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SE CRISTO NON FOSSE PIU’ SCANDALO E FOLLIA PER UOMINI E POPOLI – H. U. v. Balthasar

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SE CRISTO NON FOSSE PIU’ SCANDALO E FOLLIA PER UOMINI E POPOLI – H. U. v. Balthasar

Di fronte ad una folla di almeno quindicimila persone prende la parola von Balthasar, una delle più grandi figure della teologia contemporanea, che di recente ha ricevuto il premio « Paolo VI » dalle mani di Papa Wojtyla. Quello che segue è il testo integrale della sua relazione.

H. U. v. Balthasar:

Miei cari ascoltatori, il tema che mi avete riservato – Se Cristo non fosse più scandalo e follia per uomini e popoli – ha un titolo alquanto teatrale, sebbene esprima perfettamente il vostro intento. Il mio sarà quello di reinserirlo nel suo contesto biblico, così da renderlo pienamente comprensibile Scandalo è una parola del Vangelo e proviene senza dubbio dal Cristo stesso. Significa esattamente: trabocchetto, trappola che si richiude sull’animale, ma anche pietra d’inciampo, ostacolo che può fare inciampare e cadere. Follia è una parola usata da San Paolo per mettere in evidenza che la saggezza di Dio, manifestata soprattutto nella Croce del Signore, oltrepassa e contraddice ogni saggezza puramente umana e a quest’ultima può apparire come insipienza, come follia. Per capire bene bisogna aggiungere immediatamente la frase paolina: « la follia di Dio è più sapiente degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini » (1 Cor 1, 25).Prendiamo in esame, per prima, la parola scandalo che nel Nuovo Testamento appare 54 volte. Ci sono due tipi di scandalo: quello degli uomini che seducono i deboli, i piccoli, coloro che credono nell’esistenza del peccato e ai quali bisognerebbe attaccare una pietra al collo per farli sprofondare nel mare. La libertà umana è minacciata dalla sua stessa debolezza: sventurati coloro che ne abusano. Ma c’è un altro scandalo, quello del Cristo stesso, soprattutto del Cristo crocifisso, scandalo inevitabile per l’intera ragione umana, scandalo voluto e istituito, del resto, da Dio stesso, poiché sta scritto: « Ecco, io pongo in Sion una pietra d’inciampo, una pietra di scandalo; ma chi crede in essa non sarà confuso » (Rom 9,33). Se Dio istituisce lo scandalo in Sion, dà immediatamente anche il modo di evitarlo: chi crede in lui – è il Cristo quello di cui si parla – non sarà confuso. Ma chi è colui che crede non solo per un pezzo di cammino, come la folla, come la maggior parte degli apostoli, ma fino alla fine scandalosa, come quelle poche donne, come Maria e il discepolo prediletto? Unicamente colui che aderisce fino in fondo. San Pietro ripete: « Ecco, io pongo in Sion una pietra angolare…e chi pone su essa la sua fede non sarà confuso » (1 P 2,6), e aggiunge: « Essi vi inciampano perché non credono alla Parola » (1 P 2,8), perché credono solo finché piace loro e sembra loro ragionevole e non finché la Parola dura, e cioè fino all’ignominia della Croce, in cui tutta la saggezza e la potenza umana sembrano confuse, in cui sembra contraddetta ogni parola del Cristo stesso, in cui sembra spenta ogni speranza in lui, il Messia. Sarà necessario molto tempo, anche dopo la Resurrezione, perché questi discepoli si convincano che la loro fede era insufficiente: « l’annuncio delle donne sembra loro « puro vaneggiamento » (Luc 24,11), Gesù deve rimproverare loro la loro incredulità (Me 16,14). Ed eccoci al secondo termine. La follia. Non si vuol credere se non a ciò che si comprende con la propria umana sapienza, a ciò che rientra nelle proprie categorie anche le più sublimi: ciò che le oltrepassa, la sapienza di Dio, appare irrazionale. Noi siamo quei saggi e quei capaci ai quali, secondo le parole di Gesù, Dio ha nascosto il suo mistero; mentre i piccoli non distinguono ciò che comprendono ancora da ciò che non comprendo no più, ma procedono senza esitazione e ingoiano, per così dire, il boccone tutto in una volta. Secondo le parole del Cristo, essi sono i soli cui rivela tutta la sua sapienza misteriosa. Nelle categorie dei saggi e capaci insieme, Paolo include sia i Giudei sia i Pagani. I Giudei chiedono dei segni per credere, crederanno solo a ciò che avranno visto, l’apostolo Tommaso sarà l’ultimo nel Vangelo a reclamare la visione. I Greci sono in cerca della saggezza, anch’essi limitano il loro assenso a ciò che sembra loro saggio, la loro capacità di comprendere le cose intellettuali sarà la peggior pietra d’inciampo. Hanno una filosofia sottile ma chiusa, con un’allacciatura in alto, senza apertura ad una cosa che li supera. Se costruiscono un altare ad un Dio ignoto, è ancora dedicato ad una di quelle numerose ampio, io divinità incluse nel loro ben noto Olimpo. Aldilà non c’è che un ‘destino’ che non interessa più la sapienza, perché lui stesso non ne ha Tutto ciò è forse molto più vicino alla nostra epoca che non a quella di Gesù, sebbene il problema sia sempre lo stesso. Ma siamo progrediti molto in saggezza puramente umana, sia ampliando immensamente il campo delle nostre conoscenze cosmiche, psicologiche e sociologiche, sia riducendo dei problemi un tempo filosofici, e in un certo senso apertamente discutibili, in risultati acquisiti delle cosiddette ‘scienze umane’, sia semplicemente vietando – e questo è il positivismo – di porre il problema della causa ultima (problema considerato insolubile) per limitarsi alle questioni risolvibili dei rapporti intramondani. Al limite, possiamo allargare il campo di tali conoscenze ad un al di là che E morte do spiritismo e l’occultismo lo fanno a delle forze psicologiche non ancora ben note. I Russi, a partire dal loro materialismo, si ostinano a scoprire nuove armi da guerra, ma qualsiasi divenire autentico della scienza umana è escluso da queste ricerche. Ecco a che punto siamo, tutti insieme, Paesi dell’Est e paesi occidentali. All’Est predomina il materialismo, in Occidente il positivismo. E non crediate che questa evoluzione si arresti davanti alle porte della Chiesa. Oggi più che mai la Chiesa è minacciata da una lacerazione che la scinde fino in fondo in due campi che, girando entrambi intorno allo scandalo e alla follia divina, sono nocivi in ugual misura. Quello che è chiamato ‘progressismo’ è un aperto rifiuto dello scandalo, si deve adattare la dottrina cristiana alla comprensione dell’uomo d’oggi. Certi esegeti delle due sponde dell’oceano vi si applicano eliminando come superate sia alcune parole di Cristo che alludono alla sua prossima resurrezione e morte, sia soprattutto, e qui si uniscono ad essi celebri teologi, il senso della Croce come sacrificio offerto al Padre ‘pro nobis’. Poiché Gesù non ha menzionato il senso salvifico della sua morte né per il popolo d’Israele, né per tutta l’umanità, questa interpretazione della Croce deve essere una pia invenzione della teologia tardiva (come si usa dire) di San Paolo e di San Giovanni. Piuttosto che un sacrificio vicario per il peccato del mondo, bisogna vedervi una testimonianza suprema dell’amore paterno che, essendo sempre infinito e incondizionato, non ha bisogno di essere riconciliato ed è del resto incapace di cambiamento. Non si tratta di un’ira divina che, per mezzo della Croce, dovrebbe cedere ad un amore ormai totale. Ma, noi rispondiamo, che strana follia di Dio, dimostrare la sua affezione per noi consegnando il suo Figlio eterno a quell’atroce supplizio, non per la remissione dei peccati, ma come prova del suo amore! Questo non è certo ciò che pensa il Nuovo Testamento e soprattutto la Lettera agli Ebrei. Lasciamo da parte tutte le teorie che vedono in Gesù solo una specie di profeta (lo si trova in molti libri ebraici contemporanei che reclamano Gesù per Israele), esse non vedono che il compimento dell’Antico Testamento è anche un rovesciamento (finita la Terra Santa! finito il popolo etnico: partite, andate nel mondo intero per annunciare la Buona Novella a tutti popoli! Da allora, come hanno sentito con immensa gioia i Padri de a Chiesa, il mondo intero è terra santa.). Lasciamo da parte anche tutte le chiese laterali e settarie che si riferiscono unicamente ad un Gesù storico, o ad una Bibbia letterale e che non vogliono accettare una presenza perpetua e attiva dello Spirito Santo di Gesù nella sua Chiesa santa, sacramentale e istituzionale, come la vuole Cristo che istituisce Pietro capo della sua Chiesa indefettibile e Maria Madre di tutta la comunità santa: il Cristo di costoro resterà astratto e inaccessibile oppure l’approccio con lui sarà pietistico, soggettivo e sdolcinato. Ma quest’ultima riflessione ci porta ad un nuovo aspetto dello scandalo e della follia divina: la Chiesa del Cristo partecipa intimamente a queste qualità, ma solo se professa una fede totale nella Croce salvifica del Signore. Una Chiesa liberale e progressista non ha bisogno di essere perseguitata, si fa fuori da sola. Ma aggiungiamo una parola sulla tendenza contraria: il tradizionalismo. Esso non nega espressamente lo scandalo del Cristo e quello della sua Chiesa, ma il centro del suo interesse è altrove: nell’affermazione che non si deve toccare il deposito tramandato che per esso si esprime innanzitutto nella ‘lettera’: la ‘lettera’ della messa di Pio V, la ‘lettera’ dei Concili precedenti, il Vaticano II il quale, interpretando alcune verità secondo lo Spirito, avrebbe tradito la ‘lettera’ e sarebbe perciò inaccettabile. Questo è la negazione implicita della presenza di Cristo per mezzo atteggiamento dello Spirito nella Chiesa di tutti i tempi, quindi anche in quella d’oggi. Lo scisma rappresentato dal tradizionalismo estremo e antiromano non è che una nuova forma di un letteralismo sopraggiunto dopo ogni Concilio ecumenico importante, fin da Nicea e Calcedonia. E’ una forma di razionalismo che, invece di credere allo Spirito che regna nella Chiesa, si fida del proprio sapere, del proprio maggior sapere, e tradisce quindi la folle sapienza di Dio per aderire alla propria umana sapienza. Ma c’è un fenomeno affine di cui non vogliamo dimenticarci: ci si può fissare talmente e in modo unilaterale sul concetto di scandalo cristiano e di follia di Dio da farne una teoria inglobante che non lascia più spazio ad una sapienza divina al di là di questi concetti esprimono. Allora la follia divina diventa per me una cosa spiritualmente manipolabile, un metodo filosoficamente applicabile, una dialettica. E’ in questo modo che il Luteranesimo giunge a parlare di un Dio la cui sapienza ha necessariamente un aspetto diabolico, che la Bontà divina è al tempo stesso Collera divina, cosa che, alla fine, porterà al razionalismo dialettico di Hegel per il quale la Croce, il Venerdì Santo è, come egli dice, speculativa, cioè la legge stessa della ragione, che la si chiami umana o divina. La danza sacra che i filosofi di oggi fanno attorno all’hegelismo, ultima tappa della filosofia prima del materialismo e del positivismo, si rivela infeconda e sterile, gira solo attorno a se stessa, dimenticando sempre più il vero mistero: quello della Croce e della sua presenza reale nella Chiesa di tutti i tempi per mezzo dello Spirito. Nessuna sapienza umana può manipolare lo scandalo cristiano e la follia di Dio a proprio conto. Ed è proprio ciò che dobbiamo ricordare alle due Americhe, che quest’anno sono in particolare a tema del vostro Meeting, pero sebbene le loro ideologie siano ben diverse e in molti punti perfino opposte. L’America del Nord, che è in testa nelle ricerche tecniche, sociologiche e psicologiche tende ad erigere la ragione ad assoluto. Concederà un proprio posto al fenomeno religioso, in quanto atteggiamento umano privilegiato, ma non si curerà del lato oggettivo di questa o quella religione che si presenterà come rivelata, conoscerà una tolleranza senza limiti per tutte le forme, anche totalmente contrarie fra loro, di espressioni dogmatiche o quasi dogmatiche; e questo porterà alla convinzione che tutti quelli che credono in qualcosa di sacro saranno per i cristiani dei cristiani anonimi, gli come saranno, per esempio, per i buddisti dei buddisti anonimi. Sull’elenco telefonico di Los Angeles ci sono in fila pagine e pagine di Chiese di tutti i tipi i cui templi passano spesso da una setta all’altra. Un aspetto di scandalo, in questo, è una follia più umana che divina, una follia che non preoccupa nessuno; come in Italia sono stati soppressi i manicomi, così negli Stati Uniti si tollera con benevolenza ogni forma più o meno inoffensiva di credenza religiosa degli uomini. Si potrebbe dire che è preoccupante il fatto che nel Continente non ci possa essere persecuzione per una Chiesa che conservi, al suo centro, il vero scandalo cristiano. Il cristiano, purché si comporti in modo moralmente tollerabile per la società, sarà lasciata in pace. Il moralismo generale avrà partita vinta e la testimonianza cristiana, che per noi porta al martirio, gli sarà sottomessa come una specie al genere Certo, ci sarà la lotta delle razze (e non delle classi) e Martin Luter King, ottimo cristiano, sarà il martire di questa lotta, ma la sua morte sarà piuttosto la vittoria di una razza che di una religione. Nell’America del Sud incontriamo un razionalismo totalmente diverso. E’, e qui bisogna semplificare, la lotta fra due forme razionalistiche e politiche di comprensione del cristianesimo. Non vale la pena insistere sul cosiddetto cattolicesimo dei cosiddetti oppressori, che potrebbe quasi sempre ridursi a una forma di tradizionalismo H quale permette ad una classe dirigente l’espressione classica di una fede cattolica limitata alla recita di un Credo e alla pratica dei sacramenti. Da tutto questo, scandalo e follia sono esclusi. Mentre cattolicesimo e diritto politico sono intimamente congiunti. Il contrario di questo amalgama è più difficile da definire ed è noto come teologia della liberazione. Il problema è sapere in che senso si tratta di una teologia cristiana propriamente detta o di un movimento sociologico che si serve, a ragione o a torto, del Vangelo. Non metto assolutamente in dubbio la buona fede di molti, perfino della maggior parte di quei teologi che si riconoscono nella teologia della liberazione. Ma la domanda terribilmente scottante è un’altra: con che diritto si servono del Vangelo e del suo scandalo per fare politica? L’opzione per i poveri può essere detta centrale nell’atteggiamento di Gesù, ma vi vede Egli solo i materialmente poveri o tutti i poveri diavoli non piuttosto indigenti o ricchi che falliscono la loro entrata nel Regno dei Cieli? C’è, certamente, la difficoltà dei ricchi di passare per la cruna dell’ago, e la forza di testi simili. Ma non sono né la ricchezza né il potere politico che per Gesù separano il Regno in due campi. Il povero che non possiede alcun comfort in terra è più aperto alla Buona Novella del ricco pieno di preoccupazioni economiche. Ma bisogna forse aiutare il povero ad acquisire una parte di questo benessere? C’è, senza dubbio, un limite molto stretto fra miseria, che deve essere in tutti i casi soppressa, e povertà, che può essere una grazia che ci avvicina al Regno. Charles Péguy con molta ragione ci ha inculcato questa distinzione, egli non fa altro che seguire la parabola del Samaritano. Ed è la carità cristiana, essa sola, che ci deve animare a seguirlo, una carità che ispira una politica, ma che non si identifica con essa. Fra le due c’è una differenza livello. Due gesuiti francesi ce lo dicono sotto ogni punto di vista: P. Fracou che lavora in Cile e che ci ha dato quel libro dal titolo famoso: « Prima (di tutto) il Vangelo », cioè prima della politica. Esso ristabilisce lo scandalo della Croce unica di Cristo e vieta di confonderlo con quello della miseria umana. P. Pierre Ganne, mio vecchio amico durante gli studi teologici, che purtroppo è morto, nel suo nuovo libro sullo Spirito Santo ci inculca: concetto di Alleanza è che solo l’uomo libero è capace di stabilire dei rapporti veri, è l’uomo libero che diventa giusto e non l’uomo giusto che diventa libero. L’Esodo comincia con la liberazione; dopo, all’interno di questa liberazione (operata da Dio), si può chiedere al popolo di stabilire dei rapporti giusti. La decisione di giustizia parte dall’uomo; se il suo cuore è schiavo, egli non può avere il concetto di rapporti giusti guardate Lenin. Non ci sono esempi di rivoluzioni che non abbiano rafforzato il regime amministrativo e poliziesco. Non dimentichiamo che Satana si traveste da angelo di luce. Le nostre illusioni sono spesso a base di generosità. La libertà degli altri non è qualcosa che io scelgo. Non ne sono la fonte. La perversione del paternalismo porta a proclamare: Io scelgo il tuo benessere, la tua felicità. Ora, il mondo è pieno di questa pretesa, di scegliere la nostra felicità, è perfino un tema politico. In questo mondo il Vangelo è inintelligibile. Leggete tutto il libro, pubblicato da ‘Centurion’, 1984. La politicizzazione della carità è quindi un altro modo di pervertire la follia della Croce. Ma lasciamo ai latino-americani la loro chance di trovare nella loro situazione estremamente difficile l’equilibrio che permetta eli unire teologia e politica senza identificarle. Concludiamo ricordando che lo scandalo della Croce e la follia di Dio non sono affatto degli slogans a nostra disposizione. Entrambi i termini, il cui significato converge, non sono altro che l’espressione del fatto che la Sapienza divina ci supera infinitamente. San Paolo ce lo ripete in tutte le letture. Questa sapienza ci supera, ma non ci è sottratta. Avendo finito di inculcare il mistero della Croce, sofferta pro nobis, l’Apostolo continua: Aiuto sì, la sapienza che noi esponiamo fra i (cristiani diventati) perfetti Dio l’ha rivelata a noi per mezzo dello Spirito che scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. L’uomo terreno non accoglie le cose proprie dello stato di Dio; per lui sono stoltezza e non le può capire, perché è grazie allo Spirito che si giudica. Ma l’uomo spirituale giudica tutte le cose, (perché) noi possediamo il pensiero di Cristo. Noi l’abbiamo, non come un possesso, ma sempre come dono. E questo dono ci è dato non per noi, ma per essere comunicato e questo dono liberatore si diffonde solo nella comunione. E la comunione che libera ed è la libertà, essa sola, che rende possibile la comunione. Ma noi non costruiamo né la libertà né la comunione. Entrambe e la loro unità sono pura grazia di Dio.

Publié dans:biblica, Teologia |on 13 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

SAN FRANCESCO D’ASSISI

http://www.filosofico.net/sanfrancesco.htm

SAN FRANCESCO D’ASSISI

A cura di Alessandro Sangalli

Santo protettore dell’Italia, figura rivoluzionaria della Chiesa cristiana, messaggero ed ambasciatore di pace in Oriente: tutte descrizioni che si possono attribuire a San Francesco, il “poverello d’Assisi”. E perché non aggiungere, in fondo, anche quella di filosofo? Ha vissuto da anticonformista, ha predicato e messo per iscritto le sue idee, ha avuto numerosi discepoli… La sua concezione della vita va al di là di un semplice atteggiamento religioso, si può tranquillamente definire una vera e propria filosofia.

1. La vita
Nasce ad Assisi nel 1181/1182 col nome di Giovanni, figlio di Pietro di Bernardone e di Giovanna, detta donna Pica. Il padre, ricco mercante di stoffe, al momento della nascita del figlio si trova in Francia, ma, al suo ritorno, deciderà di chiamarlo Francesco.
Di Francesco, si può dire che abbia vissuto due vite, una l’opposto dell’altra. Il giovane Francesco era un ragazzo vivace, amante delle feste, dei banchetti e del lusso: amava mangiare e bere con gli amici, indossare vestiti eleganti e preziosi gioielli. È Francesco stesso a presentarsi, in apertura del suo Testamento, come uno che viveva nei peccati e nella dissoluzione morale. Nel 1202 partecipò, come molti altri suoi coetanei, alla guerra contro Perugina: fatto prigioniero, fu riscattato dopo un anno grazie alle risorse economiche del padre.
Circa due anni più tardi, inizia la sua conversione e la sua trasformazione. Il padre la racconta così: “All’inizio Francesco sembrava uguale a tutti gli altri bambini: era allegro, voleva sempre giocare e gli piaceva cantare. Poi accadde quello che accadde: un giorno incontrò un lebbroso e, invece di fuggire al suono della campanella, scese da cavallo e lo abbracciò. E non basta, un’altra volta si intrufolò nel mio magazzino e si prese tutte le stoffe preziose che c’erano negli scaffali per poi vendersele sottoprezzo, il tutto per pagare i restauri della chiesa di San Damiano”. Per quest’ultimo episodio, Francesco viene denunciato dal padre al tribunale ecclesiastico: qui, davanti al vescovo e al popolo, il giovane rinuncia all’eredità e ai beni paterni, si spoglia anche degli abiti e fa pubblica professione di povertà. Afferma in seguito: <<D’ora in avanti voglio dire “Padre nostro che sei nei cieli”, non più “padre mio Pietro di Bernardone”>>.
Da qui in poi, Francesco inizia la sua nuova vita: il colloquio col crocefisso non fa che rassicurarlo della decisione da lui presa. Un giorno, infatti, mentre sta pregando davanti al crocefisso, sente dirsi: <<Francesco, se vuoi conoscere la mia volontà, devi disprezzare e odiare tutto quello che mondanamente amavi e bramavi possedere>>. Inizia quindi a predicare l’amore, la pace e la povertà e a poco a poco si uniscono a lui alcuni compagni: Bernardo di Quintavalle, Pietro Cattani, Gaspare di Petrignano e altri ancora. Vivono tutti insieme nella Porziuncola, una chiesetta mezza diroccata che riparano essi stessi. In questo clima viene redatta la Regola del Primo Ordine Francescano, che contiene le norme e le regole di vita della comunità. Francesco, con alcuni compagni, si reca a Roma per incontrare papa Innocenzo III e vedere riconosciuta la sua Regola. Le guardie, però, non lo fanno entrare a palazzo, scambiando lui e i compagni per dei guardiani di porci. Francesco e i suoi aspettano fuori dalle porte del Laterano per tre mesi, dormendo per strada e vivendo di elemosina, finché il papa, pare a causa di un sogno che lo aveva turbato, lo manda a prendere dalle guardie e accetta la Regola senza obiezioni, seppur solo oralmente. Fu il pontefice Onorio III, con la bolla Solet annuere Sedes Apostolica del 1223, a costituire definitivamente ed ufficialmente l’Ordine francescano.
Intorno al 1211 alla piccola comunità di frati si aggiunge Chiara, figlia di Favarone degli Offreducci, una ragazza di ceto aristocratico che condivide la stessa fede ardente di Francesco: <<Da quando ho conosciuto la grazia del Signore nostro Gesù Cristo per mezzo di quel suo servo Francesco, nessuna pena mi è stata molesta, nessuna penitenza gravosa, nessuna infermità mi è stata dura>>. Chiara è seguita nella sua scelta di vita da numerose altre ragazze come lei, che insieme fondano l’Ordine delle Clarisse, redigendo con Francesco la Seconda Regola.
Tra il 1217 e il 1221 si svolge la quinta crociata: voluta da Papa Onorio III, è condotta da Andrea II re d’Ungheria e da Giovanni di Brienne. Il piano dei crociati è quello di arrivare in Terrasanta e attaccare gli infedeli sorprendendoli da sud, arrivando cioè dall’Egitto. Ed è proprio in Egitto che si reca nel 1219 Francesco, con intenti apostolici ed evangelici. Dopo la sconfitta cristiana sotto le mura di Damietta, si spinge disarmato tra le linee nemiche e, catturato, è portato dal sultano Malek-el-Kamel. Il sultano è ammirato dalla persona e dalla figura di Francesco, tanto da trattarlo con garbo e rispetto, consentendogli pure di visitare i luoghi sacri.
Al ritorno dal pesante viaggio la sua salute, già precaria, è molto peggiorata. Francesco si dedica alla stesura della Regola del Terzo Ordine e rielabora quella del Primo.
È in questo periodo che si verificano gli episodi miracolosi della vita di Francesco: al 1223 risale l’apparizione del Gesù Bambino nel presepio vivente che era stato allestito da Francesco e compagni a Greccio, presso Rieti; l’anno successivo riceve le stigmate sul monte Verna; si moltiplicano le voci sulla sua abilità di parlare agli animali e si diffonde, in particolare, la storia del lupo di Gubbio.
I confratelli di Francesco, preoccupati per la sua salute che peggiora sempre più, gli consigliano di riposarsi ritirandosi e curandosi presso Siena: è proprio qui che nel 1226 detta il suo Testamento, forse sentendo vicina la morte. Con le ultime forze decide di tornare ad Assisi, dove, dopo aver scritto il Testamento finale, muore nella sua Porziuncola: è il 3 ottobre 1226. Fu fatto santo da Gregorio IX il 16 luglio 1228.

2. Le opere
Il messaggio e l’insegnamento di Francesco stanno forse più nella sua esperienza di vita che nei suoi scritti, tanto più che egli era solito definirsi “semplice e illetterato”. Non si può negare, tuttavia, la sua attenzione per la predicazione e per la parola, strumenti necessari per illuminare la vita e dare senso all’esistenza, per esprimere l’amore per la Natura e la lode a Dio. La distinzione consueta delle sue opere proposta dagli editori moderni è la seguente:

- Regole ed esortazioni
Regola non bollata (comprende scritti fino al 1221)
Regola bollata (approvata da Onorio III nel 1223)
Regola di vita negli eremi
Ammonizioni (raccolta di riflessioni spirituali)
Testamento di Siena (maggio 1226)
Testamento finale (autoritratto e spaccato della sua vita)

- Lettere (Ai fedeli; Ai chierici; Ai reggitori di popoli; A tutto l’Ordine; etc.)

- Laudi e preghiere
Lodi di Dio Altissimo
Cantico di Frate Sole (o delle Creature)
Preghiera davanti al crocefisso
Ufficio della Passione del Signore

Come nota Carlo Paolazzi in Lettura degli “Scritti” di Francesco d’Assisi, queste opere <<non nascono da motivazioni culturali e letterarie, ma da esigenze di vita comunitaria e personale>>.

3. La figura e il messaggio
“Vivere secondo la forma del Vangelo” è la grande svolta che trasforma definitivamente la vita del giovane Francesco, un ragazzo che viveva nella ricchezza e sceglie la povertà, che sognava la gloria delle armi e si fa ambasciatore di pace e amore. La sfida di Francesco è quella di mostrare agli uomini del suo tempo come l’insegnamento del Vangelo possa essere vissuto da tutti, sempre, senza mezze misure, come ha detto Gesù: <<Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi>> (Gv, 13,15). “Io ho fatto la mia parte; quanto spetta a voi, ve lo insegni Cristo”, diceva Francesco.
Al centro del suo messaggio sta il mistero di Dio e l’amore con cui Francesco lo vive: è proprio Dio, Padre amorevole, sommo bene dal quale proviene ogni altro bene che egli intravede in tutte le cose, in tutte le creature: <<Laudato sie, mi’ Signore, cum tutte le tue creature>> (Cantico di Frate Sole). L’amore e la gratitudine di Francesco aumentano di fronte a Gesù, figlio di Dio, nato e morto per noi. L’umiltà dell’incarnazione e la carità della passione di Gesù non soltanto testimoniano il suo amore per noi, ma sollecitano una risposta: seguire le orme di Gesù è rispondere a quest’amore: “Dobbiamo amare molto l’amore di colui che ci ha molto amati”.
Il pensiero e il messaggio di Francesco ebbero rapidissima diffusione e notevole influenza sulla cultura europea. Tra le più importanti figure francescane si ricordano anche parecchi filosofi: tra gli altri Bonaventura, Ruggero Bacone, Duns Scoto, Guglielmo d’Ockham.
In conclusione, soffermiamoci sulla figura di Francesco così come la delinea un suo discepolo, fra Gaspare da Petrignano:
“Conobbi Francesco un giorno mentre stavo tornando dal mercato: lo vedo e ne resto affascinato. Ha come vestito un sacco di iuta e siamo in pieno inverno. […] Lo invito a casa mia: mangiamo insieme e resto tutta la notte in piedi per parlare con lui. Non capisco bene quello che dice ma lo ascolto. Ho l’impressione di vivere per la prima volta. […] Gli chiedo dove abita e mi porta in una chiesetta mezza diroccata chiamata la Porziuncola. Senza pensarci troppo decido di vivere lì anch’io. […] Oggi ci hanno raggiunto altri tre fratelli: si chiamano Bernardo, Pietro ed Egidio. Li abbiamo sistemati tutti e tre dietro l’altare. […] Noi seguiamo Francesco, felici come non lo siamo mai stati nella vita. Le nostre regole sono: l’umiltà, la carità, l’obbedienza, la povertà, la serenità, la pazienza, il lavoro e la gioia. Ieri Francesco ha detto ad un contadino: <<Non coltivare tutto il tuo terreno. Lasciane un po’ alle erbacce, così vedrai spuntare anche i fratelli fiori>>. […] La cosa più bella che ho fatto grazie a Francesco è stato il presepio. Eravamo a Greccio, dalle parti di Rieti, quando lui ci parlò di Betlemme e della nascita di Gesù Bambino. Era il giorno di Natale. Francesco andò in paese e si fece prestare un bue e un asinello, poi convinse alcuni paesani a travestirsi da pastori e uno di loro venne con la moglie, una brava donna. Li nominammo subito Giuseppe e Maria. Insomma, mettemmo in piedi un presepe vivente. Il bambino ovviamente non c’era, eppure, roba da non credere, quando scoccò la mezzanotte tutti, ma proprio tutti, lo vedemmo sgambettare nella paglia. Impossibile raccontare fino a che punto siamo stati felici!”

4. Il Cantico delle Creature
Se esiste un componimento o uno scritto di Francesco che possa essere considerato il manifesto del suo pensiero e delle sue idee, è senz’altro il Cantico di Frate Sole, anche noto come Cantico delle Creature. In esso troviamo il grande amore di Francesco per Dio e per tutto il creato: è in tutte le creature che Francesco vede Dio, è amando tutto il creato che Francesco ama Dio. L’uomo è esso stesso una creatura, fratello di tutte le cose che esistono.

Altissimu, onnipotente, bon Signore,
Tue so’ le laude, la gloria, l’honore et onne benedizione.
Ad te solo, Altissimo, se konfane,
e nullu homo ène dignu te mentovare.

Laudato sie, mi’ Signore, cum tutte le Tue creature,
spezialmente messor lo frate Sole,
lo quale è iorno et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significazione.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora Luna e le Stelle:
in celu l’ài formate clarite e preziose e belle.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento
E per aere e nubilo e sereno et onne tempo,
per lo quale a le Tue creature dài sustentamento.

Laudato si’, mi’ Signore, per sor’Acqua,
la quale è multo utile et humile e pretiosa e casta.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu,
per lo quale ennallumini la notte:
et ello è bello e iocundo e robustoso e forte.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta e governa,
e produce diversi frutti con coloriti flori et herba.

Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo Tuo amore
e sostengo infirmitate e tribulazione.
Beati quelli ke ‘l sosterranno in pace,
ka da Te, Altissimo sirano incoronati.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po’ skappare:
guai a quelli ke morranno ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue santissime voluntati,
ka la morte seconda no ‘l farrà male.

Laudate e benedicete mi’ Signore e rengraziate
e serviateli cum grande humiltate.

5. S. Francesco e Dante
Dante Alighieri dedica non pochi versi alla figura di Francesco: siamo nel Canto XI del Paradiso, Dante si trova nel cerchio degli spiriti sapienti dove, tra gli altri, è presente anche Tommaso d’Aquino. È proprio a quest’ultimo che Dante fa proferire l’elogio di Francesco, elogio profondo, allegorico e ricco di suggestioni (vv. 43-117).
L’elogio non si riduce ad una semplice biografia, né ricalca la ricca aneddotica, colorita ed incantevole, già solida e conosciuta ai tempi di Dante. Anzi, a onor del vero, la biografia si riduce all’essenziale: la nascita è raccontata con una complessa indicazione geografica, è seguita poi da pochi accenni alla conversione, dalla “guerra” col padre, e subito si arriva alle nozze con la Povertà. I versi proseguono narrando del formarsi dell’originario gruppo di discepoli, delle udienze ottenute da Francesco, prima con papa Innocenzo e poi con Onofrio, che diedero <<sigillo a sua religïone>> e <<corona>> alla sua <<santa voglia>>. Il racconto prosegue con cenni al viaggio in Oriente, all’eremitaggio e alle stigmate ricevute sul monte Verna, per chiudersi col ritorno di quest’<<anima preclara>> a Dio, con la morte in umiltà e la sepoltura nella nuda terra.
Centrale in questo canto, come nella vita di Francesco, è l’immagine dell’amore tra il giovane e la Povertà, con le loro “nozze mistiche” dinanzi alla <<spiritual corte et coram patre>>, l’immagine dell’amore per una tale donna <<a cui, come a la morte, la porta del piacer nessun diserra>>. Morte che, in quanto creatura di Dio, Francesco amava e rispettava come fosse sua sorella.
Come nota Auerbach: <<a questo per l’appunto serve l’allegoria della povertà: essa fa un tutto unico della missione del santo e dell’atmosfera particolare alla sua persona. […] In quanto donna di Francesco, la povertà possiede una realtà concreta, ma poiché Cristo fu il suo primo sposo, così la realtà concreta, di cui si tratta, è nello stesso tempo parte d’una grande concezione storica e dogmatica. Paupertas unisce Francesco con Cristo, stabilisce la posizione del santo quale imitator Christi>>.

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Guardian Angel

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Publié dans:immagini sacre |on 12 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

LA FEDE E LA PROVVIDENZA NEI « PROMESSI SPOSI »

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LA FEDE E LA PROVVIDENZA NEI « PROMESSI SPOSI »

« Il Regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perchè tutta si fermenti ». (Mt 13, 33). Questa breve parabola aiuta a comprendere il ruolo della Provvidenza all’interno del romanzo, una Provvidenza che può essere considerata un « personaggio » fondamentale, presente in quasi ogni pagina, fedele compagna dei vari personaggi e delle vicende narrate.
« La c’è, la Provvidenza », viva, palpitante, eppure discreta e silenziosa: si affaccia nei discorsi della gente, nelle loro esclamazioni: « … Lui sa quel che fa… lasciamo fare a Quel di lassù… Dio ci aiuterà… « ; si affaccia nei pensieri di Lucia, costretta ad abbandonare la sua casa: « … Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande… « ; si affaccia in ogni evento della storia, che sembra solo un nodo di dolore e di tragedia senza senso, retta più dal caso, che da un disegno d’amore preciso, e che invece si rivela come linguaggio segreto della Provvidenza stessa.
La storia nei « Promessi sposi » è un succedersi di eventi l’uno più triste dell’altro: un matrimonio che va a monte per i capricci di un signorotto, la carestia, la calata dei Lanzichenecchi, la peste… è una storia tetra, che dal male passa al peggio; è una storia di tribolazioni, di affanni, di angoscia, una storia piena di morte, di lutto, di pianto.
Eppure, in tutto questo nero, si aprono spiragli di luce; la gente, incredibilmente, continua a sperare, ad avere fede, a vivere gli eventi con dignità e serenità, senza mai cedere alla disperazione, sorretta da un’incrollabile fiducia in Dio; è la fede degli umili, delle persone semplici, timorate di Dio, convinte che « Lui sa quel che fa ». Sono persone « piccole » nella fede, nel senso che, con la fiducia disarmante che solo i bambini possono avere, si affidano tranquillamente al volere di Dio; ma proprio in questa fiducia da bambini sta la grandezza della loro fede. Non sono nè superbi, nè arroganti; non vogliono a tutti i costi tentare di dare un senso a quanto sta accadendo, o peggio ancora, contestare Dio per quanto succede; non pretendono di comprendere un mistero che, con tutta la sua grandezza, sovrasta la ragione umana. Non sono come Giobbe, che parla, critica, contesta, per sentirsi rispondere: « … Chi è costui che vuole offuscare il consiglio con parole insipienti? … Io t’interrogherò, e tu mi istruirai. Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra? … « (Gb 38, 2. 3b-4).
Niente di tutto questo: solo la consapevolezza che Dio « … sa quel che fa… « . Certo, la storia è catastrofica, ma la Provvidenza aiuta a dare un senso radicalmente diverso ai fatti: le avversità diventano prove che verificano la forza della fede dei personaggi e permettono di renderla più salda. Anzi, le prove diventano motivo di lode e di ringraziamento a Dio: « … Ringraziate il cielo che v’ha condotti a questo stato, non per mezzo dell’allegrezze turbolente e passeggere, ma co’ travagli e tra le miserie, per disporvi ad un’allegrezza raccolta e tranquilla… « , dice fra Cristoforo a Renzo e Lucia nel lazzaretto una volta ritrovatisi. Se letta nell’ottica della fede, la storia, anche se apocalittica, anche se dolorosa, acquista un senso, perchè purifica ed eleva l’animo. I protagonisti del romanzo hanno il grande dono della fiducia, dell’attesa, della pazienza di non volere capire e vedere chiaro immediatamente in tutto. Il loro atteggiamento può essere commentato dalle seguenti parole di S. Teresa di Lisieux: « Che importa, Signore, se l’orizzonte è oscuro? Pregarti per domani non posso. Proteggimi, coprimi della tua ombra solo per oggi ». Si riconosce, pur fra mille incertezze e titubanze, che esiste una finalità intrinseca alla storia, immanente ad essa, eppure trascendente; la fede in Dio rimane l’unico conforto e la sola roccaforte contro la violenza, il dolore, il non senso. La fede è il lievito che fa fermentare tutta la pasta e la trasforma, dandole un volto, un significato, una speranza.

Publié dans:fede e ragione, Letteratura italiana |on 12 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

QUALE RUOLO DELLA FEDE IN DIO NELLO SPAZIO PUBBLICO?

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QUALE RUOLO DELLA FEDE IN DIO NELLO SPAZIO PUBBLICO?

« Lectio magistralis » alla Lettura annuale di Magna Carta, Roma, 6 maggio 2013

di Camillo Ruini

Parleremo non del ruolo di Dio ma del ruolo della fede in Dio, nello spazio pubblico: è una precisazione necessaria perché quando si parla di Dio la questione è inevitabilmente filosofica e teologica (di questa ho parlato nel mio libro intervista con Andrea Galli). Quando invece si parla della fede in Dio la questione può essere anche storica, culturale, sociologica, politica.
La domanda su Dio però si ripropone, nel senso che occorre precisare a quale Dio si rivolga la fede: la differenza tra gli dei del politeismo, il Dio del monoteismo, o il Dio del panteismo è infatti assai grande ed ha conseguenze decisive anche per il ruolo della fede nello spazio pubblico.
Dirò dunque che mi riferisco al Dio di Gesù Cristo, cioè al Dio della nostra tradizione italiana, europea e non solo europea. Il riferimento a questo Dio ha plasmato la nostra cultura e la nostra civiltà. A mio parere, e secondo la dottrina della Chiesa cattolica, questo Dio può essere conosciuto, per alcuni aspetti, anche dalla nostra ragione e in questa misura è accessibile ai non credenti in Cristo. La piena conoscenza di lui si ha però solo accogliendo nella fede il suo manifestarsi a noi nella storia di Israele e soprattutto in Gesù di Nazaret.
Nella storia delle religioni e delle culture il ruolo di Dio nello spazio pubblico è qualcosa di ovvio e di originario, anche se viene concepito in modi molto differenziati. Le religioni, tradizionalmente, hanno svolto, e tuttora svolgono assai spesso, un ruolo centrale nella genesi e articolazione delle culture, delle società e della vita pubblica. Proprio con il cristianesimo è accaduto però qualcosa di nuovo. Per comprendere questa novità è importante inquadrarla un poco storicamente.

Nel VI secolo a.C., in un periodo nel quale sono avvenuti grandi rivolgimenti culturali in aeree geografiche anche molto distanti e disparate, in Grecia le divinità mitiche dell’Olimpo hanno cominciato ad essere soppiantate dal Dio dei filosofi, o meglio dall’Essere assoluto, unico ed eterno, con il quale però, per la sua trascendenza rispetto a noi e al mondo, non si potrebbe interloquire e non avrebbe senso rivolgersi nella preghiera. Così si apre una frattura tra la conoscenza razionale di Dio e il senso religioso.
Nello stesso periodo in Israele, proprio al tempo della catastrofe politica dell’esilio in Babilonia e della fine dell’indipendenza, giunge a compimento (ad esempio ad opera di un profeta che ha scritto la seconda parte del libro di Isaia) la convinzione che il Dio di Israele, Jahweh, non è solo l’unico Dio che Israele deve adorare, ma anche l’unico Dio esistente, creatore e salvatore universale, l’unico vero Dio di tutti i popoli.
Si ha quindi uno sviluppo analogo a quello avvenuto in Grecia, ma con una differenza essenziale: questo unico Dio è assoluto ed eterno ma è anche a noi sommamente vicino, è il Dio che si interessa di noi e ha preso l’iniziativa di rivelarsi al popolo di Israele. Di più, è il Dio sommamente libero e personale, che ha creato il mondo liberamente e per amore.
Questo è anche il Dio di Gesù Cristo: in Cristo anzi la vicinanza e l’amore di Dio giungono al vertice umanamente inconcepibile della morte del Figlio per noi. Non solo, ma anche da parte nostra il rapporto con Dio non è più legato ad aspetti etnici e giuridici, come l’appartenenza a un popolo e l’osservanza della legge mosaica, bensì è aperto a ogni persona, sulla base della libera scelta personale della fede e della conversione.
Così la libertà diventa fattore centrale nel rapporto tra Dio e noi, per così dire da entrambe le parti, dalla parte di Dio e dalla parte dell’uomo. Il cristianesimo può quindi ben dirsi la religione della libertà, oltre che la religione del Logos, della ragione, e – soprattutto – dell’amore.
Possiamo aggiungere che il concetto stesso di persona, fondamentale nella nostra civiltà, ha origini teologiche: viene sviluppato infatti nel tentativo di comprendere l’unità di Dio Padre e del Figlio, e dello Spirito Santo, nella relazione e donazione reciproca. Perciò, fin dall’origine, persona è un concetto relazionale, dice rapporto all’altro e non chiusura in se stessi.
In questo quadro assumono tutto il loro rilievo le celebri parole di Gesù “Date a Cesare quello che è di Cesare e date a Dio quello che è di Dio” (Matteo 22, 21 e paralleli). La rilevanza pubblica della fede in Dio non viene affatto negata ma passa attraverso la libertà delle persone. Che questa rilevanza pubblica sussista nel cristianesimo fin dalle origini appare nel modo più chiaro dal carattere pubblico del processo a Gesù e dal significato che i primi discepoli attribuivano alla sua risurrezione, come adempimento della promessa di Dio a Israele, che era promessa di liberazione e salvezza del popolo, e in concreto come venuta del regno di Dio annunciato da Gesù, che significava la signoria salvifica di Dio su ogni aspetto della nostra vita e della realtà.
Di fatto per i primi tre secoli della sua storia il cristianesimo ha effettivamente mantenuto e testimoniato, soprattutto attraverso il martirio affrontato per non rendere culto divino all’imperatore romano, l’affermazione sia della libertà della fede sia del suo carattere pubblico.
La svolta, come sappiamo, è avvenuta nel secolo IV, non tanto con Costantino, che si è limitato a riconoscere la libertà e liceità del culto cristiano, quanto con Teodosio, che nel suo editto del 380 impose a tutti i sudditi dell’impero il credo cristiano, nella forma del Credo del Concilio di Nicea, anche (anzi soprattutto) allo scopo di reprimere le eresie all’interno del cristianesimo e preservare l’unità dell’Impero.
Così il cristianesimo è divenuto, contro la sua origine e la sua natura più profonda, religione di Stato, sebbene, almeno in Occidente, mai in forma pacifica e piena: è stata mantenuta infatti la distinzione dei due poteri, ecclesiastico e civile (allora in concreto del papa e dell’imperatore), teorizzata un secolo dopo l’editto di Teodosio dal papa Gelasio I.
Inoltre, la teologia cattolica non ha mai ammesso che qualcuno venga obbligato con la forza a credere, ma solo – in modo in verità assai poco coerente – che venga usata la forza per impedire a chi aveva già creduto di abbandonare la fede (in concreto, per procedere contro gli eretici). Possiamo dire che alla base di questa posizione sta “l’oggettivismo” medioevale, cioè il primato unilaterale dell’istanza della verità su quella della libertà.
Solo con la fine dell’unità religiosa dell’Occidente a seguito della riforma protestante questa situazione entra in crisi. Senza ripercorrere le varie tappe di una storia nota, possiamo dire che il primato unilaterale della verità ha condotto alle guerre di religione dei secoli XVI e XVII e che si è usciti da questa situazione insostenibile attraverso la secolarizzazione della politica, cioè la fine del ruolo pubblico vincolante della fede religiosa.
Questo però non equivale ancora alla fine di ogni ruolo pubblico delle religioni, in particolare di un ruolo che passi attraverso le libere scelte dei cittadini. Uno sviluppo di questo genere si è verificato più tardi, soprattutto in Francia, con l’illuminismo francese e la rivoluzione francese, ed è tuttora tipico dei paesi latini di matrice cattolica: qui la rivendicazione della ragione e della libertà assumono un volto decisamente ostile alla Chiesa e talvolta chiuso ad ogni trascendenza, mentre la Chiesa a sua volta fatica e tarda a lungo a distinguere tra le istanze anticristiane, a cui evidentemente non poteva non opporsi, e la rivendicazione della libertà sociale e politica, che invece avrebbe potuto e dovuto essere accolta positivamente, sulla base del messaggio cristiano stesso. La “laicità” alla francese implica proprio la chiusura ad ogni ruolo pubblico delle religioni.
Che sviluppi di questo genere non fossero un portato necessario della modernità appare soprattutto dalla vicenda storica degli Stati Uniti d’America. La loro stessa nascita infatti è dovuta, in larga misura, a quei gruppi di cristiani protestanti che erano fuggiti dal sistema delle Chiese di stato, vigente anche nell’Europa protestante, e che formavano libere comunità di credenti. Il fondamento della società americana è costituito pertanto dalle Chiese libere, per le quali è essenziale non essere Chiese dello Stato ma fondarsi sulla libera unione dei credenti.
In questo senso si può dire che alla base della società americana c’è una separazione tra Chiesa e Stato determinata, anzi reclamata dalla religione e rivolta anzitutto a proteggere la religione stessa e il suo spazio vitale, che lo Stato deve lasciare libero. Per conseguenza, tutto il complesso dei rapporti tra sfera statale e non statale in America si è sviluppato diversamente che in Europa, attribuendo anche alla sfera non statale un concreto carattere pubblico, favorito dal sistema giuridico e fiscale.
In questa America, con la sua specifica identità, i cattolici si sono integrati bene, riconoscendo ben presto il carattere positivo della separazione tra Stato e Chiesa legata a motivazioni religiose e l’importanza della libertà religiosa così garantita.
Fino al Concilio Vaticano II però rimaneva una difficoltà, o una riserva di principio, che non riguardava i cattolici americani come tali, ma la Chiesa cattolica nel suo complesso. Questa difficoltà si riferiva al riconoscimento della libertà religiosa, non semplicemente come accettazione di un dato di fatto (questa accettazione c’era già prima del Concilio), ma come affermazione di un diritto.
Il Vaticano II ha superato questa difficoltà con la dichiarazione sulla libertà religiosa, documento decisivo per il rapporto tra Chiesa e modernità, come ha sottolineato Benedetto XVI in uno dei suoi ultimi discorsi, quello al clero romano del 14 febbraio scorso. Non per caso la dichiarazione sulla libertà religiosa è stata redatta con il forte contributo dei vescovi e dei teologi nordamericani.
La libertà religiosa vi è affermata chiaramente come diritto universale, fondato sulla dignità che appartiene per natura alla persona umana; non quindi, come spesso si faceva e si continua a fare, su un approccio relativistico che escluda il valore di verità di ogni religione e in particolare del cristianesimo.
Con il Concilio è stata ricuperata dunque, e concretizzata nell’attuale situazione storica, la concezione cristiana originaria della libertà del nostro rapporto con Dio.
Più in generale, il Vaticano II ha rappresentato il superamento, almeno in linea di principio, di quel ritardo storico del cattolicesimo nell’epoca moderna a cui ho accennato.
Il Concilio ha fatto propria infatti la centralità del soggetto umano, che è la rivendicazione di fondo dell’età moderna, mostrandone la radice cristiana e l’infondatezza della contrapposizione tra centralità dell’uomo e centralità di Dio.
Ha inoltre affermato la legittima autonomia delle realtà terrene (che a sua volta non significa negazione del rapporto con il Creatore). Il filosofo Giovanni Fornero, decisamente laico, scrive, alla voce “Laicismo” nel Dizionario di filosofia dell’Abbagnano, che per laicismo si intende “il principio dell’autonomia delle attività umane, cioè l’esigenza che esse si svolgano secondo regole proprie, che non siano imposte dall’esterno, per fini o interessi diversi da quelli a cui tali attività si ispirano”. Ma queste sono, quasi alla lettera, le parole con cui il Vaticano II (Gaudium et spes, 36) definisce la legittima autonomia delle realtà terrene.
Quindi anche sulla laicità, come sulla libertà religiosa e sulla centralità del soggetto umano, si poteva sperare che dopo il Concilio il contenzioso tra “cattolici” e “laici” (per usare una terminologia che non mi convince) fosse ormai alle nostre spalle. In particolare per l’Italia anche l’ostacolo del Concordato sembrava sostanzialmente rimosso, dopo che l’accordo di revisione del 1984 aveva espressamente riconosciuto che “si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato nei Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano”.
Le vicende degli ultimi decenni sembrano però smentire crudamente una tale speranza: ci troviamo infatti in una fase nuova, e acuta, della contesa intorno alla laicità, o forse più propriamente al ruolo della fede nello spazio pubblico. Ma in realtà l’oggetto del contendere si è profondamente modificato.
Non si tratta più, almeno in linea principale, dei rapporti tra Chiesa e Stato come istituzioni: a questo riguardo infatti la loro distinzione e l’autonomia reciproca sono sostanzialmente accettate e condivise sia dai cattolici sia dai laici, e con esse l’apertura pluralista degli ordinamenti dello Stato democratico e liberale alle posizioni più diverse, che di per sé hanno tutte, davanti allo Stato, uguali diritti e uguale dignità. Le polemiche che vengono sollevate su queste tematiche sembrano dunque piuttosto pretestuose e sono probabilmente il riflesso dell’altro e ben più consistente contenzioso di cui ora dobbiamo occuparci.
Oggetto di quest’ultimo sono principalmente le grandi problematiche etiche ed antropologiche che sono emerse negli ultimi decenni, a seguito sia dei profondi cambiamenti intervenuti nei costumi e nei comportamenti sia delle nuove applicazioni al soggetto umano delle biotecnologie, che hanno aperto orizzonti fino ad un recente passato imprevedibili.
Queste problematiche hanno infatti chiaramente una dimensione non soltanto personale e privata ma anche pubblica e non possono trovare risposta se non sulla base della concezione dell’uomo a cui si fa riferimento: in particolare della domanda di fondo se l’uomo sia soltanto un essere della natura, frutto dell’evoluzione cosmica e biologica, o invece abbia anche una dimensione trascendente, irriducibile all’universo fisico.
Sarebbe strano, dunque, che le grandi religioni non intervenissero al riguardo e non facessero udire la loro voce sulla scena pubblica. Come è naturale, di questo si fanno carico anzitutto, nelle diverse aree geografiche e culturali, le religioni in esse prevalenti: in Occidente quindi il cristianesimo e in particolare, specialmente in Italia, la Chiesa cattolica.
In concreto la loro voce risuona con una forza che pochi avrebbero previsto quando una secolarizzazione sempre più radicale era ritenuta il destino inevitabile del mondo contemporaneo, o almeno dell’Occidente: quando cioè sembrava fuori dall’orizzonte quel risveglio, su scala mondiale, delle religioni e del loro ruolo pubblico che è una delle grandi novità degli ultimi decenni. Vorrei ricordare, a questo proposito, la sorpresa e lo sconcerto che provocarono, anche in ambito cattolico, le affermazioni fatte da Giovanni Paolo II al convegno di Loreto, nell’ormai lontano aprile 1985, quando invitò a riscoprire “il ruolo anche pubblico che il cristianesimo può svolgere per la promozione dell’uomo e per il bene dell’Italia, nel pieno rispetto anzi nella convinta promozione della libertà religiosa e civile di tutti e di ciascuno, e senza confondere in alcun modo la Chiesa con la comunità politica”.
La vera alternativa alle grandi religioni a proposito delle questioni antropologiche ed etiche ha, per così dire, due facce, tra loro certamente collegate ma alla fine reciprocamente incompatibili.
Da una parte essa è costituita – come si è detto – dal “naturalismo”, cioè dalla convinzione che l’uomo sia integralmente riconducibile alla natura, all’universo fisico: viene meno così quel primato del soggetto umano, da considerarsi sempre come fine e mai semplicemente come mezzo, che aveva costituito l’istanza fondamentale della modernità. Questa concezione naturalistica è presentata per lo più come il risultato delle scienze empiriche, dimenticando l’autentica natura della conoscenza scientifica, che per i suoi stessi metodi è limitata a ciò che è empiricamente verificabile e non può pretendere, senza contraddirsi, di costituire una visione globale della realtà: di una simile pretesa, infatti, nessuna verifica sperimentale è possibile o anche solo ipotizzabile.
L’altra faccia dell’alternativa alle grandi religioni è la rivendicazione della libertà individuale, in rapporto alla quale andrebbe evitata ogni discriminazione. Questa libertà, per la quale in ultima analisi tutto è relativo al soggetto, viene eretta a supremo criterio etico e giuridico: ogni altra posizione può essere quindi lecita soltanto finché non contrasta ma rimane subordinata rispetto a questo criterio relativistico. In tal modo vengono sistematicamente censurate, quanto meno nella loro valenza pubblica, le norme morali del cristianesimo. Si è sviluppata così in Occidente quella che Benedetto XVI ha ripetutamente denominato “la dittatura del relativismo”, una forma di cultura che taglia deliberatamente le proprie radici storiche e costituisce una contraddizione radicale non solo del cristianesimo ma più ampiamente delle tradizioni religiose e morali dell’umanità.
Vediamo ora perché relativismo e naturalismo siano in realtà tra loro incompatibili. Già sul piano logico, il naturalismo pretende di rappresentare l’interpretazione scientifica del mondo, e dell’uomo in esso. Non è pertanto compatibile con il relativismo, per il quale ogni interpretazione è semplicemente soggettiva e destituita di validità universale.
Ma è soprattutto sul piano esistenziale, a livello del vissuto di ciascuno di noi, che la contraddizione esplode. Il relativismo, infatti, ha il suo nucleo nell’esaltazione e potremmo dire nell’assolutizzazione della libertà individuale, quindi nel valore e nella centralità del singolo soggetto. Ma è proprio questo ciò che viene radicalmente escluso dalla riconduzione del soggetto umano alla natura, a una natura che non sa niente di lui e non si cura affatto di lui. Questa contraddizione è alla base dello spaesamento e dell’inquietudine che affliggono oggi soprattutto i giovani, ma certo non soltanto essi. È qui la radice profonda di un certo affievolirsi della fiducia nella vita, anzi della voglia di vivere.
Il taglio delle proprie radici prende spesso la forma dell’odio verso la propria civiltà: si tratta di un fenomeno diffuso nell’Europa occidentale e ripetutamente denunciato da Benedetto XVI. Questo odio si rivolge particolarmente verso il cristianesimo, considerato il principale ostacolo al naturalismo e al relativismo, e a volte si insinua anche tra i credenti, svuotando dall’interno la fede cristiana e l’appartenenza alla Chiesa del loro vigore e del loro fascino.
Simili posizioni sono però lontane dall’essere da tutti condivise, anche nel cosiddetto “mondo laico”. Molti laici, infatti, ritengono di doverle rifiutare, per rimanere fedeli alle origini e alle motivazioni autentiche del liberalismo, che giudicano incompatibili con la dittatura del relativismo perché, come ha sottolineato Marcello Pera, al centro del liberalismo sta la dottrina dei diritti fondamentali dell’uomo in quanto uomo, che precedono ogni decisione sia degli individui sia degli Stati e si fondano su una concezione etica ritenuta vera e transculturale.
Joseph Ratzinger, prima e dopo la sua elezione al Pontificato, ha motivato sul piano sia storico sia teologico questa nuova sintonia tra cattolici e laici, arrivando a sostenere che la distinzione tra gli uni e gli altri “deve essere relativizzata”. Ritengo anch’io che il loro rapporto non debba necessariamente esaurirsi in un semplice dialogo, pur rispettoso e amichevole, ma possa e debba dar luogo a vere forme di collaborazione, richieste dalla presente situazione storica.
È doveroso aggiungere però che non tutti i cattolici condividono l’apertura cordiale a quei laici che sostengono queste posizioni: non mancano infatti coloro che li vedono con sospetto, temendo – secondo me a torto – che strumentalizzino la fede cristiana a fini ideologici e politici.
Il motivo principale di tale diffidenza è che non pochi, sebbene cattolici, non appaiono realmente convinti della necessità di un impegno forte nel campo dell’etica pubblica. In concreto questi cattolici rimangono piuttosto legati, in materia di laicità, al quadro classico della divisione di competenze tra istituzioni civili ed istituzioni ecclesiastiche e mi sembrano non cogliere pienamente la portata della novità costituita dall’emergere delle attuali problematiche antropologiche ed etiche.
Alcuni di loro sono anzi portati a rivendicare per sé l’autentica laicità, intesa come richiamo alla propria coscienza e come autonomia e indipendenza dal magistero della Chiesa nell’ambito dell’assunzione di responsabilità pubbliche e di scelte legislative. Sul piano politico e giuridico essi hanno certamente il diritto di agire così, ma non possono pretendere che questi comportamenti siano, per un cattolico, anche teologicamente ed ecclesialmente legittimi. Infatti, mentre per chi non è cattolico gli insegnamenti della Chiesa possono avere valore solo nella misura in cui appaiano razionalmente convincenti, per i cattolici essi hanno valore anche e anzitutto in quanto sono espressione del messaggio cristiano nelle concrete circostanze storiche.
Spingendo l’analisi più in profondità, rimane attuale la celebre tesi del grande giurista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde secondo la quale lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire e tra questi svolgono un ruolo peculiare gli impulsi e i vincoli morali di cui la religione è la sorgente.
Molto recentemente Rémi Brague ha proposto un importante aggiornamento della tesi di Böckenförde: anzitutto estendendola dallo Stato all’uomo di oggi, che in larga misura ha smesso di credere nel proprio valore, a causa della sua tendenziale riduzione alla natura e del predominare del relativismo. È l’uomo dunque, e non solo lo Stato, ad aver bisogno oggi di un sostegno che non è in grado di garantirsi da se stesso.
In secondo luogo la religione non è soltanto, e nemmeno primariamente, fonte di impulsi e vincoli etici, come sembra pensare Böckenförde. Oggi, prima che di assicurare dei limiti e degli argini, si tratta di trovare delle ragioni di vita e questa è, fin dall’inizio, la funzione, o meglio la missione più propria del cristianesimo: esso infatti ci dice anzitutto non “come” vivere, ma “perché” vivere, perché scegliere la vita, perché gioirne e perché trasmetterla.
In una prospettiva di questo genere sembra da capovolgere l’idea assai diffusa secondo la quale il progresso e il futuro dell’Italia consisterebbero nell’omologarsi a quelle altre nazioni europee nelle quali si è andati e si sta andando sempre più avanti nel mettere tra parentesi l’eredità del cristianesimo.
Al contrario, “l’eccezione italiana” – nei limiti in cui realmente esiste – può rappresentare un’indicazione positiva perché la società europea possa superare quella sua strana tendenza per la quale essa sembra compiacersi di prosciugare le energie vitali e morali di cui si nutrono le persone, le famiglie, i popoli. Proprio la percezione del valore decisivo di queste riserve di energie è ciò che accomuna oggi molti cattolici e laici e che indica un grande compito comune che ci attende.
Prendiamo ora in esame l’obiezione che viene continuamente riproposta, secondo la quale ogni riferimento a contenuti e valori oggettivi e non relativistici costituirebbe una inaccettabile limitazione della libertà e in concreto l’imposizione di una visione particolare, quella cristiana, anche a chi non la condivide.
Un’obiezione di questo genere può anzitutto essere facilmente ritorta: proprio il relativismo, infatti, tende facilmente ad assolutizzarsi, cioè a negare la liceità di posizioni diverse dalle sue, perché le ritiene incompatibili con la libertà. In questi anni ne abbiamo avuto varie conferme pratiche, come nel caso delle agenzie per l’adozione dei bambini costrette a chiudere in Inghilterra se non erano disponibili a patrocinare l’adozione da parte di coppie dello stesso sesso.
In realtà nessuna società o consorzio umano può sussistere senza dotarsi di alcune norme che valgano per tutti i suoi membri. Perché una società sia libera ciò che conta è che queste norme vengano stabilite attraverso il libero gioco democratico e che attraverso il medesimo gioco possano essere modificate o anche cambiate integralmente. È questa la condizione comune in cui si trovano sia coloro che vogliono introdurre cambiamenti sostanziali nelle concezioni antropologiche ed etiche che erano condivise praticamente da tutti fino a un secolo fa, sia coloro che vogliono invece conservarle nella loro sostanza. Gli uni e gli altri possono ugualmente concorrere a stabilire le norme che valgono per tutti: prevarrà chi saprà ottenere la maggioranza dei consensi.
Ciò naturalmente non significa che competa a una maggioranza stabilire cosa sia vero o falso, e nemmeno cosa sia in se stesso giusto o ingiusto. Il gioco democratico non riguarda la verità delle cose, ma solo le regole comuni di comportamento. Coloro che, per motivi di coscienza, ritengono di non potersi adeguare a tali norme, è giusto che abbiano la possibilità dell’obiezione di coscienza. Se le leggi, in quel caso, non consentono tale obiezione, si potrà dare testimonianza delle proprie convinzioni in una forma più costosa ma anche più forte, affrontando le pene previste dalla legge. In effetti i più eroici ed efficaci obiettori di coscienza furono e sono i martiri cristiani delle diverse epoche storiche.
Vorrei infine cancellare l’impressione per la quale le posizioni che si rifanno a una matrice cristiana, sia perché animate dalla fede sia per motivi non di fede ma di cultura, sarebbero inevitabilmente prigioniere del passato e incapaci di aprirsi agli sviluppi e ai cambiamenti che ci attendono e sono anzi già in corso.
Ho sottolineato infatti che il cristianesimo è la religione sia del Logos, sia della libertà, sia dell’amore e della persona come essere in relazione. Sono questi i contenuti essenziali da salvaguardare e proprio essi aprono al futuro, che è appunto il frutto della nostra ragione e della nostra liberà e che può essere costruito in maniera utile e non distruttiva solo attraverso la capacità di relazionarsi all’altro e di collaborare con lui, come mostra tutta l’esperienza storica.
Perciò non si tratta affatto di negare la storicità dell’uomo e il variare delle forme storiche in cui la convivenza umana si realizza. Si tratta solo di mantenere, in questo continuo variare, quei fattori essenziali che rendono possibile uno sviluppo autentico, perché conforme alla specificità e dignità irriducibile del nostro essere.
Per riassumere tutto si potrebbe dire che, come nel medioevo si ebbe una prevalenza unilaterale della verità sulla libertà, così la tentazione del nostro tempo è un’altrettanto unilaterale prevalenza della libertà sulla verità del nostro essere.
Tenere distinti questi due piani, della libertà e della verità, ma anche cercare sempre di nuovo una loro possibile sintesi è la difficile impresa che il tempo in cui viviamo ha davanti a sé.

Roma, 6 maggio 2013

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San Josaphat

San Josaphat dans immagini sacre st-josaphat

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SAN GIOSAFAT KUNCEWICZ – VESCOVO E MARTIRE (CA. 1580-1623) 12 NOVEMBRE

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SAN GIOSAFAT KUNCEWICZ – VESCOVO E MARTIRE (CA. 1580-1623) 12 NOVEMBRE

Jozafat Kuncewicz

Fu il primo santo orientale a essere preso in esame dalla Congregazione dei riti. Alla ricchezza e ad un buon matrimonio preferì il monastero. Lottò fino alla fine per l’unione della chiesa orientale con Roma.
Giosafat fu un grande ecumenico tre secoli prima che si iniziasse a parlare seriamente di ecumenismo; il suo nome di battesimo era Joann Kuncewycz e nacque probabilmente nel 1580 ca., a Vladimir, nell’attuale Ucraina nord-occidentale.

Il padre era un ricco mercante cittadino e Joann frequentò la scuola in quella città, ma quando fu abbastanza grande, fu mandato a lavorare come apprendista presso un mercante di Vilna (l’odierna Vilnius, in Lituania); anche se lavorava duramente, non era particolarmente interessato al commercio e trascorreva il suo tempo libero imparando il linguaggio ecclesiale slavo per poter partecipare più attivamente al culto e recitare parte dell’Ufficio ogni giorno. Fece amicizia con Petrus Arcudis, allora rettore del collegio orientale a Vilna, e con due gesuiti, Valentino Fabrizio e Gregorio Gruzevsky, che gli diedero s_giosafat_biografiatutto il loro appoggio.
All’inizio il mercante presso cui lavorava pensò che questo interesse per la religione fosse incompatibile con il lavoro; ad ogni modo, il giovane era così abile che alla fine gli offrì una sorta di società e una delle sue figlie in matrimonio, ma Joann, già deciso a diventare monaco, rifiutò entrambe le offerte e nel 1604 entrò nel monastero della Santa Trinità a Vilna.
Nell’ottobre 1595, mentre Joann era ancora adolescente, il metropolitano ortodosso di Kiev e altri cinque vescovi, rappresentanti di milioni di ruteni (bielorussi e ucraini), si radunarono a Brest per prendere in considerazione un riavvicinamento alla Chiesa di Roma, azione che causò una controversia lunga, spiacevole e talvolta violenta che chiaramente stimolò l’immaginazione di Joann.
Al momento del suo ingresso in monastero Joann aveva persuaso a fare altrettanto un altro giovane, Venyam Rutsky, studioso in precedenza calvinista, ordinato da papa Clemente VIII (1592-1605) e obbligato, suo malgrado, all’osservanza del rito bizantino; insieme i due amici iniziarono a cercare un modo per favorire la comunione con Roma e riformare S. GIOSAFATl’osservanza monastica in Rutenia, dando origine perciò al movimento monastico di quel paese chiamato alla fine Ordine di S. Basilio, i cui membri sono stati chiamati basiliani di San Giosafat nel 1932.
Joann, che scelse il nome di Giosafat, fu ordinato diacono e poi sacerdote, guadagnandosi subito la fama di predicatore; in particolare sull’argomento della comunione con Roma, e diventando famoso per il suo stile di vita austero. Quando Rutsky divenne abate al monastero della Santa Trinità, al posto di un separatista, vi fu un improvviso aumento del numero dei postulanti che chiedevano di entrare in quel convento, perciò Giosafat dovette abbandonare gli studi per contribuire alla fondazione di nuovi monasteri in Polonia; poi, nel 1614, Rutsky divenne metropolita di Kiev, e Giosafat, che assunse al suo posto l’incarico di abate del monastero della Santa Trinità, approfittò della posizione dell’amico per visitare il monastero della Cava, vicino a Kiev, una congregazione composta da duecento monaci, che trascuravano per certi aspetti la disciplina. Giosafat, pur fallendo nel tentativo di far condividere ai monaci il suo punto di vista riguardo la comunione e rischiando di essere gettato nel fiume Dniepr, riuscì invece, grazie alla semplice forza della sua personalità, a mutare il loro atteggiamento, rinforzando la loro volontà.
Nel 1617 Giosafat fu nominato vescovo di Vitebsk, con il diritto di succedere al vecchio arcivescovo di Polotsk, che morì alcuni mesi dopo, e dovette affrontare tutti i problemi di una diocesi grande e divisa. Il popolo più devoto temendo l’interferenza di Roma nel culto e nella devozione, era favorevole allo scisma; inoltre le chiese erano state molto trascurate, i benefici erano in possesso dei laici e il livello della vita monastica era decaduto. I sacerdoti secolari si sposavano due o tre volte (un uomo sposato può essere ordinato nella Chiesa ortodossa, ma non si può risposare se la moglie muore).
Nei due anni successivi, con l’aiuto dei monaci del suo monastero di Vilna, Giosafat s’impegnò molto per riportare l’eparchia (diocesi) a un buon livello: tenne alcuni sinodi in tutte le principali città, pubblicò un catechismo e ordinò di usarlo, diede al clero un codice di comportamento e contrastò l’interferenza dei signori del luogo nelle questioni ecclesiastiche; allo stesso tempo, offrì un esempio personale con il duro lavoro, la predicazione, l’amministrazione dei sacramenti, l’assistenza ai malati e ai detenuti, anche nei villaggi più remoti.
Nel 1620, appena l’ordine fu ripristinato, fu istituita una gerarchia rivale di vescovi accanto a quella esistente, nel territorio soggetto all’Unione di Brest; al ritorno da Varsavia, Giosafat scoprì di essere stato tradito da un certo Melizio Smotritsky, che era stato mandato come arcivescovo di Polotsk. La nobiltà, e in molti luoghi, incluso Polotsk, il popolo, rimasero fedeli a Giosafat e alla comunione con Roma, ma alcune città, come Vitebsk, Mogilev e Orcha, e alcune zone rurali, erano tendenzialmente favorevoli a Smotritskj, che insisteva che il cattolicesimo non era la religione tradizionale della Rutenia. Sfortunatamente Giosafat, inflessibile nel dare il suo appoggio a Roma, cominciò a perdere i suoi naturali alleati; i vescovi polacchi non lo sostenevano più come avrebbero potuto fare a causa della sua decisa insistenza sul diritto del clero e del culto bizantino di essere alla pari di quello romano. Leone Sapieha, inoltre, il cancelliere cattolico della Lituania, temendo una sommossa in conseguenza dei possibili risultati politici, credette troppo facilmente ai dissidenti che sostenevano che proprio la politica di Giosafat era la vera causa dei disordini; nel 1622, accusò Giosafat di essere ricorso alla violenza per mantenere l’unione.
D’allora, Giosafat fu attaccato da entrambe le parti, ma non si lasciò scoraggiare; alla fine di ottobre del 1623, decise ancora una volta di andare di persona a Vitebsk, un focolaio della protesta contro Roma; sebbene sapesse di affrontare un grande pericolo, rifiutò la scorta militare e per una quindicina di giorni, trascorsi insieme alla sua scorta tra le minacce, predicò pubblicamente nelle strade e fece visita al popolo nelle case.
Senza alcun dubbio, l’unico scopo di Smotritsky nel sollevare il malcontento era quello di cacciare il suo rivale da Polotsk, ma come spesso avviene, i suoi seguaci spinsero gli avvenimenti all’estremo e complottarono l’assassinio di Giosafat. Il 12 novembre, cadendo nella trappola, Giosafat permise ai suoi servitori di ospitare in casa sua un sacerdote di nome Elia; al segnale convenuto, si San Giosafatpresentò un gruppo di persone chiedendo che l’uomo fosse liberato e l’arcivescovo punito; ma al ritorno di Giosafat, che decise di lasciare andare Elia, la folla delusa entrò nel monastero e attaccò i suoi servitori. Giosafat protestò, usando le parole di Beckett:
«Miei figli, cosa state facendo ai miei servi? Se avete qualcosa contro di me, eccomi qua, ma lasciateli stare»; fu subito trafitto da un’alabarda e gettato nel fiume Ovina.
Dopo la morte di Giosafat vi fu una reazione positiva nei confronti dell’unione con Roma, ma questo amaro conflitto continuò e i dissidenti ebbero il loro martire nel vescovo Atanasio di Brest, ucciso nel 1648; in ogni caso, l’arcivescovo Smotritsky alla fine si riconciliò con Roma.
Quando Giosafat fu canonizzato da papa Pio IX, nel 1867, fu il primo santo orientale a essere preso in esame dalla Congregazione dei riti; nel 1892 papa Leone XIII estese la sua festa a tutta la Chiesa d’Occidente il 14 novembre, sebbene in Ucraina, e in altri luoghi, continuasse a essere festeggiata il 12 novembre (festa che è stata ripristinata in Occidente).

Fonte: Il primo grande dizionario dei santi di Alban Butler

 

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ARTE E LITURGIA – L’ARREDO FLOREALE SEGNO DI BELLEZZA E DI FESTA

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ARTE E LITURGIA – L’ARREDO FLOREALE SEGNO DI BELLEZZA E DI FESTA

di MICAELA SORANZO

Vita Pastorale n. 5 maggio 2007 – Home Page Oggi nelle nostre chiese la presenza floreale appare triste o non adatta. I fiori invece possono essere un supporto per la preghiera.
«Io darò convegno agli Israeliti in questo luogo, che sarà consacrato alla mia Gloria. Consacrerò la tenda del convegno e l’altare» (Es 29,43-44).
È il Signore che ci chiama a radunarci in un luogo, che ci dà convegno attorno al suo altare. Nel Proemio all’Ordinamento generale del Messale Romano (OGMR 1) si fa specifico riferimento alla «grande sala già addobbata e pronta» dove «il Maestro desidera fare la cena pasquale con i suoi discepoli» (cf Mc 14,14; cf Lc 22,12).
La comunità cristiana ha bisogno per la propria espressione non solo della partecipazione attiva dei fedeli, ma anche di un’atmosfera di bellezza. Quindi il luogo in cui si riunisce per celebrare i sacramenti non è un elemento indifferente per la celebrazione stessa. Si devono, pertanto, adottare opportuni accorgimenti, come la cura della «diffusione sonora della voce, un’idonea illuminazione e tutto ciò che concorre a creare un’atmosfera nobile, accogliente e festosa» (ACRL 15). Ma è davvero questa l’atmosfera che ci accoglie quando entriamo in chiesa per partecipare alla liturgia domenicale o in un momento qualsiasi per pregare o per una visita?
Eppure gli elementi presenti, anche quelli più legati all’uso abituale, creano un clima che può facilitare la sosta o renderla meno gradevole: i fiori, la tovaglia, i candelieri, le luci parlano, sono qualcosa di più che semplici oggetti. I fiori nelle chiese sono sempre stati presenti, ma purtroppo oggi si evidenzia una presenza floreale triste o non adatta, rivelatrice di un vero e proprio vuoto; vi è una tale « superficialità in queste decorazioni floreali, che spesso testimoniano, al di là di un vago sentimentalismo, indifferenza, fretta, negligenza: i luoghi della celebrazione, soprattutto l’altare, o sono stravolti da una disordinata abbondanza di addobbi, dove i fiori avvizziscono nei vasi, oppure sono completamente spogli. Bisogna, invece, comprendere che i fiori sono un supporto per la preghiera e la contemplazione. Ma perché i fiori?
Senza dubbio per la loro bellezza, ma forse anche perché entrano a far parte di un clima gioioso, di un’atmosfera di festa. Il senso religioso ha spinto tutti i popoli in tutti i secoli, per le loro feste e le loro preghiere, a cogliere dei fiori per manifestare, attraverso loro, i sentimenti che provano e che non sanno esprimere.
Il fiore, secondo la Bibbia, è simbolo della bellezza e della grazia terrena, ma ricorda il paradiso, la beatitudine celeste. La martire cartaginese Perpetua in una visione contempla l’al di là come un giardino fiorito con rosai alti come cipressi. Nel linguaggio figurato della Bibbia il fiore, per la sua delicatezza, è anche simbolo dell’incostanza e della caducità proprie delle creature, un’immagine del carattere fugace della bellezza. L’uomo «come il fiore del campo, così egli fiorisce. Lo investe il vento e più non esiste, e il suo posto non lo riconosce» (Sal 103,15-16). La stessa idea si trova in Isaia: «Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua gloria è come un fiore del campo» (Is 40,6). Nell’Antico Testamento il fiorire e l’essere uniti a Dio sono in stretta correlazione; in questo senso vanno intese le parole del Siracide: «Ascoltatemi, figli santi, e crescete come una pianta di rose su un torrente. Come incenso spandete un buon profumo, fate fiorire fiori come il giglio» (39,13).
La Chiesa delle origini si riuniva nella domus Ecclesiae; se la casa era di un patrizio, i fiori erano dipinti a fresco sui muri; le primitive tombe si trovavano spesso in mezzo a un giardino e venivano ornate con fiori freschi, ma anche con raffigurazioni di fiori e ghirlande per evocare l’immagine del giardino edenico. Nonostante i Padri della Chiesa, come Ambrogio o Girolamo, fossero contrari all’usanza di deporre fiori sulle tombe dei cristiani, tali consigli non allontanarono i fedeli dall’offrire fiori per la decorazione della chiesa. Si ornava la chiesa nei giorni di festa con festoni di foglie verdi, di viti e di fiori e si spargevano fiori sul pavimento: questi tappeti fioriti diventeranno poi mosaici.
I documenti della Chiesa e i libri liturgici, anche i più recenti, sono molto sobri nel trattare il tema dei fiori nella liturgia. Solo la recente edizione dei Praenotanda al Messale Romano fa riferimento specifico non solo all’uso dei fiori, ma anche al luogo dove metterli in relazione all’altare, precisando che «l’ornamento dei fiori sia sempre misurato e, piuttosto che sopra la mensa dell’altare, si disponga attorno ad esso» (OGMR 305). Nel Caerimoniale episcoporum (1984) si accenna solo all’opportunità o meno di disporre i fiori secondo i tempi liturgici in riferimento all’altare (236-252), al rito delle esequie (824), al luogo della reposizione (299c) e dell’adorazione eucaristica (1104).
Per la sistemazione dei fiori, le note pastorali dei vescovi La progettazione di nuove chiese e L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica invitano a realizzare apposite fioriere da collocare all’interno dello spazio celebrativo o «nell’area presbiterale, non solo per l’effetto di ordine, ma per l’uso liturgico nei tempi e nei modi consentiti» (PNC 18), «data la rilevanza che tale arredo può assumere nella decorazione dell’altare e degli altri luoghi della chiesa» (ACRL 24). Inoltre si precisa l’utilizzo di piante e fiori veri, scartando ogni addobbo con fiori artificiali.
Innanzitutto è importante sapere dove vanno collocati gli addobbi floreali, per evitare di spargerli indistintamente per tutta la chiesa o di concentrare tutto sul presbiterio trasformandolo in una serra. Attualmente fiori recisi e in vaso si mescolano a piante verdi; le collocazioni sono a volte bizzarre e il presbiterio si trasforma in un percorso a ostacoli; ogni spazio libero, ogni sporgenza va bene per appoggiare un vaso di fiori o una piantina, per non parlare della varietà di contenitori utilizzati. Una bella decorazione floreale, infatti, ha il compito di valorizzare e dare significato ai luoghi della celebrazione, non di nasconderli.
L’altare è prima di tutto la mensa del Signore; richiama la mensa nel Cenacolo o la tavola nella casa di Emmaus, dove i discepoli riconobbero il Signore nello spezzare il pane (cf Lc 24,27-31). Ma l’altare è punto di unità e fonte di grazia, perché l’altare è Cristo, così come affermano i Padri della Chiesa. Per questo nel Rito della dedicazione viene unto ed è oggetto di molti segni di venerazione, come l’inchino, il bacio, l’incensazione, l’omaggio floreale.
Nei primi secoli i fiori ornavano le tombe dei martiri in conformità all’uso di ornare i sepolcri; non risulta che si collocassero fiori sull’altare, ma solo attorno ad esso, soprattutto se l’altare conteneva la tomba di un martire. Poiché chiese e altari sono strettamente collegati alle tombe dei martiri, ne assumono ben presto l’ornamento floreale. Di quest’uso parlano Paolino da Nola, Ambrogio e Girolamo, che nella lettera a Eliodoro loda Nepoziano per il suo amore nell’adornare le chiese e le cappelle dei martiri con ogni varietà di fiori, ramoscelli d’alloro e tralci di vite. Tutti, però, parlano di fiori e di belle fronde verdi, nessuno accenna a fiori artificiali: meglio fare a meno dei fiori!
Dopo la visita pastorale del 1932 il cardinale vicario di Roma proibisce tutti i fiori artificiali e scrive: «I fiori artificiali sono interdetti. Debbono essere rimossi dalle chiese e dagli oratori, né possono esservi collocati per qualsiasi ragione. Ad ornamento delle chiese e degli altari si possono usare, sobriamente, piante e fiori freschi, che tra noi abbondano tutto l’anno».
Il fiore è reciso, dunque sacrificato, e sull’altare va posto solo ciò che si consuma, come le candele che bruciano. I colori, il profumo, l’armonia di un’equilibrata composizione dispongono l’animo dei presenti. Gli altari, anche nelle maggiori solennità, non devono mai essere trasformati in serre di fiori, perché all’ornamento dello spazio sacro si addice meglio la discrezione e il buon gusto.
Per quanto riguarda l’ambone, esso viene teologicamente definito dai Padri della Chiesa come icona spaziale della risurrezione, cioè come immagine visibile di Cristo risorto che emerge dal sepolcro e proclama la risurrezione a tutti gli uomini. Ecco perché al luogo dell’ambone è collegata l’immagine del giardino. «Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro vuoto, nel quale nessuno era stato deposto. Là, dunque, deposero Gesù» (Gv 19,41-42a). È in questo giardino che le donne ricevono l’annuncio che Cristo è risorto (cf Gv 20,11-18).
In molte chiese antiche, come San Clemente a Roma, c’è il giardino al centro della basilica, che unisce l’altare-risurrezione con l’ambone-sepolcro vuoto; è il giardino dell’Eden rinnovato (Gen 2,15), è il giardino della morte e risurrezione del Signore, è il giardino della sposa del Cantico dei Cantici (Ct 4,12; 5,1), è il giardino escatologico dell’Apocalisse (Ap 21,10; 22,2). In questi monumenti troviamo decorazioni con viti, fiori, foglie e simili e quindi anche noi poniamo fiori nelle nostre chiese, accanto l’altare e l’ambone non solo per motivo estetico, di abbellimento, ma per ricostruire simbolicamente questo ambiente sponsale di alleanza. Lo spazio destinato all’area battesimale, e quindi non solo il fonte, è il luogo dove si chiede di essere accolti in seno alla Chiesa; deve essere un luogo vivo, gioioso, al quale va dato rilievo anche al di fuori della celebrazione del rito. Alla catechesi battesimale cristiana si collega anche il tema della piantagione per designare la Chiesa, che è il paradiso di Dio, formato da alberi che sono i cristiani, piantati dal battesimo (cf 1Tm 3,6). Molti Padri, da Cipriano a Ippolito a Origene, parlano della Chiesa, paradiso di Dio, dove vi è un bel giardino con alberi carichi di frutti.
Deve essere dunque, il fonte battesimale, un ambiente di grande festa, perché è la casa del Padre tutta addobbata e ricca di fiori per accogliere il battezzando. Tertulliano chiama i cristiani Christi florentes, fioritura di Cristo, e quello dei fiori è uno degli elementi decorativi battesimali più frequenti; molte sono le suggestioni che nascono dall’immagine del fiore o dell’albero frondoso: dalla fioritura della radice di Jesse alla terra promessa carica di frutti. Per questo è importante che nell’area battesimale oltre alle decorazioni opportune, si mantenga costantemente presente il segno sacramentale dell’acqua, il cero pasquale, luce di Cristo, e una composizione di fiori, frutta e piante verdi a richiamo della nostra futura vita di battezzati.
Al di là dei luoghi in cui collocare un addobbo floreale l’attenzione principale, però, deve essere sempre e comunque alla liturgia; essa ha bisogno del linguaggio dei fiori, perché i fiori introducono nell’immobilità dell’architettura lo scorrere dell’anno liturgico e la diversità delle feste. A questo proposito, l’OGMR 305 chiarisce bene che nel tempo di Avvento è consentito ornare di fiori la chiesa in modo sobrio, per non «anticipare la gioia piena della Natività del Signore», mentre in Quaresima è assolutamente proibito l’uso dei fiori, fatta eccezione per la domenica Laetare, le solennità e le feste.
Questo non significa, però, che dobbiamo avere un presbiterio spoglio, ma lo possiamo addobbare con foglie, rami o bacche, di cui la natura è molto generosa. Inoltre, se la chiesa-edificio è immagine visibile della Chiesa-popolo di Dio, non è possibile entrarvi e trovare un ambiente « asettico », « fuori del tempo », ma essa deve far capire quale tempo liturgico si sta attraversando e soprattutto quale comunità parrocchiale lo sta vivendo hic et nunc.
Bisogna pensare sempre che la decorazione floreale è un arredo e quindi si deve adattare strettamente al luogo, allo stile: una chiesa romanica è molto diversa da una chiesa barocca o contemporanea. Insieme alla liturgia è necessaria anche una formazione biblica per preparare una composizione floreale, perché senza questo bagaglio culturale il rischio più facile è quello di appoggiarsi sull’allegoria, cadendo inevitabilmente in una casistica.
Bisogna evitare di stabilire una dottrina delle forme, dei colori o delle specie vegetali in funzione di una « simbolica » estranea alla nostra cultura. È importante anche variare la decorazione floreale secondo le stagioni dell’anno: dai grandi fiori colorati dell’estate alle belle foglie dell’autunno, così come non si può escludere la presenza dei frutti, che fanno parte della tradizione più antica della Chiesa delle origini: limoni, cedri, arance, melograni, ciliege possono arricchire le composizioni dando loro un maggior significato simbolico; vi sono poi le foglie, i rami, le piante aromatiche.
Per la disposizione dei vasi e dei fiori non è necessario cercare la simmetria: spesso troppa simmetria stanca. Si deve scegliere solo il naturale, frutto della creazione e per ovviare a problemi economici meglio optare per i fiori di campo, che faranno comunque uno splendido effetto: Gesù ha ammirato i gigli di campo più belli di Salomone in tutta la sua gloria! (cf Lc 12,27). Paolo lo dice chiaramente ai Romani: dalla creazione del mondo, le opere di Dio rendono visibili all’intelligenza i suoi attributi invisibili (cf Rm1,20). La composizione floreale dello spazio sacro è un’arte che esige misura, discrezione, economia di mezzi, creatività e disciplina: è un’arte che deve parlare al cuore degli uomini, perché «questo mondo, nel quale noi viviamo, ha bisogno di bellezza per non cadere nella disperazione» (Paolo VI, Messaggio del Concilio agli artisti, 8.12.65).

Micaela Soranzo

Vita Pastorale n. 5 maggio 2007 

Publié dans:liturgia |on 11 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

Ermitorio del Calvario, Alcora Spagna, Dio Padre

Ermitorio del Calvario, Alcora Spagna,  Dio Padre dans immagini sacre 1024px-Ermitorio_del_Calvario_5

http://en.wikipedia.org/wiki/God_the_Father_in_Western_art

Publié dans:immagini sacre |on 10 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

PAPA: « IL CRISTIANO È UN UOMO O UNA DONNA CHE SA ASPETTARE GESÙ E PER QUESTO È UOMO O DONNA DI SPERANZA » 21.10.14

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PAPA: « IL CRISTIANO È UN UOMO O UNA DONNA CHE SA ASPETTARE GESÙ E PER QUESTO È UOMO O DONNA DI SPERANZA »

21.10.14

« Noi senza Cristo non abbiamo identità ». Da « gente di strada » ci fa « concittadini dei Santi e familiari di Dio ». « Il pagano – e tante volte noi cristiani ci comportiamo come i pagani – si dimentica di Gesù, pensa a se stesso, alle sue cose, non aspetta Gesù. L’egoista pagano fa come se fosse un dio: ‘Io mi arrangio da solo’. E questo finisce male, finisce senza nome, senza vicinanza, senza cittadinanza ».

Città del Vaticano (AsiaNews) – « Il cristiano è un uomo o una donna che sa aspettare Gesù e per questo è uomo o donna di speranza ». Lo ha detto papa Francesco durante la messa che ha celebrato stamattina a Casa santa Marta, commentando il passo del Vangelo di Luca sul padrone che torna dalla festa di nozze e la Lettera agli efesini.
Nel primo, Cristo parla ai discepoli paragonandosi al padrone che rientra a tarda notte dalla festa di nozze e chiama « beati » i servi che lo aspettano svegli e con le lampade accese. La scena che segue vede Gesù farsi servo dei suoi servitori e portare loro il pranzo a tavola. Il primo servizio che il Maestro fa ai cristiani, ha evidenziato il Papa, è dare loro « l’identità ». « Noi senza Cristo non abbiamo identità ». E in proposito Francesco ha collegato quanto scrive san Paolo: « ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele ». « Quello che è venuto a fare Gesù con noi – ha commentato – è darci cittadinanza, appartenenza a un popolo, nome, cognome ». Così, da « nemici senza pace », Cristo « ci ha accomunato » col « suo sangue », « abbattendo il muro di separazione che divide ». « Tutti noi sappiamo che quando non siamo in pace con le persone, c’è un muro. C’è un muro che ci divide. Ma Gesù ci offre il suo servizio di abbattere questo muro, perché possiamo incontrarci. E se siamo divisi, non siamo amici: siamo nemici. E di più ha fatto, per riconciliare tutti in Dio. Ci ha riconciliato con Dio: da nemici, amici; da estranei, figli ».
Da « gente di strada » a « concittadini dei Santi e familiari di Dio », per dirla ancora come San Paolo. « Ma qual è la condizione? », si è chiesto il Papa. « Aspettarlo ». « Aspettare Gesù. Chi non aspetta Gesù, chiude la porta a Gesù, non lo lascia fare quest’opera di pace, di comunità, di cittadinanza, di più: di nome. Ci dà un nome. Ci fa figli di Dio. Questo è l’atteggiamento di aspettare Gesù, che è dentro la speranza cristiana. Il cristiano è un uomo o una donna di speranza. Sa che il Signore verrà. Davvero verrà, eh? Non sappiamo l’ora, come questi. Non sappiamo l’ora, ma verrà, verrà a trovarci, ma non a trovarci isolati, nemici, no. A trovarci come Lui ci ha fatto con il suo servizio: amici vicini, in pace ».
A questo punto, c’è un’altra domanda che il cristiano può porsi: come aspetto Gesù? E prima ancora: Lo « aspetto o non lo aspetto? ». « Io ci credo in questa speranza, che Lui verrà? Io ho il cuore aperto, per sentire il rumore, quando bussa alla porta, quando apre la porta? Il cristiano – ha concluso – è un uomo o una donna che sa aspettare Gesù e per questo è uomo o donna di speranza. Invece il pagano – e tante volte noi cristiani ci comportiamo come i pagani – si dimentica di Gesù, pensa a se stesso, alle sue cose, non aspetta Gesù. L’egoista pagano fa come se fosse un dio: ‘Io mi arrangio da solo’. E questo finisce male, finisce senza nome, senza vicinanza, senza cittadinanza ».

 

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