Archive pour novembre, 2014

IL MAESTRO NELLA BIBBIA – DI MONS. GIANFRANCO RAVASI

http://www.stpauls.it/studi/maestro/italiano/ravasi/itarav03.htm

IL MAESTRO NELLA BIBBIA

Atti del Seminario internazionale su « Gesù, il Maestro »

(Ariccia, 14-24 ottobre 1996)

DI MONS. GIANFRANCO RAVASI

II. Gesù Divin Maestro

Entriamo nel Nuovo Testamento e, in maniera particolare, nei vangeli. Il titolo dato a questa sezione, «Gesù Divin Maestro», ci permette ora di costruire un vero e proprio profilo della figura di Gesù come didàskalos. Ripercorriamo due momenti diversi per comporre la figura di Gesù didàskalos. (torna al sommario)

1. Il ritratto di Gesù Maestro
Nel Nuovo Testamento si usa il termine didàskalos 58 volte, di cui 48 nei vangeli, prevalentemente applicato a Gesù; e 95 volte il verbo didàskein, insegnare, due terzi di esse nei vangeli, anche in questo caso prevalentemente applicato a Gesù. Quindi Gesù è per eccellenza il « maestro » della comunità cristiana.
Questo ritratto può essere ora abbozzato in tre lineamenti:
º. Gesù è chiamato rabbì. Due passi tra i molti, come esempio: Mc 9,5 e 10,51. È un rabbì che parla in pubblico, come facevano i maestri di Israele: nelle sinagoghe, nelle piazze, nel tempio. Gesù è un maestro circondato dai mathetài, cioè dai discepoli, ha una sua scuola.
Inoltre Gesù usa le tecniche dei maestri, cioè ha anche un’attrezzatura pedagogica, didattica. Certo, ha qualcosa di originale. C’è soprattutto un aspetto curioso da sottolineare subito. A differenza degli altri rabbì di Israele, egli sceglie i suoi discepoli. È l’esatto contrario di ciò che facevano i rabbì, i quali si comportavano nella stessa maniera dei predicatori di Hyde Park: incominciavano a parlare nelle piazze, e chi si convinceva li seguiva. Gesù fa il contrario. Gli studiosi parlano di una « discontinuità » del Gesù storico col mondo-ambiente e la cultura entro cui era inserito. Ai discepoli egli dice nei discorsi dell’ultima cena: «Non siete stati voi a scegliere me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16).
º. Gesù è un maestro autorevole. È incisiva la frase di Marco (1,22): «Li ammaestrava come uno che ha autorità, e non come gli scribi». È un maestro che si erge non col potere dell’autorità, ma con l’autorità dell’autorevolezza. Un altro passo di Marco (12,14) è molto significativo: «Maestro, sappiamo che sei sincero e non ti preoccupi di nessuno, perché non guardi in faccia alle persone, ma insegni la via di Dio secondo verità». Questo è un ritratto stupendo del vero maestro, che non piega le ginocchia, che non insegna secondo la convenienza. Quanti maestri sono falsi maestri in questo senso! «Ma insegni la via di Dio secondo verità»: ancora una volta via e verità unite insieme, e concretamente via e vita unite insieme.
º. La radice del suo insegnamento è trascendente. Due passi sono emblematici in questo senso: Gv 8,28: «Come mi ha insegnato il Padre (didàskein), così io parlo», e Mt 11,27: «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo». L’insegnamento di Gesù è l’insegnamento del mistero del Padre, è un insegnamento trascendente.
Ecco dunque alcuni lineamenti essenziali del ritratto di Gesù Maestro. Riassumendo: Gesù è un Maestro storico, che usa le tecniche di un mondo in cui è inserito (le parabole per esempio), ma egli ha qualcosa già di diverso e di originale, come la scelta dei discepoli; inoltre è maestro autorevole e libero; infine, è un maestro trascendente, che insegna una verità che va oltre i confini del sapere umano e che promana da una rivelazione. (torna al sommario)
2. Le sette qualità del Cristo Maestro
Per restare fedeli alla simbolica dei numeri e al sistema didascalico frequente nella Bibbia, possiamo riassumere in sette elementi le qualità del Cristo Maestro in azione. Con questi sette tratti (naturalmente esemplificativi) si vuole rappresentare le modalità con cui Cristo insegna, come presenta il suo messaggio.
1º. Cristo è maestro dell’annunzio fondamentale del Regno. Cristo è l’annunziatore perfetto della sostanza del messaggio cristiano. Basti come esempio la prima predica di Gesù. Naturalmente essa è redazionale, offerta secondo la teologia dei Sinottici e della catechesi delle origini cristiane. La troviamo ben formulata in Marco (1,15). I contenuti dell’annuncio di Gesù sono quattro elementi: due secondo la dimensione teologica, due secondo la dimensione antropologica.
a. «Il tempo è compiuto», anzi, secondo il verbo greco pleroùn, il tempo è giunto a pienezza. Cristo afferma che egli è venuto per dare senso alla storia. Come dice il titolo di un saggio di Conzelmann sulla teologia di Luca, Cristo è die Mitte der Zeit, cioè il punto di mezzo, il centro, il perno del tempo. Affermando che il «tempo è compiuto», Gesù viene a dire: « Io do senso, con la mia parola e con la mia azione, a tutta la vicenda secolare delle azioni salvifiche di Dio ». Il tempo, che è composto di tanti elementi dispersi, di tanti atti disseminati, riceve un nodo d’oro che lo tiene insieme e gli dà senso.
b. «Il regno di Dio è vicino». Il termine greco énghiken (dal verbo engùzein) merita una certa attenzione, perché ha vari significati: anzitutto il verbo è al perfetto e quindi indica il passato: vuol dire che il regno di Dio è già attuato, accaduto, instaurato in Cristo. Però il perfetto in greco indica un’azione del passato, il cui effetto perdura nel presente. Quindi vuol dire che il regno di Dio è ancora in azione oggi. Inoltre, il verbo, semanticamente, indica qualcosa che riguarda il futuro: è vicino, è prossimo. E allora si sottolinea che il regno di Dio abbraccia tutte le dimensioni della storia della salvezza. Noi siamo nell’oggi, ma partecipiamo di un evento passato, il cui effetto agisce dinamicamente nell’oggi, nell’attesa della pienezza, cioè di quella vicinanza che è sempre in azione e che si completerà solo alla fine della storia. Il regno di Dio significa il progetto di salvezza di Dio, che attraversa tutta la storia. Queste sono le due dimensioni dell’azione di Dio, che Gesù Maestro annuncia: « il tempo ha la sua pienezza in me », ed « è un tempo che è tutto irradiato dal regno di Dio », cioè dall’azione e dal progetto di gioia, di libertà e di speranza che Gesù è venuto ad annunciare. Di conseguenza:
c. Metanoéite, convertitevi. È la reazione che deve avere il credente, il discepolo: cambiare mentalità e vita, dopo aver ascoltato questa lezione.
d. Pistéuete tò euanghelìo, credete sul vangelo, come dice il greco. Ritrascrivendo l’ebraico, perché nella Bibbia il verbo del credere, l’amen, regge la preposizione be-, e quindi indica un « appoggiarsi su » (letteralmente, « fondarsi su »): fondate la vostra vita sul vangelo. Così, in questa prima grande lezione di Cristo, Maestro dell’annunzio, troviamo anche il contenuto del nostro annuncio: noi dobbiamo annunciare il regno. E questo annuncio genera conversione e fede; deve essere accolto nella fede e nell’esistenza. (torna al sommario)
2º. Gesù è un maestro sapiente, che usa la parabola, il simbolo, la narrazione, il paradosso, l’immagine folgorante. Qui basterebbe soltanto leggere i Vangeli; non c’è bisogno di aggiungere molto di più. Rispetto alle nostre squallide, grigie, modeste predicazioni, che passano sopra la testa dei fedeli, Gesù parlava, come ha detto uno studioso, passando dai piedi, dalle mani, dalla polvere della terra. Consideriamo, per esempio, Lc 11,12: «Se un figlio chiede a un padre un uovo, gli darà forse uno scorpione?». Gesù parla dal contesto vivo: in Palestina c’è uno scorpione – lo scorpione bianco palestinese, velenoso – grosso come un uovo e che si annida tra le pietraie del deserto. A partire da quest’immagine, Gesù costruisce in maniera icastica la sua lezione sull’amore del Padre. Se tu gli chiedi l’uovo, non ti darà mai lo scorpione che ti avvelena. Un altro esempio: Gesù deve rappresentare la propria morte e la sua funzione salvifica; i teologi userebbero (e a ragione) tutte le categorie della soteriologia; però la gente resterebbe insoddisfatta. Gesù, invece, parte dal chicco di grano (Gv 12,24): «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto». Il morire e l’entrare nel sepolcro, comparato al morire del seme cui segue lo stelo e la spiga, esprime la fecondità pasquale della morte di Cristo, e anche del credente.
Esemplari le sue parabole: come insegnare l’amore meglio di quanto faccia la parabola del buon samaritano? E farlo soprattutto con quello spostamento d’accento, dall’oggettività del prossimo: «Chi è il mio prossimo?», alla soggettività: «Chi si è comportato da prossimo?», che stabilisce una radicale differenza nella visione morale cristiana. Così la parabola delle dieci vergini per la tensione escatologica. Le parabole di Gesù partono sempre dalla storia concreta, dall’esistenza: figli in crisi, i portieri di notte, le relazioni sindacali (la parabola dei lavoratori della vigna), i giudici corrotti, le previsioni meteorologiche, la donna di casa, i pescatori, i contadini, il tarlo, gli uccelli, i gigli ecc. Questo parlare porta la Parola di Dio all’interno della quotidianità, fecondandola.
Un detto rabbinico dice: «È molto meglio un grano di pepe che un cesto di cocomeri». L’insegnamento prolisso come il cesto di cocomeri, il parlare grigio, incolore, insapore non regge il confronto con il grano di pepe, che riesce a dare sapore a una massa di cibo. Gesù ha usato anche l’immagine del lievito e del sale. Egli ci insegna una comunicazione sàpida, vivace, incisiva e « narrativa ». Dobbiamo recuperare, sulla base di Gesù e della Bibbia, la nostra capacità di comunicazione, le grandi doti che la tradizione cristiana ha avuto di annunziare la fede attraverso il racconto, l’immagine, la bellezza, l’estetica. E qui ci soccorre la grande lezione di von Balthasar e dei grandi autori cristiani del passato, come Agostino, che aveva tutto il rigore anche del linguaggio formale, quando era necessario, ma che usava fare teologia « al tu », col dialogo: una teologia-preghiera, che conosce tutta la ricchezza della comunicazione umana e che è un’avventura straordinaria dello spirito. Il mondo è ricco, la storia è continuamente creativa, il nostro linguaggio rincorre sempre la realtà. C’è un verso di Borges, scrittore argentino, che afferma: «el universo es fluido y cambiante – el lenguaje rígido»: l’universo è fluido e mutevole, il linguaggio è rigido, per cui occorre uno sforzo per rendere il linguaggio, soprattutto religioso, sempre più caldo, più mobile. E Gesù è stato un grande maestro anche in questo.
3. Gesù è un maestro paziente, che si adatta al nostro lento viaggio, cioè al nostro lento apprendimento. Nel vangelo di Marco ci è presentato un Gesù maestro « progressivo » che lentamente porta alla luce il discepolo, passando attraverso l’oscurità delle resistenze umane. Prima lo conduce al riconoscimento della messianicità («Tu sei il Cristo», Mc 8,27-29) e poi gli svela la pienezza, alla conclusione del vangelo, quando il pagano, centurione romano, giunge alla fede, e dice: «Veramente quest’uomo era figlio di Dio» (15,39). Ma quale cammino bisogna fare! Il cammino della croce. Gesù, che è un maestro « progressivo », ci fa passare dall’oscurità alla luce non in maniera sconcertante, ma in modo paziente e lento. Il capitolo 9 di Giovanni (il cieco nato) illustra questo cammino coi titoli cristologici usati in progressione. Si parte da «un tale di nome Gesù » e si arriva all’ultima frase: «Credo, kyrie, credo, o Signore»: è ormai la scoperta di Gesù come il kyrios per eccellenza, cioè come Dio.
4. Gesù maestro polemico. In Lc 11, ma ancor più in Mt 23, Gesù ci appare anche come un maestro polemico, provocatore, sdegnato. I suoi sette « guai » o sette « maledizioni » (che vengono usate tra l’altro secondo un genere profetico come in Is 5,8ss) sono una testimonianza che il vero maestro non teme di denunciare i male, come d’altronde fa il Battista: «Non ti è lecito!» (Mt 14,4). Il vero maestro corre il rischio anche dell’impopolarità. Cristo è stato condannato anche per le sue parole, che erano colpi di staffile. La parola del Maestro conosce non la rabbia, non la collera, che è un vizio, ma lo sdegno, che è una virtù: Gesù ci ha rivelato spesso il suo messaggio attraverso una parola che è fuoco, come lui stesso ha detto: «Io sono venuto a portare una spada che divide padre da figlio, madre da figlia, suocera da nuora…» (Mt 10,35). Questo aspetto occorre recuperarlo anche nella nostra comunicazione religiosa. Non è contraddittorio rispetto al precedente: dobbiamo avere la pazienza, ma anche, quando è necessario, dobbiamo introdurre la parola che sconcerta, la parola dei profeti. Dobbiamo dire « sì sì, no no; tutto il resto viene dal maligno » (cf Mt 5,37). E per reazione (giusta) a una retorica o all’enfasi del passato (i grandi predicatori che atterrivano!), non si deve perdere la dimensione della parola che attacca, che non è adulterata (cf 2Co 2,17; 4,2), mercanteggiata; dobbiamo riconoscere che la Parola di Dio è spesso, come si è detto, offensiva.
5. Gesù è stato anche un maestro profetico, nel senso autentico del termine. Profeta non vuol dire colui che tele-vede, che indovina il futuro. Il profeta biblico è colui che interpreta invece i segni dei tempi. È l’uomo del presente, colui che attualizza la Parola. È esemplare al riguardo la predica che Gesù fa nella sinagoga di Nazareth (Lc 4,16ss). Egli prende la Parola di Dio da Isaia; la legge e la commenta: come? «Oggi questa parola si è qui adempiuta». Ecco l’attualizzazione! La Parola di Dio viene incarnata in un evento, in una persona presente! Tutto il Nuovo Testamento è in questa linea. L’Apocalisse, che tante volte viene contrabbandata come oroscopo della fine del mondo, è invece una lezione per le Chiese dell’Asia Minore in crisi interna ed esterna e perseguitate. La Chiesa di Laodicea, per esempio (cf Ap 3,14-22), genera la nausea di Cristo. È un’immagine durissima, espressa con il verbo emésai, vomitare, per indicare la nausea di Cristo verso una comunità tiepida. Ebbene, a quella Chiesa in crisi la Parola di Dio arriva con la funzione di dare un senso, di indicare una meta, un fine. L’Apocalisse infatti non insegna la fine del mondo, ma indica il fine del mondo. Non è tanto la rappresentazione della distruzione, bensì della meta verso cui noi siamo orientati. Il profeta insegna dove dobbiamo camminare mentre siamo nella storia, nel presente. Ecco allora la definizione di Gesù secondo Lc 24,19 (nel viaggio di Emmaus): «Gesù era profeta potente in opere e in parole davanti a Dio e a tutto il popolo». Profeta potente in opere e in parole: è questo il Gesù maestro profetico.
6. Gesù maestro-Mosè. Con una espressione paradossale, Lutero diceva: Gesù è il Mosissimus Moyses; il Mosè all’ennesima potenza. Il riferimento è al Discorso della montagna, che è la pienezza della torah: «Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo la parola, edìdasken, (li ammaestrava, insegnava loro) dicendo…» (Mt 5,1ss). Come è evidente, il Discorso della montagna è una lezione, ed essa avviene su un monte non storico (Luca anzi, secondo una nota più attenta alla storia, colloca il discorso in una pianura « campestre »). Esso per Matteo è il nuovo Sinai. Questa lezione segna l’inizio del « pentateuco cristiano ». Gesù non fa che portare a pienezza il messaggio della torah: il suo è un messaggio che non introduce una legge limitata nella sua sequenza di commi, di articoli, di norme, ma una legge tendente all’infinito. Gesù insegna la radicalità: «Siate perfetti…», non come un santo, ma «come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48). Ed è questo il messaggio cristiano: un infinito viaggio nell’infinito mistero di Dio. Non esiste mai la tappa di arrivo, noi andiamo sempre oltre fino ad entrare in Dio. L’insegnamento del vero Maestro, del vero Mosè cristiano si lega a una « scontentezza » continua, a un superamento sistematico; bisogna sempre andare oltre. È l’esatto contrario di un certo nostro insegnamento tante volte fondato solo sul buon senso, con un messaggio che potrebbe essere il minimo comun denominatore di tutte le religioni: una genericità, una vaga solidarietà, una vaga fede sentimentale in Dio. Ma il Mosissimus Moyses è radicale. Teresa d’Avila fece due osservazioni in proposito: «I predicatori oggi non convertono più perché hanno troppo buon senso e quindi non hanno più il fuoco di Cristo». E riguardo alla preghiera: «O Signore, liberami dalle sciocche devozioni dei santi dalla faccia triste». Ecco, è necessario ritornare all’annuncio e all’impegno radicale del Mosissimus Moyses.
7. Gesù è maestro supremo, è il Maestro Divino. Come annunciavano i profeti nell’Antico Testamento? Essi dichiaravano: «Koh ‘amar Adonai: Così parla il Signore», cioè io sono la bocca del Signore. Gesù ha ripreso questa frase, ma l’ha deformata, in maniera quasi blasfema: «Egò dè légo hymìn»: «io vi dico»; è «stato detto agli antichi, io vi dico». Una parola efficace, imperativa, estrema. Una parola decisiva nei confronti del male; una parola che sfida i tempi; una parola eterna. Ed è in questo senso che dobbiamo intendere il motto: «Io sono la via, la verità e la vita». È una parola supremamente « blasfema », perché si arroga tutto ciò che è di Dio. Anzi è una parola così divina da continuare a risuonare attraverso lo Spirito che egli ci manda nell’interno della Chiesa e del singolo, nei secoli. Giovanni riporta (14,26) le parole dell’ultima sera terrena di Gesù: il Padre nel nome di Cristo manderà lo Spirito Santo, «che vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto». Chi è dunque il Divin Maestro che continuamente opera dentro di noi ora, nella Chiesa, e in noi singoli e nella comunità? È lo Spirito Santo, mandato nel nome di Cristo dal Padre, per « ricordare ». La memoria biblica non è un’evocazione pallida, non è la commemorazione della festa nazionale, ma è la memoria viva, operante, il memoriale celebrativo ed efficace. (torna al sommario)

Champaigne, Sermon sur la montagne

Champaigne, Sermon sur la montagne dans immagini sacre 18%20CHAMPAIGNE%20SERMON%20SUR%20LA%20MONTAGNE

http://www.artbible.net/3JC/-Mat-05,01-07-Sermon_%20on%20the%20mount_sur%20la%20montagne/slides/18%20CHAMPAIGNE%20SERMON%20SUR%20LA%20MONTAGNE.html

Publié dans:immagini sacre |on 17 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

S. GREGORIO DI NISSA: OMELIE SULLE BEATITUDINI – ORAZIONE SECONDA

http://www.monasterovirtuale.it/la-patristica/s.-gregorio-di-nissa-omelie-sulle-beatitudini/orazione-seconda.html

S. GREGORIO DI NISSA: OMELIE SULLE BEATITUDINI – ORAZIONE SECONDA

« BEATI I MITI PERCHÉ EREDITERANNO LA TERRA »

La scala delle beatitudini: il principio della consequenzialità.

Coloro che salgono in alto con una scala, quando calcano il primo gradino, grazie ad esso si portano su quello superiore e, di nuovo, il secondo gradino conduce al terzo colui che sale e questo al successivo e quello al gradino dopo di lui. Così anche colui che sale, sollevandosi dal luogo in cui si trova sempre più su, arriva fino al culmine della salita. Con quale mira inizio da queste considerazioni? A me pare che l’ordine delle beatitudini si disponga quasi come quello dei gradini, rendendo facilmente percorribile al discorso la salita dall’una all’altra. Colui, infatti, che è salito con la mente al primo grado della beatitudine, per una necessaria consequenzialità dei pensieri, raggiunge quello successivo, sebbene il discorso, ad un primo momento, sembri strano. « Non è possibile -dirà forse colui che ascolta- che, seguendo la disposizione dei gradini, l’eredità della terra venga dopo il regno dei cieli; se il discorso doveva seguire la natura degli esseri, era più conseguente che la terra fosse posta prima del cielo, dal momento che per noi l’ascesa è dalla terra al cielo ». Ma se saremo, per così dire, sollevati in alto dalla parola divina e se ci stabiliremo nelle regioni superiori alla volta celeste, troveremo là la terra sovraceleste che è lasciata in eredità a coloro che hanno vissuto secondo virtù; non deve pertanto sembrare errato l’ordine della sequenza delle beatitudini: prima i cieli, poi la terra che ci è proposta da Dio nelle promesse.

La pedagogia linguistica del Logos

Tutto ciò che si manifesta ai sensi del corpo è totalmente affine al sensibile. Sebbene, infatti, il cielo sembri essere superiore per l’elevatezza del luogo, tuttavia è inferiore all’essenza intellettuale, che è impossibile raggiungere con il ragionamento, senza che questo, prima, oltrepassi con la ragione ciò che è raggiunto dai sensi. Nessuna meraviglia, dunque, se la regione superiore è chiamata con il nome di terra; infatti il Logos, che è sceso verso di noi perché a noi non era possibile elevarci fino a Lui, è disceso fino alla pochezza del nostro udito. Perciò Egli ci consegna i misteri divini con parole e nomi a noi conosciuti, facendo uso di quei suoni che la consuetudine della vita umana comprende. Nella promessa precedente a questa, infatti, chiamò quell’indicibile beatitudine celeste « regno ». Intendeva, dunque, qualche cosa di simile a ciò che comporta il regno terreno? Dei diademi circonfusi dello splendore delle pietre? Vesti splendenti di porpora che mandano dolci riflessi agli occhi bramosi? Intendeva forse vestiboli, tendaggi, troni sublimi, dorifori ed ogni altro spettacolo di questo genere, tragica rappresentazione, sulla scena della vita, di coloro che esaltano il fasto del potere più del dovuto con simili spettacoli? Ma poiché il nome di regno è qualche cosa di grande e superiore a tutte le aspirazioni degli uomini durante la vita, Egli fece uso, per questo, di tale nome per indicare i beni superiori; nello stesso modo, se ci fosse stata per gli uomini un’altra realtà, superiore al regno, certamente Egli avrebbe elevato l’anima dell’uditore al desiderio dell’indicibile felicità con il nome di quella. Non era possibile, infatti, che con nomi propri fossero rivelati agli uomini quei beni che trascendono la sensazione e la conoscenza umana. Infatti dice l’Apostolo: « Occhio non vide e orecchio non udì, né entrò in un cuore di uomo » [1Cor 2,9]. Ma perché la beatitudine sperata non sfugga alla nostra mira, ascoltiamo quanto ci vien detto su questi beni ineffabili, così, come è possibile alla miseria della nostra natura. L’omonimia, pertanto, non trascini di nuovo la tua ragione dalla terra sopra i cieli a quella di quaggiù, ma, se sei stato elevato dal Logos con la beatitudine precedente e sei entrato nella speranza celeste ricerca con me quale sia quella terra che è eredità non di tutti, ma solo di quelli giudicati degni di quella promessa per la mansuetudine della vita. Il grande Davide, che la Sacra Scrittura testimonia essere stato, tra i suoi contemporanei, mansueto e paziente, credo avesse previsto questa terra per ispirazione dello Spirito e che già possedesse per fede quanto sperava, quando diceva: « Credo di vedere i beni del Signore nella terra dei viventi » [Sal 26,13]. Io dico che il profeta non ha chiamato terra dei viventi questa, che produce tutto ciò che è mortale e di nuovo disgrega tutto ciò che da essa si genera; egli sapeva che terra dei viventi è quella in cui la morte non ha accesso, in cui la via dei peccatori non è battuta, su cui non si mostra traccia di vizio, su cui il seminatore di zizzania non traccia il solco con l’aratro della malvagità; è la terra che non produce punte e spine; in essa vi è l’acqua del riposo, il luogo verdeggiante, la fonte divisa in quattro rivi, la vite coltivata dal Dio dell’universo e quante altre cose ascoltiamo, per via di enigmi, dall’insegnamento ispirato da Dio. Se il nostro intelletto considera la terra sublime che si contempla sopra i cieli, in cui è fondata la città del Re, di cui si raccontano cose gloriose, come dice il profeta [Sal 86,3], a buon diritto non dovremmo stupirci dell’ordine consequenziale delle beatitudini. Non sarebbe conveniente, io credo, che fosse questa quaggiù la terra di benedizioni offerte alla speranza di coloro che, come dice l’Apostolo, saranno rapiti sulle nubi per l’incontro, nell’aria, con il Signore e così saranno con Lui per sempre. Che necessità hanno, ancora, della terra di quaggiù coloro la cui vita è sospesa alla speranza? Infatti « saremo rapiti sulle nubi per l’incontro con il Signore, nell’aria, e così saremo con Lui per sempre » [1Ts 4,17].

Non sempre la mitezza è virtù; carattere dinamico della virtù.

Ma vediamo di quale virtù sia premio l’eredità di quella terra. « Beati i miti -dice infatti il Signore- perché erediteranno la terra ». Che cos’è la mitezza? Perché il Logos chiama beata la mitezza? Non mi pare sia giusto ritenere egualmente virtù tutti quanti gli aspetti della mitezza, se si intende come suo significato l’esser placido o, unicamente, l’essere lento nelle reazioni. Nelle corse, infatti, chi va con calma non ha miglior successo di chi si affretta e nel pugilato chi ha difficoltà di movimento non sottrae la corona della vittoria al suo avversario. Anche noi corriamo per il premio della chiamata superiore. L’apostolo Paolo ci indica, simbolicamente, di accrescere la velocità della corsa quando dice « Correte così da ottenere » [1Cor 9,24]. Egli stesso, infatti, con un movimento sempre più impetuoso si spingeva in avanti, lasciandosi alle spalle il passato; egli era anche un pugile veloce ed agile: stabile sui suoi passi, con le mani ben armate, non lanciava nel vuoto, vanamente, l’arma che teneva in mano, ma assaliva l’avversario al momento opportuno, percuotendolo nel corpo. Vuoi conoscere l’arte del pugilato di Paolo? Guarda le ferite dell’antagonista, guarda le lividure del rivale, i segni di chi è stato vinto! Certamente tu non ignori il rivale che gli si contrappone attraverso la carne e che Paolo rende livido con l’arte del pugilato, lacerandolo con le unghie della continenza; il rivale le cui membra egli uccide con la fame, la sete, il freddo, la nudità e su cui getta le impronte del Signore; non ignori il nemico che egli vince nella corsa, lasciandolo dietro a sé perché i suoi occhi non siano ottenebrati, mentre quello corre avanti. Se dunque Paolo è veloce e scattante nelle gare, Davide allunga i passi nell’inseguimento dei nemici [Sal 17,17ss] e lo sposo nel Cantico è paragonato ad un capriolo per l’agilità del movimento [Ct 8,9], poiché spicca balzi sui monti e salta sulle alture (e si trovano molti simili esempi in cui vale di più la velocità del movimento della mitezza), in che senso, qui, il Logos, quasi in forma di precetto, chiama beata la mitezza? « Beati i miti -Egli dice infatti- perché erediteranno la terra ». Quella terra, certamente, che è feconda di bei frutti, su cui ondeggiano le fronde dell’albero della vita, che è irrigata dalle fonti delle grazie spirituali, su cui germina la vera vite, il cui agricoltore, noi udiamo, è il Padre del Signore. Ma sembra che il Logos ci insegni tale sapienza: grande è la prontezza verso il vizio e la natura inclina al peggio. Come avviene per i corpi: la pesantezza li fa rimanere del tutto immobili rispetto a ciò che è in alto, ma se vengono fatti cadere a capofitto da una altura superiore, precipitano in basso con tale stridore, poiché il loro peso accresce il loro moto, che la velocità acquistata supera la possibilità di descrizione a parole. Poiché in questi casi la prontezza è pericolosa, dovrebbe essere stimato beato ciò che è pensato nella disposizione contraria rispetto ad essa. E questa è la mitezza che è l’atteggiamento tardo e lento rispetto agli impulsi della natura. Come il fuoco, che ha una natura che si muove sempre verso l’alto, è immobile verso la direzione contraria, nello stesso modo la virtù, che è pronta e veloce verso le realtà superiori non diminuendo mai di velocità, si arresta di fronte all’impulso contrario. Poiché dunque, secondo la nostra natura, la velocità nei vizi sovrabbonda, giustamente è chiamata beata la lentezza nei loro confronti. Infatti la quiete nei confronti dei vizi è testimonianza di movimento verso ciò che è superiore. Per rendere chiaro il discorso sarebbe meglio fare degli esempi tratti dalla vita. Il movimento della libera scelta di ciascuno ha una doppia direzione: secondo il suo arbitrio si dirige verso ciò che gli sembra opportuno, di qui la saggezza, di là dissennatezza. Ora ciò che si dice, in particolare, dell’aspetto, questo si intenda anche, in generale. La condotta dell’uomo, infatti, si scinde compIetamente negli impulsi contrari: l’irascibilità si oppone alla mitezza, l’orgoglio alla moderatezza, l’invidia alla benevolenza, la disposizione amorevole e pacificante alla malevolenza.

All’uomo è impossibile l’apátheia: la mitezza come misura delle passioni.

Poiché dunque la vita dell’uomo è materiale, le passioni riguardano le cose materiali e ognuna di esse ha un veloce ed irrefrenabile impulso alla pienezza del piacere (la materia, infatti, è pesante e trascina in basso) per questo il Signore non chiama beati coloro che vivono raccolti in se stessi, estranei alle passioni (non è infatti possibile, durante un’esistenza materiale, condurre perfettamente una vita completamente immateriale e impassibile), ma dichiara che la mitezza è il limite della virtù accettabile nella vita della carne ed afferma che è sufficiente per la beatitudine l’essere mite. Egli, infatti, non prescrive assolutamente alla natura umana l’impassibilità. Non è degno di un giusto legislatore, infatti, ordinare quanto è impossibile alla natura. è come se uno volesse trasferire in una vita aerea quanto vive d’acqua o, di nuovo, trasferire nell’acqua quanto vive di aria. Conviene, invece, che la legge sia proporzionata alla potenza corrispondente e sia secondo natura. Per questo la beatitudine non esorta ad esser privi di passioni ma esorta alla misura ed alla mitezza. Il primo caso, infatti, è possibile solo fuori della natura, il secondo, invece, è realizzabile tramite la virtù. Se dunque la beatitudine stabilisse la completa immobilità nei confronti del desiderio, vana ed inutile per la vita sarebbe la benedizione. Chi, infatti, potrebbe raggiungere tale meta, essendo un’unione di carne e sangue? Ora, Egli non dice che è condannato colui che ha desiderato in qualche circostanza, ma colui che si è attirato la passione con premeditazione. Il fatto che nascano talvolta simili impulsi è predisposto, spesso, dalla debolezza a cui è mischiata la natura e non è intenzionale. Non lasciarsi trascinare dall’impeto della passione come in un torrente, ma rimanere in piedi, coraggiosamente, di fronte ad essa e respingere con i ragionamenti la passione, questa è opera di virtù! Beati dunque coloro che non sono facili ai movimenti passionali dell’anima, ma sono mantenuti calmi dalla ragione; in essi, il ragionamento, tenendo a freno come una briglia gli impulsi, non lascia che l’anima sia trascinata nel disordine. Si potrebbero notare, nella passione dell’iracondia, degli aspetti così negativi da farci considerare ancor meglio quanto sia beata la mitezza. Infatti, non appena una parola, un’azione o il sospetto di cose più spiacevoli abbia sollevato una simile malattia ed il cuore ribolla nel sangue, anche l’anima si drizza per la vendetta. Come i racconti mitici trasformano, per una sorta di droga, in forme di esseri irrazionali, così improvvisamente si può vedere l’uomo diventare per l’ira un porco o un cane o una pantera o un altro simile animale; l’occhio è iniettato di sangue; il capello è dritto e irsuto; la voce si fa aspra e irritata nelle parole; la lingua è intorpidita dalla passione e non risponde più agli stimoli interni; le labbra sono serrate, non articolano parole e non riescono a tener chiuso nella bocca l’umore che si è formato a causa della passione, ma espellono con le mani e i piedi ed ogni atteggiamento del corpo, poiché ciascuna delle membra è disposta dalla passione. Se dunque l’iracondo fosse ridotto in tal modo e colui che volge lo sguardo alla beatitudine riuscisse, invece, a calmare il male con sguardo fermo e voce tranquilla, come un medico cura con la sua arte chi si comporta in modo indecente a causa di una malattia mentale, non dirai tu stesso, confrontando i due, che miserabile e nauseante è il primo, ridotto ad animale e beato è il mite, che non perverte la sua dignità per il vizio del vicino. Che il Logos abbia dinnanzi agli occhi soprattutto questa passione è chiaro dal fatto che ci prescrive la mitezza dopo l’umiltà. Sembra infatti che si ottenga l’una dall’altra e che il fondamento dell’umiltà sia come una madre per l’habitus della mitezza. Infatti se tu elimini l’orgoglio della condotta, la passione dell’ira non ha occasione di nascere. La tracotanza e il disonore sono la causa di simile debolezza negli iracondi. Il disonore non ha appiglio su coloro che si sono educati nell’umiltà. Se uno, infatti, avesse purificato il ragionamento dall’inganno umano e vedesse la pochezza della natura di cui partecipa, da quale principio trae origine e a quale fine si conduce l’estrema brevità di questa vita, e vedesse il sudiciume unito alla carne e la povertà della natura che non basterebbe a se stessa per il proprio sostentamento, se non supplisse alla necessità con l’abbondanza degli animali; se vedesse, costui, oltre a ciò, anche dolori, afflizioni e disgrazie ed i vari generi di mali a cui soggiace la vita umana e da cui non vi è nessuno che sia libero e immune per natura, guardando con cura queste cose, con l’occhio dell’anima purificato, non si adirerebbe facilmente per la mancanza di onori. Al contrario, riterrebbe un inganno l’onore presentatogli, per qualche ragione, dal suo vicino, poiché non c’è per noi, in natura, nulla che possa avere comunanza con l’onore, salvo l’anima, il cui onore non consiste in ciò che si cerca in questo mondo. Il vantarsi per la ricchezza, infatti, il gloriarsi per la nobiltà, il mirare alla gloria, l’apparire superiore al vicino per quelle cose di cui consistono gli onori umani, tutto ciò costituisce una distruzione dell’anima. Se l’ira non è presente, la vita trascorre calma e tranquilla. Ora, ciò non è null’altro che la mitezza, il cui fine è la beatitudine e l’eredità della terra celeste in Cristo Gesù, a cui è la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.

MITEZZA. LA VIRTÙ DIMENTICATA – DI GIANFRANCO RAVASI,

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MITEZZA. LA VIRTÙ DIMENTICATA

DI GIANFRANCO RAVASI,

Avvenire di domenica 6 marzo 2011

«Imparate da me che sono mite e umile di cuore». Questa autodefinizione di Gesù nel Vangelo di Matteo (11,29) ci permette di ricollegare il tema del ‘cuore’ di Cristo a quello della mitezza, che è al centro di una delle beatitudini: «Beati i miti, perché erediteranno la terra» (Mt 5,5). Una beatitudine che ha una sua radice anticotestamentaria nel Sal 37,11: «I miti [in ebraico, però, si ha anawìm che indica anzitutto i 'poveri'] erediteranno la terra e potranno godere della pace in abbondanza». Una beatitudine che sarà raccolta anche dal Corano, che fa esplicito riferimento al passo salmico: «Noi abbiamo scritto nei salmi […] che la terra l’avrebbero ereditata i miei servi buoni» (21,105). Sulla definizione esatta di questi ‘miti’, che le tre religioni monoteistiche esaltano come i destinatari della terra promessa, ossia del regno di Dio nella sua pienezza, si hanno differenziazioni tra gli studiosi. C’è chi vi vede i non violenti, gli oppressi che non ricorrono alla forza, coloro che non scelgono il possesso e l’autoaffermazione così da non prevaricare sugli altri e c’è chi intuisce il profilo dei mansueti, dei diseredati e degli espropriati; c’è chi pensa agli umili e agli inoffensivi, fiduciosi nella volontà di Dio e chi li considera interiormente forti e, per questo, pazienti, dolci, generosi e così via. Certo è che due sono le beatitudini parallele, anche a causa dell’unico vocabolo ebraico soggiacente alla differente terminologia greca usata dai Vangeli: «Beati i poveri in spirito» e «Beati gli umili».

Sono due atteggiamenti che hanno una radice comune e che si espandono verso Dio (beatitudine dei poveri) e verso il prossimo (beatitudine dei miti). Il filosofo Norberto Bobbio nel suo Elogio della mitezza (1993) aveva celebrato questa virtù come la più «impolitica» per eccellenza e si può comprendere questa sua posizione nel contesto della gestione della politica che ignora ogni compassione e si fonda sul potere e spesso sull’arroganza. In una visione più alta della politica, la mitezza avrebbe invece uno spazio rilevante. Essa, infatti, non è né codardia né mera remissività, come osservava lo stesso filosofo: «La mitezza non rinuncia alla lotta per debolezza o per paura o per rassegnazione». Anzi, essa vuole essere come un seme efficace piantato nel terreno della storia per il progresso, per la pace, per il rispetto della dignità di ogni persona. Ma vuole raggiungere questo scopo rifiutando la gara distruttiva della vita, la vanagloria e l’orgoglio personale e nazionalistico, etnico e culturale, scegliendo la via del distacco dalla cupidigia dei beni e l’assenza di puntigliosità e grettezza. Noi, però, vorremmo ora in modo più ampio e libero delineare il volto della mitezza nella sua accezione più comune, quella della nonviolenza; lo faremo ricorrendo a una sorta di polittico numerico, espressione sia dell’antitesi alla mitezza sia della sua pienezza. Inizieremo con l’equazione 7 a 77. È questo l’atteggiamento incarnato da uno dei discendenti di Caino, Lamech, il quale codifica la reazione tipica dell’anti-mite, colui che opta per la spirale della violenza. Celebre è quel suo terribile canto della spada sempre insanguinata: «Ho ucciso un uomo per una mia ferita e un giovane per una mia ammaccatura. Caino sarà vendicato sette volte, ma Lamech settantasette». È quell’immensa scia di sangue che pervade la terra e la storia e che non si decide mai di arrestarsi. Lo scrittore francese Charles Péguy (1873-1914) metteva in bocca a Dio queste parole: «Gli uomini preparavano tali orrori e mostruosità che io stesso, Dio, ne fui spaventato. Non ne potevo sopportare l’idea. Ho dovuto perdere la pazienza; eppure io sono paziente perché eterno. Ma non ho potuto trattenermi. Era più forte di me. Io ho anche un volto di sdegno». Il giudizio divino è, alla fine, la protezione dei miti. Passiamo a un’altra equazione numerico-simbolica: 1 a 1, quella sottesa alla cosiddetta legge del taglione. Si legge, infatti, nel libro dell’Esodo: «Vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, piaga per piaga» (21,23). La brutalità della formulazione, di taglio semitico, ci impedisce di vedere il progresso reale che qui si ha rispetto alla legge di Lamech: si ha, infatti, la codificazione della giustizia distributiva che sarebbe già un bel passo di civiltà. Non è forse vero che ebrei e cristiani e arabi ancora oggi nelle loro guerre adottano la norma della rappresaglia più feroce e non certo l’equilibrio della risposta giusta? Tuttavia è indiscutibile che anche in questa regola sangue chiama sangue ed è per questo che Cristo, pur attento alla giustizia, non esiterà a spezzare la catena del «taglione» (vocabolo derivante dal latino talis: tale la colpa, tale la pena), introducendo proprio lo stile della mitezza. Egli lo fa nella quinta delle sei antitesi del Discorso della Montagna, ricorrendo a una trilogia esemplificativa: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Io invece vi dico di non resistere al male; anzi, se uno ti colpisce alla guancia destra, volgigli anche la sinistra. A uno che vuol trascinarti in giudizio per prendersi la tunica, dagli anche il mantello; se uno ti vuol costringere per un miglio, va’ con lui per due» (Mt 5,38-41). Ci stiamo, quindi, spostando nella regione luminosa della mitezza, ove al radicalismo sanguinario di Lamech e al realismo duro del taglione si fa subentrare l’utopia dell’amore, un progetto che dev’essere incarnato con pazienza nella storia. Possiamo così passare a un’altra equazione: 7 a 1000. Essa, da un lato, calibra la giustizia nella sua pienezza (il 7), ma esalta il perdono e la misericordia fino all’infinito, raffigurato nel numero 1000. È ciò che viene espresso secondo il linguaggio semitico generazionale (per indicare che il peccato non è mai solo una questione esclusivamente individuale, ma sociale) in una specie di autoritratto divino, in quella che un esegeta, Albert Gelin, ha definito «la carta d’identità biblica di Dio»: «Il Signore, il Signore, Dio di pietà e misericordia, lento all’ira e ricco di grazia e verità, che conserva grazia per mille generazioni, sopporta colpa, trasgressione e peccato, ma senza ritenerli innocenti, che visita la colpa dei padri sui figli e sui figli dei figli fino alla terza e fino alla quarta generazione» (Es 34,6-7). Da accostare a questa dichiarazione ce n’è un’altra, sempre messa in bocca a Dio, che ribadisce la scelta fondamentale del Signore: «Forse mi compiaccio della morte dell’empio? Oracolo di Dio, mio Signore. Convertendosi dalla sua condotta, forse non vivrà? […] Oh, non mi compiaccio certo della morte di alcuno, oracolo del Signore Dio. Convertitevi e vivrete» (Ez 18,23.32). La nostra sequenza numerica può, così, approdare a un’altra equazione: 7 a 70 x 7. È questa la formula del perdono e dell’amore cristiano che Gesù delinea in una risposta a un modello numerico suggerito dall’apostolo Pietro: «Signore, quante volte, se il mio fratello peccherà contro di me, dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». Gesù gli risponde: «Non ti dico fino a 7 volte, ma fino a 70 volte 7» (Mt 18,21-22). Come si vede, c’è un’allusione per contrasto alla legge della vendetta da cui siamo partiti, ovvero all’equazione 7 a 77. Qui essa è radicalizzata e condotta, attraverso il ricorso al simbolismo settenario, a una pienezza assoluta positiva. La meta da raggiungere è quella di un Dio che fa piovere su giusti e ingiusti e fa risplendere su tutti il suo sole (cfr. Mt 5,45-46). Ormai l’appello supera le frontiere dell’amico­nemico e giunge sull’invito che è lanciato sempre nel Discorso della Montagna: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano» (5,44). L’appello di Gesù andrà anche oltre lo stesso confine dell’io. Infatti, pur riconoscendo la validità dell’imperativo della legge «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19,18), egli accentuerà e travalicherà quella comparazione: «Amatevi gli uni agli altri, come io ho amato voi» (cfr. Gv 13,34). Ossia con un amore infinito com’è quello divino e un amore che giunge sino a rinunciare a se stessi: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i suoi amici» (15,13). Vorremmo a questo punto concludere con un apologo dello scrittore argentino Jorge L. Borges (1899-1986), che prende spunto dal celebre racconto di Abele e Caino, trasformandolo in un apologo sulla colpa, il rimorso e il perdono. Abele e Caino s’incontrano dopo la morte di Abele nel tempo eterno di Dio. Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano, perché erano ambedue molto alti. Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno. Nel cielo spuntava qualche stella che non aveva ancora ricevuto il nome. Alla luce delle fiamme Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra e, lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca, chiese che gli fosse perdonato il suo delitto. Abele, però, disse: «Tu mi hai ucciso, o io ho ucciso te? Non ricordo più: stiamo qui insieme come prima». Allora Caino replicò: «Ora so che mi hai perdonato davvero, perché dimenticare è perdonare». Solo con il perdono tutto ricomincia da capo ed è nuovo.

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Battesimo di san Paolo da parte di Anania, dipinto di Pietro da Cortona (1631, attualmente conservato a Santa Maria della Concezione).

Battesimo di san Paolo da parte di Anania, dipinto di Pietro da Cortona (1631, attualmente conservato a Santa Maria della Concezione). dans immagini sacre 640px-Ananias_restoring_the_sight_of_st_paul_%2834663925%29
http://it.wikipedia.org/wiki/Paolo_di_Tarso

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CRISTIANI POVERI IN UNA CHIESA POVERA

http://www.finesettimana.org/pmwiki/?n=Db.Sintesi?num=20

CRISTIANI POVERI IN UNA CHIESA POVERA

sintesi della relazione di Armido Rizzi
Verbania Pallanza, 7-8 gennaio 1984

Il tema della povertà cristiana è denso anche dal punto di vista del discorso; così denso che potrebbe diventare forse una specie di prolegomeno, di introduzione a ogni discorso teologico cristiano.
Non si vogliono suggerire indicazioni pratiche, ma fare una riflessione di fondo sul significato della povertà, sul mysterium paupertatis, che fa tutt’uno col mistero stesso di Dio nella storia. Il povero è il luogo della rivelazione di Dio al punto tale che non è possibile il parlare biblico di Dio se non parlando del povero e viceversa. A partire dal rapporto tra Dio e il povero si prenderà in esame il rapporto chiesa e povero. In un primo momento si parlerà della Chiesa dei poveri nel senso di Chiesa « per » i poveri, dove questi sono l’oggetto (di attenzione e di preoccupazione) della prassi del cristiano; un secondo momento sarà dedicato alla Chiesa « di » poveri, dove i poveri sono il soggetto costitutivo della Chiesa.
la chiesa per i poveri come rivelazione del Dio per i poveri

1. Dio e il povero
Il punto di partenza della rivelazione di Dio nella storia lo troviamo nella storia di Israele. Dobbiamo vedere in che modo si è fatto conoscere in Israele, con quale forma ha sottoscritto il suo rapporto con lui. Vediamo alcuni testi esemplari.
L’incontro di Israele con Dio, in quanto rivelatore del manifestarsi di Dio nella storia di salvezza, è descritto nel libro dell’Esodo (2,23-25): « Avvenne, nel lungo corso di quel tempo, che il re d’Egitto morì. I figli di Israele gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento, e il loro grido dallo stato di servitù salì verso Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento e Dio si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. Dio guardò la condizione dei figli di Israele e ne prese cura ». Con l’intervento di Dio prende inizio la storia di salvezza, e la storia di Israele come popolo.
C’è in Israele la memoria storica del Dio di Abramo e di Giacobbe, ma è come se fosse stata interrotta. Il grido di Israele è un appello perché il suo Dio torni a farsi vivo dopo un’interruzione, dopo una dimenticanza (a una dimenticanza da parte del suo Dio Israele attribuisce la situazione in cui si trova). Dio si rifà vivo. Si esprime qui come se fosse la prima volta e si ridefinisce.
Siamo soliti partire dal Dio creatore del mondo per arrivare al Dio che interviene quasi come se fosse un gesto contingente, passeggero. Dobbiamo rovesciare l’ordine del discorso, partendo dall’intervento di Dio che risponde al grido di Israele, perché è questo l’episodio in cui Dio definisce la sua figura storica, è questa la partenza del formarsi della rivelazione di Dio nella storia della salvezza.
La stessa definizione di Dio è contenuta nel primo credo di Israele, del quale una delle formule più complete abbiamo in Deuteronomio 26, 5-9: « Mio padre era un arameo errante; scese in Egitto, vi stette come forestiero con poca gente, e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con potente mano e con braccio disteso, con grandi terrori, con segni e con prodigi, e ci ha condotti in questo luogo e ci ha dato questo paese, paese dove scorre latte e miele ». Israele qui definisce se stesso e contemporaneamente Dio. Il centro di questo credo sta nel passaggio dalla negatività alla positività della terra nuova e nel tramite del passaggio che è l’atto di Dio.
Dio, per Israele, non è ancora il creatore del mondo. A questa idea di Dio Israele arriverà dilatando e universalizzando il suo primo incontro con lui. Quando partiamo dal Dio creatore universale, da questo atto di potenza assoluta qual è la creazione, corriamo il pericolo di avere l’immagine di un Dio di cui sottolineiamo la dimensione di potenza (produrre dal nulla). Il racconto biblico della creazione non è un teorema sull’onnipotenza di Dio, ma è la dilatazione su scala universale del Dio che vince la negatività, la schiavitù, il caos. L’asse del concetto biblico di creazione non è la potenza, ma è questo atto di intervento liberatore che doma l’avversario e libera l’uomo e gli prepara un mondo in cui possa vivere liberamente.
Dai salmi emerge l’immagine di un Dio che ascolta, vede, tende l’orecchio su, veglia su, protegge, interviene a vendicare i poveri, coloro che si trovano in situazioni di negatività (schiavitù, miseria, oppressione, ecc.), in quelle situazioni in cui si è trovato Israele in Egitto. Il salmo 146: « Il Signore fa giustizia a quelli che soffrono ingiuria; dà cibo agli affamati. Il Signore scioglie gli incatenati; il Signore illumina i ciechi; il Signore rialza i caduti; il Signore ama giusti. Il Signore è custode dei forestieri; difenderà l’orfano e la vedova e disperderà i disegni dei peccatori ».
Dunque, Dio si definisce nella storia come colui che interviene in favore del povero. Chi è questo povero? Bisogna evitare i due estremi: sia la concezione economicistica del povero ( il povero è colui che non ha i mezzi elementari di sussistenza. Questa è una figura costante nella Bibbia, ma non l’unica; la negatività di Israele in Egitto era in termini non tanto di miseria, quanto di identità di popolo e di libertà), sia la concezione che insiste sull’atteggiamento puramente interiore (il distacco dai beni, indipendentemente dall’averne o no). Per la Bibbia il povero non è colui che ha il cuore distaccato nei confronti dei beni pure posseduti; c’è una povertà effettiva, oggettiva, non solo economica, ma svariata: affamati, menomati fisicamente, vedove e orfani, stranieri o immigrati, calunniati: c’è sempre una carenza di beni oggettivi, qualunque essi siano, una carenza di quell’avere che è necessario all’essere, per cui i poveri sono in qualche modo esclusi o non del tutto inclusi nella creazione buona. Il termine povero non racchiude un concetto di classe, ma indica una o diverse categorie. Tuttavia, anche chi non appartiene a nessuna categoria in certe situazioni può essere povero.
L’esempio più chiaro è quello di Caino, il quale compie un atto di potenza vittoriosa nei confronti di Abele; eppure, proprio in forza di questo atto, grava su di lui una sorta di verdetto sociale: fratricida, è escluso dall’ambito del vivere sociale, per cui deve vagare, portandosi dietro il peso della sua colpa; sa di essere ormai senza valore e senza dignità a causa di quello che ha compiuto. Dio si mette dalla parte di Abele perché povero congiunturalmente, ma quando è Caino il debole, colui che tutti possono colpire, Dio mette il suo segno su di lui: non è vostra proprietà, non avete il diritto di metter le mani su di lui. Dunque, la povertà è qualcosa di più profondo che non le categorie: c’è una situazione di debolezza congenita alla condizione umana come tale, per cui ogni uomo è allo sbaraglio di interventi altrui che possono distruggerlo. La definizione più radicale di povertà in senso biblico è precarietà, fragilità dell’esistenza dell’uomo, il poter essere privato di beni reali oggettivi e che appartengono all’essere. Colpisce ogni uomo e può esplodere da un momento all’altro.
Il Dio della bibbia è colui che si spende per questo uomo, in quanto è povero; è colui che si definisce dal suo intervento liberatore nei confronti dei poveri; è colui che si manifesta in questo far essere, fa vivere ogni uomo in quanto è povero, è un filo d’erba. Non c’è una definizione più profonda di Dio; in questo gesto, in questo suo intervento c’è la cellula di ogni possibile discorso su Dio.
Nessuna qualità è così abbarbicata all’uomo da non poter essere persa: questo è ciò che definisce radicalmente l’uomo. Può avere anche tutto, ma lo ha nella maniera del poterlo perdere.
2. Gesù e il povero
È Gesù stesso a definire (nel Vangelo di Matteo e di Luca) l’insieme della sua prassi come questo essere vicino ai poveri per farli vivere: « I ciechi vedono, gli storpi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti vengono risuscitati, i poveri ricevono la buona novella » (Matteo 11,5-6).
Come Dio si definisce nella sua divinità rivelata da suo intervenire a favore del povero, così la « cristicità », la messianicità di Gesù si definisce nell’atto di reintegrazione del povero nella bellezza, nella pienezza della creazione, nel dare al povero quell’avere che gli manca per poter essere.
Nell’atto dell’incarnazione Gesù si investe al punto tale nell’intervento per i poveri, da poter leggere l’incarnazione stessa come il primo intervento con cui Gesù è costituito come Dio per i poveri.
Giovanni nel Prologo del suo Vangelo dice: « La Parola si fa carne »: la potenza creatrice si fa fragilità, precarietà, debolezza, provvisorietà.
Paolo, nella prima lettera ai Filippesi, dice che Gesù annientò se stesso, prendendo la natura di schiavo, e divenendo simile agli uomini. Gesù che vive nella forma di Dio, assume la condizione di uomo in quanto schiavo. Dio si costituisce, nella sua presenza personale nella storia, come uno dei poveri, colui che tutti li rappresenta e li riassume. Dalla gloria alla condizione di schiavo.
Paolo, nella seconda lettera ai Corinzi, formula l’incarnazione dicendo che Gesù, ricco qual era, si è fatto povero per arricchire voi. La ricchezza si fa povertà.
Dal di dentro dell’assunzione in proprio della povertà radicale, Gesù medica, lenisce, guarisce alcune espressioni della povertà fattuale (ciechi, storpi…).
3. La Chiesa e il povero
Nella comunità dell’Antico Testamento, Dio esprime un codice di comportamento: la legge dell’alleanza (Esodo 20, 23). Tre quarti del contenuto riguarda i rapporti con l’altro in situazione di carenza: con il povero. Il codice si esprime al negativo: Non condurre il tuo fratello in quella situazione nella quale ti trovavi in Egitto, cioè: comportati con solidarietà nei confronti dei poveri, perché tu hai provato in Egitto cosa significa essere povero. Questo comportamento è un prolungare l’intervento liberatore di Dio verso Israele povero in Egitto.
Nella comunità del Nuovo Testamento, Luca (Atti, cap 2,4) presenta un’immagine ideale della comunità primitiva di Gerusalemme. Non ci sono più poveri, indigenti, perché tutti sono padroni.
Paolo, nella 2 Corinzi, dice che non sono i carismi i fenomeni che definiscono la comunità in quanto tale. Il vero carisma, il vero dono che definisce la presenza dello Spirito è l’agape, l’amore gratuito, la capacità di stabilire rapporti. I carismi hanno valore solo se servono alla costruzione della comunità, della casa, costituita dalla capacità di stabilire relazioni, non in modo psicologistico, ma dando ad ognuno ciò di cui ha bisogno per sconfiggere l’indigenza.
la chiesa di poveri

Alle Beatitudini sono state date diverse interpretazioni. Forse nessuna convince totalmente. D’altra parte, Gesù ha parlato in seconda persona: Beati voi poveri: lo capiscono quelli a cui Gesù si rivolge, non siamo noi i destinatari. Le beatitudini sono piene di contraddizioni sul piano intellettuale. Fondamentalmente la contraddizione è: beati i poveri. I poveri sono i non beati: mancando di beni, di averi appartenenti al mondo dell’essere, non sono integrati nella creazione, non ne fruiscono appieno. In che modo Gesù può dire al cieco, al sordo, allo storpio, al prigioniero: siete beati? Luca risolve il problema con i due tempi. Beati voi che oggi siete poveri perché allora il Regno dei cieli vi apparterrà. I poveri avranno l’altro mondo, il mondo che viene oltre la storia. Probabilmente Gesù non pensava a questo dopo.
Matteo rilegge le beatitudini in modo diverso. Dice: Beati adesso, già oggi, perché i poveri sono ricchi su di un altro piano, sul piano dello spirito. Forse Matteo spiritualizza eccessivamente la categoria del povero.
Cosa intendeva dire Gesù? Seguendo la linea di Sofonia, povero è colui che nella sua carenza scopre la presenza di Dio, possibilità negata a chi non è povero, a chi ha. La carenza del povero diventa luogo, occasione di un’altra ricchezza: la pienezza di esperienza della presenza di Dio. Gesù voleva dire: voi poveri siete dentro il disegno di Dio. Solo voi lo porterete avanti; diversamente non si realizzerà, resterà inadempiuto.
Paolo riprenderà questi concetti più tardi, nella 1Corinzi 1,27-28: « Ma Dio ha scelto ciò che è stoltezza nel mondo per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che è debolezza del mondo per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che è ignobile nel mondo e ciò che è disprezzato e ciò che è nulla per annientare le cose che sono ». La negatività del povero, la sua esperienza di emarginazione sono il luogo della manifestazione piena della positività di Dio. Là dove la povertà radicale, che è di tutti, è povertà attuale, qui è il luogo disponibile per l’accendersi della gloria di Dio, della sua manifestazione. Il modo giusto per leggere evangelicamente questa pagina di Paolo consiste nel ricondurla alle beatitudini.
La vita del povero è quasi organicamente intrisa di spiritualità. La spiritualità, la religiosità, l’esperienza di Dio sono l’unica ricchezza di umanità di cui i poveri-poveri possono fruire, ciò che permette loro di sopravvivere, di non cadere nel vortice del non senso.
Questa spiritualità di base del povero può essere sintetizzata in tre voci: assumere, lottare, fruire.
Assumere
Accettare la vita, dire di sì alla vita. E per chi la vita non è altro che miseria, solo un peso opprimente, accettarla è l’atto fondamentale della santità. È ciò che Gesù ha fatto nell’incarnazione: è entrato nella condizione umana di carne (Giovanni), di schiavo (Filippesi), di povero, (1 Corinzi), ha assunto l’esistenza umana in quanto fallita e lì dentro ha detto sì a Dio. Il povero ha più ragioni per suicidarsi che campare. Di fronte alla realtà nella sua durezza può avere la tentazione o di ribellarsi (nel senso di pestare i piedi, di rompere tutto, come nel senso di fare male a se stesso) o di scappare (evadendo con l’alcool o con la droga). Accettare di esistere, non scappare, non ribellarsi per il povero non è un atto casuale, ma è l’atto fondamentale dell’obbedienza alla creazione, del fare la volontà di Dio. Vivere in un mondo facile quale il nostro può diventare un’evasione dall’incarnarsi nel fondo dell’esistenza, un vivere in superficie, uno sfiorare la realtà, senza guardare mai in faccia la propria radicale povertà. Il povero non può fare questo: vive a confronto con la sua radicale povertà, perché questa da radicale è sempre attuale. Egli o è eroe o è traditore, non può essere una persona mediamente per bene perché a questo livello già accettare la vita è una forma di eroismo, la cui alternativa è il rifiuto della vita stessa o sopprimendosi o evadendo.
Lottare
Percepire che nel disegno di Dio questa situazione di miseria non è ciò che egli vuole e, di conseguenza, sposare il disegno di liberazione di Dio; percependo che nella creazione c’è una dimensione di promessa ancora inadempiuta, dire di sì ad essa. Lottare è un atto di promozione nella solidarietà. Lottare per i beni essenziali ha in sé, quasi fisiologicamente, quella dimensione di giustizia, di obbedienza al disegno di Dio che invece manca di mano in mano che la lotta diventa ricerca del superfluo e quindi, automaticamente, lotta corporativa e individualistica.
Fruire
Il povero, dentro quel deserto che è la sua vita, sa trovare occasioni di fruizione, di gioia, di festa.
Nell’umanità povera la donna ha avuto sempre una posizione di privilegio: la capacità di assumere, di lottare, di fruire è sempre stata più delle donne che degli uomini.
Il problema ora consiste nel togliere le carenze, nel reintegrare i poveri nelle strutture oggettive della creazione senza togliere la soggettività propria del povero. La strada su cui l’occidente è incamminato è sbagliata: noi, che abbiamo raggiunto i beni della creazione, siamo soggetti inetti a viverli secondo lo spirito della creazione; i poveri, che sono più dentro di noi nell’orizzonte della creazione, non hanno ancora quei beni. Non ancora: cioè un qualcosa può ancora venire, e se verrà, verrà da qui.
considerazioni

considerazione storica
Si tratta di vedere come, nella Chiesa, il logos, il discorso, il modo di guardare la realtà, che ha costituito gli « occhi di fede » della comunità credente, non è partito dall’idea del povero come rivelazione di Dio, della gloria Dei nella vita pauperis.
La Chiesa come comunità dei credenti è stata limitata nel suo essere Chiesa per i poveri e di poveri da alcune riserve.
Una prima remora è l’escatologismo, quella concezione per cui la vita terrena dell’uomo è solo un breve passaggio, non ha peso autonomo, ma è funzionale alla vita ultraterrena. Do da mangiare a chi ha fame, da bere a chi ha sete, ma mi chiedo: a cosa serve, se tutto passa? Ecco la riserva, il limite intrinseco, la relativizzazione di quello che faccio. In fondo, se vale la pena dar da mangiare al povero, è perché questo è la piattaforma per evangelizzarlo, per parlargli di Dio. È una seconda intenzione che guasta, avvelena, corrompe finemente l’approccio al povero. Ci si dimentica della pagina di Matteo sul giudizio universale: ciò che il giudice chiede non è se, attraverso il pane, l’acqua, il vestito, la visita al carcerato si è puntato più in là, all’anima, ma se è stato dato pane, acqua, ecc. Punto e basta. Io non sono responsabile della salvezza dell’anima dell’altro; lo sono della salvezza della mia anima, che opero salvando il corpo del povero, cioè l’insieme dei suoi bisogni terreni, quelli che io posso soddisfare.
Il limite che ha intaccato la volontà di promozione del povero, anche da parte delle coscienze più pure della Chiesa, è dunque in questo non prendere sul serio l’assolutezza dell’atto del dare il pane.
Una seconda riserva è di tipo ideologico, confessionale, ecclesiastico: la vita del povero è importante, ma più importante sono gli interessi, i diritti della Chiesa. Quando ci si trova in situazioni in cui un intervento deciso per i diritti dell’uomo scatena qualcosa che mette a repentaglio la vita della Chiesa, ecco la remora: poveri sì, ma il marxismo è ateo. La paura del comunismo, dell’ideologia marxista atea frena l’azione anche là dove il bisogno del povero è lampante.
Questa seconda riserva è legata e derivata dalla prima, c’è sempre stato un filo diretto tra escatologismo e ecclesiocentrismo: se ciò che unicamente conta è la salvezza dell’anima, sulla terra ciò che è più importante è preservare quei personaggi che sono gli strumenti scelti della salvezza dell’anima.
Una terza riserva è quella della theologia gloriae e riguarda la chiesa come gerarchia. Durante l’incoronazione del nuovo papa, un cardinale lo incensava dicendo: « Sic transit gloria mundi ». Questa frase sta a significare che il papato è persino incoronazione, ma al tempo stesso l’individuo che diventa papa deve ricordare che la gloria mundi passa, deve restarne distaccato. È giusto che il papato sia espressione di gloria, di regalità, perché il papa è il Cristo in terra, è incarnazione della gloria di Dio e di Cristo risorto; ma l’individuo come tale è l’umile servo. C’è una separazione tra il ruolo, che sta nell’ordine della gloria e l’individuo, che è chiamato ad essere discepolo di Gesù. Secondo la Theologia gloriae, il positivo di Dio, entrando nella storia, assume e trova espressione nel positivo della storia (gloria, onore, prestigio, autorità). In questo senso, il papa è degno di questa gloria più di ogni altro. Ma l’incarnazione di Gesù non è stato questo: la Parola si è fatta carne, la gloria di Dio si è fatta schiavitù, la ricchezza si è fatta povertà. Solo il negativo dentro la storia può esprimere il positivo di Dio. Questo è il principio della Theologia crucis, Il papato, proprio perché è incarnazione della gloria di Dio nel mondo, deve essere sub contraria specie: non gloria, ma piccolezza, povertà, perché la legge dell’incarnazione è che la gloria di Dio può entrare nella storia solo svuotandosi o spogliandosi. Ecco, dunque, nella Theologia gloriae una riserva ad assumere la povertà fino in fondo.
considerazione teologica
Nel convegno « Evangelizzazione e promozione umana » si intese affrontare un nodo teorico: la Chiesa si definisce come organo di evangelizzazione o di promozione umana? C’è un primato di un momento sull’altro? Si tratta di due fini uguali?
Il bisogno fondamentale, elementare dell’uomo è il bisogno di pane: ad esso soddisfa la promozione umana, che fa sì che l’uomo, nell’insieme dei suoi bisogni, venga colmato, diventi uomo adempiuto. Ma c’è nell’uomo anche un bisogno di senso, di sapere che la sua vita è inserita in un quadro superiore, trascendente: ad esso soddisfa l’evangelizzazione, l’annuncio della alvezza, la buona novella che alla tua vita è dato o è restituito il suo senso proprio. Queste due esigenze possono saldarsi, convergere e diventare una nella prassi evangelica.
La cellula del dono del pane (cioè della promozione dell’uomo) è la volontà di promozione, è quell’atto in cui, assieme al pane che dò, c’è la mia volontà di bene per l’altro al quale dò. In questo atto c’è l’annuncio, la comunicazione, la testimonianza di fronte a lui che c’è la volontà, l’amore, quella realtà che fa sentire all’altro che la sua vita è circondata di senso. All’origine della promozione umana c’è un’evangelizzazione che non è predicazione del vangelo con parole; c’è la bontà, c’è l’amore e lo si vede nel gesto di colui che dà il pane. Quell’atto che, nel momento stesso in cui dona un bene particolare, lascia trasparire la sorgente di quel bene (la volontà di bene), non è solo atto, ma anche annuncio: è l’annuncio per eccellenza. C’è un atto originario che salda la concretezza del dono e la testimonianza della sorgente del dono: è l’incontro interpersonale.
La prassi evangelica in quanto prassi, produce, in quanto gesto significa, esprime la fonte di ciò che produce, cioè illumina sul senso. L’atto del dare il pane (atto-gesto, segno-efficacia) è atto sacramentale.
La prassi evangelica è la ragione d’essere della Chiesa nel mondo. Lo specifico della chiesa è sollecitare quegli atti in cui insieme al promuovere si annuncia, si promuove un’altra volta, in un gesto di significazione della totalità di senso.
considerazione pratica
Come la chiesa d’occidente oggi può farsi luogo di prassi evangelica.
Stiamo passando da una società il cui tempo è assorbito dalla lotta per sopravvivere ad una società che ha la possibilità di lottare per vivere, per la qualità. Il nuovo fronte di lotta è questo: siamo liberi da, ma siamo liberi per che cosa? Per i beni gratuiti, per i beni in sé. All’interno di questo regno del gratuito che si sta delineando, la comunità ecclesiale ha una sua specificità: sviluppare quella parte del gratuito che è la gratuità del dono. Nei beni gratuiti c’è anche quel bene che è l’esercizio della gratuità, della solidarietà inventiva, l’invenzione e la produzione di chi non ha davanti un codice scritto, ma ha occhi capaci di leggere codici.
Non bisogna mai dimenticare di tornare alla fonte di ogni creatività e solidarietà, all’atto – gesto dell’incontro interpersonale, pena la perdita della memoria della fonte e lo scadere della solidarietà a semplice organizzazione. Non bisogna però neppure fare di questo l’unicum, dire: ciò che conta è l’incontro personale: lo si trasformerebbe in narcisismo. Se dico: « conta di più l’amore del pane che do », ho già infettato il rapporto amore – pane. Il gesto mantiene la sua verità solo in quanto guarda tutto l’atto; se si gira a guardare se stesso e dice: conta di più l’amore, diventa narcisismo.
Non bisogna rifiutare, da narcisisti del gesto personalistico, di calarsi dentro le mediazioni, dentro la sfera della solidarietà mediata dalle organizzazioni. Forse è bene informarsi un po’ su cosa sia l’informatica, questa mediazione oggi così rilevante. Il problema è non lasciarsi informatizzare, cioè di sapere usare l’informatica.

Publié dans:meditazioni |on 15 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

Parabola dei Talenti

Parabola dei Talenti dans immagini sacre parabola_dei_talenti

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Publié dans:immagini sacre |on 14 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

LA DONNA NELL’ANTICO TESTAMENTO

http://vivetenellagioia.altervista.org/articoli/donnaperfetta.html

LA DONNA NELL’ANTICO TESTAMENTO

di Pamela Salvatori

La Sacra Scrittura delinea i tratti della donna perfetta, moglie e madre virtuosa, donna zelante, attenta, fedele, premurosa, sensibile, generosa e sempre pronta a provvedere alla sua famiglia. La donna descritta nel libro dei Proverbi al capitolo 31 è timorata di Dio, saggia, attenta, lodata dai figli e alle porte della città per la sua modestia e intelligenza. Il Libro del Siracide al capitolo 26 definisce la donna virtuosa una “buona sorte” per il marito, pudica, modesta e silenziosa. Da ciò si deduce il ruolo fondamentale della donna nella società e nel mondo, colonna portante della famiglia e gioia della sua casa. Si comprende che colei che ama e teme il Signore con tutto il cuore, la mente e con tutte le forze, sviluppa appieno le sue potenzialità di donna e di madre. Creata da Dio per affiancare e sostenere l’uomo, essa è molto diversa da lui per sensibilità d’animo e dolcezza, possiede doti per natura che, se valorizzate adeguatamente, le permettono di brillare come luce nel mondo e di fare molto del bene per l’umanità. Ma solo affidandosi a Dio, la donna può comprendere la grandezza dell’essere donna, la bellezza che il suo volto e la sua persona sono chiamati ad esprimere come riflesso del volto materno di Dio.
Non bisogna pensare che una donna senza figli non sia in grado di essere madre. In realtà la maternità è qualcosa di insito nella donna, presente in lei sempre e comunque, indipendentemente dalla prole. La donna è madre anche quando non ha figli. Non è un caso che grandi donne senza figli, siano state più materne di molte madri naturali per l’umanità intera. Perché hanno lasciato che il Signore operasse in loro grandi cose, quei prodigi di grazia per cui erano state create, per accendere un fuoco d’amore lì dove amore non c’era. La donna possiede in sé quei tratti tipicamente materni e femminili che non vanno sottovalutati e repressi per nessuna ragione, perché sono proprio quei tratti che la rendono unica. La diversità della donna rispetto all’uomo non va limitata all’aspetto fisico, come spesso oggi accade. La donna differisce dall’uomo soprattutto nell’intimo della persona, nella sfera interiore e razionale. Se l’uomo spicca per forza e razionalità, la donna si distingue per sensibilità, intuito e tenerezza. Così l’uno ha bisogno dell’altra, per completarsi a vicenda, voluti proprio da Dio complementari e vicendevolmente necessari. Dunque la donna arricchisce l’uomo e lo completa quanto più essa si impegna ad essere donna e lo stesso si può dire per l’uomo. Nella donna « perfetta » l’uomo troverà la sua gioia. Perché avrà in lei un sostegno e un aiuto validi e stabili, così come Dio ha pensato dall’eternità, scoprirà di avere al fianco un punto fermo, sicurezza, calore, condivisione, fedeltà e attenzione, e potrà con lei stabilire un solido rapporto di amore, complicità e comprensione profonda, che lo porterà felicemente a realizzarsi e a compiere la sua missione nel mondo secondo il Cuore di Dio. Si tratta di un mistero grande e sorprendente, affascinante e da meditare per comprendere quale sia il valore di ogni persona agli occhi di Dio. La donna che valorizza esclusivamente il suo corpo trascurando la sua interiorità, per quanto possa risultare piacevole alla vista e desiderabile alla concupiscenza umana, svaluta se stessa e perde sia di bellezza che di autenticità: “Fallace è la grazia e vana è la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare” (Pr 31,30). La donna che entra in competizione con l’uomo, che non provvede alla crescita spirituale della sua famiglia e non fa della sua casa una « chiesa domestica », non riconosce la bellezza del suo ruolo nel mondo e nella società e danneggia gravemente non solo la sua stessa vita, ma anche le sorti dell’uomo, che manca di una fondamentale « colonna di appoggio » (Sir 36,24) e di conseguenza, come dice la Scrittura « dove non c’è moglie l’uomo geme randagio » (Sir 36,25). La donna è una ricchezza inesauribile, se apprezzata e valorizzata alla luce della grazia da se stessa prima che da chi le sta intorno. Essa è chiamata a cooperare con Dio e a lasciarsi plasmare da Lui per far risplendere la Sua bellezza nei tratti del suo essere, ma per riuscire in questo deve essere in profonda amicizia con Dio e ascoltare la Sua voce, per imparare a conoscere il suo cuore, dove Dio le parla e la guida per realizzarsi pienamente nella sua missione di donna nel mondo.
Per comprendere meglio cosa significhi essere donna bisogna volgere lo sguardo alla DONNA per eccellenza, Maria. In Maria ogni donna, in ogni fase della sua esistenza, può trovare un punto di riferimento e un modello sicuro e altissimo a cui attenersi. Maria è pienamente donna e pienamente Madre, al punto da essere stata innalzata a Madre di Dio. Dio guardando a Maria ha trovato in lei il Suo “paradiso”, dice il santo di Montfort, il Suo tempio perfetto, il luogo del Suo riposo. La donna perfetta che poteva riscattare l’immagine decaduta della prima donna, permettendo al Signore di incarnarsi nel suo seno immacolato. In Maria tutte le peculiarità della donna sono state portate al grado più alto di perfezione, tutte valorizzate al massimo. Guardando a Lei, alla sua vita, leggendo le sue parole riportate nel Vangelo, scopriamo una donna straordinaria, nascosta agli occhi degli uomini, umile, riservata, pudica, attenta, silenziosa, premurosa, tenera, comprensiva, tanto grande nel suo universo interiore, santa di una santità straordinaria, dal cuore palpitante d’amore sincero e puro per Dio e per tutti gli uomini. La descrizione che i libri dell’Antico Testamento fanno della donna virtuosa, la troviamo incarnata nella Madre di Dio, così che ammirando Lei, ogni donna vede quello che anche lei è chiamata a diventare con l’aiuto della grazia e in unione al Signore. In Maria ogni donna può vedersi realizzata pienamente in tutta la sua bellezza e in un modo così reale e concreto da poterla prendere come sicuro riferimento di tutta la sua vita, per imparare da lei cosa fare e come fare per diventare una donna perfetta.

Proverbi 31
10 Una donna perfetta chi potrà trovarla?
Ben superiore alle perle è il suo valore.
11 In lei confida il cuore del marito
e non verrà a mancargli il profitto.
12 Essa gli dà felicità e non dispiacere
per tutti i giorni della sua vita.
13 Si procura lana e lino
e li lavora volentieri con le mani.
14 Ella è simile alle navi di un mercante,
fa venire da lontano le provviste.
15 Si alza quando ancora è notte
e prepara il cibo alla sua famiglia
e dà ordini alle sue domestiche.
16 Pensa ad un campo e lo compra
e con il frutto delle sue mani pianta una vigna.
17 Si cinge con energia i fianchi
e spiega la forza delle sue braccia.
18 È soddisfatta, perché il suo traffico va bene, neppure di notte si spegne la sua lucerna.
19 Stende la sua mano alla conocchia
e mena il fuso con le dita.
20 Apre le sue mani al misero,
stende la mano al povero.
21 Non teme la neve per la sua famiglia,
perché tutti i suoi di casa hanno doppia veste.
22 Si fa delle coperte,
di lino e di porpora sono le sue vesti.
23 Suo marito è stimato alle porte della città
dove siede con gli anziani del paese.
24 Confeziona tele di lino e le vende
e fornisce cinture al mercante.
25 Forza e decoro sono il suo vestito
e se la ride dell’avvenire.
26 Apre la bocca con saggezza
e sulla sua lingua c’è dottrina di bontà.
27 Sorveglia l’andamento della casa;
il pane che mangia non è frutto di pigrizia.
28 I suoi figli sorgono a proclamarla beata
e suo marito a farne l’elogio:
29 « Molte figlie hanno compiuto cose eccellenti,
ma tu le hai superate tutte! ».
30 Fallace è la grazia e vana è la bellezza,
ma la donna che teme Dio è da lodare.
31 Datele del frutto delle sue mani
e le sue stesse opere la lodino alle porte della città.

Siracide 26
1 Beato il marito di una donna virtuosa;
il numero dei suoi giorni sarà doppio.
2 Una brava moglie è la gioia del marito,
questi trascorrerà gli anni in pace.
3 Una donna virtuosa è una buona sorte,
viene assegnata a chi teme il Signore.
4 Ricco o povero il cuore di lui ne gioisce,
in ogni tempo il suo volto appare sereno.

13 La grazia di una donna allieta il marito,
la sua scienza gli rinvigorisce le ossa.
14 È un dono del Signore una donna silenziosa,
non c’è compenso per una donna educata.
15 Grazia su grazia è una donna pudica,
non si può valutare il peso di un’anima modesta.
16 Il sole risplende sulle montagne del Signore,
la bellezza di una donna virtuosa adorna la sua casa.
17 Lampada che arde sul candelabro santo,
così la bellezza del volto su giusta statura.
18 Colonne d’oro su base d’argento,
tali sono gambe graziose su solidi piedi.

Siracide 36
22 La bellezza di una donna allieta il volto;
e sorpassa ogni desiderio dell’uomo;
23 se vi è poi sulla sua lingua bontà e dolcezza,
suo marito non è più uno dei comuni mortali.
24 Chi si procura una sposa, possiede il primo dei beni,
un aiuto adatto a lui e una colonna d’appoggio.
25 Dove non esiste siepe, la proprietà è saccheggiata,
dove non c’è moglie, l’uomo geme randagio.
26 Chi si fida di un ladro armato
che corre di città in città?
27 Così dell’uomo che non ha un nido
e che si corica là dove lo coglie la notte.

Publié dans:BIBBIA, Bibbia - Antico Testamento |on 14 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

OMELIA XXXII DOMENICA T.O. : PARABOLA DEI TALENTI: ATTESA OPEROSA

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16 novembre 2014 | 33a Domenica A | T. Ordinario | Omelia di approfondimento

PARABOLA DEI TALENTI: ATTESA OPEROSA

La prima Lettura fa parte di un poema sulla donna virtuosa, un ideale perfetto di donna di casa provvidente e operosa, tutta intenta al bene della famiglia, alla sua prosperità, e non solo a cose vane, superflue ed egoistiche.
Doni di grazia, individuali e familiari risplendono in questo gioiello, che la liturgia cristiana ha poi applicato all’elogio della santa madre di famiglia.
La seconda Lettura afferma che l’inattesa venuta del « momento » in cui incontreremo il Signore deve spingere i figli della luce alla vigilanza operosa e all’agire fruttuoso.
Il « momento » designato o voluto da Dio verrà, ma solo Dio conosce quando: a noi resta la responsabilità di vivere come se stesse sempre arrivando.
La parabola dei talenti mette in risalto la gratuità divina che dona a tutti, e sottolinea il fatto che l’uomo deve far fruttificare i doni di Dio, il quale chiederà conto a ognuno dei doni ricevuti.
Anche oggi nella liturgia domina il pensiero dell’incontro con Gesù. Una caratteristica, la vigilanza, è stata oggetto di meditazione domenica scorsa; oggi invece l’attenzione si sposta sull’altra caratteristica: l’operosità.

1. Azione controllata:
La parabola dei talenti ci ricorda il dovere dell’azione. I doni che abbiamo ricevuto, non ci sono stati dati perché siano oggetto di compiacente contemplazione; chi ha, deve dare, nella misura e nel genere del dono ricevuto.-
Il pensiero del ritorno del Signore non deve essere per noi una giustificazione all’inerzia. C’è il « porro unum necessarium: una sola cosa è necessaria del Signore che potrebbe trarci in inganno.
Assumere l’atteggiamento di Maria che lascia alla sorella Marta le faccende di casa; lasciar perdere e trascurare le cose del mondo per attendere unicamente alla preghiera e alla meditazione… è una tentazione vecchia di molti secoli; già San Paolo fu costretto ad occuparsene ai suoi tempi.
Vita e inerzia non possono coesistere: la vita è movimento .
E’ evidente, però, che movimento non è agitazione; e qui trova la sua spiegazione l’antitesi apparente tra Marta e Maria. « Tu ti affanni », fu il rimprovero di Gesù a Marta. L’agitazione, l’affanno sono disapprovati da Gesù: il movimento è voluto, e la parabola dei talenti ne è la conferma.
I primi due servi sono lodati, perché si sono preparati al ritorno del padrone mettendo a frutto i beni ricevuti.
Il terzo è rimproverato per la sua inerzia: il pensiero del ritorno del signore è stato per lui motivo di abbandono: non ha vissuto per il signore, ha vissuto per sé (ma di quale vita? d’inerzia…).
E’ importante l’intenzione nell’azione: bisogna agire per il Signore. Se i primi due servi avessero trafficato per se stessi, sarebbero stati rimproverati anche loro, come il collega indolente.
Che cosa sarebbe avvenuto se i primi due avessero « dichiarato » al padrone solo una parte del guadagno effettuato? Se avessero cioè trafficato per sé e non per il padrone? Forse sarebbe capitato loro come ad Anania e a Saffira…
Gesù vuole l’azione, ma anche la retta intenzione nell’agire: la parabola dei talenti ci dice anche questo. E’ la retta intenzione che dà valore di eternità all’opera umana
Una volta un pittore ricevette l’incarico di dipingere un quadro raffigurante la retta intenzione.
Ci pensò a lungo. Finalmente dipinse un vivace fanciullo che si affannava a scrivere… Accanto al bimbo dipinse un Angelo che metteva davanti a quegli zeri la cifra 1… Gli zeri diventavano milioni e miliardi!
Perfettamente esatto! Solo la retta intenzione dà valore di eternità alla povera attività umana.

2. Azione guidata:
Mettere a frutto, agire… ma in quale direzione?
Il libro dei Proverbi, con l’immagine della donna perfetta, ci dà un orientamento.
La donna perfetta si occupa di suo marito e delle faccende domestiche. Il desiderio di unione con Dio non ci può separare da coloro che la Provvidenza ci ha posto accanto.
Troppo spesso cerchiamo lontano il campo del nostro lavoro: Dio ci ricorda che, se vogliamo fare la sua volontà e amministrare degnamente i talenti che ci ha dati, il lavoro è a nostra portata di mano: sono i fratelli che ci vivono accanto.
Ognuno di noi dopo aver compreso che cosa siamo noi, dovremo sforzarci di capire che cosa sono gli altri. Partendo dal valore umano del prossimo, giungerà a cogliere in esso i tratti divini del Volto di Gesù, « primogenito tra molti fratelli ».
Bisogna evitare di costruirsi nella fantasia un prossimo amato tanto maggiormente, quanto meno ci scomoda e ci è lontano. Il prossimo vero è quello concreto, fatto di anima e di corpo, soprattutto di corpo: quello che mi urta in tram, che incrocio lungo un corridoio, quello che siede vicino a me in officina, in ufficio, in chiesa. E’ quella sorella con tutti i suoi difetti, ma anche con tutte le sue virtù.
Questo prossimo concreto è membro vivo di quell’unico Corpo mistico, a cui tutti apparteniamo…Occorre molta fede e molto amore: soprattutto amore fattivo, coerente, esigente con sé prima che con gli altri.
Potrà essere talvolta un membro malato, sfigurato, coperto di fango, forse di sangue…
Occorre molta fede e molto amore: soprattutto amore fattivo, coerente, esigente con sé prima che con gli altri… E’ necessario dare non solo del proprio, ma dare di sé.
Alcune volte, semplici cristiani, ci dànno dei punti a questo riguardo.
Scriveva una giovane: « L’altra sera sono passata a prendere Anna Maria al suo ufficio. Nella sala d’attesa c’era ancora parecchia gente: avevano tutti fretta e qualcuno guardava nervosamente l’orologio.
Varcata la soglia e avvicinatisi alla giovane, persino i più aggressivi venivano disarmati dalla bontà, dalla cortesia e dalla premura di quella piccola donna, che pareva messa là apposta per diffondere attorno a sé calma e fiducia.
Il segreto di quella serenità e di quella pazienza inalterabile, me lo confidò un giorno lei stessa: « Nella vita spirituale, se non vogliamo disperdere tante preziose energie, è assolutamente necessario avere un programma a cui uniformarci in ogni nostra attività.
Il mio è molto semplice: « Vedere Gesù in ogni persona che avvicino ». E a Lui dono la mia sollecitudine, la mia premura, il mio tempo e il mio sorriso.
Quando sono stanchissima ed ho più che mai bisogno di Lui, so che Egli è presente dove si trova il mio dovere. Ed è lì che Lo cerco ».
Di fronte a simili esempi ci sembra perfettamente esatta l’espressione che dice: « Il mondo dev’essere salvato da gente ordinaria, capace di fare le cose in un modo straordinario ».

3. Azione illuminata:
Dobbiamo realizzare l’affermazione di San Paolo: « Voi tutti siete figli della luce ».
Se viviamo nelle tenebre, non vediamo coloro che ci passano accanto, non li conosciamo e non li riconosciamo.
Ma se viviamo nella luce, vediamo, conosciamo e riconosciamo. Chi? Gesù! Sì, perché la luce di Gesù fa proprio questo: trasforma le cose e i volti. Alla sua luce, tutti i volti acquistano le sembianze di Lui.
La sua venuta non sarà dunque per noi una sorpresa; abituati a vivere con Lui e di Lui, Lo riconosceremo, quando ci si presenterà direttamente e non più attraverso i riflessi della sua luce.
E l’incontro sarà una festa: la festa del servo che gioioso potrà dire: « Signore, ecco i talenti che mi hai affidati, li ho raddoppiati »; la festa del servo, il quale dal Signore non si aspetta altro che la soavissima parola: « Bene, servo buono e fedele… entra nella gioia del tuo Signore:
E nella « gioia del Signore » c’è la Madonna, splendore e gloria del Paradiso, fonte di inesprimibile beatitudine, che Lei, da buona Mamma, sta preparando per tutti noi Suoi figli.

D. Severino GALLO sdb

San Francesco D’Assisi

San Francesco D'Assisi dans immagini sacre

http://artsrtlettres.ning.com/profiles/blogs/cantique-des-cr-atures-de-fran-ois-d-assise-dit-aussi-le-cantique

Publié dans:immagini sacre |on 13 novembre, 2014 |Pas de commentaires »
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