto alla guida della tua santa chiesa,
Papa Francesco,
assisti il Vescovo di Roma,
perché possa continuare ad annunciare,
nella fedeltà alla tua parola,
il vangelo della gioia e del perdono.

Non permettere, o Gesù, Salvatore del mondo,
che le forze del male prevalgano
nei confronti della tua chiesa,
ma con l’assistenza dello Spirito,
che è Signore e dà la vita,
possa camminare nel mondo
con la forza della vera fede
e con l’energia dell’amore che tutto perdona,
sotto la guida dei pastori che tu hai scelto per amore.

Nessuno dei membri della tua chiesa,
sia motivo di sofferenza per il Romano Pontefice,
sulle cui spalle hai messo la responsabilità
di tutto il popolo santo a te consacrato
nel fonte battesimale.

Signore Gesù, umile e mite di cuore,
proteggi Papa Francesco,
dall’indifferenza e dall’arroganza di quanti
non sentono il grido dell’umanità sofferente
e non hanno a cuore le sorti delle genti.

Conserva, Signore, il nostro amato pastore di Roma,
nella piena salute del corpo e dello spirito,
perché possa continuare a lungo
la sua missione di guida e padre
per quanti cerca con sincerità la verità.

Fa’ che nulla lo turbi e nessuno dei cardinali,
vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose, diaconi,
seminaristi, laici impegnati nel servizio pastorale,
e fedeli laici sia motivo di interiore sofferenza
per la poca fede e la scarsa adesione al vangelo dell’amore,
della pace, della giustizia e della fratellanza universale.

Maria, la Regina degli apostoli, renda feconda
l’attività missionaria, spirituale e morale
di Papa Francesco, nostro illuminato maestro nella fede
e guida sicura sulle strade del vangelo che portano al cielo,
nella consapevolezza che si è chiesa sotto la guida
dell’unico pastore, che è Cristo Signore. Amen

 

The Angelus by Jean-Francois Millet, c. 1858.

 The Angelus by Jean-Francois Millet, c. 1858. dans immagini sacre millet-angelus-X-1024x849

http://insidethevatican.com/news/analysis/america-and-catholic-social-teaching-an-urgent-warning

Publié dans:immagini sacre |on 6 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

LA PREGHIERA DELL’ANGELUS DOMINI

http://www.nova3.com/parrocchie/_devozioni/angelus_domini.htm

LA PREGHIERA DELL’ANGELUS DOMINI

La preghiera dell’Angelus Domini, è piccola come un chicco di grano, è breve come un respiro, ma in realtà, se ben compresa, è una lode più estesa del mondo, più grande dell’universo, perché, sia pur brevissimamente, ci parla di Dio, di Gesù Cristo, Spirito Santo, della Madonna, dell’Incarnazione del Signore, della Redenzione: che sono il fondamento della nostra fede Cristiana.

L ‘Angelus Domini è il granellino di senapa che può diventare:
al mattino, luce di sole che illumina il nostro cammino;
a mezzogiorno, forza del nostro lavoro;
al tramonto, serena nostalgia dei cieli ai quali siamo avviati.

LA PREGHIERA
L’Angelo del Signore portò l’annuncio a Maria.
Ed ella concepì per opera dello Spirito Santo.
Ave, o Maria.

Ecco l’ancella del Signore.
Sia fatto di me secondo la tua parola.
Ave, o Maria.

E il Verbo si è fatto carne.
Ed ha abitato fra noi.
Ave, o Maria.

Prega per noi santa Madre di Dio.
E saremo degni delle promesse di Cristo.

Preghiamo: infondi nel nostro spirito, la tua grazia, o Padre, tu, che nell’annuncio dell’angelo ci hai rivelato l’incarnazione del tuo Figlio, per la sua passione e la sua croce guidaci alla gloria della risurrezione. Per Cristo nostro Signore. Amen.
Tre Gloria.

NOTE STORICHE
La preghiera dell’Angelus Domini (L’Angelo del Signore) del mattino, del mezzogiorno e della sera, ha una storia molto bella.
Fu cara a sommi Pontefici, in particolare al Papa Paolo VI, e « carissima » a Papa Giovanni Paolo Il che l’ha costituita momento d’incontro con i fedeli di tutto il mondo, in piazza san Pietro, per le sue esortazioni paterne, per le sue conversazioni amichevoli, confidenziali.
Prima di tutto vogliamo sottolineare che Paolo VI l’ha inclusa nel suo documento meraviglioso sulla devozione alla Madonna e che porta il titolo di: « Marialis cultus « : la devozione alla Madonna. E’ uno dei trattati più belli di tutti i tempi sulla Madre di Dio; senza dubbio il migliore del Concilio e dopo il Concilio Vaticano Il. Papa Montini esorta a mantenere viva la consuetudine di recitarlo ogni giorno.
La prima notizia dell’Angelus Domini risale al 1269, al tempo in cui era Generale dell’Ordine francescano san Bonaventura da Bagnoregio, detto il « dottore serafico ». Fu un Capitolo Generale dei Frati Minori tenutosi a Pisa in quell’anno che prescrisse ai religiosi di salutare la Madonna ogni sera con il suono della campana e la recita di qualche Ave Maria, ricordando il mistero dell’Incarnazione del Signore.
Il noto letterato fra Bonvesin de la Riva, milanese, vissuto dal 1240/50 al 1313, appartenente all’Ordine degli Umiliati, fece sua la disposizione dei frati francescani ordinando alla città di Milano e dintorni di suonare ogni sera l’Ave Maria. Ricordiamo che il Bonvesin fu il più geniale anticipatore di Dante con la sua opera che porta il titolo di:  » Libro delle tre scritture « . De scriptura nigra, nel quale descrive le pene dell’inferno. De scriptura rubea, con la quale fa una commossa rievocazione della Passione del Signore. De scriptura aurea, una entusiastica esaltazione del Paradiso.
Da Milano la pia usanza si estese un po’ dovunque. La notizia giunse agli orecchi di Papa Giovanni XXII (1245-1334) il quale non solo la incoraggiò, ma diede ordine al suo Vicario Generale di Roma di far suonare la campana ogni giorno, perché la gente « si ricordi » di recitare tre Ave Maria in onore dell’Annunciazione di Maria, detta comunemente « il saluto dell’Angelo « .
Il cammino continuò sempre più spedito. Dalla sera si passò anche al mattino, a partire dal 1400 in poi. Nel 1456 il papa Callisto III prescrisse il suono delle campane dell’Angelus anche a mezzogiorno con la recita di tre Ave Maria.
Il re Luigi Xl ordinò, in Francia, il suono delle campane invitando i suoi sudditi a ricordarsi della Vergine Madre di Dio, e lui stesso all’annuncio scendeva da cavallo e s’inginocchiava sulla nuda terra.
Il pittore francese, Gianfrancesco Millet (1814-1875), ha un bellissimo quadro dal titolo: « Angelus « , nel quale, verso sera, al tramonto, un giovane e una giovane, forse una famigliola composta di marito e moglie, interrompono il lavoro dei campi, e, ripiegati su se stessi quasi alla ricerca di un genuflessorio, recitano l’Angelus della Madonna, al suono di una campana lontana ma percepibile… (foto di copertina).
Il nostro Giovanni Segantini (1858-1899) dipinse una tela stupenda: « Ave Maria a trasbordo »: una barca, sulla sera, trasborda delle persone all’altra riva del lago, del mare, del tempo… all’eternità, al suono della campana in sinfonia con la preghiera dell’Angelo: « Ave Maria ».

Ave Maria! Quando su l’aure corre
l’umil saluto i piccioli mortali
scovrono il capo, curvano la fronte
Dante ed Aroldo. (G. Carducci).

L’autore nella lunga esplicativa che pone a questi suoi versi, ricorda che nella seduta del 20-12-1889 del Consiglio Provinciale di Forli, venuta in discussione la spesa per la chiesa « polentana », opponendo alcuno non doversi gittare danaro del pubblico per conservare chiese, quando il meglio sarebbe buttar giù quelle anche in piedi, Aurelio Saffi, il nobilissimo mazziniano, che presiedeva l’adunanza, parlò da quell’uomo colto e savio che era, e disse fra l’altro: « Quale italiano non vorrà conservata e onorata una chiesa dove Dante pregò?’ « . Allora tutti quei repubblicani votarono la spesa per la chiesa di San Donato (Chiesa che apparteneva ai signori da Polenta, la famiglia che diede ospitalità a Dante Alighieri).
Il poeta plaude al voto favorevole.., e, nella seconda metà del luglio 1897 canta quella chiesetta, assomigliandola ad una ‘madre vegliarda’ che continua a parlare ai figli con la rinata voce delle sue campane:

salve, chiesetta del mio canto! A questa
madre vegliarda, o tu rinnovellata
itala gente da le molte vie,
rendi la voce

de la preghiera: la campana squilli
ammonitrice: il campanil risorto
canti di clivo in clivo a la campagna:
‘Ave Maria’.

(dall ‘Enciclopedia Cattolica)

« Se le mutate condizioni dei tempi hanno oggi spento la voce ammonitrice di tanti nostri campanili, è pur vero che invariati rimangono, per la maggior parte degli uomini, quei momenti caratteristici della giornata: mattino, mezzogiorno e sera, i quali segnano i tempi della loro attività e costituiscono un invito ad una pausa di preghiera » (Paolo VI).
Avanti viaggiatore. Affidando a Maria i momenti caratteristici della giornata: – il mattino della giovinezza – il mezzogiorno della maturità – la sera della terza età o del tramonto – l’uomo mette fiducioso nelle mani di Lei le gioie e i dolori, le speranze e le certezze della sua esistenza.
« Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi, peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte « .
Avanti, o viaggiatore, perché è scritto nel libro della consolazione d’Israele che:  » . . .quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi » (Is 40,31).
Se, nel frastuono della vita moderna atomizzata e sconvolta, questa pia consuetudine fosse caduta in disuso, ripristiniamola nella nostra devozione e nelle nostre famiglie. Torniamo a recitare devotamente la breve preghiera dell’ »Angelus Domini « .

testi e immagini tratti da pubblicazioni a cura di p.Giuseppe Battocchio – Madonna dei Miracoli – Motta di Liv.(TV)

Publié dans:Angelus Domini, STUDI |on 6 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

IL MISTERO DEL TEMPO

Ihttp://www.tanogabo.it/religione/tempo_dio.htm

IL MISTERO DEL TEMPO

Michael McDermott

Un Giubileo ha certamente a che fare con le cifre ed il tempo, ed in special modo il Grande Giubileo che coincide con la nascita di nostro Signore. Giustamente la Tertio Millennio Adveniente dedica il suo secondo capitolo ad una meditazione sul tempo. Giacchè il tempo è un mistero. In un certo senso esso rappresenta la realtà più ovvia e superficiale. Tutti lo misurano con ogni genere di orologi e programmano gli incontri in funzione di esso.
Eppure, che accadrebbe se tutti gli orologi smettessero di funzionare? Si fermerebbe il tempo? Gli orologi evidentemente non ci danno il tempo si limitano a misurarlo quale è. Aristotele definì il tempo «il numero del movimento secondo il prima e il poi». Ma la nostra epoca post-Einsteiniana ha conosciuto la relatività del tempo. Il moto può essere calcolato in misura diversa da prospettive diverse entro un universo in movimento. Non esiste un punto fisso fuori dell’universo dal quale il tempo possa essere misurato universalmente né può essere fornito uno standard oggettivo.
Cos’è dunque il tempo. Nella sua famosa meditazione nelle Confessioni Agostino decise che il tempo «è un’estensione dell’anima» a successione di stati psichici tramite la memoria e l’anticipazione. Ma questa risposta è soltanto parziale in quanto l’anima tesa a misurare è essa stessa avvolta dal tempo. La misurazione implica un inizio ed una fine. Se il tempo va oltre l’uomo, come può essere misurato? Il tempo sembra piuttosto misurare l’uomo.
Cos’è dunque il tempo? Come osservò Agostino, il passato non esiste più ed il futuro non esiste ancora. Il presente è fuggevole ed alla stregua di un punto di fuga di un paradosso Zenoniano può essere suddiviso all’infinito. Nel momento in cui lo misuriamo esso è già passato. L’espressione latina, Tempus fugit, coglie bene il paradosso, giacchè il verbo riflette al contempo presente e passato: nello stesso momento «il tempo fugge» ed «il tempo è fuggito».
Da dove proviene e dove fugge il tempo ? Poiché l’uomo non controlla né il suo inizio né la sua fine, egli non può rispondere a questa domanda. In un linguaggio più filosofico il tempo è radicato nella potenza della materia e la materia è inintelligibile all’uomo. Ragion per cui la questione del tempo riflette la questione dell’esistenza umana. Perché passa la scena di questo mondo. ( I Cor. 7,31)
Come può l’uomo gestire il tempo, un tempo che fornisce la «sostanza» della propria esistenza terrena e tuttavia minaccia la sua stessa esistenza? Le religioni naturali tentarono di legare il tempo alla ciclicità delle stagioni, immaginando questi eventi come riflessi di eventi celesti. Ma l’eterno ritorno debilita l’azione dell’uomo e svuota il tempo del suo significato. Le religioni più elevate e speculative riconoscono che la salvezza può consistere solo nella fuga dal ciclo della reincarnazione, dal tempo e da ogni limitazione verso la beatitudine di una conoscenza illimitata o verso il suo equivalente, la mancanza di conoscenza. Ma tale visione distrugge definitivamente il significato di questo mondo e di tutto ciò che accade in esso.
L’uomo è preso in una trappola: egli deve vivere bene nel mondo senza attribuire ad esso alcun significato. La rivelazione giudaico-cristiana contraddice ogni saggezza meramente umana proclamando che il tempo ha un inizio ed una fine e ciò che accade nel tempo ha un significato eterno. Dio dà al tempo un inizio ed una fine e poiché Dio è amore non vi può essere alcuna opposizione finale tra Infinito e finito, l’eternità ed il tempo, Dio e l’uomo. Dio ha creato il tempo affinché la libera creazione potesse tornare a Lui. La creazione non è avvenuta perché un Dio amorevole l’ha posta in essere, e tuttavia ciò non implica una diminuzione o limitazione di Dio giacché viene dal nulla (ex nihilo). La creazione esiste in se stessa sebbene sia interamente riconducibile a Dio. Il Tempo quindi diventa il luogo d’incontro fra Dio e l’uomo, il luogo di libertà quando l’amore risponde all’Amore. La vera struttura della libertà implica la congiunzione tra Infinito e finito, Assoluto e relativo. Se l’uomo fosse incapace di incontrare l’Assoluto egli non avrebbe alcuna ragione ultima per qualsiasi scelta. Qualunque ragione addotta potrebbe essere relativizzata e la scelta diventerebbe arbitraria. Parimenti, neppure un immediato incontro con l’Assoluto priverebbe l’uomo della libertà di scelta. Poiché non vi sarebbe alcuna distanza, la libertà umana di scelta sarebbe sopraffatta, come nella visione beatifica dalla necessità di scegliere il Bene Supremo. Solo nella congiunzione tra Assoluto e finito la libertà umana è resa possibile. Il finito fornisce la distanza che garantisce che quella scelta non è obbligata mentre l’Assoluto motiva la scelta stessa.
In ciò si riflette l’intera struttura sacramentale del cattolicesimo per cui il Dio infinito si rende presente in una forma finita che richiede un risposta d’amore totale e dalla risposta dell’uomo dipendono la sua eterna salvezza o la sua dannazione. Questa struttura sacramentale era presente nella creazione di Adamo ed Eva che furono creati ad immagine di Dio che è Amore. Nel loro amore matrimoniale, un sacramento della creazione, Dio era presente come suo fondamento, forza e obiettivo. Il loro amore manifestava e rifletteva l’amore che è Dio. Sfortunatamente il peccato è entrato nel mondo. Quando Adamo proclamò Eva carne dalla mia carne o osso dalle mie ossa dopo il peccato non vollero assumersi la responsabilità dei loro atti, ma l’attribuirono ad altri ; e così la loro unità risultò distrutta (Gen. 2,23 ; 3,11-13). Avendo distrutto l’immagine divina dell’amore, gli uomini non sarebbero più stati capaci di trovare Dio in un mondo di peccato. Non vi sarebbe alcuna ragione per amare, né per cercare l’Assoluto. Il mondo sarebbe senza senso e l’uomo potrebbe assolutizzare il finito o disperare in tutti i sensi.
Sebbene l’uomo abbia respinto l’amore, l’Amore non ha respinto l’uomo. Già nel cacciare l’uomo dal Paradiso, notava S.Ireneo, Dio mostrò la Sua misericordia, sostituendo alle pungenti foglie di fico che ricoprivano le nudità di Adamo ed Eva indumenti di pelle. Con Abramo i ripetuti interventi divini diventarono storia pubblica poiché Egli formò un popolo particolare Suo proprio in previsione della incarnazione del proprio Figlio. Poiché Gesù è l’incarnazione dell’Amore, gli uomini dovevano possedere qualche conoscenza di ciò che era stato loro offerto come il più grande dei misteri. Il Vecchio Testamento preparò il Nuovo, istruendo gli uomini all’amore fedele di Dio e all’umano peccato, alla necessità di un Salvatore per vincere la durezza del cuore. Il Tempo è visto quindi come una preparazione a Cristo. Come ha scritto il Papa, «il Tempo è in effetti rappresentato dal fatto autentico che Dio, nella Incarnazione, si è calato nella storia umana» (TMA 9). In Gesù l’Assoluto ed il finito sono riuniti nella stessa persona in modo indissolubile. Dio offre Se stesso all’uomo, rinnovando l’immagine di Dio e facendola riflettere pienamente e sacramentalmente l’amore di Dio. Il mistero dell’amore è reso più manifesto e l’incarnazione dell’Amore consente all’uomo di incontrare Dio nel modo più chiaro possibile in un mondo di peccato. Proprio perché l’umanità di Gesù è pienamente umana essendo legata alla persona divina, il Tempo resta finito. Esso non è assolutizzato bensì salvato. E’ diventato in pienezza il luogo d’incontro delle libertà divine ed umane. Poiché l’Assoluto è penetrato nel tempo, Eschaton è giunto Il Tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino ;convertitevi e credete al Vangelo .(Mc 1,15)
Come rivelazione divina Gesù non può essere superato. Poiché non vi è nessuno più grande di Dio. Egli chiama gli uomini ad una assoluta adesione, per seguirlo anche fino alla morte. La libertà degli uomini deve essere realizzata congiungendosi personalmente a Gesù nella libertà e formando così il Suo Corpo, la Chiesa. L’obiettivo è stato raggiunto, il luogo della promessa e dell’amore realizzati.
Essa è inoltre il luogo della crescita nella pienezza, verso una più grande pienezza. Il «già» della presenza di Dio non distrugge ma potenzia il «non ancora» della risposta della libertà umana. Nella chiamata di Gesù all’apostolato che comporta il sacrificio e la relativizzazione del mondo intero (Mc 8,34-38) l’onnipotenza di Dio si è manifestata non per distruggere la libertà dell’uomo bensì per realizzarla.
L’«indicativo» dell’amore di Dio realizzato storicamente nella croce di Gesù e nella Resurrezione è il fondamento dell’«imperativo» dell’apostolato. L’amore di Dio ha fatto di tutto per liberarci dall’egoismo ma la nostra risposta dipende anche da noi. Così il Tempo conserva il suo significato per il cristiano. Non più una preparazione per Cristo, ma una vita ricolma di pienezza. E’ la sovrabbondanza dell’Amore incarnato, una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo (Lc. 6,38). Da questa sovrabbondanza scaturisce la missione cristiana, l’evangelizzazione. L’amore cristiano è naturalmente espansivo e Dio chiama tutti gli uomini ad esso. Talvolta i non credenti sono chiamati a diventare cristiani ed i cristiani sono sfidati a diventare ancor più se stessi, e ad identificarsi sempre più in Cristo, pienezza dell’Amore, pienezza del Tempo, l’Alfae l’Omega (Apoc. 1,8 ; 21,6), unendosi alla Chiesa, il suo Corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose per realizzare il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra. (Eph.1,10-23) Cristo è la misura ultima che contiene tutto il tempo e lo riporta a Dio.

 

Publié dans:STUDI, TEMI INTERESSANTI |on 6 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

« …abbiamo questo tesoro in vasi di creta… »

http://mypoemseveryday.wordpress.com/tag/treasures-in-jars-of-clay/

Publié dans:immagini |on 5 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

LA FRAGILITÀ DI GESÙ

http://www.sullasoglia.it/articoli-casati/dicembre-2013.htm

LA FRAGILITÀ DI GESÙ

per la rivista Esodo 2013

Alle orecchie dei devoti, dei troppo devoti, può sembrare pericoloso o addirittura dissacrante parlare di una « fragilità » di Gesù. Quasi fosse attentato devastante alla sua divinità. Ma saremmo falsamente devoti al mistero che abita Gesù se, allontanando sdegnosamente da lui ogni ombra di fragilità, finissimo per cancellarne ogni ombra di vera umanità. E dovremo forse chiamare ombra la fragilità di Gesù? O non appartiene forse alla nostra natura l’essere fragili?
Ci sono fragilità nella nostra natura che vanno, se pur faticosamente, superate, ce ne sono altre che vanno semplicemente riconosciute. In sincerità. In sincerità verso Dio e verso se stessi.
Questo mio discutibile dire in modo rapsodico di Gesù e della sua fragilità va per accensioni che nascono dalle pagine dei vangeli. Il mio dire non ha dunque la pretesa delle sintesi teologiche, segue domande e provocazioni che si rincorrono perdutamente nelle pagine e poi nel cuore di un lettore comune del vangelo. Pensieri in attesa di altri pensieri.
Nato da donna, scrive Paolo. Da un grembo di donna. Fragile quel cucciolo d’uomo, fragile il grembo, come tutti i grembi di donna. Sgusciò in un contesto di fragilità, una lampada fioca in mano a Giuseppe, forse l’altra mano – sto immaginando – a stringere tenera quella di Maria, a darle spinta di forza nel travaglio del parto. Fragile, inerme il bimbo, in bisogno di fasce, di fasce e di latte, quello della madre. Nato da donna. Donna che lo introdusse, mettendolo alla luce, nel territorio della fragilità.
Lo introdusse così nella fragilità del corpo. Che lui accusava come tutti noi. Accusava stanchezza a tal punto da prendere sonno, e profondo, sulla barca nella traversata in piena notte del lago e nemmeno la bufera delle onde a svegliarlo. Accusava stanchezza e pure sete. Quel mezzogiorno in una delle sue traversate di regione sentì morso di sete, seduto stanco a un pozzo di Samaria chiese da bere a una donna in cerca di pozzi. Come tutti noi non risparmiato dalla fame, lo annotano gli evangeli: era mattino di inizio aprile, il giorno prima era entrato a dorso di puledro in Gerusalemme, quel mattino mentre usciva da Betania ebbe fame, ma il fico cui erano andati i suoi occhi aveva bellezza di forme ma vuoto di frutti. Ci rimase male.
A volte poi non gli reggevano proprio le forze fisiche, se ne accorsero quel giorno, poco fuori il pretorio, quando costrinsero un uomo di Cirene a portare dietro lui la sua croce.
Direi, approfondendo, come tutti noi fragile nel territorio dei sentimenti.
Non era roccia immobile, nè quercia con fronde impassibili a urli di bufere. Non tetragono come quelli che sbandierano indifferenza agli assalti della vita, pagò lungo i suoi giorni debiti di fragilità, come succede a ciascuno di noi.
A volte a scuoterlo, ad amareggiarlo sino a farlo impetuosamente dolorosamente sbottare senza quasi più contenersi, era la nostra avvilente ottusità: « O generazione incredula! Fino a quando sarò con voi, fino a quando dovrò sopportarvi? ».
Certo non si preoccupava di trattenere se stesso in sequestro assoluto dei sentimenti, quel sequestro che in taluni uomini di spirito sembra a volte, o spesso, sfiorare l’impassibilità. Non preoccupato di guardarsi dall’accensione dello sdegno, né di guardarsi, se è debolezza, dall’accensione improvvisa dei sogni. E, se cedere ad accensioni rimane nella mente di qualcuno sintomo di fragilità, Gesù proprio non mise in atto nessun esercizio per sfuggirla.
La sua predicazione senza diplomazie, soprattutto verso le autorità religiose, conobbe i toni aspri e ruvidi, quasi impietosi, senza nascondimenti e senza contenimento, con l’esito di opposizioni altrettanto dure, violente, segnali per lui di una morte annunciata. Accadde anche che qualche volta i discepoli stessi lo invitassero a moderare i toni. Ma lui resistente a ogni invito che suonasse cedimento a calcoli umani. Gli interessava Dio, gli interessava la difesa a tutto campo della dignità di noi umani. Schiettezza senza moderazione a prova di morte.
Lo consumava, senza moderazioni di sorta, zelo per la casa di Dio , per il vero volto di Dio e dell’uomo. E tutti noi a ricordare ciò che avvenne nell’avvicinarsi di quella pasqua. Un gesto voluto. Giovanni annota il particolare di Gesù che annoda le cordicelle per farne una sferza: « fatta allora una sferza di cordicelle… ». Consumato dallo zelo, cacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi. E non si limitò, non si contenne, non gli bastarono le parole: « Gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi e ai venditori di colombe disse: Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato ». Fragile davanti alle emozioni?
Lontano anche dall’ideale dell’uomo di spirito che ha in somma cura l’arte di sorvegliarsi, allontanandosi da ogni forma di eccesso persino nei sogni. Per fedeltà spenta al reale. Non è forse vero che un giorno i discepoli, di ritorno da una compera di cibo nel villaggio più vicino, lo trovarono a parlare con la donna di Samaria, così preso dall’acqua, che la sua parola aveva disseppellito dal cuore della donna, da abbandonarsi a visioni di sogno? Lui in quel sole caldo li invitò sorprendendoli a contemplare campi biondeggianti di grano in anticipo di mesi. Quanti maestri dello spirito gli avrebbero gridato di guardarsi da quelle farneticanti esaltazioni invocando un minimo di moderazione!
I vangeli, a differenza di quello che avremmo fatto noi perché non apparissero in lui ombre di « debolezza », non nascondono, non censurano, anzi raccontano senza esitazioni di sorta i suoi turbamenti.
Un turbamento sino al pianto. Non stava certo nella figura dell’uomo forte, quello che non si scompone, che tiene alto il suo profilo in ogni evenienza. Turbato sino al pianto, narra il vangelo. Pianto per morte di un amico. Né si preoccupò di nascondere quella che alcuni ancora chiamano fragilità e debolezza. Apertamente. Tutti lo videro, tutti a dare testimonianza di quanto lui amasse Lazzaro.
La fragilità dell’anima turbata. C’è chi non si lascia mai turbare nell’anima, imperturbabile, c’è chi nasconde il suo turbamento. C’è chi come Gesù il turbamento lo patisce straziante ruvido sulla pelle scorticata, sente il cuore tremare e lo confessa senza falsi pudori.
Non ho titolo accademici per confortare una tesi, ma mi ha sempre colpito un confronto tra il racconto delle tentazioni subite da Gesù nei quaranta giorni passati nel deserto e il racconto delle tentazioni subite da Gesù durante la sua esistenza e in modo particolare nell’ultimo scorcio della sua vita. Il racconto del deserto sembra, mi si perdoni, cancellare ogni figura di fragilità. Mi sono chiesto se gli evangelisti volendo raccontare la vittoria sulla tentazione non abbiano calcato sulla libertà estrema luminosa del Rabbi di Nazaret che sfugge, ed è affascinante, ad ogni sequestro e imprigionamento. Mi sono chiesto se gli evangelisti nell’intento di raccontarci l’atto estremo, quello conclusivo, vittorioso delle tentazioni non siano nelle stesso tempo incappati nella necessità, forse non voluta, di sottacere il percorso psicologico e il travaglio che segnarono anche duramente corpo mente e cuore del Signore nel cammino verso un simile atto di libertà e di amore, estremi!
Stando al racconto dei vangeli non potremmo certo dire che Gesù le scelte, soprattutto quelle estreme, le abbia affrontate con animo spavaldo, bensì pagando alla fragilità umana un caro prezzo. Scelta a caro prezzo dentro un debito di confessata riconosciuta debolezza. Dentro un debito di vero, non finto turbamento.
Il pensiero mi corre a un giorno che per Gesù già odorava di passione, passione estrema. Vicina era la Pasqua. Tra quelli saliti per il culto c’erano anche dei Greci. Forse non giudei? O forse proseliti? Non sappiamo. Comunque non gente del recinto, non appartengono al recinto d’Israele. Si sentono attratti da un desiderio. Di vedere Gesù: « Signore, vogliamo vedere Gesù » dicono a Filippo. Quelli vogliono vedere Gesù. E non sono del recinto. E allora Filippo prende con sé Andrea, vanno in due a parlarne a Gesù. Ma lui risponde in modo enigmatico. Risponde: « E’ giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo ». Trono della gloria per lui è la croce. La croce per lui il luogo – è paradossale dirlo – della massima attrazione: « quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me ». E’ come se Gesù pensasse: arrivano anche i pagani? Anche loro attratti? Ma allora è vicina l’ora della croce, l’ora della attrazione che di più non si può. Che cosa vedrà quel gruppo di Greci? Vedranno un chicco di grano cadere nella terra. Gesù ha davanti agli occhi la vicenda del chicco di grano. Ebbene l’ora della sua morte non la affronta in modo spavaldo, come fosse un passaggio naturale. No, anche lui turbato. Turbato da questi greci che con la loro presenza gli ricordano che l’ora della discesa nella terra è vicina. E Gesù si svela, si svela nel suo turbamento, nella sua fragilità. Non è come noi che ipocritamente, per falsa immagine di spiritualità, vogliamo esibire una fede senza turbamenti. Lui dice: « Ora l’anima mia è turbata ». E sarebbe anche tentato di allontanare quell’ora.
Aggiunge: « E che devo dire allora? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora. Padre, glorifica il tuo Figlio ». Gesù non chiede di essere risparmiato, ma di essere glorificato. Il legno diventerà il luogo della gloria. Accoglie la sua ora, ma dopo aver attraversato senza sconti il mare del turbamento dell’anima, il mare della sua fragilità.
Ebbene per uno come me che cerca, da povero cristiano, di spiare Gesù e la sua vita, per lasciarsene in qualche misura contagiare, è fonte di non povera consolazione il fatto che Gesù stesso nel suo cammino verso la croce abbia conosciuto fragilità e turbamento. Lo confesso, me lo sarei sentito meno vicino, meno compagno del viaggio, se non ne avesse spartito con me il turbamento, se verso la morte fosse andato con passo spavaldo, da eroe, il forte cui non trema il cuore.
Leggo nei vangeli che, nell’orto, in vigilia di morte « cominciò a spaventarsi e a sentire angoscia ». Confessò tristezza: « Ora – disse – l’anima mia è triste fino alla morte ». E gli ulivi lo videro sudare sangue di morte.
Messia chino sulle debolezze degli umani, abitò la nostra esistenza, una fragile tenda, un telo di vento. Abitò la nostra fragile carne.
Superò la fragilità, anche quella estrema, oserei dire, con un nome che si affaccia, costantemente, connessione intrigante, nell’ora della debolezza: « Padre ». « Padre » nell’ora dell’arrivo dei greci: « Ora l’anima mia è turbata. Che devo dire? Padre salvami da quest’ora? Padre, glorifica il tuo Figlio ». « Padre » ancora nella notte degli ulivi: « Padre, se vuoi allontana da me questo calice: tuttavia non sia fatta la mia ma la tua volontà ». « Padre » nell’ora della croce dopo l’urlo che ferì il cielo, « Dio mio Dio mio, perché mi hai abbandonato », urlo, estrema fragilità. Dopo l’urlo l’invocazione struggente, pure grido a gran voce: « Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito ». Una fragilità consegnata alla preghiera, sollevata dalla fiducia in un Padre che non abbandona nel grido i suoi figli.
Ci emoziona nella preghiera di Gesù quel perseverare, nonostante tutto, a dare a Dio il nome di Padre, con una confidenza che ci rabbrividisce: « Abbà! ». Ci rabbrividisce, e ci insegna una immagine più autentica di preghiera. Dentro un dilemma: pregare perché ci siano risparmiati i passaggi faticosi, le tempeste della vita o pregare perché non veniamo meno, perché non ci sentiamo soli e abbandonati nell’attraversamento? Come ci fa pregare il salmo: « Anche se vado per valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me » (Sal 23,4).
Nella fragilità, a sostegno, Gesù cercò il volto di Dio. Dobbiamo però, per debito di verità, aggiungere che nel momento della fragilità lui cercò anche volti di amici, senza minimamente velare questo suo bisogno profondo di vicinanze anche umane. Mendicante di amicizie e di affetti.
Il racconto del giardino narra quel suo andare in cerca degli amici e la desolazione di trovarli addormentati, quasi non ci fossero. Per tre volte disegnati nel racconto quei passi in ricerca, per tre volte raccontata la delusione: « Venne e li trovò addormentati…venne di nuovo e li trovò addormentati…venne per la terza volta e disse loro: Dormite pure e riposatevi. Basta! E’ venuta l’ora: ecco il Figlio di dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi e andiamo ».
Una fragilità la sua, come la nostra che anela ad essere riconosciuta e sollevata da chi ti ama. I vangeli ci raccontano di Gesù che, nei primi giorni della settimana che vide la sua passione e la sua morte, cercava rifugio, rifugio del cuore, passando le sere e le notti a Betania, in casa di amici. Aperta la porta per l’amico, l’amico che sentiva la pressione, ormai vicina, delle croce.
E non fu proprio a Betania che all’inizio di quella settimana che si preannunciava decisiva, decisiva di morte, per Gesù, una donna amica, Maria, in quella cena si accorse, lei sola, del segreto che pesava sul cuore del suo amico e maestro, ora che il cappio stava per soffocarlo una volta per sempre? E lei a ungerlo e a profumarlo con un profumo che fece gridare tutti per l’eccesso di uno spreco! E Gesù, a fronte dei discepoli così lontani dal capire che cosa gli passasse nel cuore, a difenderla: lei era arrivata, con gli occhi di chi ama, a intravedere, a capire, ad accogliere un bisogno segreto del cuore.
Dono, per chi attraversa il buio della fragilità, la luce che pulsa dal volto di un amico, di una amica. Dono inestimabile è avere al fianco uno che ti legga nel cuore, uno che vegli sulla tua angoscia, consapevole di non potertela purtroppo cancellare, ma pronto a portarla con te. Gesù sembra raccontare la improponibilità di una fede, in forza della quale presuntuosamente si arrivi a dichiarare che basta Dio a noi stessi.
Cercò il volto del Padre, cercò il volto degli amici.

Angelo Casati

Publié dans:meditazioni bibliche |on 5 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

FAMIGLIA E FRAGILITÀ ALLA LUCE DELLA FEDE

http://www.fttr.it/pls/fttr/v3_s2ew_consultazione.mostra_pagina?id_pagina=1361

FAMIGLIA E FRAGILITÀ ALLA LUCE DELLA FEDE

Facoltà Teologica del Triveneto, Giornata di studio

«Fragile come frantumabile e quindi bisognoso di attenzione e di cura perché prezioso» così il preside della Facoltà teologica del Triveneto, prof. Roberto Tommasi, citando le Etimologie di Isidoro di Siviglia, ha aperto la giornata di studio svoltasi mercoledì 14 novembre 2012 nell’aula tesi della Fttr, promossa dal biennio di specializzazione in teologia pastorale e dedicata al tema La famiglia nelle situazioni di fragilità. Non c’è solo un negativo in quell’aggettivo “fragile”, dunque, ma pure un positivo, che chiede la salvaguardia di ciò che è vulnerabile, sia costitutivamente sia per cause contingenti. Sulla fragilità come condizione dell’umano si è soffermato l’intervento di Riccardo Battocchio, docente di teologia sistematica alla Fttr (Il limite, la fragilità, il peccato. Contributi dell’antropologia teologica all’interpretazione della condizione umana). C’è una fragilità ontologica (il limite ci definisce come esseri finiti, come creature), una fragilità esistenziale (le tensioni che abitano la vita degli umani), una fragilità teologica (il peccato che è, alla radice, un’assolutizzazione di sé, un rifiuto della propria finitudine). Questa fragilità “nativa”, nei tre sensi indicati, «non deve essere vista in negativo – ha sottolineato Battocchio – ma richiamare piuttosto a un sereno rapporto con l’“umano”, evitando la contrapposta retorica dell’auto-assoluzione (siamo fragili: non è colpa nostra) o dell’esercizio del potere (siete fragili: dovete affidarvi a me)». Se la fragilità non si può escludere, dunque, bisogna avere l’onestà di riconoscere i limiti e il coraggio di fare i conti con le fragilità esistenziali.
In tutto ciò l’uomo, e la famiglia, non sono lasciati soli. In tutta la Scrittura la vicenda amorosa dell’uomo e della donna risulta intrecciata con quella del loro rapporto con Dio: la solidità coniugale trova fondamento nella rivelazione cristiana e nel legame con Cristo. Proprio allo sviluppo di questo aspetto è stata dedicata la relazione di Aristide Fumagalli, docente di teologia morale al seminario arcivescovile di Milano (L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto. Fragilità e solidità coniugale alla luce della Bibbia). « Il matrimonio cristiano – ha detto – non è il legame amoroso che un uomo e una donna stabiliscono in proprio, ma il legame tra un uomo e una donna che sorge a causa dell’amore di Cristo. Ciò che Dio congiunge indissolubilmente, “sicché non sono più due, ma una sola carne”, e che dunque è inseparabile dall’uomo, non sono immediatamente un uomo e una donna, pur innamorati, ma un uomo e una donna che si amano in Cristo, che cioè, pur con tutto il realismo di chi rimane debole e peccatore, fanno del “come” Cristo ha amato il criterio ispiratore e la forza vitale della loro relazione amorosa. Sembra dunque di poter dire che l’unione prospettata all’uomo e alla donna è a loro donata da Cristo, il quale, per mezzo dello Spirito, li unisce attraendoli a sé». Fumagalli ha concluso: «La chiesa è invitata a prendere in seria considerazione la “drammatica matrimoniale”, nella quale la grazia si offre certo come risorsa decisiva affinché l’amore di coppia sia solido, sino all’indissolubilità, senza tuttavia che si possa escludere la fragilità, data l’eventualità che i due, essendo liberi, non corrispondano alla grazia loro donata di amarsi come Cristo ha amato, “sino alla fine”».
E se la famiglia non ce la fa? Se la frattura fra i coniugi è irreparabile? La ricerca di una risposta alla questione è stata affrontata da Basilio Petrà, docente di teologia morale alla Facoltà teologica dell’Italia centrale (Quando le fragilità diventano fallimento…). Di fronte al fallimento matrimoniale e alla possibilità di nuove unioni, ha spiegato, già dal primo millennio le chiese hanno messo in atto due tipi di strategie. La strategia orientale (delle chiese non cattoliche) ha accettato l’idea che qualcosa fatto dall’uomo possa ferire mortalmente il matrimonio (il peccato di adulterio, cfr. Matteo 5,32 e 19,32) e quindi ha aperto a un nuovo inizio. La strategia latina, invece, non ha accettato il divorzio e la possibilità di nuove nozze; di fronte alla crisi irreversibile di un matrimonio, per fronteggiare situazioni di vita delle persone che, non sanate, possono portare a mali maggiori, la dottrina canonica ha elaborato la categoria della nullità del consenso nuziale e sviluppato il potere del pontefice di scioglimento del matrimonio “rato e non consumato”. «Oggi – ha affermato Petrà – c’è un coinvolgimento delle coppie “irregolari” nella vita della chiesa, seppure in situazione di digiuno eucaristico, e si favoriscono percorsi di tipo biblico, spirituale, psicologico. Altre ipotesi, se non sono accettate dal magistero, sono però studiate con attenzione. Sarà necessario arrivare a una soluzione, in chiave di continuità con la tradizione latina, per dare una risposta alla sofferenza che tocca oggi tante persone. La chiesa deve trovare il modo di essere chiesa per tutti i suoi figli».

Paola Zampieri

Publié dans:famiglia |on 5 novembre, 2014 |Pas de commentaires »
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